videlaQuando in Argentina si parla del “golpe”, nessuno ha dubbi che ci si riferisca, tra i tanti avvenuti, a quello che tra il 1976 e il 1983 ha visto al potere una giunta militare.
I numeri sono importanti e dicono molto, ma non tutto, di questo periodo. Ci sono decine di migliaia di morti ma un numero molto minore di cadaveri, migliaia di prigionieri, cittadini fucilati per strada, un milione di esiliati. Questo orribile conteggio, che ancora oggi non ha spento il suo eco, va, in qualche modo, spiegato, perché la dittatura è stata, anche, un atto politico, una presa di potere per la quale occorre porsi alcune domande. Perché è avvenuta? Chi l’ha resa possibile e chi l’ha sostenuta? Quali novità ha portato nella vita sociale, associativa, economica del paese? E poi: perché e come è finita?
Per rispondere, dobbiamo fare un passo indietro, entrare nella storia tormentata del paese sudamericano, con governi militari e civili, dispotici o democratici, che si sono susseguiti nel tempo. C’è una costante negli anni: agli avversari politici le cose non sono mai andate troppo bene: perseguitati, arrestati, spesso uccisi e fatti sparire, desaparecidos, come si dice in spagnolo, anche se questo termine è associato proprio alla dittatura militare cominciata nel 1976. Lo è, per il numero esagerato di sparizioni, per le modalità, per l’estraneità alla politica della maggior parte dei malcapitati. C’è una frase del poeta Juan Gelman, che vogliamo ricordare: “È necessario sottolineare che la parola ‘desaparecido’ è una sola, ma contiene in sé quattro concetti: il sequestro di cittadine e cittadini inermi, la loro tortura, il loro assassinio e la scomparsa dei loro resti nel fuoco, nel mare e nella terra ignota.” 
La storia dell’Argentina, dal dopo guerra in poi, è incentrata sul peronismo. Juan Perón studia in Italia, durante il fascismo, apprezzando la politica di Mussolini, interpretata come un tentativo di unire capitalismo e socialismo, verso una socialdemocrazia perfetta. É uno strano modo di intendere l’azione del governo, al quale arriva, guarda caso, grazie ad un colpo di stato, quello del GOU del 1943. Qualche anno più tardi fonda il “Partido Justicialista”, dove l’aggettivo “giustizialista” ha significato diverso da quello che gli attribuiamo noi: è la fusione tra “giustizia” e “socialismo”. Ci sono dentro le anime più diverse da quelle di destra a quelle di sinistra. Noi facciamo fatica ad accettare che lo stesso partito usi metodi violenti contro gli avversari, e allo stesso tempo vari una serie di riforme sociali di grande interesse: salario minimo garantito, giornata lavorativa di 8 ore, indennità per incidenti sul lavoro e malattie professionali, tredicesima, ferie retribuite, riconoscimento dei sindacati e così via.
I lavoratori adorano Perón e adorano sua moglie Evita, vero tramite tra il potere e il pueblo. Certo, l’anima fascista riappare, quando si tratta di mettere fuori gioco e arrestare molti dirigenti marxisti e sindacalisti, oppure offrire ospitalità ai gerarchi nazisti sfuggiti alla cattura.
Sappiamo che ciò che determina i destini di uno stato è sempre l’aspetto economico. In Argentina, almeno metà della produzione è in mano a multinazionali inglesi e statunitensi, che non vedono di buon occhio le mosse di Perón. Così la marina militare nel 1955, con un colpo di stato, destituisce Perón, che finisce in carcere e poi esule nella Spagna franchista. Poi, nel 1972, il Partido Justicialista è riammesso alle elezioni. L’anno successivo Perón viene rieletto presidente. Al suo fianco, come vicepresidente, la terza moglie, Isabel Martínez. Non resta in carica molto; pochi mesi dopo muore di infarto nel luglio del 1974. Isabel prende il suo posto, ma non ha la tempra del marito, né il suo carisma e neppure l’abilità politica. L’economia è un problema: i prezzi salgono, l’inflazione galoppa verso cifre pazzesche, così come il debito pubblico. I due anni seguenti sono pieni di conflitti sociali molto duri. La nomina a segretario di stato di José Lopez Rega, innesca una reazione durissima da parte dei movimenti di sinistra, quelli che si riconoscono nell’ERP (Ejército Revolucionario del Pueblo) e, soprattutto, nel gruppo clandestino Montoneros. Si scatena una guerriglia con attentati e omicidi, che vedono cadere esponenti dell’amministrazione, dell’economia, dell’imprenditoria e delle FFAA. Dall’altra parte la “Triple A” (Alianza Anticomunista Argentina), guidata proprio da Rega, non si fa pregare e alla fine si conteranno 400 cadaveri dovuti alle loro azioni. La nazione vive un clima di terrore, che porta Isabela a dichiarare prima lo “stato d’assedio” (novembre 1974) e nell’estate successiva a varare norme di “antiterrorismo”, che prevedono, tra l’altro, l’impiego delle FFAA per “annientare la guerriglia”, con qualunque sistema. Il partito di Perón si sfalda: le sue componenti, così distanti tra loro, non possono più coesistere. La borghesia si lamenta, reclama il ritorno all’ordine, perché gli affari possano riprendere, chiede la presenza dei militari, che vedono come garanti dell’unità nazionale. Alla fine la situazione è intollerabile e il capo dell’esercito, generale Jorge Videla, manda un messaggio chiarissimo alla presidente, nel quale sottolinea che così proprio non si può andare avanti e servono “soluzioni profonde e patriottiche”. Isabela è avvertita. Si arriva al 24 marzo 1976, il giorno del golpe.
Fatto più unico che raro, a gestirlo sono tutte e tre le forze armate del paese: Videla per l’Esercito, Emilio Eduardo Massera per la Marina, Orlando Ramon Agosti per l’Aeronautica.
In pochi anni si susseguono cinque governi, tutti con l’idea di provvedere al cosiddetto Proceso de Reorganización Nacional o semplicemente “el Proceso”. L’obiettivo dichiarato a più riprese è quello di evitare la dissoluzione naturale del paese, facendo terminare la guerriglia, gli attentati, gli omicidi. Come farlo? Con una violenza terribile, quasi incredibile. Chiunque sia sospettato di remare contro il regime viene eliminato fisicamente. C’è una frase del governatore di Buenos Aires, Ramon Campos, che è lapidaria: “Prima moriranno i sovversivi, poi uccideremo i loro collaboratori, dopo i loro simpatizzanti, successivamente quelli che resteranno indifferenti e alla fine i timidi”.
É la “guerra sporca”, termine coniato durante il Vietnam, per spiegare una lotta basata su tecniche di guerriglia, anche contro la popolazione. Non è una novità per l’America Latina. Qualche anno prima era toccato al Cile, e prima al Brasile nel 1964. Dietro le quinte si muove l’organizzazione più o meno segreta degli Stati Uniti, che vuole fare piazza pulita di tutti quei governi filo marxisti o supposti tali, che poco si addicono alla loro massiccia presenza economica nella parte meridionale del continente.
A questo riguardo, va ricordato un progetto, che l’amministrazione Nixon porta avanti dal 1973/74, l’Operazione Condor. Sotto la guida, non solo ideologica, degli USA, Argentina, Bolivia, Brasile, Cile, Paraguay, Perù e Uruguay si accordano per cooperare nella caccia dei guerriglieri, si scambiano informazioni, strategie, tattiche, sistemi di tortura. Poi tutto questo viene esteso ad ogni “guerra sporca”, comprese ovviamente quella di Pinochet e della giunta militare argentina.
Ora, però, dobbiamo procedere a mente fredda e dimenticare quello che noi, a quasi mezzo secolo di distanza, sappiamo sui primi anni del golpe. Dobbiamo provare ad entrare nei pensieri della popolazione, dei politici civili, dei media, dei sindacati del 1976, perché quello che pensano è molto diverso da quello che penseranno pochi anni più tardi.
Sovversivo” è un termine vago, in cui vengono compresi tutti quelli che fanno danni all’immagine dello stato e, soprattutto, che non la pensano come i militari. Chiunque, armato o no, può rientrare in questa categoria e dunque il regime non ha bisogno di giustificare azioni contro nessuno: è un sovversivo, tanto basta! Se questa guerra era cominciata prima del golpe, sotto il governo di Isabel, nel 1976 qualcosa cambia, in modo terribile.
La guerra sporca è il vero, forse unico, collante tra le tre armi, sono tutti d’accordo: l’azione è necessaria per evitare di ricadere nel caos degli anni precedenti. L’isolamento internazionale, in cui si viene a trovare il Cile di Pinochet, è dovuto anche all’assurdità strategica di mostrare i detenuti rinchiusi negli stadi. Quella repressione inaccettabile, alla luce del sole, serve da insegnamento. Videla e soci non hanno alcuna intenzione di ripetere quell’errore ed elaborano una strategia del terrore (passateci l’espressione) che si muove su un doppio binario. Il primo è, per così dire, legale, pubblico. Leggi ad hoc portano in carcere i dissidenti ritenuti “recuperabili”. I reati sono del tutto generici, come “tradimento della patria”. Le pene sono severissime. Viene coniato un termine per questi detenuti, sono “a disposizione del potere esecutivo”. Tra loro c’è anche Isabel, ci sono i suoi ministri e decine di funzionari pubblici, sindacalisti, politici peronisti. Questi arresti si sommano ai divieti, tanti, precisi, mirati. La vita sociale è sospesa, quella politica congelata. Anche se i partiti non vengono subito dichiarati illegali, ad essi si impedisce di agire. E il popolo? Il popolo si adegua, pensa che, tutto sommato, è giusto mettere fuori gioco chi nel recente passato non ha saputo governare l’Argentina, tollerando i troppi morti dovuti alla guerriglia e riducendo alla fame parte della popolazione.
Il secondo binario è quello nascosto, quello del terrore, dei sequestri in massa, della eliminazione di ogni tipo di possibile minaccia, che tale appaia ai militari. Anche questa azione comincia prima del golpe. I campi di concentramento, le caserme adibite a luogo di tortura, non nascono all’improvviso nel 1976. Alla fine sono circa 400 questi lugubri centri di sofferenza per la popolazione. Le persone vengono rapite, di notte, nel silenzio più assoluto, da uomini in borghese, nessun militare sembra coinvolto. Di loro non si saprà più niente. Qualche militare, alla fine, molti anni dopo la dittatura, parlerà e racconterà di chi, come e quando ragazzi, ragazze, uomini e donne, sono diventati “desaparecidos”. E non c’è, in quei racconti, pentimento: era qualcosa che, semplicemente, per loro, “andava fatto per il bene della patria”.
Il conteggio sui vari casi è controverso. Dopo la dittatura, viene creata una commissione che ha l’incarico di chiarire tutto. Si chiama CONADEP (Comisión Nacional sobre la Desaparición de Personas), che fornisce cifre ufficiali, anche se, visto il modo di sequestrare le persone, i dubbi restano molto forti. La guerriglia viene decimata subito. Nel 1976 ci sono oltre 5 mila detenuti, per lo più appartenenti all’ERP o ai Montoneros. Quasi 1200 di questi vengono uccisi e lasciati su campi di battaglie mai avvenute, giustificando così la guerra in corso. Secondo la CONADEP, i desaparecidos sono meno di 8 mila, numero confessato dallo stesso Videla durante una intervista del 2010 al giornalista Ceferino Reato, che la pubblica, due anni più tardi, nel suo libro “Disposicion final”.
