É il 23 agosto 1977, a Boston il governatore dello stato del Massachusetts, Michael Dukakis pronuncia queste parole: “Io dichiaro che ogni stigma ed ogni onta vengano per sempre cancellati dai nomi di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti. Il processo e l’esecuzione di Sacco e Vanzetti devono ricordarci sempre che tutti i cittadini dovrebbero stare in guardia contro i propri pregiudizi e l’intolleranza verso le idee non ortodosse, con l’impegno di difendere sempre i diritti delle persone che consideriamo straniere per il rispetto dell’uomo e della verità”.
Cinquant’anni prima, il 23 agosto 1927, a Charlestown, la sedia elettrica toglie la vita a Ferdinando Nicola Sacco, 36 anni, e a Bartolomeo Vanzetti, 39 anni, dopo che un tribunale ha decretato la loro condanna a morte. Perché? Quali tremendi reati hanno commesso? Che ci fanno quei due negli Stati Uniti d’America, il paese della giustizia e della libertà. Già … giustizia e libertà … i due italiani, uno pugliese di Torremaggiore, l’altro piemontese di Villafalletto, queste parole le conoscono bene, sono anarchici e quindi … avete visto il video sull’anarchismo?
Cinquant’anni prima, il 23 agosto 1927, a Charlestown, la sedia elettrica toglie la vita a Ferdinando Nicola Sacco, 36 anni, e a Bartolomeo Vanzetti, 39 anni, dopo che un tribunale ha decretato la loro condanna a morte. Perché? Quali tremendi reati hanno commesso? Che ci fanno quei due negli Stati Uniti d’America, il paese della giustizia e della libertà. Già … giustizia e libertà … i due italiani, uno pugliese di Torremaggiore, l’altro piemontese di Villafalletto, queste parole le conoscono bene, sono anarchici e quindi … avete visto il video sull’anarchismo?
La fonte che oggi utilizzo è un libro molto bello, che consiglio vivamente. É scritto da Sandra Bonsanti, già deputata del partito repubblicano negli anni della caduta della prima repubblica. Il titolo è “Il gioco grande del potere”, edito da Chiarelettere nel 2013. Di questo libro cercherò di riassumere alcuni capitoli, i quali, secondo me, rappresentano bene il tema di questa puntata.
Oggi parliamo, infatti, del potere, quello vero, non quello che esce dalle urne di una elezione. Spesso (non sempre si intende) i politici sono solo uomini devoti ad una causa o a qualche capo o a qualche associazione che preme su di loro perché si comportino in un certo modo. Succede, ad esempio, negli Stati Uniti, dove concorrere alle elezioni è molto costoso e, se non sei un miliardario, devi avere alle spalle una serie di sostenitori che finanzino la tua impresa. Il risultato è la nascita dei lobbisti, termine che noi diciamo con un certo disprezzo, ma che, oltre oceano, viene utilizzato in senso neutro, senza dare ad esso alcun peso negativo. La maggior parte dei senatori e dei deputati statunitensi sono lobbisti e quindi gestiscono il potere per conto terzi.
E in Italia? Le cose sono un pochino diverse, ma che dietro molti politici figurino associazioni, imprenditori, società per azioni o qualcosa di peggio come organizzazioni criminali è storia alla quale tutti credono, fin da bambini.
La storia della nostra Repubblica è avvolta da tutto questo. Uso questo verbo, avvolgere, perché quasi mai ci sono le prove di questi legami. Spesso si tratta di dicerie, oppure di dichiarazioni di questo o quel magistrato, dichiarazioni non rilasciate di fronte ad un organo ufficiale come un tribunale, ma ad un giornalista amico, il quale, magari, successivamente viene ammazzato … se avete pensato a Mino Pecorelli ci avete azzeccato in pieno. Ci sono stati, nella storia della prima repubblica, molti uomini che sapevano e hanno taciuto e altrettanti che hanno agito alle spalle della giustizia. Questi uomini appartenevano alla magistratura o alle forze dell’ordine. Il caso dei vertici della guardia di Finanza nello scandalo dei petroli del 1980, che ho raccontato in questa trasmissione ne è un esempio evidente. Non si può tuttavia fare di ogni erba un fascio. Ci sono persone perbene in ogni categoria. Molte di queste hanno cercato di sciogliere quella matassa di informazioni, supposizioni, indizi, per regalarci, se non altro dei brandelli di verità. Questa sera incontreremo entrambe queste tipologie, quelle che nascondono i fatti e quelle che cercano di smascherarli.
Ecco, di questo si occupa questo articolo, del potere nascosto, quel potere che ha fatto la storia, senza apparire sulla scena. Un potere occulto di cui si è avuta testimonianza solo più tardi, quando gli altarini sono stati scoperti o quando qualcuno ha voluto raccontare i fatti.
Molte volte queste confessioni vengono dai cosiddetti pentiti o, se preferite, collaboratori di giustizia. Sono sempre dei criminali, a volte pluriassassini, come quelli di mafia, camorra e ‘ndrangheta. C’è da fidarsi? Non esiste una risposta a questa domanda. Tocca alla magistratura, in quei casi, capire se le rivelazioni sono vere o false, ma quelle dichiarazioni costituiscono sempre un punto di partenza per ulteriori indagini, che a volte riescono a dipanare la matassa. Per questo non possono essere semplicemente lasciate perdere.
Eh già … perché nel nostro paese le cose non sono mai semplici e una storia di crimine si intreccia sempre con un’altra ed un’altra ancora, portando alla convinzione che il marcio è un po’ dappertutto e rimuoverlo riesce troppo complicato. A volte ci si imbatte in nomi o situazioni che è meglio non toccare, perché portarle alla luce creerebbe un danno allo stato, maggiore del delitto su cui si indaga. É successo più di una volta nel nostro paese.
Uno può dire: sì, ma ci sono i processi, quelli danno alla fine una sentenza definitiva, che rappresenta la verità. Anche questo è discutibile per due motivi fondamentali. Se andate in internet e cercate il sito errorigiudiziari.com, scoprirete che gli innocenti condannati in Italia sono circa mille, a volte con la verità che salta fuori dopo molti anni di detenzione e ci sono poi molte altre situazioni per niente chiare. Il secondo motivo ha un nome preciso: prescrizione. Moltissimi processi non sono arrivati a termine perché è scattato il vincolo della prescrizione. Significa che esiste un certo tempo entro il quale il procedimento giudiziario deve arrivare al suo esito finale, altrimenti l’imputato, anche se palesemente colpevole, non può essere dichiarato tale. Uno dei casi più eclatanti è quello del politico Giulio Andreotti, riconosciuto colluso con la Mafia, ma lasciato libero di fare il senatore per prescrizione del reato. E anche il cavaliere di Arcore ha usufruito a piene mani di questo procedimento nei suoi numerosi processi.
Uno dice: ma sono morti entrambi. Vero, ma anche Napoleone è morto eppure si studiano le sue gesta, i suoi meriti e i suoi demeriti, perché questa è la Storia, quella con la S maiuscola. Si cerca di capire cosa è successo, di spiegarne le motivazioni, di capire l’evoluzione che da quei fatti il paese ha avuto e magari si finisce anche per comprendere meglio la situazione attuale.
É tutto, come premessa, adesso possiamo cominciare e ci trasferiamo in Sicilia, ma con un occhio ben aperto sui palazzi romani. La storia che sta per cominciare ha protagonisti eccellenti, nomi molto conosciuti e altri forse meno. L’intreccio di malaffare di cui ci occupiamo è davvero uno dei più grandi bubboni che la nostra repubblica ha dovuto superare, ammesso che l’abbia davvero superato. Parleremo infatti di Antistato, cioè di una organizzazione che ha cercato di sovvertire le regole democratiche da dentro le istituzioni, creando un potere occulto, segreto, poderoso, con associati eccellenti, come vedremo tra poco.
L’Ufficio Affari Riservato era stato creato molti anni prima, anche se nel tempo aveva avuto denominazioni diverse. Si trattava, in soldoni, di un ufficio di spionaggio interno. Mussolini lo aveva voluto per contrastare i sovversivi, nome che i fascisti attribuivano praticamente a tutti gli antifascisti. Ci operava l’OVRA, la polizia segreta del regime e proprio dall’OVRA arrivano i primi dirigenti dell’Ufficio nell’Italia Repubblicana. Già perché chi pensa che alla fine del ventennio i gerarchi fascisti siano semplicemente scomparsi dalla scena è molto, ma molto ingenuo. Tra i ministri che governano nel dopoguerra l’Ufficio ci sono Scelba, Tambroni e Taviani, tutti nomi che chi conosce la storia della repubblica non fatica a catalogare come reazionari. Forse meno conosciuto, Taviani è tra i fondatori di Gladio, tanto per gradire.
Le accuse di Spagnuolo a Mangano, arrivate in Cassazione, portano ad una inchiesta della procura di Firenze, che assolve Mangano da ogni addebito e punisce invece Spagnuolo spostandolo in altra sede, meno importante. Mangano non ci sta e minaccia di fare nomi e cognomi di politici corrotti, sostenendo che il tribunale di Roma è infestato di cimici. Poi le acque un pochino si calmano ed è in questa calma apparente che avviene l’intervista di Bonsanti a Spagnuolo. Siamo a metà degli anni ’70, in piena strategia della tensione, guerriglia tra bande di sinistra e di destra e altre cosucce di cui parleremo tra poco.
Spagnuolo parla di Cosa Nostra come se ci fosse vissuto da sempre. A Palermo, racconta, si dice che tutti i guai italiani cominciano dalla lotta di potere tra due uomini della Democrazia Cristiana: Amintore Fanfani e Giulio Andreotti. Il primo è il segretario del partito, il secondo è da sempre uomo forte di ogni stagione. Nel 1975 è ministro del bilancio nel governo Moro, con l’incarico speciale per gli interventi nel Mezzogiorno. Il divo Giulio ha la splendida idea di nominare come sottosegretario Salvatore Lima, palermitano, entrato in varie inchieste per la sua vicinanza alla mafia, a cominciare dal ruolo giocato come amministratore durante il famigerato sacco di Palermo degli anni ’50 e ’60.
Un altro dei nomi citati da Spagnuolo è quello del veneto Graziano Verzotto. Negli anni ’60 è in Sicilia, mandato da Fanfani a riorganizzare la DC locale. Assieme a imprenditori certo non trasparentissimi come Vito Guarrasi e Domenico La Cavera, costituisce una società pubblica, la Sofis, gestita direttamente dalla Regione autonoma Sicilia. Diventa poi presidente dell’Ente Minerario Siciliano. Compare in molte sporche faccende del periodo che va dai primi anni ’60 al 1975 e che coinvolgono vari boss mafiosi, che frequenta. Secondo molti è accostato alla morte di Enrico Mattei e a quella del giornalista de L’Ora, Mauro De Mauro. Amico di Cefis, subisce vari processi per peculato ed è costretto a rifugiarsi all’estero, prima in Libano e poi a Parigi. Dopo 16 anni torna in Italia ed entra nei processi dei delitti citati. Muore nel 2010.
La fuga di Verzotto, secondo Spagnuolo, è dovuta all’intenzione della mafia di rapirlo e forse di farlo fuori. Probabilmente i soldi sottratti all’Ente Minerario Siciliano, di cui era presidente, non sono arrivati nel posto giusto. La mafia sta cambiando, i vecchi padrini piano piano invecchiano e perdono potere a favore di una nuova generazione, più interessata ai soldi che alle vendette trasversali. Per cui i faccendieri che i soldi a Cosa Nostra invece di consegnarli se li tengono, sono davvero nei guai. Toccherà a molti negli anni seguenti, come ad esempio al banchiere Roberto Calvi. Ma di questo parleremo più avanti.
Spagnuolo ha le idee chiare, in quel 1975, sia sulla morte di Mattei, voluta dai francesi perché credevano fornisse armi agli algerini in rivolta, che su quella di De Mauro, per i motivi già detti. In realtà le cose non erano andate proprio così, perché a fornire le armi agli algerini era Vito Guarrasi. Comunque, le inchieste che si svolgeranno circa un decennio più tardi daranno ragione a molte ipotesi e teorie di Spagnuolo, dimostrando quanto dentro quest’uomo fosse nelle segrete cose di politica e malaffare.
Spagnuolo si spinge addirittura indietro di un quarto di secolo, all’uccisione del bandito Giuliano. Anche della sua vita ho raccontato in questa trasmissione. All’epoca si pensava ad un conflitto a fuoco tra lui e i carabinieri, ma Spagnuolo sa che, in realtà, è stato Luciano Liggio ad ammazzarlo di persona, mentre dopo viene organizzata una messinscena che serve a depistare ogni indagine e costruire una verità falsa, ma di comodo per tutti.
Gli anni passano e la domanda legittima è: chi comanda in quegli anni ’70 alla mafia? Secondo Spagnuolo è un uomo, chiamato “il ragno”, che ha poteri infiniti, quell’uomo è proprio Vito Guarrasi. É la nuova mafia, che sostituisce quella ammirata da Spagnuolo, quella delle regole d’onore, ormai andate a farsi benedire.