Ma, un conto sono le cifre ufficiali, altro sono quelle percepite dalla popolazione. Perché nelle famiglie, non tornano più a casa in tanti, molti più di quelli dichiarati. Così, nella primavera del 1977 nasce un movimento, che diventerà il più importante oppositore al regime dei militari. Le madri degli scomparsi cominciano a radunarsi nella piazza principale di Buenos Aires, proprio di fronte alla Casa Rosada. Nascono così le “Madres de plaza de mayo”, il cui numero cresce continuamente e le cui richieste sono sempre le stesse: dove sono finiti i nostri figli? O quantomeno dove sono i loro cadaveri per poterli seppellire e piangere?
Ma i cadaveri non ci sono, perché la dittatura non se lo può permettere e così costruiscono un macabro e orribile cerimoniale per eliminare fisicamente le prove del massacro. Si tratta dei cosiddetti “Voli della morte”. Le vittime, caricate su aerei e drogate, vengono lasciate cadere nell’Oceano, ancora vive. Sono molte migliaia quelli che muoiono in questo modo, 30 mila, secondo le Madres. Un’ecatombe pazzesca, assurda, incredibile.
Le donne incinta sequestrate vengono fatte partorire prima della “soluzione finale”. I neonati sono affidati a famiglie selezionate, preferibilmente di militari, perché, come dice l’allora capo della polizia di Buenos Aires “I sovversivi educano i loro figli nella sovversione». Nel maggio 1977 nasce il movimento “Abuelas de plaza de mayo”, sono le nonne, che rivendicano la restituzione dei loro nipotini. Questi sono circa 500; una parte di loro è stata rintracciata, qualcuno perfino durante la dittatura. Spesso finiscono per avere come padri adottivi, i responsabili della morte dei loro genitori.
I due movimenti, le Madres e le Abuelas, hanno continuato le loro manifestazioni e le loro iniziative. Sono nati libri, documentari, film, serie televisive, che hanno raccontato a tutto il mondo quello che hanno passato in quei terribili anni. Già nel 1977 è impossibile che la politica internazionale, i media, i partiti politici non abbiano sentore di quello che sta succedendo in Argentina. Tra l’altro tra i desaparecidos ci sono anche centinaia di italiani, in una terra che è stata meta di una massiccia immigrazione delle nostre genti.
Le reazioni internazionali sono, per usare un termine poco offensivo, tiepide. Non è il caso di parlare degli USA e dei loro interessi in Argentina. É più interessante farlo dell’Italia, dove il governo Andreotti con ministro degli esteri Forlani, segue quello che molti ignari argentini dicono degli arrestati e sequestrati “Por algo será” (Ci sarà pure un motivo). Del resto, per quei politici, anteporre gli interessi commerciali dei grandi gruppi pubblici al dramma della popolazione, non può sembrare così strano.
La stampa italiana ha comportamenti diversi. Praticamente in silenzio il Corriere di Rizzoli. Secondo molti a causa della P2 che governa il quotidiano e ha stretti rapporti con la dittatura, con numerosi affiliati tra i generali. Viceversa la neonata Repubblica scrive, già nell’agosto 1976, un articolo dal titolo “Massacri in Argentina” e i suoi corrispondenti, durante il mondiale, parlano “anche” di calcio. Il PSI, grazie alla presidente di Amnesty International Italia, Margherita Boninver e a Sandro Pertini, si schierano apertamente contro la dittatura, tanto che il Presidente si rifiuta di ricevere Videla in visita a Roma, mentre incontra le Madres. Il Pci invece sta vivendo un momento di tensione con l’URSS, che ha bisogno del grano argentino. E non se la sente di inasprire ulteriormente i rapporti, per cui accetta il consiglio del PCUS di lasciar cadere ogni critica ai rispettivi governi per la politica seguita verso il regime di Videla.
L’ambasciata italiana a Buenos Aires, come raccontano le cronache, rafforza le misure di sicurezza per impedire ai propri concittadini il rifugio nella sede. Solo il console Enrico Calamai fa sentire il suo dissenso, chiaramente espresso nel suo libro “Niente asilo politico”.
Mentre la conferenza episcopale argentina si compiace dell’avvento dei militari, il Vaticano è rappresentato dal nunzio Pio Laghi (compagno di tennis dell’ammiraglio Massera) per il quale la dittatura è “occidentale e cristiana”, così l’amicizia Stato - Chiesa mantiene unita quest’ultima. Le denunce del terrore arrivano solo da 4 vescovi su 80 della Conferenza Episcopale Argentina (CEA). Una piccola parte di preti prende addirittura parte alla guerriglia, facendo la stessa fine degli altri desaparecidos. Certo, quando vengono assassinati preti, suore e, soprattutto, due vescovi, c’è un risveglio da questo letargo. Risultato? Vengono inviate lettere “riservate” alla giunta, contenente “obiezioni” sui fatti. Nient’altro. All’inizio del 1978, quando il terrore è ancora in atto (ci sono più di mille desaparecidos quell’anno), i vescovi dichiarano che i rapporti con Videla restano “cordiali”.
Nel 1982, dopo la pubblicazione dell’elenco dei desaparecidos italiani, “Il Messaggero” intervista il presidente della CEA e vescovo di Buenos Aires, Juan Carlos Aramburu, il quale sostiene che le fosse comuni non esistono e che le persone scomparse vivono tranquillamente in Europa. Aramburu, che verrà sostituito nel suo incarico dall’attuale papa Bergoglio, aveva regalato alla dittatura una villa, trasformata in uno dei tanti centri di tortura da parte della giunta. Il Vaticano e il suo organo di stampa, l’Osservatore romano, prendono posizione solo dopo il 3 aprile 1983, quando i militari pubblicano il "Documento Final", dichiarando tutti morti i desaparecidos.
Le cose non vanno diversamente in Argentina, dove la maggior parte della stampa “si adegua”, si autocensura facendo sparire parole scomode come “dittatura” e accusando la stampa estera di “campagne antiargentine”. La giunta, grazie ad alcuni giornali (Gente, ParaTi), crea una fobia anti comunista, mette al bando libri scolastici “pericolosi”, incentiva nelle scuole la delazione. Sono questi, le scuole e i centri di cultura, la storia lo insegna, possibili centri di rivolta. Non a caso, i dati della CONADEP, valutano i contributi di studenti e insegnanti come il 21% e rispettivamente il 6% dei desaparecidos, con il 30% degli operai, il 18% di impiegati.
Non va meglio a cantanti, attori, registi, artisti di ogni genere: vengono imprigionati ed esiliati, come accaduto, ad esempio, a Mercedes Sosa, simbolo di libertà in Argentina. Qualcuno può tornare anche a lavorare in patria, ma si deve tenere ben lontano da qualunque attività politica.
É questo il clima in cui vive la gente comune, ignara di quanto succede davvero e per questo indotta a pensare che tutto va bene e se così tanti arresti ci sono, ci sarà pure un perché.
Se il terrore è un elemento di coesione tra le varie FFAA, lo stesso non si può dire per tutto il resto dell’organizzazione della dittatura. Nel 1978, il terrore si allenta, anche se non si ferma affatto, ma la giunta non esalta più le proprie vittorie contro i “sovversivi” in presunte battaglie e cerca di far tornare la cittadinanza ad una vita abbastanza normale. Ne beneficia la classe più agiata che può riprendere i propri affari e tutti quelli che si turano il naso e fanno finta di niente, anche se è utile ripetere che la maggior parte del terrore è ben nascosto.
Nel gioco del potere, le visioni diverse, soprattutto di Videla e Massera, prendono presto il sopravvento. La nomina di Roberto Eduardo Viola a responsabile dei rapporti tra militari e civili non sta affatto bene all’ammiraglio. Troppo populista, Viola, troppo propenso alla mediazione. Videla, di fronte alla possibile rottura dei rapporti con le altre armi, abbozza, annacqua ancora il ruolo dei partiti, in attesa di tempi migliori. Ma la situazione peggiora sempre più, a cominciare dall’aspetto economico.
É proprio qui che si scatena il dissidio tra il ministro dell’economia José Alfredo Martínez de Hoz e quello del lavoro Horacio Tomás Liendo. Il primo, scelto da Videla, è un liberista sfrenato che vuole la privatizzazione delle industrie, togliendole dal controllo dello stato. Ma questo non suona bene agli altri militari: si perde il controllo, si rischia nelle contrattazioni private di ridare fiato ai sindacati, di innescare contestazioni che è meglio non ci siano. Liendo riesce a fermare molte leggi liberiste e far passare dalla sua parte un certo numero di sindacalisti. Martínez de Hoz allora si lancia in un settore che non può essere bloccato, quello commerciale, monetario, dei cambi. Congela i salari, fa scendere l’inflazione ad “appena” il 200%, abbassa le barriere doganali. Il risultato di questa lotta interna presto si traduce in un disastro. Il potere d’acquisto dei salari scende di colpo, i prezzi vanno alle stelle. Martínez de Hoz allora vara una serie di misure che ottengono un unico risultato: la ricchezza si trasferisce dai risparmiatori e dai contribuenti verso le industrie, che diventano presto dei buchi da riempire con soldi dello stato. Le banche chiedono che i depositi abbiano una garanzia statale. C’è una specie di corsa a chi offre tassi più bassi: la finanza cresce, la produzione cala. Cresce l’importazione, e cresce la disoccupazione. É un tessuto intricato, contraddittorio, dipendente da fattori (ad esempio i tassi di interesse internazionale) che il ministro non è in grado di controllare. É la rottura definitiva? Nemmeno per sogno. I militari hanno tutti qualche interesse da mantenere e quindi l’accoppiata Videla – Martínez de Hoz, mentre si arriva al 1979, passa giorni sereni, ma non per molto.
Il consenso comincia a calare, indipendentemente dai massacri, per la grave crisi economica. Ci vuole qualcosa che compatti la nazione, che faccia leva sull’orgoglio nazionale. I mondiali di calcio del 1978 sono quel qualcosa. La giunta si impegna al massimo per darsi una ripulita apparente, per far sembrare che in Argentina tutto sia normale e fili liscio. Un popolo maniaco di calcio come quello argentino, ci casca alla grande. In più la squadra di Passarella e Kempes alza la coppa, consegnata da Videla nello stadio Monumental, che si trova a poche centinaia di metri dalla ESMA (Escuela de Mecánica de la Armada), il più terribile e spietato campo di prigionia e di tortura messo in piedi dal regime. Il mondo pallonaro è presente al gran completo. Le manifestazioni contro il mondiale sono rarissime. Eppure gli esuli sono già presenti in Europa a raccontare quello che sta accadendo. E le Madres sono presenti in Plaza de mayo per incontrare i giornalisti stranieri. Anche l’Italia vive una piccola resistenza grazie a singoli coraggiosi giornalisti, ma l’establishment se ne frega, proprio come due anni prima aveva fatto, spedendo a Santiago del Cile la nazionale di tennis a vincere una coppa Davis, macchiata di sangue.