Come detto mancano i grandi capi in quel periodo. Il vecchio boss Gambino, quello che ha ispirato i film di Puzo “Il Padrino”, muore a New York nel 1976 e non ci sono luogotenenti all’altezza di un compito così delicato e complesso come la guida di Cosa Nostra.
Le collusioni di Cosa Nostra con appartenenti all’amministrazione dello stato ci sono e arrivano anche molto in alto. Secondo Spagnuolo anche il capo della polizia, Angelo Vicari, ha legami coi boss mafiosi, ma questa è un’altra storia che noi non seguiamo.
Cosa usciva dunque dall’intervista della giornalista Beltrame al procuratore Spagnuolo? Quali scenari potevano essere dipinti o riassunti?.
Un paese, il nostro, che Spagnuolo dipinge come retto da un lato da un potere abbastanza evidente e dall’altro da un potere oscuro, nascosto, segreto, di cui si verrà a conoscenza solo parecchi anni più tardi, negli anni ’80, quando si scoperchierà il bubbone della loggia P2 di Licio Gelli, alla quale lo stesso Spagnuolo è iscritto. Ma non un iscritto qualunque, uno importante, almeno nella visione di Licio Gelli. Nel 1973 a Villa Wanda, la residenza di Gelli nei pressi di Arezzo, il Venerabile Maestro aveva radunato i suoi per un’analisi della situazione. In quella occasione aveva prefigurato un n uovo governo, a capo del quale doveva esserci proprio Carmelo Spagnuolo, supportato dai militari. Insomma un vero e proprio golpe, simile a quello che nel 1967 aveva portato i colonnelli al comando della vicina Grecia. Può darsi che all’epoca dell’intervista, due anni più tardi di quell’incontro con Gelli, l’ipotesi del governo piduista sia tramontata o messa in un cassetto in attesa di tempi migliori.
I piduisti di metà anni ’70 hanno altri pensieri. In cima alla lista c’è la salvezza economica di Michele Sindona, in grave crisi con le sue banche, in primis quella statunitense, la Franklin di New York e poi il crack della Banca privata italiana. Si danno da fare, i piduisti, con Giulio Andreotti in prima linea, per convincere il ministro del tesoro Ugo La Malfa a sostenere il banchiere siciliano, banchiere che aveva rapporti strettissimi con il Vaticano, attraverso lo IOR di Marcinkus, e con la mafia. Ma La Malfa è uno di quei politici strani per il nostro paese, di quelli tutti di un pezzo e rifiuta ogni aiuto a Sindona.
La P2 le tenta tutte. Tra le varie azioni, ecco ritornare da protagonista proprio Carmelo Spagnuolo, il quale vola a New York per evitare l’estradizione del banchiere. Il procuratore dichiara: “Le accuse non sono fondate [..] e Michele Sindona è stato accanitamente perseguitato soprattutto per le sue idee politiche. [..] La situazione politica in Italia è tale per cui non è esagerato pensare che le sinistre non si fermeranno davanti a nulla pur di mettere Sindona con le spalle al muro. [..] L’estradizione non deve essere concessa. […] Data la tensione che oggi regna sono indotto a pensare che Michele Sindona, tornando in Italia, potrebbe correre seri rischi per la sua incolumità personale”.
Concetti simili vengono espressi anche dall’ex capo del controspionaggio inglese in Italia John McCaffery, il cui vero scopo della presenza a Roma è di organizzare una lotta che impedisca la salita dei comunisti nella gestione politica del paese.
Anche Gelli, ovviamente, si prodiga per evitare il ritorno di Sindona in Italia.
Questo insieme di personaggi e tutti i loro adepti e affiliati, rappresentano la destra oscura, quella antidemocratica, che si era venuta formando fin dal primissimo dopoguerra, quando i fascisti di Salò erano stati arruolati dai servizi americani in funzione anticomunista. É la destra di Gladio, delle bombe, degli attentati, della strategia della tensione. Piano piano, si trasforma in qualcosa di altro: una macchina di voti, all’interno della quale si consumano i più feroci duelli per il potere, per i fondi in arrivo dalla CIA, dal Dipartimento di Stato americano. E sullo sfondo, c’è sempre la Sicilia.
Non ci sono solo questi uomini, ce ne sono altri, che fanno domande, che chiedono di capire, di sapere la verità. Questa è ben nascosta e le risposte non ci sono. Ci vorranno anni perché qualcosa trapeli e si cominci a chiarire una parte di quello che è successo. Ma questo lo vedremo tra poco.
Chi è a capo di quella organizzazione illiberale? Lo si scopre proprio quando Licio Gelli si fa avanti per difendere Sindona. Quando il banchiere siciliano si trasferisce in America, cresce, in Italia, l’importanza di un altro banchiere, Roberto Calvi, che diventa il braccio operativo della P2 nel settore degli affari. La storia di Roberto Calvi, che ho raccontato in questa trasmissione, è la prova evidente dei legami tra politici, P2, mafia e delinquenza comune, nel caso specifico la banda della Magliana.
Nel 2012 Totò Riina, il capo dei capi di Cosa Nostra, finisce sotto processo per l’uccisione di Mauro De Mauro e viene assolto perché non ci sono prove sufficienti a condannarlo. Sul Corriere della Sera, Felice Cavallaro scrive: “Trame, congiure e misteri internazionali che nel sequestro De Mauro hanno uno snodo con figure ambigue come quella di Verzotto e di alcuni suoi amici eccellenti, a cominciare da un altro Mister X, Vito Guarrasi, l’avvocato che per se stesso immaginò un epitaffio, perfetto anche per il manager venuto da Padova, Graziano Verzotto: ‘Fu un uomo intelligente e chiacchierato’”.
É un po’ poco per quel ragno malefico, di cui parla Spagnuolo nell’intervista, poco e troppo tardi.
Ritroviamo Francesco Cosentino nel 1955, come consulente del capo dello stato Giovanni Gronchi. Uno dei suoi compiti principali è quello di tenere i rapporti con l’ambasciata americana a Roma. Questa, come detto, è impegnatissima a scegliere e sostenere ora questo ora quel politico democristiano, facendo ben attenzione che sia decisamente anticomunista.
Terminato il settennato di Gronchi, Cosentino torna fare il segretario generale a Montecitorio e molti lo ricordano come un uomo che tenta di ridurre i tempi del dibattito, di snellire le pratiche delle assemblee dei deputati.
Ma dieci anni più tardi eccolo in un’altra veste, anche questa molto importante, ma decisamente non più nello stato, ma in quello che si è soliti definire l’Antistato. É infatti il consigliere più fidato di Licio Gelli. Si sussurra, anche se la questione non è certa, che ci sia la sua mano nella stesura del famoso “Piano di rinascita” il documento programmatico con il quale Licio Gelli voleva rivoltare le carte in tavola e realizzare un governo di destra, come abbiamo già visto nel racconto su Spagnuolo. Anche se Gelli sosterrà che il Piano è stato solo opera sua, non c’è dubbio che Cosentino abbia avuto un ruolo importante nella sua scrittura.
É così che un uomo, vissuto a fianco dei vertici dello Stato, partecipando a momenti storici della nostra storia repubblicana, si trova dall’altra parte, a progettare un colpo di stato, una rivoluzione partita dal cuore stesso delle istituzioni.
Dopo l’uscita di scena da Montecitorio, Cosentino viene supportato – a sentire le sue stesse dichiarazioni - da Licio Gelli che gli è molto vicino. Diventa presidente dei CIGA Hotels, che fanno parte del circuito di Michele Sindona. In questa veste riserva a Gelli due suite a Roma, all’hotel Excelsior, la 126 e la 127, dove avvengono le iniziazioni dei nuovi adepti della P2 e gli incontri del Venerabile con i politici romani.
A Roma, la mafia ha come esattore Pippo Calò, uomo di Stefano Bontate, ma dopo la guerra di mafia passato nelle fila di Totò Riina. Francesco Cosentino ha buoni rapporti con i boss mafiosi, ma di questo si viene a sapere solo anni dopo la morte di Cosentino, avvenuta nel 1985, grazie alla deposizione di un pentito, Angelo Siino.
Ma torniamo al cuore della faccenda, il Piano di Rinascita, scritto probabilmente da Cosentino con l’approvazione di Licio Gelli. Il documento salta fuori nel 1981, quando Maria Grazia Gelli, la figlia del Venerabile, viene perquisita. Ha una valigia e la valigia ha un doppio fondo. Ed eccolo là il documento originale. In realtà, la stampa italiana non prende la questione molto sul serio o, per meglio dire, non dà a quel ritrovamento il peso che avrebbe dovuto avere. Parliamo di giornali importanti e schierati decisamente a sinistra, come Repubblica di Eugenio Scalfari.
Solo molto più tardi, in piena seconda repubblica, durante i governi Berlusconi, quel piano assume il suo vero connotato, quello di una linea politica di destra, vagamente golpista, e tutto il suo rilievo. Eh già … perché alcune delle riforme proposte dalle destre al governo, altro non erano se non le riproposizioni del famigerato Piano di Licio Gelli. Anche su questo avremo modo di tornare.
In realtà il famoso piano del 1976 non è il primo, preceduto com’era dal cosiddetto Schema R, dove la lettera R poteva stare per rivoluzione o risanamento a seconda di chi lo leggeva.
E dunque nel biennio 1974-1976, le idee della P2 sono molto più radicali di quelle successive. Lo Schema R prevede infatti una repubblica presidenziale sostenuta dall’esercito. E, tra le norme, alcune sono davvero notevoli, come ad esempio: la limitazione dei poteri della Corte Costituzionale, la limitazione del diritto di sciopero col divieto totale per pubblici dipendenti, magistrati, studenti e la limitazione dei poteri dei sindacati subordinandoli a un ispettore del lavoro. Infine, che può sembrare una boutade: la “riduzione del numero di quotidiani, settimanali, riviste e altre pubblicazioni a carattere frivolo e scandalistico allo scopo di evitare eccessivi sperperi di cellulosa”.
Prima di proseguire facciamo mente locale al periodo. Sono gli anni in cui il Partito Comunista di Berlinguer ottiene i suoi risultati più clamorosi e il rischio che passi davanti alla Democrazia Cristiana e diventi così papabile per governare non è tanto peregrino. Sono anche gli anni di Moro e dei suoi tentativi di aprire alla sinistra, compreso il Partito Comunista, il governo del paese. É, insomma, il periodo del compromesso storico, così temuto e odiato da destre e americani. Lo Schema pertanto, ha un senso storico, segue un suo schema logico: è la difesa contro l’avanzata importante del Partito Comunista che ormai conta un terzo dei voti.
Entra un nuovo personaggio nel nostro racconto, perché le idee contenute nello Schema R coincidono quasi alla perfezione con quelle di Edgardo Sogno. Lui prima combatte contro i nazifascisti, ma poi cambia bandiera e vuole, se non proprio una monarchia, qualcosa che le assomigli da vicino. Nasce così, assieme al repubblicano Pacciardi, il famoso golpe bianco, una specie di golpe basato non sull’insurrezione armata, ma sul convincimento dei poteri istituzionali di modificare le carte in tavola, Costituzione, assetto governativo, organizzazione del parlamento e così via. Edgardo Sogno suona a molti campanelli, ma non se ne fa niente. É il magistrato Luciano Violante di Torino a scoprire ogni cosa. Di questo golpe, o presunto golpe, non si registra alcuna traccia nei documenti della magistratura. Insomma, è come se non fosse successo nulla. Edgardo Sogno fa parte della P2 ed è questa loggia che appoggia il progetto. Il presidente della repubblica, Giovanni Leone, interpellato da Gelli, non avvalla del tutto le richieste dello Schema. Moro, che avrebbe dovuto controfirmare le decisioni, invece, rifiuta categoricamente ogni coinvolgimento e tutto si ferma là.
Sappiamo che Leone è costretto a dimettersi per i violenti attacchi, soprattutto dei radicali e di Camilla Cederna, per presunte irregolarità nella gestione del suo incarico. Queste irregolarità non sono mai esistite e i radicali si scuseranno molto più tardi di quello che avevano fatto. Leone, che pure non ci sta simpatico per altri fatti, ad esempio il suo comportamento in occasione della tragedia del Vajont, è una vittima di quegli attacchi. Ma la cosa più triste per lui, e anche per noi che commentiamo a decenni di distanza, è la totale indifferenza dei suoi amici di partito, a cominciare dal segretario Zaccagnini e dall’onnipresente Andreotti. Secondo alcuni storici, quelle dimissioni hanno origine più lontane e precisamente nel rifiuto di accettare le idee di Licio Gelli e della P2.
Detto dello Schema R, passiamo adesso ad esaminare il Piano del 1976, quello più famoso.
Molto diverso dal precedente, il Piano di Rinascita si dichiara non violento e intenzionato a rimanere all’interno dei confini della democrazia. Invita tutti, in particolare partiti, sindacati, associazioni a prendere atto che alcuni cambiamenti nella costituzione vanno fatti. Ma quello che il piano non dice è il metodo che sta dietro le intenzioni. La corruzione, le bombe e l’affiliazione dell’intera popolazione che conta nelle liste della P2. Quando nel 1980, Maurizio Costanzo intervista Gelli, questi parla del “fascino discreto del potere nascosto”. Pochi mesi più tardi, nel marzo 1981 i magistrati scoprono e requisiscono gli elenchi e là si capisce la vastità dell’iniziativa, notando come cariche apicali di ogni genere figurino in quell’elenco, dai militari ai politici, dagli imprenditori ai giudici e ai giornalisti. Il giudice Giuliano Turone che, assieme a Gherardo Colombo, sequestra le liste, sottolinea già allora la presenza insistita del termine “sollecitare e sollecitazione”. Con questi termini non si intende evidentemente convincere con le buone maniere. Ma mettere i soggetti nelle condizioni di non poter rifiutare a cuor leggero le avances della P2. É proprio in occasione di quella intervista, da parte di un giornalista peraltro iscritto alla sua loggia, che Gelli si propone, mostra i muscoli, parla tranquillamente di repubblica presidenziale, trovando, tra l’altro, facile terreno in alcuni tra i politici importanti del tempo, come Francesco Cossiga e i vertici socialisti Bettino Craxi e Giuliano Amato. Del resto è quello il momento di forzare i tempi, perché le cose cominciano a scricchiolare anche al di là dell’oceano, con le disavventure bancarie di Sindona.
Le idee di Gelli sono chiaramente esposte in quella terza pagina del Corriere, firmata da Costanzo. Ci vuole una repubblica presidenziale, come quella francese di De Gaulle, una profonda revisione della Costituzione, perfetta per quando era stata redatta subito dopo la guerra, ma ormai lisa e obsoleta. E una spartizione dei poteri tra democristiani e socialisti, uno al Quirinale e l’altro a palazzo Chigi. E non è un caso se i seguaci di Berlusconi, durante il suo regno, abbiano più e più volte cercato di dare una svolta alla De Gaulle alla repubblica e i partiti reazionari, oggi al potere, cerchino di fare altrettanto.
Dunque il Piano di Rinascita è solo un insieme di fogli scritti da Cosentino, ma le intenzioni vere sono quelle di infiltrare ovunque, nei poteri della repubblica, propri uomini: nei servizi segreti, nell’esercito, nella politica, nell’informazione, tutti pronti in attesa del via libera per la conquista del potere vero, quello vero, palese, alla luce del sole. Che questo non sia riuscito è un bene, che non possa succedere ancora è tutto un altro discorso.
Tutto questo potrebbe bastare a colmare di preoccupazione la sua vita di presidente, ma la cosa forse più grave che avviene nei primi anni ’80 è la scoperta di un Antistato, una organizzazione segreta che cerca di rubare forze alla repubblica, per indirizzare diversamente la società italiana. Sì, è vero, ne ho parlato fino ad ora. Si tratta dei progetti eversivi di Licio Gelli, del suo Piano di rinascita, dei legami sottobanco tra varie forze del paese, militari, politiche, amministrative, legate all’informazione, alla produzione industriale e così via.
Un bubbone da estirpare, ma come? Lasciando campo libero ad una DC, in cui sono presenti molti sospettati di essere iscritti alla loggia di Gelli? Affidando ad un laico l’onere di formare un nuovo governo che riesca a spazzare via quella porcheria? Scelte complicate e difficili, in un paese che si regge su equilibri partitici sottili e delicati, nei quali basta spostare una pedina perché tutto il castello crolli.
Pertini non è mai stato uomo dalle mezze misure, non si è mai tirato indietro di fronte a decisioni scomode. Ad esempio aveva rifiutato, da presidente della camera, di firmare un aumento di stipendio degli onorevoli in un momento di crisi economica legata ad una forte inflazione. Da capo dello stato non convalida alcune nomine, ad esempio quella di Umberto Ortolani a Cavaliere del lavoro. Il banchiere Ortolani è stato uomo di vertice di molte operazioni legate sia a Licio Gelli, di cui era il confidente finanziario, che allo IOR di monsignor Marcinkus, insomma legato mani e piedi a una feccia più feccia dell’altra.
Ora arriviamo a marzo 1981, quando, come già detto, nei pressi di Arezzo, nella villa di Gelli, saltano fuori i famosi elenchi degli affiliati alla loggia massonica Propaganda2, cioè P2.
In quei giorni Pertini è in Messico, per una visita ufficiale, ma anche per godere delle bellezze artistiche di quella terra, scalando, con la noncuranza dei suoi 84 anni, le piramidi maya. Le notizie arrivano in America centrale col contagocce, per cui né il presidente, né i diversi giornalisti al seguito, tra cui Ezio Biagi e Sandra Bonsanti, il cui libro sto seguendo, possono chiaramente capire cosa stia accadendo a Roma e di che portata sia la scoperta appena fatta.
Le prime ipotesi parlano di 500 clienti di Sindona, quei clienti privilegiati che hanno trasportato in Svizzera montagne di denaro, fatto illecito grave, da codice penale. Che sarebbe già stata una scoperta notevole. Solo un mese più tardi si viene a sapere la verità e cioè che quei 500 eletti sono in realtà i nomi più importanti degli affiliati alla loggia segreta di Licio Gelli. Ho già ricordato che i giudici responsabili dell’inchiesta sono Gherardo Colombo e Giuliano Turone. Loro sì sapevano tutto, ma ancora le informazioni ai mezzi di comunicazione si basano solo su indiscrezioni dal palazzo di giustizia di Milano o dalla commissione Sindona, che però non conosce ancora gli ultimi elementi che i due giudici hanno scoperto.
A proposito di anni difficili, anche il 1981 non se la cava male. Nel mese di maggio Alì Agca spara al papa polacco; a Napoli le brigate rosse rapiscono Ciro Cirillo e riempiono la stampa di ultimatum. Come nei casi Moro e D’Urso, il fronte politico si spacca tra quelli che vogliono trattare con le BR per salvare la vita di Cirillo e quelli che “non se ne parla nemmeno”. In particolare a muoversi verso un accordo coi brigatisti è la Democrazia Cristiana, rappresentata, nel caso, dal trentino Flaminio Piccoli e dal napoletano Antonio Gava. Uno dice: che c’è di male? Di male ci sono due cose. La prima è la resa dello stato di diritto di fronte a degli assassini e la seconda che come intermediario viene scelto nientemeno che don Raffaele Cutolo, il capo della Camorra. Ed è, inoltre, curioso come il partito di maggioranza sia disposto a concedere per un assessore alla pubblica edilizia molto più di quello che poteva concedere per Aldo Moro, il che testimonia, una volta di più quanto poco la DC tenesse a riavere tra le sue fila lo statista pugliese.
Il presidente del consiglio è Arnaldo Forlani. Lui riceve gli elenchi il 25 marzo 1981, ma non li pubblica, ha paura, evidentemente quei nomi possono provocare un terremoto nella politica del paese. Così continuano ad essere resi noti piccoli brandelli, qualche nome qua e là, senza alcuna documentazione certificatoria. Licio Gelli è latitante, probabilmente in Argentina, ospite dell’ammiraglio Massera, uno degli assassini a capo della giunta militare, quella delle migliaia di desaparecidos, di cui anche qui a NSSI abbiamo parlato. Gelli tenta depistaggi e fa nomi improponibili, come quello di Berlinguer e di altri comunisti, che con la loggia niente hanno a che fare. La storia non finisce qui, ma la storia non finisce certo qui: di cose da raccontare ce ne sono ancora tante.
Anni più tardi, Flaminio Piccoli, racconterà che il timore più grande era legato alla presenza di un nome in particolare, quello di Giulio Andreotti, carissimo amico di Licio Gelli. É il presidente del Senato Amintore Fanfani a spingere il premier a pubblicare gli elenchi, benché tutti o quasi i notabili democristiani avevano là dentro amici o collaboratori.
La reazione dei politici è curiosamente costante nel tempo, come accaduto durante il regno di Berlusconi e ora con le strane novità legali di Nordio. Anche allora, anziché prendersela con quei mariuoli che fanno parte di una associazione eversiva, se la prendono con i giudici, adducendo motivi i più vari, infondati e spesso ridicoli. I più scandalizzati sono i socialisti: per loro lo scandalo non è la P2, ma la magistratura. A ben guardare hanno ragione di reagire così, visto cosa poi è successo circa dieci anni più tardi con tangentopoli e mani pulite.
Pochi personaggi rilasciano dichiarazioni preoccupate, come il liberale Bozzi, che si rivelerà una colonna della commissione parlamentare. Lui dice: «Tra terrorismo, illeciti e corruzione la Repubblica scricchiola».
La stampa non è da meno. In una assemblea al Corriere della sera, qualcuno dice “Abbiamo il 40% della proprietà in galera, l’altro 60% nelle liste della P2”. Il riferimento è a Calvi in carcere e ai piduisti Franco Di Bella, direttore, Angelo Rizzoli, presidente e maggior azionista e Bruno Tassan Din direttore generale.
L’esercito è ben rappresentato: 54 generali, 41 colonnelli, 57 ufficiali superiori, 46 capitani sono iscritti alla loggia. La decisione finale su di loro spetta a Pertini, nella sua veste di capo supremo delle forze armate.
Ci sono smentite, come quella di Cicchitto, socialista. La DC ha 19 parlamentari nelle liste. Il loro destino è demandato ad una commissione di cinque saggi. Il settimanale del partito anticipa la sentenza: ci vuole fermezza e severità, per recuperare un po’ di dignità.
Il segretario socialdemocratico Pietro Longo fa fuoco e fiamme, ma anche lui è iscritto, come 5 dei suoi parlamentari. Ci sono 9 socialisti, 3 del Partito Repubblicano, 3 del partito liberale e 4 del Movimento sociale di Giorgio Almirante.
É un guazzabuglio del quale non si riesce a capire il senso. Là dentro ci sono tutti: vecchi nemici, alleati temporanei, sostenitori da sempre e questo impedisce di dare una risposta alla domanda principale: “A chi serve tutto questo?”.
Dalle mille pagine dei documenti trovati nella villa di Arezzo, saltano fuori, oltre ai nomi, anche le modalità di iscrizione, le domande curiose e soprattutto due elementi fondamentali: la richiesta di denaro per finanziare l’organizzazione e la citazione “il silenzio è d’oro”, emblema della assoluta segretezza che doveva regnare.
Cosa succede poi? Occorre cambiare registro, subito e in modo ben visibile. Lo vuole il popolo, e anche quella parte di politica che crede nelle istituzioni e nella democrazia. Si chiede al presidente Pertini di intervenire … quante volte lo ha fatto, anche al di là dei suoi effettivi poteri. Cosa può fare Pertini? Ad esempio cambiare il dominio secolare della Democrazia Cristiana, toglierle il monopolio, il diritto inalienabile di avere il primo ministro, come se fosse una legge critta da qualche parte. Nominare un laico alla presidenza del Consiglio. In quegli anni sembra quasi una bestemmia!.
A proposito del Corriere della Sera, il direttore Di Bella, durante un’assemblea coi suoi giornalisti cerca di spiegare come sono andate le cose. Dei tre incontri avuti con Gelli, ricorda l’ultimo, durante il quale il Venerabile lo minaccia di fargli perdere il posto se non avesse licenziato Enzo Biagi, reo di aver fatto una trasmissione sulla massoneria. Biagi resterà al suo posto, Di Bella dovrà dimettersi. É curioso il fatto che molti anni più tardi, ci sarà il famoso editto bulgaro, quando Berlusconi da Sofia, accusa Biagi di aver fatto un “uso criminoso”, queste le testuali parole, della televisione. E i servi della RAI provvedono a licenziare Enzo Biagi, il più illuminato giornalista che l’Italia moderna possa annoverare. Retaggio della P2? Vendetta di un uomo piccolo che si crede un gigante? Altro capitolo di un potere occulto?.
Chissà? Ma resta il fatto che non si riesce a capire chi ha vinto e chi ha perso … poi però incontriamo un altro personaggio, un filosofo, Norberto Bobbio e il prossimo capitolo è dedicato a lui. .
Ma torniamo agli anni ’80. Lui scrive per La Stampa e ha pubblicato articoli sul “potere invisibile” e parla in termini molto preoccupati del segreto, come di qualcosa che può danneggiare la democrazia italiana.
Ecco, sono proprio gli articoli di Bobbio, quelli che rendono più chiaro di ogni altro, cosa sta succedendo al paese. Nei giorni in cui le liste della P2 vengono rese note, Bobbio scrive un articolo che sembra scritto da uno che è dentro le cose segrete che nessuno conosce. Lui parla di due livelli di sottogoverno, in due livelli diversi di segretezza. Quello più profondo è popolato dai servizi segreti, dal controspionaggio, da affaristi di ogni genere, il cui scopo non è tanto quello di rovesciare il governo legittimo del paese, quanto quello di usare metodi non leciti per aggirare o violare impunemente le leggi. É letteralmente schifato, Bobbio, leggendo tutti quei nomi importanti, uniti solo dal desiderio di acquisire potere, un potere segreto. Questo tipo di organizzazioni, dice, sono quelle che vogliono controllare lo stato, senza essere controllate. La cosa più grave, tuttavia, non è nell’esistenza di questo potere occulto, ma nel fatto che le forze sane, che pure ci sono, non facciano niente e la scoperta venuta a galla venga nascosta sotto il tappeto come la polvere. Un’indicazione chiara, chiarissima mandata direttamente alle forze politiche e alle commissioni parlamentari perché si decidano a prendere la strada giusta.