Dunque per 25 giorni un’Argentina invasa da media internazionali fa una bella figura, come se niente fosse successo.
Nel marasma delle varie posizioni delle FFAA, Videla fa preparare un piano che porti, entro alcuni anni alla “convergenza civico-militare”. Ci sono dentro le parole “Costituzione”, “Assemblea Costituente”, “democrazia pluralista federativa”. Ci sono anche i partiti, ma solo quelli già esistenti, nessun nuovo dev’essere formato. Videla si riserva l’elezione a presidente per altri 4 anni, poi, nel 1983, si terranno le elezioni per le altre cariche. Ma questo significa, per i militari, rinunciare a parte del potere acquisito, per cui a loro il piano non piace per niente. É chiarissimo lo stato maggiore dell’esercito quando dichiara: “il più profondo significato del Proceso, impone dei successori che condividano le nostre idee e le applichino.” Nasce così il partito dei militari, il MON (Movimiento de Opinion Nacional), perché i partiti è meglio lasciarli fuori dalle decisioni e dal governo. Per capire la situazione, nemmeno a Viola, che pure era stato voluto da Videla, piace questo piano, perché così lui non sarebbe mai diventato presidente. Contrastato dunque anche dall’interno dei suoi storici sostenitori, Videla deve, una volta di più, abbozzare. In un clima tesissimo, con minacce esplicite da una parte e dall’altra, viene confermato presidente ma solo per due anni e si provvede ad un riassetto, più formale che altro, delle cariche.
Dal canto loro, i partiti cercano di avanzare la richiesta di partecipare. Lo fa Ricardo Balbín, storico rappresentante del più antico partito argentino, l’UCR (Unión Cívica Radical), un personaggio controverso per i silenzi durante la dittatura e alcune prese di posizione a favore di Videla. Ma la risposta è più che chiara: retate e arresti tra i politici e la nuova sospensione delle attività politiche. Al comando dunque ancora Videla con Viola a capo dell’Esercito. Nonostante l’ostracismo di buona parte dei militari è nelle cariche minori (nei comuni ad esempio) che la convergenza comincia a prendere forma. Nel 1979, sono civili 9 sindaci su 10, ma sono personaggi di secondo piano, quelli di spicco restano esclusi. Da un lato, i partiti cominciano a cercare strategie comuni, in particolare i due più importanti, i radicali dell’UCR e i peronisti. Dall’altro anche la classe privilegiata dei conservatori non è contenta della grande confusione che regna nel governo. Bisogna arrivare alla fine 1979 per leggere le “Basi politiche”, documento della giunta in cui c’è un invito alla partecipazione, ma con regole nuove e precisi limiti al dissenso verso il regime.
I sindacati, che avevano trovato una specie di intesa con il ministro del lavoro Liendo, sono spiazzati quando Videla lo sostituisce con un generale, molto vicino alle posizioni di Martínez de Hoz. Scelta che ai sindacati non piace per niente, tanto da proclamare il primo sciopero generale dall’inizio della dittatura. Un fallimento in quanto a partecipazione, con una reazione dura della giunta, che agisce nel solito modo: arresti e sospensione delle attività sindacali.
In tutto questo casino, si cominciano a profilare altri guai. Il primo si chiama Beagle.
Beagle è il nome di un canale che collega Atlantico e Pacifico, vicino all’estrema punta del continente americano, nella terra del fuoco. A Sud ci sono alcune isole, sulle quali, da sempre, è accesa la polemica se siano territorio cileno o argentino. Ci sono stati, a cominciare dal 1881, un sacco di tentativi di dirimere la questione attraverso trattati più o meno rispettati. Quelle isole appaiono del tutto inutili, disabitate, senza risorse, ma estremamente interessanti per via delle norme internazionali. I paesi confinanti (il Cile lo fa nel 1947) rivendicano il diritto di una zona di “interesse economico” per 200 miglia dalla costa. E possedere quelle isole diventa dunque importante, magari come testa di ponte per le risorse del continente antartico che non si trova poi così lontano da esse. I cileni, forti degli accordi del 1881, le abitano. Gli argentini ci pensano su e invocano altre convenzioni, come quella del bioceanismo, per rivendicarne il possesso. Quando un tribunale internazionale nel febbraio 1977 decreta che quelle isole sono cilene, la giunta dichiara guerra al Cile e si prepara all’invasione.  É un atto calcolato. Serve a compattare la popolazione in un momento di grave crisi del sistema, una nuova causa nacional, che avrebbe unito e rafforzato “l’organismo nazione” sotto la leadership militare. Non si arriva allo scontro, perché di mezzo ci si mette il Vaticano. Papa Wojtyla si prende la briga di fare chiarezza. La giunta, che si era tenuto buono lo Stato Pontificio, presentando il golpe come salvaguardia, tra l’altro, anche del cattolicesimo, accetta. La sentenza lascia le isole al Cile, ma riduce lo spazio di influenza da 200 a sole 12 miglia.  L’accettazione della risoluzione pontificia da parte di Videla non viene presa bene dai falchi, ai quali si aggiunge anche Viola, inasprendo ancora più le contestazioni all’interno delle FFAA.
É un brutto colpo, una figuraccia nei confronti della popolazione. Come se non bastasse, l’isolamento internazionale cresce, quando, negli Stati Uniti, cambia l’amministrazione. Se il vecchio segretario di stato, Henry Kissinger, era quello che aveva consigliato Videla a fare in fretta a far sparire gli oppositori per non cadere nello stesso errore di Pinochet, il nuovo presidente, Jimmy Carter, mette in primo piano la questione dei diritti umani, sospende la vendita di armi e la concessione di crediti all’Argentina. Intanto la commissione dell’ONU sui diritti umani condanna molto duramente el Proceso, rivelando al mondo che, tra i desaparecidos non ci sono solo cittadini argentini, ma anche 304 italiani, 164 spagnoli, 48 tedeschi, 36 francesi e altri di nazionalità diverse. Videla, sempre più isolato, non sa come muoversi e concorda con il vicepresidente statunitense, Walter Mondale, la visita di una commissione interamericana sui diritti umani (CIDH), per verificare che tutto è passato e adesso la situazione è tranquilla. In cambio Mondale si impegna a togliere l’embargo sui crediti. Ma, per gli USA, l’Argentina non riveste una importanza strategica come altre nazioni (quelle petrolifere, ad esempio) per cui la commissione chiede di poter ascoltare tutti, compresi i parenti delle vittime del terrore. Videla accetta, che altro può fare? Libera centinaia di prigionieri e smantella una quantità di campi di concentramento. Il risultato è sorprendente. I partiti “legali”, i giornali e soprattutto la Chiesa locale (nonostante l’ammonimento del Vaticano a dire la verità) danno un’immagine pulita e normalizzata del paese. Sono poche le voci contrastanti questa specie di beatificazione del Proceso. Tra esse, quelle di Raul Alfonsín dei radicali e di Deolindo Bittél dei peronisti. Quest’ultimo viene contestato dal suo stesso partito, compresa Isabel Martínez Perón, la quale, nonostante cinque anni di carcere e il successivo esilio, ammonisce la commissione di non venire ad insegnare i diritti umani all’Argentina, frase che, ovviamente, si commenta da sola. La CIDH raccoglie oltre 5'500 denunce circostanziate e conclude riferendo del terrore, dei morti, dei sequestri, dei voli della morte e di tutto il resto che abbiamo fin qui raccontato. Un risultato importante è che le organizzazioni contrarie al regime, come le Madres de plaza de mayo, cominciano ad avere visibilità sulla stampa e il mondo a quel punto non può più dire di non sapere.
Videla nega tutto, cercando di mettere a tacere ogni cosa almeno a casa sua, usando giudici e tribunali per tacitare le oltre 5000 domande di habeas corpus. Poi però la Corte suprema non può fare a meno di imporre la liberazione di un detenuto molto importante, il giornalista Jacobo Timerman, smascherando così i trucchi di Videla. Timerman funziona come una bomba tra le forze armate. Le sue dichiarazioni sul regime fanno il giro del mondo in un amen. Mettendo insieme tutte le cose: la commissione, la liberazione dei prigionieri, Timerman e la faccenda Beagle, ai militari, Videla sembra una pappamolla. É in questo momento che un nuovo personaggio, un falco di quelli duri e puri, si affaccia sulla scena, il generale Leopoldo Fortunaro Galtieri. Nel 1981 Viola ha ancora un seguito nell’Esercito e, nonostante la forte avversione della marina, succede a Videla venendo eletto presidente da due armi su tre, in contrasto con le norme previste a suo tempo dal Proceso. Ma la situazione è del tutto cambiata. I sindacati, gli oppositori, i partiti hanno più coraggio. Perfino la Chiesa locale prende le distanze dal regime. L’economia è un disastro totale e, nonostante i tentativi di intervento, la catastrofe è a due passi. I suoi avversari militari non devono fare nulla, basta che aspettino il crollo definitivo. Ed è quello che avviene: l’occupazione cala in due anni di quasi il 40%, la produzione industriale del 25%, il PIL del 12%, il valore del peso nei confronti del dollaro dell’80%. Alla fine del 1981 le riserve sono praticamente esaurite. Viola, in un disperato tentativo, apre ai civili, ai quali consegna buona parte dei ministeri, riattiva parte delle libertà, senza tuttavia cambiare la dura realtà economica e sociale del paese. Tutte le critiche, da qualunque parte arrivino, sono dirette contro di lui, non contro il regime dei militari. In taluni settori, anche ecclesiastici, si arriva ad invocare un ritorno ai progetti originari del Proceso. I militari, isolati e aggrappati ai falchi, continuano a pensare di essere la soluzione e non la causa di quello sfacelo. I partiti tentano un’ultima mossa. Si mettono tutti assieme nella Multipartidaria, chiedendo una data precisa per le elezioni, che facciano tornare alla democrazia. Nel frattempo le cose sono cambiate nel continente americano. La salita al potere di Ronald Reagan e le lotte anticomuniste un po’ ovunque, ridanno fiato a Galtieri, entrato nella giunta e a capo dei falchi argentini. Non ci sono date, non ci sono elezioni, c’è solo el Proceso, che non ha affatto finito il suo tempo. Così pensano i militari. E la storia corre veloce. Poco prima di Natale, Viola viene estromesso e a capo del paese sale il generale Galtieri, che mantiene anche il suo ruolo di comandante dell’esercito, tutto come una volta. E tornano il blocco dei salari e la privatizzazione in massa delle imprese pubbliche. Ma come può Galtieri opporsi alla forza elettorale della Multipartidaria e conquistare l’adesione dei cittadini argentini? La risposta ha un nome: Malvinas.
Due isole più grandi circondate da 700 più piccole costituiscono l’arcipelago delle Falkland se usate la dicitura inglese o Malvinas se usate quella ispanica. Anche in questo caso le discussioni sui legittimi proprietari di quelle terre si perde nei secoli passati, quando portoghesi, spagnoli, francesi e inglesi a turno le hanno amministrate.