Il 25 maggio dalla riunione dei garanti della DC, arriva il messaggio che o si è democristiani o massoni. Il risultato finale è che Forlani, ancora presidente del consiglio, rimette nelle mani di Pertini il suo mandato. Si parla di un governo istituzionale, che però trova la strada sbarrata da Giovanni Spadolini, che lo definisce “una bara per la repubblica”, ma soprattutto dal leader socialista Bettino Craxi, del quale vengono riferite frasi poco concilianti verso i vertici DC e decisamente ostili alla magistratura. La lettura che viene data da molti storici dell’atteggiamento di Craxi, riguarda i suoi rapporti con alcuni dei personaggi di queste vicende. Lo stesso Licio Gelli non si farà scrupolo di indicare proprio nel politico milanese l’uomo giusto da mettere al comando. Inoltre Craxi è preoccupato per l’arresto di Calvi, che potrebbe raccontare molte vicende legate a finanziamenti occulti e pertanto proibiti al suo partito e anche a se stesso. Tutto questo ha uno scopo piuttosto chiaro: Bettino vuole per se stesso l’incarico di formare il governo da parte di un suo compagno di partito, quel Sandro Pertini, che non ha mai visto di buon occhio la carriera rampante di Craxi, dal quale lo dividono metodi e anche posizioni politiche all’interno del Partito Socialista. Nel partito, tuttavia, ci sono uomini che ne combinano di tutti i colori, come De Michelis e Formica, che sparano ai quattro venti il desiderio non tanto nascosto di un governo Craxi. Dunque la faccenda è nelle mani di Pertini, il cui percorso politico è sempre stato osteggiato da Craxi. Il presidente aveva poi rapporti frequenti con Enrico Berlinguer, il quale chiedeva semplicemente la fine di quell’andazzo, perché “ … si sono ormai consumati tutti i margini per la permanenza alla guida del paese di un tipo di personale politico gran parte del quale non dà più garanzie. Ci si deve convincere che ciò che è durato per più di trent’anni non può più durare ancora. È necessario un governo di alternativa democratica”.
Mentre Forlani cerca di ripristinare un proprio governo, Norberto Bobbio cala altri assi, scrivendo che non è ammissibile che, di fronte a questa scoperta, i ministri non vengano subito cacciati e si provveda immediatamente ad un governo di galantuomini, che sappiano difendere la costituzione e il paese.
… Subito, immediatamente … ma ancora non è cambiato niente.
Quello che invece succede è che tutti cercano di correre ai ripari, di inventare scuse, come Piccoli che accusa l’intera massoneria di chissà quali delitti, soprattutto di voler far fuori la Democrazia Cristiana.
A Sandra Bonsanti viene richiesto un articolo su Licio Gelli: facci capire chi è, le chiede il direttore. La Stampa pubblica a nove colonne il suo pezzo dal titolo: “La storia di Gelli, da Salò alla Loggia P2”. E dentro c’è tutto, anche cose che ancora non si conoscono come alcuni nomi trovati tra i centomila foglietti nella villa ad Arezzo. Ad esempio quello di Ugo Zilletti, vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura, con a fianco un’indicazione: Unione delle Banche Svizzere e una cifra: 850 milioni. É solo un esempio, uno dei tanti, che dimostra come la classe non solo politica ma dirigente del nostro paese sia dentro una rete che non si sa quanto sia vasta, perché nessuno sa se quegli elenchi siano completi o solo una parte di quelli reali.
Così si arriva all’assegnazione da parte di Pertini del mandato a Spadolini. É il segretario di un partito che non conta nulla, ha appena il 3% dei voti, ma è sempre stato fedele alla DC, non ha mai creato fastidio. C’è molta attesa, anche da parte dei Comunisti. Gerardo Chiaromonte lo scrive su Rinascita: il nostro tipo di opposizione potrà essere diverso a seconda di come il governo verrà formato, di quale programma intende adottare. C’è insomma la disponibilità ad essere sempre fieri avversari, ma più morbidi, vista la melma maleodorante che imbratta la nostra classe politica.
Poi si arriva alla fiducia e ci si accorge che il governo è formato soprattutto da democristiani e che il famigerato manuale Cencelli, che divide le cariche in base alla forza delle correnti, è stato perfettamente seguito. Non è cambiato niente, solo la forma di un presidente non democristiano, mentre il potere, quello vero, non ha mai cambiato padrone.
La sola consolazione è che nel governo non ci sono ministri piduisti, che torneranno, oh se torneranno, ministri che giurano nelle mani di un uomo onesto e baluardo della democrazia e della sacralità della repubblica.
Abbiamo visto la preoccupazione di Craxi per la pubblicazione dei documenti di Licio Gelli rinvenuti nella sua villa di Arezzo. E aveva ben ragione di essere preoccupato. Infatti … qui dobbiamo fare un piccolo passo indietro e mettere in mezzo di nuovo uno dei personaggi chiave della faccenda, Roberto Calvi.
Siamo all’inizio di luglio del 1981, quando tre giudici che seguono l’inchiesta sulla P2, incontrano Calvi e il suo legale in carcere per interrogare il banchiere. Ci stanno sei ore. Cercano di sapere sui finanziamenti illeciti al partito socialista. Si tratta di una apertura di credito di 21 milioni di dollari fatta dal piduista Umberto Ortolani attraverso una banca uruguaiana a favore del partito socialista. Ma per quale motivo? Per avere che cosa in cambio? E chi era, fisicamente, il beneficiario di tutti quei soldi?.
Calvi viene suicidato prima che si arrivi a conoscere tutti i particolari. Ne parla però la sua vedova, rivolgendosi con diverse telefonate proprio alla giornalista Bonsanti, il cui libro stiamo seguendo.
Quei soldi, le aveva confidato il marito appena uscito dal carcere, dovevano servire per la formazione del governo Cossiga. In sostanza ai socialisti va una cifra per permettere la formazione di un governo, nel quale sono presenti anche loro rappresentanti. É il famoso governo in cui ci sono tre ministri e cinque sottosegretari iscritti alla P2. I socialisti sono fuori dalla maggioranza da almeno sei anni. Sono questi i tempi delle tangenti, quelle dell’Eni che, attraverso una triangolazione Eni-Ambrosiano-Psi, vanno ad arricchire le casse di Bettino Craxi. Quella deposizione ha talmente turbato Calvi, che, nella notte, cerca di suicidarsi ingoiando un tubetto di barbiturici. Una mossa che qualcuno attribuisce al suo stato d’animo, altri parlano di una messa in scena per stimolare un po’ di pietà nei suoi confronti. Di amici ne sono rimasti davvero pochi: Gelli è latitante, gli restano pochi politici, come Flaminio Piccoli democristiano e il capo socialista Bettino Craxi. Attorno a lui una morsa si chiude sempre più, una morsa fatta di minacce e ricatti. Da un lato c’è il Vaticano, con i suoi sporchissimi affari: riciclaggio dei soldi più sporchi che mai che arrivano da rapine, spaccio di droga e altre cosette simili portate a termine dalla banda della Magliana e dalle mafie. Calvi, fino a poco prima gestore del Banco Ambrosiano, quelle vicende le conosce tutte e se avesse parlato ….
Dall’altro lato c’è la mafia, quella rappresentata a Roma da Pippo Calò, che si serve come manovalanza di avanzi da galera come quelli della Magliana, ma non disdegna di mandare a Londra due camorristi per far fuori il povero Roberto Calvi.
É proprio in occasione della discussione sul primo governo laico, quello di Spadolini, che in aula entra di forza la questione Calvi. Spadolini è un teorico, forse fuori dal grande giro delle mazzette, visto il minimo potere del suo piccolo partito. Presenta il lavoro che lo aspetta con quattro grandi temi. Il primo è la questione morale, all’interno della quale si colloca lo scioglimento della P2, con un provvedimento opportuno figlio dell’articolo 18 della Costituzione, che proibisce la costituzione di associazioni segrete. Ora, qualcuno potrebbe ribadire: “Ma come? Se le società segrete sono vietate dalla Costituzione, a cosa serve una nuova normativa al riguardo?” Il fatto è che in quel periodo ancora si discute, pensate un po’, se la P2 sia o non sia una società segreta.
A parlare di Calvi intervengono tre personaggi importanti di quell’aula: i due già citati Piccoli e Craxi ed il segretario dei socialdemocratici Pietro Longo. Da questi interventi si può estrarre: la preoccupazione per la sorte di Calvi e l’attacco ai giudici che non devono occuparsi di questione politiche, come se i ladri seduti in parlamento potessero essere diversi dai ladri della strada. L’intervento di Longo ha due scopi precisi. Il primo quello di tutelare tutti i piduisti che non sapevano cosa facevano (lui stesso è iscritto con la tessera 2223) e poi cala una domanda ai suoi colleghi: “Per conto di chi lavora questo signor Gelli? Vi sono palesi contraddizioni nel suo percorso».
L’intervento diventa allucinante quando paragona la situazione attuale a quella del codice Rocco durante il fascismo, con la proposta di Mussolini di sciogliere la massoneria tout court.
Ed infine si scaglia contro la magistratura, rivolgendosi direttamente a Spadolini, perché nel suo discorso non c’è niente che regolamenti le funzioni dei magistrati. Chiede la separazione delle carriere, come avverrà da allora fino ad oggi da parte di tutti gli schieramenti di destra. Vuole sapere quali accordi ci sono stati tra Spadolini e i vertici della magistratura prima di formare il governo. Ingrao, a nome dei comunisti, cade dalle nuvole: quali accordi? A che scopo? Quale regolamentazione dei giudici e dei pubblici ministeri?.
Ma il carico da 90 arriva dall’intervento seguente, quello di Bettino Craxi. É una filippica vera e propria contro i magistrati milanesi che hanno messo le manette ai polsi di uomini eccellenti della finanza, rischiando di creare un disastro nella borsa. Strana preoccupazione, che sarà evidente dieci anni più tardi quando le manette stringeranno i suoi polsi per quelle stesse procedure anomale di cui i magistrati parlano nei loro rapporti a proposito di Calvi, Sindona e compagnia bella.
É poi il turno di Piccoli, che ribadisce i concetti espressi da Craxi, arrivando a chiedere che sia il ministro della giustizia ad assumere poteri che possano evitare situazioni come quella attuale. Una specie di piccolo dittatore insomma a capo della giustizia.
A questo duro attacco rispondono Spadolini, parte della DC non dorotea e i comunisti, creando un asse di difesa della magistratura che durerà nel tempo, perché gli attacchi continueranno e saranno spesso sponsorizzati proprio da chi ha qualcosa da nascondere anche se siede tra i banchi del parlamento.
Ora attenzione! Qui non si tratta di dire chi ha ragione e chi torto. La Storia è storia, racconta fatti accaduti, passati, sui quali non si può tornare indietro e modificarli. Purtroppo in questi casi ognuno ha il proprio punto di vista, legato alla sua fede politica, alle sue personali esperienze di vita ed essere tutti d’accordo semplicemente non si può.
Quello che vale la pena di registrare è che i discorsi dei tre parlamentari seguono passo passo le indicazioni sulla giustizia contenute nel Piano di Rinascita di Licio Gelli, il vademecum, la bibbia di quella associazione, che tutti, anche loro tre, chiedono di eliminare.
Ci sono poi strane coincidenze su cui riflettere. La scoperta del Piano di Rinascita avviene il 4 luglio 1981, quando la figlia di Gelli viene fermata in aeroporto e si scopre il doppio fondo della sua valigia. Come mai proprio allora? E da chi era arrivata ai giudici Turone e Colombo l’informazione su Maria Grazia Gelli? E come mai in un momento in cui il governo Spadolini è appena formato e ancora si discuteva sul da farsi a proposito della giustizia?.
Qualcuno, come Turone, sospetta che sia stata una mossa dello stesso Licio Gelli per serrare le fila dei suoi affezionati iscritti, per mandare un messaggio al nuovo governo, che quelle erano le linee da seguire.
Spadolini sa di non aver molto tempo, sa che la loggia P2 non è affatto sconfitta e che avrebbe in qualche modo deciso della sua fine come presidente del consiglio. Le sue priorità sono di sciogliere definitivamente la loggia e di far rientrare dall’Uruguay il corposo archivio di Licio Gelli. Riesce ad ottenere solo il primo risultato. Una parte degli incartamenti di Gelli arrivano solo quando a palazzo Chigi ci sono inquilini meno curiosi e sicuramente più benevoli nei suoi confronti. I premier successivi a Spadolini sono, nell’ordine, Amintore Fanfani e Bettino Craxi. Poi della P2 non arriva più niente
Oggi parliamo, infatti, del potere, quello vero, non quello che esce dalle urne di una elezione. Spesso (non sempre si intende) i politici sono solo uomini devoti ad una causa o a qualche capo o a qualche associazione che preme su di loro perché si comportino in un certo modo. Succede, ad esempio, negli Stati Uniti, dove concorrere alle elezioni è molto costoso e, se non sei un miliardario, devi avere alle spalle una serie di sostenitori che finanzino la tua impresa. Il risultato è la nascita dei lobbisti, termine che noi diciamo con un certo disprezzo, ma che, oltre oceano, viene utilizzato in senso neutro, senza dare ad esso alcun peso negativo. La maggior parte dei senatori e dei deputati statunitensi sono lobbisti e quindi gestiscono il potere per conto terzi.
E in Italia? Le cose sono un pochino diverse, ma che dietro molti politici figurino associazioni, imprenditori, società per azioni o qualcosa di peggio come organizzazioni criminali è storia alla quale tutti credono, fin da bambini.
La storia della nostra Repubblica è avvolta da tutto questo. Uso questo verbo, avvolgere, perché quasi mai ci sono le prove di questi legami. Spesso si tratta di dicerie, oppure di dichiarazioni di questo o quel magistrato, dichiarazioni non rilasciate di fronte ad un organo ufficiale come un tribunale, ma ad un giornalista amico, il quale, magari, successivamente viene ammazzato … se avete pensato a Mino Pecorelli ci avete azzeccato in pieno. Ci sono stati, nella storia della prima repubblica, molti uomini che sapevano e hanno taciuto e altrettanti che hanno agito alle spalle della giustizia. Questi uomini appartenevano alla magistratura o alle forze dell’ordine. Il caso dei vertici della guardia di Finanza nello scandalo dei petroli del 1980, che ho raccontato in questa trasmissione ne è un esempio evidente. Non si può tuttavia fare di ogni erba un fascio. Ci sono persone perbene in ogni categoria. Molte di queste hanno cercato di sciogliere quella matassa di informazioni, supposizioni, indizi, per regalarci, se non altro dei brandelli di verità. Questa sera incontreremo entrambe queste tipologie, quelle che nascondono i fatti e quelle che cercano di smascherarli.
Ecco, di questo si occupa questo articolo, del potere nascosto, quel potere che ha fatto la storia, senza apparire sulla scena. Un potere occulto di cui si è avuta testimonianza solo più tardi, quando gli altarini sono stati scoperti o quando qualcuno ha voluto raccontare i fatti.
Molte volte queste confessioni vengono dai cosiddetti pentiti o, se preferite, collaboratori di giustizia. Sono sempre dei criminali, a volte pluriassassini, come quelli di mafia, camorra e ‘ndrangheta. C’è da fidarsi? Non esiste una risposta a questa domanda. Tocca alla magistratura, in quei casi, capire se le rivelazioni sono vere o false, ma quelle dichiarazioni costituiscono sempre un punto di partenza per ulteriori indagini, che a volte riescono a dipanare la matassa. Per questo non possono essere semplicemente lasciate perdere.
Eh già … perché nel nostro paese le cose non sono mai semplici e una storia di crimine si intreccia sempre con un’altra ed un’altra ancora, portando alla convinzione che il marcio è un po’ dappertutto e rimuoverlo riesce troppo complicato. A volte ci si imbatte in nomi o situazioni che è meglio non toccare, perché portarle alla luce creerebbe un danno allo stato, maggiore del delitto su cui si indaga. É successo più di una volta nel nostro paese.
Uno può dire: sì, ma ci sono i processi, quelli danno alla fine una sentenza definitiva, che rappresenta la verità. Anche questo è discutibile per due motivi fondamentali. Se andate in internet e cercate il sito errorigiudiziari.com, scoprirete che gli innocenti condannati in Italia sono circa mille, a volte con la verità che salta fuori dopo molti anni di detenzione e ci sono poi molte altre situazioni per niente chiare. Il secondo motivo ha un nome preciso: prescrizione. Moltissimi processi non sono arrivati a termine perché è scattato il vincolo della prescrizione. Significa che esiste un certo tempo entro il quale il procedimento giudiziario deve arrivare al suo esito finale, altrimenti l’imputato, anche se palesemente colpevole, non può essere dichiarato tale. Uno dei casi più eclatanti è quello del politico Giulio Andreotti, riconosciuto colluso con la Mafia, ma lasciato libero di fare il senatore per prescrizione del reato. E anche il cavaliere di Arcore ha usufruito a piene mani di questo procedimento nei suoi numerosi processi.
Uno dice: ma sono morti entrambi. Vero, ma anche Napoleone è morto eppure si studiano le sue gesta, i suoi meriti e i suoi demeriti, perché questa è la Storia, quella con la S maiuscola. Si cerca di capire cosa è successo, di spiegarne le motivazioni, di capire l’evoluzione che da quei fatti il paese ha avuto e magari si finisce anche per comprendere meglio la situazione attuale.
É tutto, come premessa, adesso possiamo cominciare e ci trasferiamo in Sicilia, ma con un occhio ben aperto sui palazzi romani. La storia che sta per cominciare ha protagonisti eccellenti, nomi molto conosciuti e altri forse meno. L’intreccio di malaffare di cui ci occupiamo è davvero uno dei più grandi bubboni che la nostra repubblica ha dovuto superare, ammesso che l’abbia davvero superato. Parleremo infatti di Antistato, cioè di una organizzazione che ha cercato di sovvertire le regole democratiche da dentro le istituzioni, creando un potere occulto, segreto, poderoso, con associati eccellenti, come vedremo tra poco.
Carmelo Spagnuolo, la Sicilia, Cosa Nostra
Cominciamo la nostra storia con una frase che andrà spiegata nel corso della puntata. La pronuncia il procuratore generale Carmelo Spagnuolo, intervistato da Sandra Bonsanti nel 1975 e dice: “Tutte le storie italiane cominciano in Sicilia”. Carmelo Spagnuolo è stato un magistrato tra i maggiori conoscitori delle cose di mafia e dei legami tra questa e i poteri politici dello stato. Lui, si diceva, ne sapeva tante di cose, anche su alcuni omicidi eccellenti, quello di Enrico Mattei, anche se all’epoca si pensava fosse stato un incidente e quello del giornalista Mauro de Mauro, al quale ho dedicato una puntata di questa trasmissione. De Mauro viene ucciso, con ogni probabilità, dalla banda della Magliana su incarico forse della politica o forse della mafia o forse di tutte e due, perché aveva scoperto che la fine di Mattei non era affatto dovuta ad un incidente aereo molto misterioso. E conosceva, Spagnuolo, molti intrecci innominabili all’epoca. Nel gennaio del 1974 suscita enorme scalpore una sua intervista al “Mondo”, uno dei giornali importanti del periodo. Ecco le sue frasi più significative: “Stavamo per emettere un mandato di cattura contro il questore Angelo Mangano e per far saltare il castello di interessi e coperture che lo proteggono. Bisogna far pulizia nella polizia .. La corruzione ha cominciato a prendere piede alla fine degli anni Cinquanta, all’epoca del governo Tambroni. Adesso non è facile estirparla. Perché aver creato al Viminale un ufficio Affari riservati e affidare a esso la trattazione di materie delicate significa allestire un meccanismo di ricatti. Non solo il vertice, ma gli uffici intermedi prima o poi non sfuggono alla lusinga di servirsene.L’Ufficio Affari Riservato era stato creato molti anni prima, anche se nel tempo aveva avuto denominazioni diverse. Si trattava, in soldoni, di un ufficio di spionaggio interno. Mussolini lo aveva voluto per contrastare i sovversivi, nome che i fascisti attribuivano praticamente a tutti gli antifascisti. Ci operava l’OVRA, la polizia segreta del regime e proprio dall’OVRA arrivano i primi dirigenti dell’Ufficio nell’Italia Repubblicana. Già perché chi pensa che alla fine del ventennio i gerarchi fascisti siano semplicemente scomparsi dalla scena è molto, ma molto ingenuo. Tra i ministri che governano nel dopoguerra l’Ufficio ci sono Scelba, Tambroni e Taviani, tutti nomi che chi conosce la storia della repubblica non fatica a catalogare come reazionari. Forse meno conosciuto, Taviani è tra i fondatori di Gladio, tanto per gradire.
Le accuse di Spagnuolo a Mangano, arrivate in Cassazione, portano ad una inchiesta della procura di Firenze, che assolve Mangano da ogni addebito e punisce invece Spagnuolo spostandolo in altra sede, meno importante. Mangano non ci sta e minaccia di fare nomi e cognomi di politici corrotti, sostenendo che il tribunale di Roma è infestato di cimici. Poi le acque un pochino si calmano ed è in questa calma apparente che avviene l’intervista di Bonsanti a Spagnuolo. Siamo a metà degli anni ’70, in piena strategia della tensione, guerriglia tra bande di sinistra e di destra e altre cosucce di cui parleremo tra poco.
Spagnuolo parla di Cosa Nostra come se ci fosse vissuto da sempre. A Palermo, racconta, si dice che tutti i guai italiani cominciano dalla lotta di potere tra due uomini della Democrazia Cristiana: Amintore Fanfani e Giulio Andreotti. Il primo è il segretario del partito, il secondo è da sempre uomo forte di ogni stagione. Nel 1975 è ministro del bilancio nel governo Moro, con l’incarico speciale per gli interventi nel Mezzogiorno. Il divo Giulio ha la splendida idea di nominare come sottosegretario Salvatore Lima, palermitano, entrato in varie inchieste per la sua vicinanza alla mafia, a cominciare dal ruolo giocato come amministratore durante il famigerato sacco di Palermo degli anni ’50 e ’60.
Un altro dei nomi citati da Spagnuolo è quello del veneto Graziano Verzotto. Negli anni ’60 è in Sicilia, mandato da Fanfani a riorganizzare la DC locale. Assieme a imprenditori certo non trasparentissimi come Vito Guarrasi e Domenico La Cavera, costituisce una società pubblica, la Sofis, gestita direttamente dalla Regione autonoma Sicilia. Diventa poi presidente dell’Ente Minerario Siciliano. Compare in molte sporche faccende del periodo che va dai primi anni ’60 al 1975 e che coinvolgono vari boss mafiosi, che frequenta. Secondo molti è accostato alla morte di Enrico Mattei e a quella del giornalista de L’Ora, Mauro De Mauro. Amico di Cefis, subisce vari processi per peculato ed è costretto a rifugiarsi all’estero, prima in Libano e poi a Parigi. Dopo 16 anni torna in Italia ed entra nei processi dei delitti citati. Muore nel 2010.
La fuga di Verzotto, secondo Spagnuolo, è dovuta all’intenzione della mafia di rapirlo e forse di farlo fuori. Probabilmente i soldi sottratti all’Ente Minerario Siciliano, di cui era presidente, non sono arrivati nel posto giusto. La mafia sta cambiando, i vecchi padrini piano piano invecchiano e perdono potere a favore di una nuova generazione, più interessata ai soldi che alle vendette trasversali. Per cui i faccendieri che i soldi a Cosa Nostra invece di consegnarli se li tengono, sono davvero nei guai. Toccherà a molti negli anni seguenti, come ad esempio al banchiere Roberto Calvi. Ma di questo parleremo più avanti.
Spagnuolo ha le idee chiare, in quel 1975, sia sulla morte di Mattei, voluta dai francesi perché credevano fornisse armi agli algerini in rivolta, che su quella di De Mauro, per i motivi già detti. In realtà le cose non erano andate proprio così, perché a fornire le armi agli algerini era Vito Guarrasi. Comunque, le inchieste che si svolgeranno circa un decennio più tardi daranno ragione a molte ipotesi e teorie di Spagnuolo, dimostrando quanto dentro quest’uomo fosse nelle segrete cose di politica e malaffare.
Spagnuolo si spinge addirittura indietro di un quarto di secolo, all’uccisione del bandito Giuliano. Anche della sua vita ho raccontato in questa trasmissione. All’epoca si pensava ad un conflitto a fuoco tra lui e i carabinieri, ma Spagnuolo sa che, in realtà, è stato Luciano Liggio ad ammazzarlo di persona, mentre dopo viene organizzata una messinscena che serve a depistare ogni indagine e costruire una verità falsa, ma di comodo per tutti.
Gli anni passano e la domanda legittima è: chi comanda in quegli anni ’70 alla mafia? Secondo Spagnuolo è un uomo, chiamato “il ragno”, che ha poteri infiniti, quell’uomo è proprio Vito Guarrasi. É la nuova mafia, che sostituisce quella ammirata da Spagnuolo, quella delle regole d’onore, ormai andate a farsi benedire.
Come detto mancano i grandi capi in quel periodo. Il vecchio boss Gambino, quello che ha ispirato i film di Puzo “Il Padrino”, muore a New York nel 1976 e non ci sono luogotenenti all’altezza di un compito così delicato e complesso come la guida di Cosa Nostra.
Le collusioni di Cosa Nostra con appartenenti all’amministrazione dello stato ci sono e arrivano anche molto in alto. Secondo Spagnuolo anche il capo della polizia, Angelo Vicari, ha legami coi boss mafiosi, ma questa è un’altra storia che noi non seguiamo.