Possiamo passare direttamente agli anni più recenti, quando l’ONU, nel 1960 provvede alla decolonizzazione dei territori non governati da se stessi. La considerazione principale riguarda gli abitanti, tutti di discendenza britannica con usi e costumi tipici degli inglesi, come la guida delle automobili sulla sinistra della strada. L’ONU si rende conto della situazione molto particolare della faccenda e invita le due nazioni a mettersi d’accordo tra loro. Per la Gran Bretagna quelle isole non sono certo tra le priorità della corona. E poi ci sono gli ottimi rapporti con l’Argentina, da cui arriva, ad esempio, gran parte del grano usato nel regno Unito. Sono quasi sul punto di cedere il controllo delle isole. Ma il piccolo popolo delle Falkland si ribella: non ne vuol sapere di mettersi a ballare il tango o a guidare dall’altra parte della strada.
Così, dal 1968, Westminster torna sui propri passi e le riunioni si concludono con un nulla di fatto. Dall’altra parte, l’Argentina ha un diverso approccio, sul quale influiscono le stesse ambizioni già viste per il Beagle sui possibili sfruttamenti dell’area dell’Atlantico meridionale e, forse, delle coste antartiche. In più c’è di mezzo l’orgoglio nazionale, che può, per i militari del Proceso, compattare la popolazione, al fianco di un esercito che riconquisti le terre che pensa di meritare.
Il 2 aprile 1982 avviene l’invasione, silenziosa e incruenta. Basta un solo giorno all’ONU per intimare a Galtieri di tornarsene a casa propria e ritirare le truppe. In gran Bretagna, il primo ministro Margaret Thatcher non se la passa benissimo, per via di una politica sociale non troppo amata dai suoi concittadini e con problematiche elezioni non molto lontane. Galtieri confida nei buoni rapporti con Reagan, il quale però non può non tenere presente la forte alleanza con la corona britannica e quindi tenta una mediazione, che non ha effetto. La giunta argentina si mostra miope in questo caso, pensando che il lavoro sporco fatto per gli Stati Uniti in America Latina sia sufficiente a diventare un alleato privilegiato della casa bianca. La Thatcher invece legge benissimo la posizione di Reagan e invia 100 navi e 20 mila uomini verso le Falkland. Così comincia la guerra delle Falkland/Malvinas. Quello che qui ci interessa di più è l’atteggiamento del popolo argentino in patria. Tutti uniti per questa avventura, per questo rigurgito di nazionalismo. La Multipartidaria parla di “totale appoggio e solidarietà” per questa azione. Perfino le Madres de plaza de mayo, pur continuando le loro proteste, sono convinte che i loro figli scomparsi sarebbero stati orgogliosi di partecipare alla guerra. Vi aderiscono perfino prigionieri politici e gli stessi Montoneros si offrono per azioni dinamitarde contro la flotta inglese. Non sono molti a rifiutare questo clima entusiastico. Tra questi Raul Alfonsín, del partito radicale, e pochi altri.
La guerra dura poco più di due mesi e si porta via la vita di mille militari, 700 argentini e 300 britannici. Il 14 giugno, i militari argentini si arrendono, mentre Galtieri urla che si deve lottare fino alla morte. Due giorni più tardi, Marina e Aeronautica escono dalla giunta, cercando così di far apparire Galtieri e l’esercito come unici colpevoli di quel disastro. Diventa presidente Reynaldo Bignone, che si affretta a garantire la transizione verso la democrazia.
E questa è la fine, perché i militari, sfiduciati, avviliti, incapaci di analizzare lucidamente la situazione, non hanno più nemmeno capi che prendano in mano la situazione. I civili, dal canto loro, abbandonano le FFAA al proprio destino, addossando ad esse ogni sorta di colpa, della guerra perduta, dell’economia fallimentare, delle violazioni dei diritti umani, distinguendo finalmente i carnefici dalle vittime. Bignone fissa la data delle elezioni il 23 ottobre 1983. Nell’attesa la giunta e i vertici nuovi delle forze armate cercano di evitare che nella normalizzazione si torni sulla repressione, varando, addirittura, una “legge di pacificazione”, che dichiara prescritti tutti i reati legati al Proceso. Nelle caserme arrivano dispacci segreti che intimano di distruggere o di riportare alle normali funzioni, gli edifici sedi di campi di concentramento e di tortura.
In dicembre del 1983 le elezioni portano alla presidenza Raul Alfonsín. Si scrive una nuova costituzione, e si insedia una corte di giustizia. I processi sono in tutto circa due mila. I capi militari vengono condannati all’ergastolo. Ma nel 1990 il nuovo presidente Carlos Menem applica loro un indulto, che viene tolto 20 anni dopo da Néstor Kirchner. Videla muore in carcere nel 2013, raggiungendo Massera, Viola e i trentamila desaparecidos argentini.
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Fonti principali
  • Marcos Novaro - “La dittatura argentina (1976-1983)” – Carocci editore
  • Sito 24marzo.it - articoli e materiale vario
  • Incontro con Enrico Calamai – autore di “Niente asilo politico” - 2004 (https://www.provincia.lucca.it/sites/default/files/07_aprile_2004.pdf)
  • Passato e presente – filmati RAI sulla dittatura e sulla guerra delle Malvinas
  • Film: Argentina, 1985, sul processo alla dittatura
  • Riccardo Verrocchi, Le utopie sono possibili: le Madres de Plaza de Mayo nell'Argentina di ieri oggi e domani - SBN/UBO – 2014
  • Atlantide – I desaparecidos - La7
  • Antimafia duemila – diversi articoli sulla dittatura
  • Moltissimi articoli in rete da quotidiani, riviste, blog
  • La consulenza dell'amico Gustavo Claros
mistero01Oggi trattiamo un argomento decisamente inconsueto. Parliamo infatti non di notizie che conosciamo o di argomenti noti. Stasera parliamo di quello che non sappiamo.
In effetti la scuola ci insegna a cercare risposte alle domande. A quelle che gli insegnanti ci fanno per capire se abbiamo studiato e a quelle che noi stessi ci facciamo quando un barlume di curiosità entra nel nostro cervello. Qui facciamo il contrario: cerchiamo delle domande che non abbiano risposta, domande alle quali, almeno finora, nessuno ha saputo dare una spiegazione. A volte, quando discutiamo con gli amici, ci accapigliamo perché ognuno mette sul tavolo la propria verità. C’è subito da dire che se esistono due verità contrapposte, almeno una di queste è falsa, a volte lo sono entrambe. É impossibile che siano entrambe corrette.
É per questo che la scienza ha inventato una risposta saggia di fronte a questioni di cui non sappiamo nulla. Questa risposta è “non lo sappiamo!”, che dovrebbe essere usata più spesso di quanto si faccia così da sembrare più onesti.
Certo, da bambini ci facciamo domande alle quali potremo rispondere solo più avanti nella nostra evoluzione, grazie allo studio, alle letture, alla visione di documentari e filmati. Ad esempio: “Perché il cielo è blu?” forse un bimbo non lo sa, ma la domanda ha una sua risposta ben precisa che ha a che vedere con le proprietà della luce che il Sole invia sul nostro pianeta, quando incontra le particelle di cui è costituita l’atmosfera. Ma se chiedo “Dio esiste? e se esiste è uomo o donna?” nessuno al mondo potrà darci una risposta sensata, corredata da prove e certificata con tutti i timbri apposti nel posto giusto.
E domande come questa ne esistono davvero moltissime, che riguardano la vita, il destino, l’aldilà e un sacco di altre cose sulle quali possiamo interrogarci.
Bastano due domande per capire quale sia il viaggio che facciamo all’interno della conoscenza. La prima: quanti universi esistono? Che se ne tira dietro un sacco di altre, alcune hanno a che fare con noi, altre con dio, come vedremo subito. La seconda riguarda l’esistenza di vita extraterrestre, di cui parleremo più avanti.
La nostra percezione è limitata. Pensate ad esempio alle dimensioni degli oggetti. Una montagna ci sembra molto grande, ma se viaggiamo in aereo ci rendiamo conto che è un puntino mistero01rispetto all’intero pianeta. E poi c’è il sole che può contenere un milione di terre e sembra davvero gigantesco, ma è una piccola stella rispetto ad altre che sono migliaia di volte più grandi e sono, a loro volta, solo dei puntini nella galassia alla quale apparteniamo tutti, la Via Lattea, composta di un numero di stelle che non conosciamo con precisione, ma che sicuramente è più grande di 200 miliardi e forse arriva a 400 miliardi. Che numeri incredibili. Eppure anche la nostra galassia non è granché se vista nell’insieme dell’Universo, che contiene più di 100 miliardi di Galassie, alcune come la nostra, altre più piccole, altre più grandi. Ci sono galassie che si allontanano da noi con una velocità talmente elevata che la loro luce non ci raggiungerà mai. Questo significa che non potremo mai vederle, per noi è come se non esistessero. Eppure anche loro fanno parte della nostra storia, cominciata, con ogni probabilità, con una grande esplosione, un big bang, come lo chiamano gli scienziati, che ha dato origine ad ogni cosa: le galassie, le stelle, i pianeti, gli elementi chimici che poi si sono combinati per dar luogo a oggetti fondamentali come l’acqua, il metano, l’atmosfera, l’anidride carbonica e così via.
Noi dunque viviamo in un grande, enorme paese che è l’Universo e la Via Lattea è il nostro Condominio. Non sappiamo molto degli altri condomini, perché sono così lontani che non abbiamo, oggi, gli strumenti per curiosarci dentro. E tutto nasce da piccole particelle, così piccole che noi non siamo in grado di vederle, come gli elettroni, i protoni, i neutroni, i quark, i neutrini, le basi universali del cosmo. Già ma solo del nostro cosmo, quello dei 100 miliardi di galassie che comprendono anche la Via Lattea.
mistero01La scienza, lo sapete, cerca sempre nuove soluzioni, elabora nuove teorie che cerca di confermare con elementi di prova, con esperimenti e misure. Così, accanto all’ipotesi appena descritta, ce n’è un’altra, decisamente affascinante: il nostro è solo uno dei molti universi presenti. Rimane un’ipotesi non confermata ed è figlia della meccanica quantistica, della teoria delle stringhe e di quella delle bolle. Uno dei fautori di questa ipotesi è stato il compianto fisico britannico Stephen Hawking, morto nel 2018. Dunque potrebbero esserci universi differenti dal nostro, magari con particelle elementari differenti dalle nostre, quindi con proprietà diverse, che porterebbero a leggi fisiche e chimiche diverse. Tutti questi universi costituiscono quello che chiamiamo il “multiverso”. La teoria delle stringhe più avanzata suppone che in questo multiverso ci siano 10 alla 500 universi differenti. É un numero spaventoso, un uno seguito da 500 zeri, che non sappiamo neppure come dirlo.