Cosa usciva dunque dall’intervista della giornalista Beltrame al procuratore Spagnuolo? Quali scenari potevano essere dipinti o riassunti?.
Gelli, Sindona, Andreotti … che intrecci!
Dalle parole di Carmelo Spagnuolo, che abbiamo appena riportato, esce un quadro dell’Italia di quegli anni assai sconsolante. La repubblica è gestita da mafiosi che contendono ad altri mafiosi le amicizie di Fanfani e Andreotti, i quali a loro volta si battono per il sopravvento nel partito di maggioranza. E questo avviene in Sicilia a colpi di tessere, ma anche di affari, traffici di droga, morti ammazzati. E nessuno sa nulla di queste tresche, che arrivano a coinvolgere poteri legali e illegali anche al di là dell’oceano.Un paese, il nostro, che Spagnuolo dipinge come retto da un lato da un potere abbastanza evidente e dall’altro da un potere oscuro, nascosto, segreto, di cui si verrà a conoscenza solo parecchi anni più tardi, negli anni ’80, quando si scoperchierà il bubbone della loggia P2 di Licio Gelli, alla quale lo stesso Spagnuolo è iscritto. Ma non un iscritto qualunque, uno importante, almeno nella visione di Licio Gelli. Nel 1973 a Villa Wanda, la residenza di Gelli nei pressi di Arezzo, il Venerabile Maestro aveva radunato i suoi per un’analisi della situazione. In quella occasione aveva prefigurato un n uovo governo, a capo del quale doveva esserci proprio Carmelo Spagnuolo, supportato dai militari. Insomma un vero e proprio golpe, simile a quello che nel 1967 aveva portato i colonnelli al comando della vicina Grecia. Può darsi che all’epoca dell’intervista, due anni più tardi di quell’incontro con Gelli, l’ipotesi del governo piduista sia tramontata o messa in un cassetto in attesa di tempi migliori.
I piduisti di metà anni ’70 hanno altri pensieri. In cima alla lista c’è la salvezza economica di Michele Sindona, in grave crisi con le sue banche, in primis quella statunitense, la Franklin di New York e poi il crack della Banca privata italiana. Si danno da fare, i piduisti, con Giulio Andreotti in prima linea, per convincere il ministro del tesoro Ugo La Malfa a sostenere il banchiere siciliano, banchiere che aveva rapporti strettissimi con il Vaticano, attraverso lo IOR di Marcinkus, e con la mafia. Ma La Malfa è uno di quei politici strani per il nostro paese, di quelli tutti di un pezzo e rifiuta ogni aiuto a Sindona.
La P2 le tenta tutte. Tra le varie azioni, ecco ritornare da protagonista proprio Carmelo Spagnuolo, il quale vola a New York per evitare l’estradizione del banchiere. Il procuratore dichiara: “Le accuse non sono fondate [..] e Michele Sindona è stato accanitamente perseguitato soprattutto per le sue idee politiche. [..] La situazione politica in Italia è tale per cui non è esagerato pensare che le sinistre non si fermeranno davanti a nulla pur di mettere Sindona con le spalle al muro. [..] L’estradizione non deve essere concessa. […] Data la tensione che oggi regna sono indotto a pensare che Michele Sindona, tornando in Italia, potrebbe correre seri rischi per la sua incolumità personale”.
Concetti simili vengono espressi anche dall’ex capo del controspionaggio inglese in Italia John McCaffery, il cui vero scopo della presenza a Roma è di organizzare una lotta che impedisca la salita dei comunisti nella gestione politica del paese.
Anche Gelli, ovviamente, si prodiga per evitare il ritorno di Sindona in Italia.
Questo insieme di personaggi e tutti i loro adepti e affiliati, rappresentano la destra oscura, quella antidemocratica, che si era venuta formando fin dal primissimo dopoguerra, quando i fascisti di Salò erano stati arruolati dai servizi americani in funzione anticomunista. É la destra di Gladio, delle bombe, degli attentati, della strategia della tensione. Piano piano, si trasforma in qualcosa di altro: una macchina di voti, all’interno della quale si consumano i più feroci duelli per il potere, per i fondi in arrivo dalla CIA, dal Dipartimento di Stato americano. E sullo sfondo, c’è sempre la Sicilia.
Non ci sono solo questi uomini, ce ne sono altri, che fanno domande, che chiedono di capire, di sapere la verità. Questa è ben nascosta e le risposte non ci sono. Ci vorranno anni perché qualcosa trapeli e si cominci a chiarire una parte di quello che è successo. Ma questo lo vedremo tra poco.
Chi è a capo di quella organizzazione illiberale? Lo si scopre proprio quando Licio Gelli si fa avanti per difendere Sindona. Quando il banchiere siciliano si trasferisce in America, cresce, in Italia, l’importanza di un altro banchiere, Roberto Calvi, che diventa il braccio operativo della P2 nel settore degli affari. La storia di Roberto Calvi, che ho raccontato in questa trasmissione, è la prova evidente dei legami tra politici, P2, mafia e delinquenza comune, nel caso specifico la banda della Magliana.
Nel 2012 Totò Riina, il capo dei capi di Cosa Nostra, finisce sotto processo per l’uccisione di Mauro De Mauro e viene assolto perché non ci sono prove sufficienti a condannarlo. Sul Corriere della Sera, Felice Cavallaro scrive: “Trame, congiure e misteri internazionali che nel sequestro De Mauro hanno uno snodo con figure ambigue come quella di Verzotto e di alcuni suoi amici eccellenti, a cominciare da un altro Mister X, Vito Guarrasi, l’avvocato che per se stesso immaginò un epitaffio, perfetto anche per il manager venuto da Padova, Graziano Verzotto: ‘Fu un uomo intelligente e chiacchierato’”.
É un po’ poco per quel ragno malefico, di cui parla Spagnuolo nell’intervista, poco e troppo tardi.
Francesco Cosentino
Il prossimo personaggio che incontriamo è decisamente sconosciuto alla maggior parte degli italiani. Anche lui è siciliano ed è figlio di quell’Ubaldo Cosentino, partigiano, nominato segretario della Camera nel primo dopoguerra e come tale anche segretario della Costituente. Francesco, suo figlio, appare la prima volta nella fotografia di un momento storico, indimenticabile per il nostro paese. É il giovanotto di 25 anni che si trova tra Alcide De Gasperi, il padre della ricostruzione post bellica, ed Enrico De Nicola, primo presidente della neonata Repubblica Italiana, mentre si accinge a firmare la nuova Carta Costituzionale.Ritroviamo Francesco Cosentino nel 1955, come consulente del capo dello stato Giovanni Gronchi. Uno dei suoi compiti principali è quello di tenere i rapporti con l’ambasciata americana a Roma. Questa, come detto, è impegnatissima a scegliere e sostenere ora questo ora quel politico democristiano, facendo ben attenzione che sia decisamente anticomunista.
Terminato il settennato di Gronchi, Cosentino torna fare il segretario generale a Montecitorio e molti lo ricordano come un uomo che tenta di ridurre i tempi del dibattito, di snellire le pratiche delle assemblee dei deputati.
Ma dieci anni più tardi eccolo in un’altra veste, anche questa molto importante, ma decisamente non più nello stato, ma in quello che si è soliti definire l’Antistato. É infatti il consigliere più fidato di Licio Gelli. Si sussurra, anche se la questione non è certa, che ci sia la sua mano nella stesura del famoso “Piano di rinascita” il documento programmatico con il quale Licio Gelli voleva rivoltare le carte in tavola e realizzare un governo di destra, come abbiamo già visto nel racconto su Spagnuolo. Anche se Gelli sosterrà che il Piano è stato solo opera sua, non c’è dubbio che Cosentino abbia avuto un ruolo importante nella sua scrittura.
É così che un uomo, vissuto a fianco dei vertici dello Stato, partecipando a momenti storici della nostra storia repubblicana, si trova dall’altra parte, a progettare un colpo di stato, una rivoluzione partita dal cuore stesso delle istituzioni.
Schema R e Piano di Rinascita
Le vicende di Francesco Cosentino non finiscono con la P2. Sarà coinvolto nello scandalo Lookheed, un giro di mazzette che arrivano dall’azienda americana per vendere i suoi Hercules C130. Alla Camera all’epoca c’è come presidente Sandro Pertini, il quale vuole spiegazioni pubbliche. Non ottenendole, Cosentino viene licenziato e al suo posto arriva Antonio Maccanico, che seguirà Pertini anche durante i suoi sette anni come presidente della repubblica. É il 15 aprile 1976.Dopo l’uscita di scena da Montecitorio, Cosentino viene supportato – a sentire le sue stesse dichiarazioni - da Licio Gelli che gli è molto vicino. Diventa presidente dei CIGA Hotels, che fanno parte del circuito di Michele Sindona. In questa veste riserva a Gelli due suite a Roma, all’hotel Excelsior, la 126 e la 127, dove avvengono le iniziazioni dei nuovi adepti della P2 e gli incontri del Venerabile con i politici romani.
A Roma, la mafia ha come esattore Pippo Calò, uomo di Stefano Bontate, ma dopo la guerra di mafia passato nelle fila di Totò Riina. Francesco Cosentino ha buoni rapporti con i boss mafiosi, ma di questo si viene a sapere solo anni dopo la morte di Cosentino, avvenuta nel 1985, grazie alla deposizione di un pentito, Angelo Siino.
Ma torniamo al cuore della faccenda, il Piano di Rinascita, scritto probabilmente da Cosentino con l’approvazione di Licio Gelli. Il documento salta fuori nel 1981, quando Maria Grazia Gelli, la figlia del Venerabile, viene perquisita. Ha una valigia e la valigia ha un doppio fondo. Ed eccolo là il documento originale. In realtà, la stampa italiana non prende la questione molto sul serio o, per meglio dire, non dà a quel ritrovamento il peso che avrebbe dovuto avere. Parliamo di giornali importanti e schierati decisamente a sinistra, come Repubblica di Eugenio Scalfari.
Solo molto più tardi, in piena seconda repubblica, durante i governi Berlusconi, quel piano assume il suo vero connotato, quello di una linea politica di destra, vagamente golpista, e tutto il suo rilievo. Eh già … perché alcune delle riforme proposte dalle destre al governo, altro non erano se non le riproposizioni del famigerato Piano di Licio Gelli. Anche su questo avremo modo di tornare.
In realtà il famoso piano del 1976 non è il primo, preceduto com’era dal cosiddetto Schema R, dove la lettera R poteva stare per rivoluzione o risanamento a seconda di chi lo leggeva.
E dunque nel biennio 1974-1976, le idee della P2 sono molto più radicali di quelle successive. Lo Schema R prevede infatti una repubblica presidenziale sostenuta dall’esercito. E, tra le norme, alcune sono davvero notevoli, come ad esempio: la limitazione dei poteri della Corte Costituzionale, la limitazione del diritto di sciopero col divieto totale per pubblici dipendenti, magistrati, studenti e la limitazione dei poteri dei sindacati subordinandoli a un ispettore del lavoro. Infine, che può sembrare una boutade: la “riduzione del numero di quotidiani, settimanali, riviste e altre pubblicazioni a carattere frivolo e scandalistico allo scopo di evitare eccessivi sperperi di cellulosa”.
Prima di proseguire facciamo mente locale al periodo. Sono gli anni in cui il Partito Comunista di Berlinguer ottiene i suoi risultati più clamorosi e il rischio che passi davanti alla Democrazia Cristiana e diventi così papabile per governare non è tanto peregrino. Sono anche gli anni di Moro e dei suoi tentativi di aprire alla sinistra, compreso il Partito Comunista, il governo del paese. É, insomma, il periodo del compromesso storico, così temuto e odiato da destre e americani. Lo Schema pertanto, ha un senso storico, segue un suo schema logico: è la difesa contro l’avanzata importante del Partito Comunista che ormai conta un terzo dei voti.
Entra un nuovo personaggio nel nostro racconto, perché le idee contenute nello Schema R coincidono quasi alla perfezione con quelle di Edgardo Sogno. Lui prima combatte contro i nazifascisti, ma poi cambia bandiera e vuole, se non proprio una monarchia, qualcosa che le assomigli da vicino. Nasce così, assieme al repubblicano Pacciardi, il famoso golpe bianco, una specie di golpe basato non sull’insurrezione armata, ma sul convincimento dei poteri istituzionali di modificare le carte in tavola, Costituzione, assetto governativo, organizzazione del parlamento e così via. Edgardo Sogno suona a molti campanelli, ma non se ne fa niente. É il magistrato Luciano Violante di Torino a scoprire ogni cosa. Di questo golpe, o presunto golpe, non si registra alcuna traccia nei documenti della magistratura. Insomma, è come se non fosse successo nulla. Edgardo Sogno fa parte della P2 ed è questa loggia che appoggia il progetto. Il presidente della repubblica, Giovanni Leone, interpellato da Gelli, non avvalla del tutto le richieste dello Schema. Moro, che avrebbe dovuto controfirmare le decisioni, invece, rifiuta categoricamente ogni coinvolgimento e tutto si ferma là.
Sappiamo che Leone è costretto a dimettersi per i violenti attacchi, soprattutto dei radicali e di Camilla Cederna, per presunte irregolarità nella gestione del suo incarico. Queste irregolarità non sono mai esistite e i radicali si scuseranno molto più tardi di quello che avevano fatto. Leone, che pure non ci sta simpatico per altri fatti, ad esempio il suo comportamento in occasione della tragedia del Vajont, è una vittima di quegli attacchi. Ma la cosa più triste per lui, e anche per noi che commentiamo a decenni di distanza, è la totale indifferenza dei suoi amici di partito, a cominciare dal segretario Zaccagnini e dall’onnipresente Andreotti. Secondo alcuni storici, quelle dimissioni hanno origine più lontane e precisamente nel rifiuto di accettare le idee di Licio Gelli e della P2.
Detto dello Schema R, passiamo adesso ad esaminare il Piano del 1976, quello più famoso.
Molto diverso dal precedente, il Piano di Rinascita si dichiara non violento e intenzionato a rimanere all’interno dei confini della democrazia. Invita tutti, in particolare partiti, sindacati, associazioni a prendere atto che alcuni cambiamenti nella costituzione vanno fatti. Ma quello che il piano non dice è il metodo che sta dietro le intenzioni. La corruzione, le bombe e l’affiliazione dell’intera popolazione che conta nelle liste della P2. Quando nel 1980, Maurizio Costanzo intervista Gelli, questi parla del “fascino discreto del potere nascosto”. Pochi mesi più tardi, nel marzo 1981 i magistrati scoprono e requisiscono gli elenchi e là si capisce la vastità dell’iniziativa, notando come cariche apicali di ogni genere figurino in quell’elenco, dai militari ai politici, dagli imprenditori ai giudici e ai giornalisti. Il giudice Giuliano Turone che, assieme a Gherardo Colombo, sequestra le liste, sottolinea già allora la presenza insistita del termine “sollecitare e sollecitazione”. Con questi termini non si intende evidentemente convincere con le buone maniere. Ma mettere i soggetti nelle condizioni di non poter rifiutare a cuor leggero le avances della P2. É proprio in occasione di quella intervista, da parte di un giornalista peraltro iscritto alla sua loggia, che Gelli si propone, mostra i muscoli, parla tranquillamente di repubblica presidenziale, trovando, tra l’altro, facile terreno in alcuni tra i politici importanti del tempo, come Francesco Cossiga e i vertici socialisti Bettino Craxi e Giuliano Amato. Del resto è quello il momento di forzare i tempi, perché le cose cominciano a scricchiolare anche al di là dell’oceano, con le disavventure bancarie di Sindona.
Le idee di Gelli sono chiaramente esposte in quella terza pagina del Corriere, firmata da Costanzo. Ci vuole una repubblica presidenziale, come quella francese di De Gaulle, una profonda revisione della Costituzione, perfetta per quando era stata redatta subito dopo la guerra, ma ormai lisa e obsoleta. E una spartizione dei poteri tra democristiani e socialisti, uno al Quirinale e l’altro a palazzo Chigi. E non è un caso se i seguaci di Berlusconi, durante il suo regno, abbiano più e più volte cercato di dare una svolta alla De Gaulle alla repubblica e i partiti reazionari, oggi al potere, cerchino di fare altrettanto.
Dunque il Piano di Rinascita è solo un insieme di fogli scritti da Cosentino, ma le intenzioni vere sono quelle di infiltrare ovunque, nei poteri della repubblica, propri uomini: nei servizi segreti, nell’esercito, nella politica, nell’informazione, tutti pronti in attesa del via libera per la conquista del potere vero, quello vero, palese, alla luce del sole. Che questo non sia riuscito è un bene, che non possa succedere ancora è tutto un altro discorso.
Pertini e le liste della P2
Parliamo adesso di Sandro Pertini. Il presidente più amato dagli italiani ha vissuto il suo settennato in mezzo a guasti incredibili della nostra repubblica. Da un lato le brigate rosse, che avevano ucciso uomini importanti della politica e della società, come Moro, Bachelet, Alessandrini, Casalegno fino al sindacalista operaio Guido Rossa. Dall’altro gli stragisti fascisti, sostenuti e finanziati dai servizi segreti, i quali, dopo le stragi si preoccupano anche di depistare le indagini. Perfino la natura si mette di traverso, con un terribile terremoto in Irpinia, che causa miglia di morti e una quantità sterminata di sfollati. Pertini reagisce a queste sciagure con fermezza, predica la necessità di una nuova resistenza, proprio lui che era stato a capo della resistenza milanese prima della fine della guerra, proprio lui che aveva fatto 14 anni tra carcere e confino per il suo genuino e irriducibile antifascismo.Tutto questo potrebbe bastare a colmare di preoccupazione la sua vita di presidente, ma la cosa forse più grave che avviene nei primi anni ’80 è la scoperta di un Antistato, una organizzazione segreta che cerca di rubare forze alla repubblica, per indirizzare diversamente la società italiana. Sì, è vero, ne ho parlato fino ad ora. Si tratta dei progetti eversivi di Licio Gelli, del suo Piano di rinascita, dei legami sottobanco tra varie forze del paese, militari, politiche, amministrative, legate all’informazione, alla produzione industriale e così via.
Un bubbone da estirpare, ma come? Lasciando campo libero ad una DC, in cui sono presenti molti sospettati di essere iscritti alla loggia di Gelli? Affidando ad un laico l’onere di formare un nuovo governo che riesca a spazzare via quella porcheria? Scelte complicate e difficili, in un paese che si regge su equilibri partitici sottili e delicati, nei quali basta spostare una pedina perché tutto il castello crolli.
Pertini non è mai stato uomo dalle mezze misure, non si è mai tirato indietro di fronte a decisioni scomode. Ad esempio aveva rifiutato, da presidente della camera, di firmare un aumento di stipendio degli onorevoli in un momento di crisi economica legata ad una forte inflazione. Da capo dello stato non convalida alcune nomine, ad esempio quella di Umberto Ortolani a Cavaliere del lavoro. Il banchiere Ortolani è stato uomo di vertice di molte operazioni legate sia a Licio Gelli, di cui era il confidente finanziario, che allo IOR di monsignor Marcinkus, insomma legato mani e piedi a una feccia più feccia dell’altra.
Ora arriviamo a marzo 1981, quando, come già detto, nei pressi di Arezzo, nella villa di Gelli, saltano fuori i famosi elenchi degli affiliati alla loggia massonica Propaganda2, cioè P2.
In quei giorni Pertini è in Messico, per una visita ufficiale, ma anche per godere delle bellezze artistiche di quella terra, scalando, con la noncuranza dei suoi 84 anni, le piramidi maya. Le notizie arrivano in America centrale col contagocce, per cui né il presidente, né i diversi giornalisti al seguito, tra cui Ezio Biagi e Sandra Bonsanti, il cui libro sto seguendo, possono chiaramente capire cosa stia accadendo a Roma e di che portata sia la scoperta appena fatta.
Le prime ipotesi parlano di 500 clienti di Sindona, quei clienti privilegiati che hanno trasportato in Svizzera montagne di denaro, fatto illecito grave, da codice penale. Che sarebbe già stata una scoperta notevole. Solo un mese più tardi si viene a sapere la verità e cioè che quei 500 eletti sono in realtà i nomi più importanti degli affiliati alla loggia segreta di Licio Gelli. Ho già ricordato che i giudici responsabili dell’inchiesta sono Gherardo Colombo e Giuliano Turone. Loro sì sapevano tutto, ma ancora le informazioni ai mezzi di comunicazione si basano solo su indiscrezioni dal palazzo di giustizia di Milano o dalla commissione Sindona, che però non conosce ancora gli ultimi elementi che i due giudici hanno scoperto.
A proposito di anni difficili, anche il 1981 non se la cava male. Nel mese di maggio Alì Agca spara al papa polacco; a Napoli le brigate rosse rapiscono Ciro Cirillo e riempiono la stampa di ultimatum. Come nei casi Moro e D’Urso, il fronte politico si spacca tra quelli che vogliono trattare con le BR per salvare la vita di Cirillo e quelli che “non se ne parla nemmeno”. In particolare a muoversi verso un accordo coi brigatisti è la Democrazia Cristiana, rappresentata, nel caso, dal trentino Flaminio Piccoli e dal napoletano Antonio Gava. Uno dice: che c’è di male? Di male ci sono due cose. La prima è la resa dello stato di diritto di fronte a degli assassini e la seconda che come intermediario viene scelto nientemeno che don Raffaele Cutolo, il capo della Camorra. Ed è, inoltre, curioso come il partito di maggioranza sia disposto a concedere per un assessore alla pubblica edilizia molto più di quello che poteva concedere per Aldo Moro, il che testimonia, una volta di più quanto poco la DC tenesse a riavere tra le sue fila lo statista pugliese.
Il presidente del consiglio è Arnaldo Forlani. Lui riceve gli elenchi il 25 marzo 1981, ma non li pubblica, ha paura, evidentemente quei nomi possono provocare un terremoto nella politica del paese. Così continuano ad essere resi noti piccoli brandelli, qualche nome qua e là, senza alcuna documentazione certificatoria. Licio Gelli è latitante, probabilmente in Argentina, ospite dell’ammiraglio Massera, uno degli assassini a capo della giunta militare, quella delle migliaia di desaparecidos, di cui anche qui a NSSI abbiamo parlato. Gelli tenta depistaggi e fa nomi improponibili, come quello di Berlinguer e di altri comunisti, che con la loggia niente hanno a che fare. La storia non finisce qui, ma la storia non finisce certo qui: di cose da raccontare ce ne sono ancora tante.
Pubblicare gli elenchi? Questo è il dilemma!
Arriviamo al 20 maggio 1981: le BR rapiscono l’ingegner Giuseppe Taliercio, ex direttore del petrolchimico di Marghera. Duemila operai scendono in piazza per chiedere la sua liberazione, ma di Taliercio torna soltanto il corpo senza vita due settimane più tardi. Intanto a Milano la magistratura arresta Roberto Calvi per esportazione di denaro e altri crimini finanziari. Calvi è amico di Sindona e di Gelli e questa potrebbe essere l’occasione per divulgare finalmente quelle liste. Forlani non se la sente: dice che non spetta al governo farlo, ma alla magistratura. I giudici si guardano bene dal muovere passi che potrebbero rovinare tutto il loro lavoro. Alla fine le liste arrivano alla commissione Sindona e qui nasce nei giornalisti la speranza che qualcosa di serio possa finalmente filtrare. E così avviene, prima qualche nome importante, quello di tre ministri del governo in carica: Enrico Manca, Adolfo Sarti e Franco Foschi. Poi altri, finché arriva l’autorizzazione dalla magistratura e gli elenchi interi vengono diffusi.Anni più tardi, Flaminio Piccoli, racconterà che il timore più grande era legato alla presenza di un nome in particolare, quello di Giulio Andreotti, carissimo amico di Licio Gelli. É il presidente del Senato Amintore Fanfani a spingere il premier a pubblicare gli elenchi, benché tutti o quasi i notabili democristiani avevano là dentro amici o collaboratori.
La reazione dei politici è curiosamente costante nel tempo, come accaduto durante il regno di Berlusconi e ora con le strane novità legali di Nordio. Anche allora, anziché prendersela con quei mariuoli che fanno parte di una associazione eversiva, se la prendono con i giudici, adducendo motivi i più vari, infondati e spesso ridicoli. I più scandalizzati sono i socialisti: per loro lo scandalo non è la P2, ma la magistratura. A ben guardare hanno ragione di reagire così, visto cosa poi è successo circa dieci anni più tardi con tangentopoli e mani pulite.
Pochi personaggi rilasciano dichiarazioni preoccupate, come il liberale Bozzi, che si rivelerà una colonna della commissione parlamentare. Lui dice: «Tra terrorismo, illeciti e corruzione la Repubblica scricchiola».
La stampa non è da meno. In una assemblea al Corriere della sera, qualcuno dice “Abbiamo il 40% della proprietà in galera, l’altro 60% nelle liste della P2”. Il riferimento è a Calvi in carcere e ai piduisti Franco Di Bella, direttore, Angelo Rizzoli, presidente e maggior azionista e Bruno Tassan Din direttore generale.
L’esercito è ben rappresentato: 54 generali, 41 colonnelli, 57 ufficiali superiori, 46 capitani sono iscritti alla loggia. La decisione finale su di loro spetta a Pertini, nella sua veste di capo supremo delle forze armate.
Ci sono smentite, come quella di Cicchitto, socialista. La DC ha 19 parlamentari nelle liste. Il loro destino è demandato ad una commissione di cinque saggi. Il settimanale del partito anticipa la sentenza: ci vuole fermezza e severità, per recuperare un po’ di dignità.
Il segretario socialdemocratico Pietro Longo fa fuoco e fiamme, ma anche lui è iscritto, come 5 dei suoi parlamentari. Ci sono 9 socialisti, 3 del Partito Repubblicano, 3 del partito liberale e 4 del Movimento sociale di Giorgio Almirante.