Ma anche questo numero è piccolissimo di fronte ad un altro concetto: quello dell’infinito. Qualcuno pensa che lo spazio sia infinito e che contenga infiniti universi, che si espandono e acquistano uno spazio sempre più grande, senza alcun confine.
Ci sono alcune teorie quantistiche che trovano una spiegazione logica solo con la presenza di universi paralleli che vengono creati in continuazione. Alcuni possono essere uguali al nostro e contenere anche le stesse persone, ma con caratteristiche diverse. Chi qui fa il giudice, là potrebbe essere un bandito, o fare il panettiere, o suonare l’arpa nell’orchestra di stato.
Altri scienziati dicono che queste sono solo sciocchezze e che esiste un solo Universo, il nostro. Filosofi e mistici possono sostenere che perfino il nostro Universo sia in realtà solo un’illusione della nostra mente. Come si vede non c’è alcun accordo nel rispondere alla domanda: “Quanti universi ci sono?”. Possiamo solo dire che il loro numero è compreso tra zero e infinito, che non è certo una grande conclusione.
La seconda domanda è questa: “Perché non riusciamo a vedere vita fuori dal nostro pianeta?” Cioè vita extraterrestre o come qualcuno dice con un termine che a me non piace per nulla “Vita aliena”?
É stato Enrico Fermi, il grande fisico italiano a porre la domanda in modo simpatico: “Dove sono finiti tutti quanti?”. C’è anche un bel film con Jody Foster che si conclude con lei, astronoma, che risponde ad un gruppo di bambini che vuole sapere se c’è vita nell’Universo: “Se ci fossimo solo noi sarebbe uno spreco di spazio … giusto?”.
Al di là delle battute e delle citazioni cinematografiche, noi non sappiamo se c’è vita là fuori, ma possiamo cercare di ragionare sulla questione.
Se volete, ma io ve lo sconsiglio, potete seguire i fanatici della cospirazione, quelli che sanno sempre tutte le risposte ma non hanno neanche una prova di quello che dicono. Loro sanno che i cosiddetti UFO ci fanno visita regolarmente da un sacco di tempo, che le autorità lo sanno, ma lo tengono segreto per motivi altrettanto segreti.
UFO è la sigla che indica Oggetti volanti non identificati. Significa semplicemente che non sappiamo cosa o chi sono. É successo spesso che si trattasse di strani palloni sonda di cui si ignorava l’esistenza (tranne da parte di chi li aveva lanciati) oppure che l’osservatore del fenomeno non era - come dire? – nel pieno possesso delle sue capacità intellettive. Ad ogni modo l’osservazione di UFO fa parte della nostra storia. Fissare l’attenzione su questo particolare è esattamente quello che esprime un vecchio proverbio di origine sconosciuta: “Quando il saggio indica la luna, lo stolto guarda il dito”.
Quello che dmistero06avvero sappiamo è ben altro, credo molto più interessante.
Nel 2009 la NASA lancia un veicolo spaziale che porta con sé un telescopio e un vero e proprio laboratorio per la gestione dei dati raccolti. La missione si chiama Kepler, in onore del grande scienziato tedesco del 17° secolo Giovanni Keplero, e vuole individuare gli esopianeti, cioè pianeti che non appartengano al sistema solare. Vengono inviati dati per 10 anni, fino al 2018, quando il carburante è esaurito e la missione viene dichiarata conclusa. Cosa scopre Kepler? Scopre più di 2300 pianeti e, nel catalogo che viene realizzato al termine della missione, sono inserite più di 13 milioni di stelle.
Ci importa? Ci importa sì, perché la ricerca della vita extraterrestre deve partire da dove essa si potrebbe o si è potuta sviluppare. Serve un pianeta “giusto” insomma, né troppo vicino, né troppo lontano dalla sua stella (o dal suo sistema di stelle), né troppo piccolo né troppo grande. Ce ne sono, nell’elenco di quelli trovati da Kepler?
Certo che ce ne sono, almeno un centinaio. Se considerate la miseria della porzione di spazio percorsa dal veicolo Kepler nella nostra galassia, si possono fare dei calcoli.
É assai probabile che nell’intera Via Lattea i pianeti simili a quelli osservati dal telescopio siano talmente tanti che, anche se uno solo ogni 10'000 presentasse situazioni favorevoli alla vita, ne resterebbero circa 50 milioni. Dite la verità: se doveste puntare cento euro sull’esistenza di vita nella Via Lattea, lo fareste con queste cifre? Io credo di sì.
Eppure non abbiamo alcun contatto con queste altre forme di vita della nostra Galassia … ricordate? Stiamo parlando del nostro condominio, in una città popolata da centinaia di miliardi di condomini simili.
Ci servono però altre informazioni per essere più precisi. Torniamo coi piedi per terra, anzi sulla Terra, intesa come pianeta.mistero01
Circa 13-14 miliardi di anni fa avviene il Big Bang e si forma la materia che nel corso del tempo darà origine alle stelle, ai pianeti, ai sistemi solari, alla materia oscura e a tutto il resto. La Terra si forma circa 9 miliardi di anni più tardi. Ci vorranno altri tre miliardi di anni per avere le prime forme di vita sul nostro pianeta. Noi, l’homo sapiens, siamo arrivati all’ultimo istante di questa storia, appena 200 mila anni fa.
Non tutti i pianeti hanno avuto lo stesso sviluppo. C’è chi si è formato prima e chi dopo; dunque su quei pianeti la vita può essersi sviluppata molto prima della nostra ed essersi estinta prima del nostro arrivo. Oppure l’evento deve ancora accadere e bisognerà vedere se noi ci saremo ancora (come genere umano intendo) per registrarlo. Dunque come prima lettura c’è il fatto che la mancanza di contatti è un fatto di mancata simultaneità.
C’è anche un altro problema. La scienza che noi abbiamo sviluppato ha una specie di dogma, certificato dalla teoria della relatività di Einstein. Niente può viaggiare più veloce della luce nel vuoto, grossomodo 300 mila km al secondo. Certo è un bell’andare. La luce del Sole, che pure è distante 150 milioni di km da noi, impiega solo 8 minuti e mezzo a raggiungerci, ma abbiamo già visto che questi numeri sono piccolissimi, rispetto a quelli che si riferiscono all’intera Galassia, per non parlare del nostro Universo. Noi abitiamo in periferia della Via Lattea. Per raggiungere il centro galattico occorre percorrere circa 265 milioni di miliardi di km, corrispondenti a 28 mila anni luce. Un anno luce è lo spazio che la luce percorre nel vuoto in 365 giorni. Significa che il centro galattico che i nostri telescopi osservano oggi, si mostra ai nostri occhi com’era 28 mila anni fa, che è il tempo necessario alla luce per raggiungere i nostri occhi.
Questo significa che, dal momento che tutti i veicoli che abbiamo inventato viaggiano a velocità terribilmente più basse di quelle luminose, un incontro fisico con altri esseri viventi è quanto mai improponibile. Pensiamo, ad esempio, che la stella a noi più vicina, Alpha Centauri, si trova a quasi 4 anni luce e mezzo e per raggiungerla con un veicolo possiamo prevedere un viaggio che supera di gran lunga la vita media di un umano.
enterprise d velocità curvaturaCerto, è possibile che altre civiltà abbiano capito che è possibile superare la velocità della luce, oppure che abbiano davvero scoperto i famosissimi salti nell’iperspazio, che i fantastici scrittori di fantascienza hanno inventato negli anni 50. Ma, per quanto ne sappiamo, si tratta appunto di fanta-scienza e non di scienza.
C’è un’altra cosa importante da dire. Se voi aveste un parente, che so, a Nuova Dehli o a Città del Messico, non potreste andarlo a trovare tutti i giorni per sapere come ha passato la nottata. Ma le comunicazioni sarebbero possibili. Fino a qualche decennio fa avreste scritto una lettera, che nel giro di qualche giorno o di qualche settimana avrebbe portato notizie vostre a lui o viceversa. Anche in questo caso funziona come per il centro galattico. Il vostro parente avrebbe avuto notizie della vostra vita, vecchie di qualche settimana. Nel frattempo voi potreste essere morto o avere un vissuto completamente diverso da come lo avevate descritto. Poi è arrivato internet e la possibilità di trasportare informazioni a velocità eccezionali (sempre inferiori a quella della luce) e il vostro parente avrebbe notizie, come si dice oggi “in tempo reale”, cioè saprebbe di voi le cose che vi stanno succedendo al momento (sempre che apra le mail quando gli arrivano).
Dunque ipotetici viaggiatori del cosmo porterebbero del loro luogo di partenza solo vecchie informazioni del tempo in cui sono partiti. Ma la messaggistica funziona anche nello spazio, funziona con le onde elettromagnetiche che hanno, in quanto a velocità di propagazione le stesse caratteristiche della luce, che peraltro è un’onda elettromagnetica. Chi genera queste onde? Siamo noi stessi, quando facciamo funzionare un microonde o quando una centrale elettrica accende le luci di una città, o quando assistiamo ad una trasmissione televisiva. Gli 8 miliardi di terrestri inviano in ogni direzione dello spazio segnali da molti anni (diciamo cento per semplificare i calcoli). Significa che il nostro messaggio, probabilmente confuso e non sempre elevatissimo, ha già raggiunto una distanza di 100 anni luce e, finora, per quello che sappiamo, nessuno ha risposto. Perché?
Le ipotesi sono tante. Forse nel raggio di 100 anni luce non c’è nessuno o se c’è può avere risposto oggi, ma quella risposta arriverà sulla Terra tra 100 anni, tanto ci vuole per il viaggio di ritorno. Oppure hanno ricevuto il messaggio e si stanno interrogando sul da farsi. Proprio come nei vecchi film sul contatto con gli extraterrestri, anche loro ci considerano alieni e cercheranno di capire se siamo buoni o cattivi. Se sono saggi e hanno visto un po’ della nostra storia è assai probabile che ci mettano in una lista nera di popoli da non avvicinare.
enterprise d velocità curvaturaOppure le risposte sono arrivate e vengono tenute segrete da un grande vecchio, ma questa ipotesi è assai improbabile e i nomi di Snowden e Assange dovrebbero spiegarvi il perché.
Sono tutte ipotesi molto fantasiose: forse esiste un gruppo di giudizio di una civiltà superiore che stabilisce il silenzio radio di modo che ogni civiltà abbia il tempo di svilupparsi per proprio conto. Oppure tutto avviene all’interno di quella materia oscura, che costituisce quasi tutta la massa dell’Universo, e alla quale non abbiamo accesso. Forse … forse!
il SETI è il Centro di Ricerca di Intelligenza Extraterrestre; mette a disposizione di tutti i cittadini della Terra i dati che riesce ad ottenere.
Ecco che possiamo tornare all’inizio. Come abbiamo visto avere così tante risposte vuol dire non averne nessuna di certa. La frase “non lo sappiamo” rimane l’unica certezza. Tuttavia, possiamo concludere che sono proprio le domande senza risposta a pungolare la nostra curiosità, che, come giustamente sottolinea Einstein, è solo il primo passo verso la conoscenza. Il che significa che sono proprio le possibilità insolite, le domande senza risposta, che ci spingono avanti.
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Questo articolo prende spunto dal filmato "Domande di cui non conosciamo le risposte" (inglese sottotitoli italiani).

Rotondella

basilicata01Questa storia ci porta in Basilicata, una regione che in quanto ad essere stata oggetto di molte porcherie nel corso degli ultimi 60 anni non è seconda a nessuno. Anche qui è scoppiato in tempi molto più recenti uno scandalo legato al petrolio. Tuttavia, prima, permettetemi di spiegarvi perché questa regione, di cui si parla poco, ha attraversato avvenimenti quanto meno misteriosi negli ultimi 40 anni. Buona parte sono legati alle scorie tossiche e a quelle nucleari. Intrecci internazionali, vendita di armi e "polveri da sparo", strane manovre da coprire: c’è di che tesserne un romanzo thriller mica da ridere.
Lo faccio ripercorrendo un capitolo del libro “Bidone nucleare” di Roberto Rossi, uscito nel 2011 per la collana BUR di Rizzoli.
Quando i rifiuti tossici venivano abbandonato su una nave, che veniva poi fatta inabissare al largo delle coste joniche, quello che restava bisognava interrarlo. Occorreva scegliere una zona poco frequentata dalla ‘ndrangheta e dalla camorra e la Basilicata era semplicemente perfetta. Ma c’è di più, come vedremo subito.
Il nostro viaggio parte da Rotondella, un piccolo comune in provincia di Matera, dal quale si vede in lontananza il golfo di Taranto che unisce Puglia e Calabria.
A Rotondella, dunque, nel 1970, viene aperto il centro ITREC: questa sigla significa “Impianto di Trattamento e Rifabbricazione Elementi di Combustibile”, il che significa che qui finiscono le scorie delle attività radioattive italiane (è il periodo in cui si pensa alla costruzione delle centrali nucleari italiane) e quelle scorie vengono trattate per ricavarne altri elementi utili da destinare a varie attività o per semplice ricerca scientifica. Niente di male dunque: saperne di più è sempre un fatto positivo.

grano01Quante cose strane succedono nel mondo. É che noi, abituati ad essere pigri e a fidarci degli imbonitori che urlano le loro verità come slogan da giornali, radio e televisioni, non ci facciamo caso. Poi, improvvisamente succede qualcosa di eccezionale: un cataclisma, uno scandalo imperdibile o, come è il nostro caso, una guerra tra due nazioni, Russia e Ucraina, nessuna delle quali mi è particolarmente simpatica, anche se devo dire che invadere un paese non è bello e nemmeno legittimo. Per cui il macellaio Putin va condannato, esattamente come i nazisti di ritorno che vivono dall’altra parte delle barricate.
Ma qui la questione dei combattimenti, dei morti ammazzati di chi ha ragione e chi torto non mi interessa. Voglio capire una cosa molto più semplice. Perché al supermercato dove mi servo di solito, i cartellini dei prezzi sembrano non bastare più e vengono rinnovati quasi di giorno in giorno.
Una volta si diceva: “il prezzo del pane non può essere giocato in borsa” senza sapere che è proprio quanto succede. Ma, in effetti, si tratta di quello considerato da sempre l’alimento base di ogni famiglia e toccare il pane (e l’acqua … anche questo è un bel discorso in questo periodo) è visto come un sacrilegio, una bestemmia di tutte le divinità inventate dalla notte dei tempi fino all’altro ieri.

Giovanni Leone

lockheed01
Giugno 1978: mancano sei mesi alla fine del mandato presidenziale e il presidente della repubblica, Giovanni Leone, si rivolge alla nazione e pronuncia questo discorso, ripreso dal telegiornale:

I cittadini che era giusto informare, in realtà non è che amassero molto il presidente, soprattutto dopo alcuni fattacci, come quello del Vajont, dove si era recato in mezzo al fango del Piave per rassicurare la gente che giustizia sarebbe stata fatta. Purtroppo poco dopo, come giurista, lo troviamo alla guida del pool di avvocati che difendono l’ENEL, diventata da poco proprietaria della struttura incriminata.

omicidi01Questo è un articolo introduttivo, che serve da premessa ad alcuni altri che trattano di delitti perfetti o imperfetti, assassinii premeditati dagli autori o da altri per addossare la colpa a innocenti. La conclusione più frequente è che non abbiamo la più pallida idea di quale sia la verità. Ecco lo schema:
  1. Premessa
  2. Il caso Fenaroli
  3. L'omicidio Codecà
  4. L'omicidio di Wilma Montesi
  5. L'omicidio di via Poma: Nicoletta Cesaroni
  6. Vino e metanolo

Avvertimento

Questo articolo è stato scritto nel gennaio 2019 ed è quindi antecedente sia la pandemia che la guerra in Ucraina.

Introduzione

ItalcasseGli anni ’70 e ’80 sono conosciuti, nel nostro paese, come gli anni di piombo, ma anche gli anni degli scandali. Oggi vorrei raccontarvi la storia di uno di questi, lo scandalo Italcasse. Detta così potrebbe sembrare che quella vicenda sia a sè stante, mentre in realtà è solo una costola di un comportamento generalizzato, di una piaga di corruzione e di mazzette, di gente disonesta, che non è neanche il loro male maggiore, dal momento che si tratta di elementi rappresentativi della nazione, banchieri, industriali e, ovviamente, politici.
In questa vicenda entreranno un sacco di personaggi di quel periodo che, solo apparentemente, non hanno molto a che fare con lo scandalo, mentre sono tutti importanti, a volte importantissimi, per capire come sono andate le cose. Sono Mino Pecorelli, il giornalista ucciso nel 1979 perché ne sapeva troppo di troppe cose, Aldo Moro che coi suoi memoriali ha detto a tutti quello che già pensavano dei suoi colleghi di partito a cominciare da Giulio Andreotti e poi Sindona, Calvi, i Caltagirone, il giudice Vitalone, Cesare Previti in una anticipazione delle malefatte all’ombra di Berlusconi, e tanti altri.
Dunque lo scandalo Italcasse si incastra in un periodo che di scandali ne vede parecchi, molti evidenti fin da subito, altri ben nascosti e saltati fuori solo anni più tardi.
Adesso però, occupiamoci di questa nuova vicenda, che fa scrivere a Wikipedia: Nel 1977 l'Italcasse fu al centro di uno scandalo politico-giudiziario.

Introduzione

petroli00Oggi vorrei parlare di petrolio e più precisamente di come la gestione politica di questo bene così prezioso nella società dei consumi abbia finito per far commettere ogni genere di nefandezza a chi quella gestione aveva in mano. Quindi politici, industriali, criminali, soprattutto quelli delle grandi organizzazioni mafiose e, a volte, organi di controllo dello stato come la guardia di finanza.
Vorrei, insomma raccontarvi la storia di due scandali legati al petrolio. Ce ne sono parecchi, conclamati o solo vociferati, scoperti e nascosti. Farò due esempi, uno lontano negli anni, ma che ha prodotto terremoti sociali, perdita di fiducia nelle istituzioni di controllo, perché quella nella politica non c’è mai stata. Ci sono casi anche recentissimi, come quello della cantante Ana Bettz, che proprio in questi giorni la stampa ha sottolineato, e quello di cui vi parlerò alla fine dell’articolo, che ha visto coinvolto, anche se indirettamente, un ministro del governo di quel birichino di Matteo Renzi. Uno scandalo che ha mostrato come grandi aziende di stato abbiano inquinato vasti territori della Basilicata. E, a proposito di inquinamenti e contaminazioni, vi racconterò anche quello che in quella regione, da sempre considerata la cenerentola delle regioni italiane, è successo quando il nostro paese ha cominciato a dismettere le centrali nucleari. Insomma, un po’ di tutto, ma con la dicitura comune di “scandalo”.
Andiamo, però, con ordine e cominciamo, come è sempre meglio fare, dall’inizio.

Introduzione

La storia che sto per raccontarvi fa parte della cronaca nera, anche se qualcuno ha sussurrato che dietro i protagonisti della vicenda poteva esserci la mafia e che le indagini sono state un tantino strane.
La vicenda è quella di una banda di criminali che ha terrorizzato l’Italia, in particolare l’Emilia Romagna, con un centinaio di rapine e decine di morti ammazzati. L’hanno chiamata la banda della Uno bianca, perché questa è l’automobile usata per la maggior parte delle azioni criminose.
unobianca01Le fonti sono, anche qui, molte e alcune particolarmente interessanti. Ad esempio la puntata di Blu notte che Lucarelli ha dedicato alla vicenda e, voglio sottolinearlo in particolare, perché è quello che ho seguito di più, “Gli infedeli”, il libro di Carmelo Pecora, un poliziotto in pensione, che, proprio per questo e per essere stato in servizio nella stessa zona della banda, ha vissuto in maniera sentita tutta la storia. Un libro che forse non merita il premio Bancarella, ma che racconta con precisione quasi maniacale i fatti, i retroscena e tutto il resto. Da leggere!
La Uno bianca in realtà appare in alcune delle rapine. E' una macchina molto diffusa negli anni in cui la nostra storia si sviluppa, il decennio a cavallo del 1990. Quindi facile da rubare e difficile da identificare. Nei primi tempi, però, viene utilizzata una Regata con targa falsa, di proprietà di uno dei componenti la banda. Questi sono, all’inizio, tre fratelli, i fratelli Savi: Roberto, Fabio e Alberto.

Ricapitoliamo

Eccoci alla terza ed ultima puntata sul Vaticano.
VaticanoNelle prime due abbiamo seguito le vicissitudini dello IOR di Marcinkus, legato a molti dei tragici avvenimenti italiani da metà anni 70 alla fine degli anni ’80.
Ciò che emerge da questo racconto sono, soprattutto, gli intrecci che parte del Vaticano ha avuto con personaggi e organizzazioni, come dire?, poco raccomandabili della nostra Repubblica. Si comincia con Michele Sindona, chiamato al capezzale delle finanze vaticane da Paolo VI e, di fatto, inserito nei maneggi che la banca del papa, l’Istituto Opere Religiose, per tutti semplicemente IOR, nei maneggi di una finanza “spensierata” e decisamente malavitosa. Dai documenti, di cui parlerò tra poco, emerge una visione orripilante di un istituto che dovrebbe dedicarsi al bene degli altri, alle opere pie, al sostegno delle persone in difficoltà.

Introduzione

VaticanoHo già raccontato la storia dello IOR e dei personaggi che attorno ad esso hanno ruotato, arrivando a suicidare un banchiere che sapeva troppe cose, Roberto Calvi. Personaggi che non sono tutti malavitosi incalliti come Pippo Calò, ma sono banchieri importanti come Michele Sindona, alti prelati come Paul Marcinkus e di sicuro le alte sfere della Santa Sede non erano all’oscuro di tutte le schifezze che avvenivano nel piccolo stato. È Paolo VI a chiamare il suo buon amico Sindona, con il quale lo IOR diventa una banca che cura gli interessi di assassini come quelli della banda della Magliana, di sporche figure politiche e di importanti famiglie mafiose. Diventa una lavanderia di soldi da riciclare, perché derivano da affari che più sporchi non si può. È Giovanni Paolo II ad imbastire, assieme a Marcinkus, il sovvenzionamento di Solidarność, usando quegli stessi soldi, che arrivano sì alla formazione di Lech Wałęsa, ma anche ai regimi totalitari dell’America Latina, che con la supposta filosifia religiosa del cristianesimo non si capisce proprio cosa abbiano in comune.

Peppino ImpastatoSiamo alla vigilia di una data importante, quella del 9 maggio. É il giorno del ritrovamento del cadavere di Aldo Moro, ucciso (forse) dalle Brigate Rosse. Tutti lo sanno e se ne ricordano.
Sfugge però alla memoria che quella notte, tra l’8 e il 9 maggio, viene ritrovato un altro cadavere, meno conosciuto, anche meno ricordato, il cadavere di un ragazzo di trent’anni, uno dei tanti cadaveri sparsi dalla mafia nel nostro paese. É Giuseppe Impastato, per tutti Peppino, proprietario, redattore e anima di Radio AUT, che a Cinisi invita la popolazione a capire cosa sta succedendo.
L’anno prima era morto suo padre, uno dei luogotenenti del boss mafioso della città. Ed è straordinario il solo pensare che, uscendo da una simile famiglia, quel ragazzo si sarebbe iscritto a Democrazia Proletaria, e avrebbe inondato di parole e di prove l’ambiente mafioso di Cinisi.
Il boss è Gaetano Badalamenti, detto Tano, uno di quelli che ha contato davvero nella storia della malavita siciliana e poi statunitense, paese dove ha finito la sua vita in un carcere del Massachusetts nel 2004.

Introduzione

Questa sera vi voglio raccontare una storia molto interessante che riguarda uno stato a noi molto vicino, il Vaticano. Meglio chiarire subito: non parleremo di religione, ma di cose molto più terra terra, come le finanze, le banche, le sovvenzioni a partiti stranieri e, come spesso ci capita, parleremo anche di morti ammazzati.
Le fonti, più che mai doverose in questo contesto sono alcuni libri, pubblicati negli ultimi anni, come “Vaticano SpA” di Gianluigi Nuzzi, edito da Chiarelettere; “Vaticano rosso sangue” di Vittorio di Cesare e Sandro Provvisionato, edito da Olimpia; “Mai ci fu pietà” di Angela Camuso, edito da Castelvecchi, quest’ultimo sulla storia della banda della Magliana, che ci servirà soprattutto nella prossima puntata sul Vaticano, quando parleremo del sequestro di Emanuela Orlandi. Ed inoltre tutta la letteratura che si può trovare in rete (articoli di giornali dell’epoca, dossier, interrogatori e quant’altro).
Cominciamo subito.

Introduzione

usticaAbbiamo già affrontato la questione della strage alla stazione di Bologna, avvenuta il 2 agosto del 1980. Pur essendo uno dei pochi misteri italiani formalmente chiariti, con tanto di condanne, abbiamo visto che restano moltissimi dubbi sui reali responsabili di quell’orrendo eccidio, in particolare sui mandanti e sulle motivazioni. In particolare la storia è piena zeppa di tentativi, spesso perfettamente riusciti, di depistare le indagini e ostacolare così la comprensione di quanto avvenuto. Questa tecnica è stata piuttosto comune nelle storie che trovate in questa sezione del sito. Le stragi della strategia della tensione da Piazza Fontana in poi, e fatti gravissimi come il rapimento di Aldo Moro, sono stati soggetti a depistaggi e inquinamenti di prove che hanno allontanato la verità e, come detto, lasciato nella testa di chi si avvicina a queste vicende il dubbio che non tutto sia stato detto, per coprire persone, istituzioni o azioni. Per coprire anche il comportamento di paesi stranieri ai quali allora e oggi non si vogliono attribuire responsabilità per convenienze politiche, commerciali o strategiche o, più squallidamente per il proprio quieto vivere.

Premessa

Vi sto raccontando in queste pagine le storie che hanno riempito di mistero la nostra storia recente. Alcune di queste sono conosciutissime, come quella relativa ad Ilaria Alpi, allo scandalo Lockheed, l’incendio della Moby Prince e così via. Altre invece sono poco conosciute, spesso del tutto sconosciute al grande pubblico, perfino a quello nella cui zona le vicende si sono verificate. Un esempio è l’abbattimento dell’elicottero della Guardia di Finanza Volpe 132 e un altro esempio è il fatto di cui vi voglio parlare adesso. É conosciuto come la strage di Alcamo Marina. Ci sono stati due morti, due carabinieri, ma il caso è estremamente intricato e quindi vi consiglio di seguire tutta la puntata con attenzione. In ogni caso potrete riascoltarla con calma visitando il mio sito noncicredo.org, dove trovate tutte le puntate trasmesse negli ultimi anni da questa emittente. E adesso possiamo cominciare.
Alcamo è un paese a metà strada tra Trapani e Palermo. Si affaccia sul mar Tirreno. Oggi parleremo di un fatto avvenuto il 27 gennaio 1976 nella frazione Alcamo Marina, località balneare grazie ad una bella spiaggia sabbiosa sul golfo di Castellamare, quella in provincia di Trapani.
Nella caserma dell’arma, la Alkamar, quella notte stanno dormendo due militari, l’appuntato Salvatore Falcetta di Castelvetrano (TP) e un ragazzo di 19 anni, il carabiniere Carmine Apuzzo, di Castellamare di Stabia (NA). É una notte di temporale con tuoni e molta pioggia. Del resto siamo in pieno inverno e la località balneare è praticamente deserta di turisti.

PecorelliÉ il 20 marzo 1979, quando Mino Pecorelli viene brutalmente assassinato in via Orazio, a Roma, di fronte alla sede della sua rivista, O.P. verso le nove di sera.
Nella scorsa puntata ho cercato di raccontare come sono andate le cose, quali contatti aveva avuto Mino nell’ultima giornata della sua vita e come erano procedute le indagini, subito dopo.
Ci sono alcune cose strane, come del resto in quasi tutte le storie di questo tipo. Come l’avviso alla pattuglia che arriva per prima sul posto. Si sono sentiti quattro colpi di arma da fuoco, viene detto. La stranezza è che l’arma che spara è dotata di silenziatore. La stessa arma, secondo alcuni pentiti, è in possesso di Enrico De Pedis, il super boss della banda della Magliana, che la tiene come un trofeo. Le armi di questa banda, che entra in ogni losca vicende del periodo che va dal 1975 in poi, vengono trovate dagli investigatori in uno scantinato del Ministero della Sanità. Qui ci sono anche proiettili, abbastanza rari e esattamente dello stesso tipo, di quelli trovati a terra vicino all’auto di Pecorelli il 20 marzo del 1979. Un omicidio da parte della malavita? Difficile da credere, anche perché in quel deposito entrano, con la massima libertà, uomini dei NAR, come Massimo Carminati, e uomini legati alla mafia siciliana come Danilo Abbruciati. Terrorismo, cosa nostra, che a sua volta richiama la politica che conta in quel periodo, come Franco Evangelisti, che confesserà prima di morire la sua vicinanza con i boss siciliani. Ma Franco Evangelisti è il braccio destro di Giulio Andreotti … ecco dunque che tutto è possibile: chiunque può aver deciso che Mino Pecorelli deve morire.

Premessa

In questi ultimi mesi abbiamo esplorato alcune vicende tristi e sanguinose dell’Italia degli anni che vanno dal ’70 alla fine della prima repubblica. Ho raccontato la storia dell’assassinio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, le vicende delle navi dei veleni, del capitano di corvetta Natale De Grazia, dell’abbattimento dell’elicottero della finanza Volpe 132, dello scandalo Lockheed, storie con le quali si potrebbe riempire un contenitore molto, molto grande.
Pensate alle stragi, da quella di piazza Fontana del 1969 in poi, agli assassini impuniti di giornalisti e comunicatori, come Mauro Rostagno, Mauro De Mauro, Giovanni Spampinato, Pippo Impastato e la lettura della lista potrebbe scorrere come un fiume. E poi personaggi dello stato come il generale Della Chiesa, i magistrati Borsellino e Falcone e tantissimi altri. Una ecatombe, come se vivere nel nostro paese da protagonisti, fosse una guerra. Una guerra tra chi vuole cercare e far conoscere la verità e quelli che vogliono impedirlo.

Introduzione

Elicottero Agusta 109La storia che vi racconto qui è basata sulle inchieste che giornalisti coraggiosi e preparati hanno condotto, spulciando tra documenti di ogni tipo. Si tratta prevalentemente di quanto raccolto da Repubblica e l’Espresso, almeno nella prima parte della trasmissione.
Cominciamo dal quadro d’insieme.
Il 2 marzo del 1994, quattro testimoni vedono o sentono una esplosione nel cielo di Capo Ferrato (Sardegna). Come conseguenza sparisce dalla vista un elicottero: è un Agusta A-109 della Guardia di Finanza che sta sorvolando una nave mercantile a poca distanza dalla costa. L'elicottero porta il nome in codice di Volpe 132, ai comandi c'è il brigadiere Fabrizio Sedda; con lui il maresciallo Gianfranco Deriu. L'indagine della Procura di Cagliari non porta a nessuna conclusione. Una nave presente sul luogo della tragedia (il cargo "Lucina") si dilegua subito dopo l’esplosione, per riapparire mesi dopo nel porto algerino di Djendjen ed essere teatro dell'eccidio di sette marinai italiani ad opera, così si dice, di un gruppo di estremisti islamici. A un certo punto, sulla relazione interna della Gdf viene persino opposto il segreto di Stato che i magistrati, insistendo, riescono a far togliere. Il documento risulta, però di una banalità disarmante: la conclusione è che, forse, si è trattato di un incidente ma che, senza relitto, è impossibile dire di più. Perché allora il segreto di stato?

Introduzione

01 minoOggi ci occupiamo dell’assassinio di Mino Pecorelli, ammazzato il giorno prima che cominci la primavera del 1979.
Avviene alla fine di una decade, che di delitti e di sangue ne ha visti a non finire. Alcuni di questi fatti li ho raccontati qui a Noncicredo, tra tutti la prigionia e l’uccisione di Aldo Moro e quella, purtroppo troppo spesso dimenticata, della sua scorta in via Fani nel 1978.
Sono gli anni di piombo che si racchiudono, come dentro due parentesi, tra la strage di Piazza Fontana nel 1969 e quelle di Ustica e di Bologna del 1980. In mezzo ce ne sono altre, con un numero di morti più o meno importante, la bomba in piazza della Loggia a Brescia, quella sull’Italicus, le stragi di Peteano, Gioia Tauro, Questura di Milano.
Anni complicati, difficili, durante i quali la dialettica politica lascia spazio a soluzioni più estreme, quelle definite terrorismo. Terrorismo da entrambe le parti in lizza. Quella di destra e quella di sinistra: i NAR, le BR e tutti gli altri gruppi aderenti ad associazioni più o meno vicine alle estremità delle ideologie delle formazioni politiche presenti in parlamento. Questa almeno è la versione ufficiale. Ma non è solo questo, perché ci sono altri avvenimenti cruciali in quel periodo.

Introduzione

craxiOggi vorrei parlarvi di un personaggio storico, morto nel gennaio del 2000 e responsabile delle sorti del nostro paese prima della fragorosa caduta della prima repubblica all’inizio degli anni ’90.
Vorrei parlare, lo avrete certo capito, di Bettino Craxi.
Prima di cominciare tuttavia sono necessarie alcune premesse fondamentali per togliere di torno eventuali antipatici fraintendimenti.
Personalmente detesto quando si trasforma un delinquente, lo dico in generale non necessariamente nel caso di cui sto per parlarvi, in un santo, semplicemente perché è morto. Capisco perfettamente l’affetto dei suoi cari e dei suoi amici, che cercano sempre di valorizzare gli aspetti positivi del caro estinto. É comprensibile e pienamente giustificabile, ci mancherebbe altro.
Quando però il caro estinto è un personaggio pubblico, magari di quelli importanti, il giochino non può più funzionare, perché esiste una realtà storica alla quale non si può sfuggire.
Nel caso di un politico, le cose diventano più complicate, perché il giudizio sull’operato dei politici non è mai obiettivo, è sempre di parte … per questo l’aggregazione di uomini e donne che seguono un progetto politico si chiama “partito”.
Provate a pensarci e a farvi venire in mente un quesito qualsiasi che riguardi la vita del nostro paese: che so … le riforme scolastiche, le leggi finanziarie, l’atteggiamento verso gli immigrati, le scelte in tema di politica estera, … uno qualsiasi va benissimo. In questa situazione ci sono i seguaci del partito A che pensano bianco, quelli del partito B pensano nero e magari ci sono anche altre posizioni con varie sfumature di grigio. La domanda che uno si deve fare è questa: “siccome il quesito è unico, non possono avere tutti ragione, qualcuno deve per forza avere torto.” Sì, è vero: c’è anche la possibilità che tutti abbiano torto, ma di certo è impossibile che abbiano tutti ragione.

Introduzione

Nella prima parte di questa “storia” (che ripercorriamo super-velocemente) abbiamo visto, tra l’altro, come la Democrazia Cristiana, il partito di cui è presidente Aldo Moro, adotti la politica di non trattare con le Brigate Rosse, come a dire che un morto solo si poteva anche immolare pur di non compromettere lo stato in una trattativa con dei banditi.
Tlettera utto questo sarebbe comprensibile e forse anche condivisibile se le motivazioni profonde fossero proprio queste. Nelle lettere che scrive dal carcere a varie personalità della politica, Moro affronta più volte questo tema, affermando che uno scambio di prigionieri si potrebbe fare. E non lo dice solo perché la vita in gioco questa volta è la sua. Già in altre occasioni (ad esempio nel caso Sossi, il magistrato di destra rapito dalle Brigate Rosse e poi liberato) Moro si era dichiarato favorevole ad uno scambio di prigionieri pur di salvare la vita delle personalità rapite. Queste lettere sono dirette ai vertici della DC, segnatamente al segretario Zaccagnini e al ministro degli interni Cossiga, oltre che all’onorevole Taviani, sempre contrario ad ogni possibile trattativa.
Ma, in questo caso, non si tratta di una presa di posizione per principio, per difendere l’autorevolezza dello stato o la sua verginità. Moro è tra i pochi, assieme ad Andreotti, Cossiga e qualche altro, a conoscere tutti i segreti della politica italiana, che, a dirla tutta, non è stata certo irreprensibile fino ad allora.
Nelle lettere dal carcere, le accuse rivolte al partito per la sua condotta sono molte e precise. Leggere quel memoriale, o quel che ne rimane, facilmente reperibile in rete, è interessante ed istruttivo, altroché se lo è. E’ una lezione di storia vista da dietro le quinte.

Oggi parleremo di uno degli aspetti più controversi del rapimento di Aldo Moro nella primavera del 1978, ma prima di arrivarci facciamo il punto della situazione.
Il 1978, come anno intendo, comincia malissimo. Il 1° gennaio un aereo dell’AIR India esplode in volo non lasciando alcuno scampo ai 213 sfortunati che si trovano a bordo.
Il 7 gennaio vengono uccisi due militanti missini (un terzo lo ucciderà poco dopo la polizia durante le manifestazioni di piazza) il che innesca una sorta di faida che porterà alla morte di Franco e Iaio, militanti di sinistra e frequentatori del Leoncavallo a Milano.
Intanto continuano scelte decisamente poco democratiche (scusate l’eufemismo) da un lato da parte di Pinochet che nega ogni interferenza ONU e blocca ogni tipo di elezione per almeno altri otto anni e dall’altro in Cina, dove il partito comunista proibisce la lettura dei testi di Aristotele, Shakespeare e Charles Dickens.
É l’anno in cui la Francia continua imperterrita le prove di esplosione di ordigni nucleari a Mururoa, quello in cui la guerra tra gli irlandesi dell’IRA e gli inglesi continua a fare stragi, come nel caso delle 12 persone uccise da una bomba a Belfast.
É l’anno dei mondiali di calcio in Argentina, vergognosamente organizzati in un paese preda di una terribile e feroce dittatura, che si porterà via tra i 30 e i 40 mila oppositori o presunti tali, scomparsi nel nulla, appunto desaparecidos.

2 agosto 1980, ore 10,25

bologna02Come ho avuto modo di scrivere più e più volte, quello che leggete in questa sezione è quanto emerge dalle dichiarazioni, dagli interrogatori, dalla varia documentazione disponibile sui vari casi. Pretendere che sia per forza anche la verità non è possibile, dal momento che, con tutti i lati oscuri di ogni vicenda, spesso la verità riposa con protagonisti ormai defunti. Resta tuttavia l’interesse per un mondo che è stato quello del nostro paese e, per molti di noi, il mondo in cui siamo vissuti e cresciuti.
Oggi vorrei raccontarvi la storia di una strage, un odioso attentato che ha provocato molte decine di morti e moltissimi feriti, lasciando, a quasi 40 anni di distanza, una ferita nel nostro paese e nella città dove tutto questo è accaduto, Bologna.
Prima di cominciare, i Pink Floyd e l’annuncio al telegiornale di quel tragico 2 agosto del 1980.

Addio mondo crudele, addio a voi tutti, non c’è niente che possiate dirmi per farmi cambiare idea” cantano i Pink Floyd in uno dei brani di The Wall. Oggi parlerò di questo, della strage alla stazione di Bologna.

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