É un guazzabuglio del quale non si riesce a capire il senso. Là dentro ci sono tutti: vecchi nemici, alleati temporanei, sostenitori da sempre e questo impedisce di dare una risposta alla domanda principale: “A chi serve tutto questo?”.
Dalle mille pagine dei documenti trovati nella villa di Arezzo, saltano fuori, oltre ai nomi, anche le modalità di iscrizione, le domande curiose e soprattutto due elementi fondamentali: la richiesta di denaro per finanziare l’organizzazione e la citazione “il silenzio è d’oro”, emblema della assoluta segretezza che doveva regnare.
Cosa succede poi? Occorre cambiare registro, subito e in modo ben visibile. Lo vuole il popolo, e anche quella parte di politica che crede nelle istituzioni e nella democrazia. Si chiede al presidente Pertini di intervenire … quante volte lo ha fatto, anche al di là dei suoi effettivi poteri. Cosa può fare Pertini? Ad esempio cambiare il dominio secolare della Democrazia Cristiana, toglierle il monopolio, il diritto inalienabile di avere il primo ministro, come se fosse una legge critta da qualche parte. Nominare un laico alla presidenza del Consiglio. In quegli anni sembra quasi una bestemmia!.
Un laico a palazzo Chigi
Il 28 giugni 1981, Sandro Pertini nomina primo ministro il repubblicano Spadolini, che guida per 17 mesi un pentapartito. É la prima volta che, nella storia della Repubblica, a palazzo Chigi entra un laico, vale a dire un non democristiano.A proposito del Corriere della Sera, il direttore Di Bella, durante un’assemblea coi suoi giornalisti cerca di spiegare come sono andate le cose. Dei tre incontri avuti con Gelli, ricorda l’ultimo, durante il quale il Venerabile lo minaccia di fargli perdere il posto se non avesse licenziato Enzo Biagi, reo di aver fatto una trasmissione sulla massoneria. Biagi resterà al suo posto, Di Bella dovrà dimettersi. É curioso il fatto che molti anni più tardi, ci sarà il famoso editto bulgaro, quando Berlusconi da Sofia, accusa Biagi di aver fatto un “uso criminoso”, queste le testuali parole, della televisione. E i servi della RAI provvedono a licenziare Enzo Biagi, il più illuminato giornalista che l’Italia moderna possa annoverare. Retaggio della P2? Vendetta di un uomo piccolo che si crede un gigante? Altro capitolo di un potere occulto?.
Chissà? Ma resta il fatto che non si riesce a capire chi ha vinto e chi ha perso … poi però incontriamo un altro personaggio, un filosofo, Norberto Bobbio e il prossimo capitolo è dedicato a lui. .
Norberto Bobbio
Quando la documentazione viene resa pubblica, resta da capire il senso di quella organizzazione: cosa voleva fare, cosa ottenere in concreto, a chi poteva essere utile? Sia il mondo politico che quello giornalistico sono confusi, lo sono un po’ tutti, tranne uno, il filosofo torinese Norberto Bobbio. Di famiglia fascista è stato un antifascista, dal 1939 con attività clandestine, pur ricoprendo ruoli importanti di docente in varie università tra cui quella di Padova.Ma torniamo agli anni ’80. Lui scrive per La Stampa e ha pubblicato articoli sul “potere invisibile” e parla in termini molto preoccupati del segreto, come di qualcosa che può danneggiare la democrazia italiana.
Ecco, sono proprio gli articoli di Bobbio, quelli che rendono più chiaro di ogni altro, cosa sta succedendo al paese. Nei giorni in cui le liste della P2 vengono rese note, Bobbio scrive un articolo che sembra scritto da uno che è dentro le cose segrete che nessuno conosce. Lui parla di due livelli di sottogoverno, in due livelli diversi di segretezza. Quello più profondo è popolato dai servizi segreti, dal controspionaggio, da affaristi di ogni genere, il cui scopo non è tanto quello di rovesciare il governo legittimo del paese, quanto quello di usare metodi non leciti per aggirare o violare impunemente le leggi. É letteralmente schifato, Bobbio, leggendo tutti quei nomi importanti, uniti solo dal desiderio di acquisire potere, un potere segreto. Questo tipo di organizzazioni, dice, sono quelle che vogliono controllare lo stato, senza essere controllate. La cosa più grave, tuttavia, non è nell’esistenza di questo potere occulto, ma nel fatto che le forze sane, che pure ci sono, non facciano niente e la scoperta venuta a galla venga nascosta sotto il tappeto come la polvere. Un’indicazione chiara, chiarissima mandata direttamente alle forze politiche e alle commissioni parlamentari perché si decidano a prendere la strada giusta.
Il 25 maggio dalla riunione dei garanti della DC, arriva il messaggio che o si è democristiani o massoni. Il risultato finale è che Forlani, ancora presidente del consiglio, rimette nelle mani di Pertini il suo mandato. Si parla di un governo istituzionale, che però trova la strada sbarrata da Giovanni Spadolini, che lo definisce “una bara per la repubblica”, ma soprattutto dal leader socialista Bettino Craxi, del quale vengono riferite frasi poco concilianti verso i vertici DC e decisamente ostili alla magistratura. La lettura che viene data da molti storici dell’atteggiamento di Craxi, riguarda i suoi rapporti con alcuni dei personaggi di queste vicende. Lo stesso Licio Gelli non si farà scrupolo di indicare proprio nel politico milanese l’uomo giusto da mettere al comando. Inoltre Craxi è preoccupato per l’arresto di Calvi, che potrebbe raccontare molte vicende legate a finanziamenti occulti e pertanto proibiti al suo partito e anche a se stesso. Tutto questo ha uno scopo piuttosto chiaro: Bettino vuole per se stesso l’incarico di formare il governo da parte di un suo compagno di partito, quel Sandro Pertini, che non ha mai visto di buon occhio la carriera rampante di Craxi, dal quale lo dividono metodi e anche posizioni politiche all’interno del Partito Socialista. Nel partito, tuttavia, ci sono uomini che ne combinano di tutti i colori, come De Michelis e Formica, che sparano ai quattro venti il desiderio non tanto nascosto di un governo Craxi. Dunque la faccenda è nelle mani di Pertini, il cui percorso politico è sempre stato osteggiato da Craxi. Il presidente aveva poi rapporti frequenti con Enrico Berlinguer, il quale chiedeva semplicemente la fine di quell’andazzo, perché “ … si sono ormai consumati tutti i margini per la permanenza alla guida del paese di un tipo di personale politico gran parte del quale non dà più garanzie. Ci si deve convincere che ciò che è durato per più di trent’anni non può più durare ancora. È necessario un governo di alternativa democratica”.
Mentre Forlani cerca di ripristinare un proprio governo, Norberto Bobbio cala altri assi, scrivendo che non è ammissibile che, di fronte a questa scoperta, i ministri non vengano subito cacciati e si provveda immediatamente ad un governo di galantuomini, che sappiano difendere la costituzione e il paese.
… Subito, immediatamente … ma ancora non è cambiato niente.
Quello che invece succede è che tutti cercano di correre ai ripari, di inventare scuse, come Piccoli che accusa l’intera massoneria di chissà quali delitti, soprattutto di voler far fuori la Democrazia Cristiana.
A Sandra Bonsanti viene richiesto un articolo su Licio Gelli: facci capire chi è, le chiede il direttore. La Stampa pubblica a nove colonne il suo pezzo dal titolo: “La storia di Gelli, da Salò alla Loggia P2”. E dentro c’è tutto, anche cose che ancora non si conoscono come alcuni nomi trovati tra i centomila foglietti nella villa ad Arezzo. Ad esempio quello di Ugo Zilletti, vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura, con a fianco un’indicazione: Unione delle Banche Svizzere e una cifra: 850 milioni. É solo un esempio, uno dei tanti, che dimostra come la classe non solo politica ma dirigente del nostro paese sia dentro una rete che non si sa quanto sia vasta, perché nessuno sa se quegli elenchi siano completi o solo una parte di quelli reali.
Così si arriva all’assegnazione da parte di Pertini del mandato a Spadolini. É il segretario di un partito che non conta nulla, ha appena il 3% dei voti, ma è sempre stato fedele alla DC, non ha mai creato fastidio. C’è molta attesa, anche da parte dei Comunisti. Gerardo Chiaromonte lo scrive su Rinascita: il nostro tipo di opposizione potrà essere diverso a seconda di come il governo verrà formato, di quale programma intende adottare. C’è insomma la disponibilità ad essere sempre fieri avversari, ma più morbidi, vista la melma maleodorante che imbratta la nostra classe politica.
Poi si arriva alla fiducia e ci si accorge che il governo è formato soprattutto da democristiani e che il famigerato manuale Cencelli, che divide le cariche in base alla forza delle correnti, è stato perfettamente seguito. Non è cambiato niente, solo la forma di un presidente non democristiano, mentre il potere, quello vero, non ha mai cambiato padrone.
La sola consolazione è che nel governo non ci sono ministri piduisti, che torneranno, oh se torneranno, ministri che giurano nelle mani di un uomo onesto e baluardo della democrazia e della sacralità della repubblica.
… concludendo …
Come finisce questa avventura, quella dell’antistato voluto da Licio Gelli e supportato dalle forze politiche, economiche, militari del paese?Abbiamo visto la preoccupazione di Craxi per la pubblicazione dei documenti di Licio Gelli rinvenuti nella sua villa di Arezzo. E aveva ben ragione di essere preoccupato. Infatti … qui dobbiamo fare un piccolo passo indietro e mettere in mezzo di nuovo uno dei personaggi chiave della faccenda, Roberto Calvi.
Siamo all’inizio di luglio del 1981, quando tre giudici che seguono l’inchiesta sulla P2, incontrano Calvi e il suo legale in carcere per interrogare il banchiere. Ci stanno sei ore. Cercano di sapere sui finanziamenti illeciti al partito socialista. Si tratta di una apertura di credito di 21 milioni di dollari fatta dal piduista Umberto Ortolani attraverso una banca uruguaiana a favore del partito socialista. Ma per quale motivo? Per avere che cosa in cambio? E chi era, fisicamente, il beneficiario di tutti quei soldi?.
Calvi viene suicidato prima che si arrivi a conoscere tutti i particolari. Ne parla però la sua vedova, rivolgendosi con diverse telefonate proprio alla giornalista Bonsanti, il cui libro stiamo seguendo.
Quei soldi, le aveva confidato il marito appena uscito dal carcere, dovevano servire per la formazione del governo Cossiga. In sostanza ai socialisti va una cifra per permettere la formazione di un governo, nel quale sono presenti anche loro rappresentanti. É il famoso governo in cui ci sono tre ministri e cinque sottosegretari iscritti alla P2. I socialisti sono fuori dalla maggioranza da almeno sei anni. Sono questi i tempi delle tangenti, quelle dell’Eni che, attraverso una triangolazione Eni-Ambrosiano-Psi, vanno ad arricchire le casse di Bettino Craxi. Quella deposizione ha talmente turbato Calvi, che, nella notte, cerca di suicidarsi ingoiando un tubetto di barbiturici. Una mossa che qualcuno attribuisce al suo stato d’animo, altri parlano di una messa in scena per stimolare un po’ di pietà nei suoi confronti. Di amici ne sono rimasti davvero pochi: Gelli è latitante, gli restano pochi politici, come Flaminio Piccoli democristiano e il capo socialista Bettino Craxi. Attorno a lui una morsa si chiude sempre più, una morsa fatta di minacce e ricatti. Da un lato c’è il Vaticano, con i suoi sporchissimi affari: riciclaggio dei soldi più sporchi che mai che arrivano da rapine, spaccio di droga e altre cosette simili portate a termine dalla banda della Magliana e dalle mafie. Calvi, fino a poco prima gestore del Banco Ambrosiano, quelle vicende le conosce tutte e se avesse parlato ….
Dall’altro lato c’è la mafia, quella rappresentata a Roma da Pippo Calò, che si serve come manovalanza di avanzi da galera come quelli della Magliana, ma non disdegna di mandare a Londra due camorristi per far fuori il povero Roberto Calvi.
É proprio in occasione della discussione sul primo governo laico, quello di Spadolini, che in aula entra di forza la questione Calvi. Spadolini è un teorico, forse fuori dal grande giro delle mazzette, visto il minimo potere del suo piccolo partito. Presenta il lavoro che lo aspetta con quattro grandi temi. Il primo è la questione morale, all’interno della quale si colloca lo scioglimento della P2, con un provvedimento opportuno figlio dell’articolo 18 della Costituzione, che proibisce la costituzione di associazioni segrete. Ora, qualcuno potrebbe ribadire: “Ma come? Se le società segrete sono vietate dalla Costituzione, a cosa serve una nuova normativa al riguardo?” Il fatto è che in quel periodo ancora si discute, pensate un po’, se la P2 sia o non sia una società segreta.
A parlare di Calvi intervengono tre personaggi importanti di quell’aula: i due già citati Piccoli e Craxi ed il segretario dei socialdemocratici Pietro Longo. Da questi interventi si può estrarre: la preoccupazione per la sorte di Calvi e l’attacco ai giudici che non devono occuparsi di questione politiche, come se i ladri seduti in parlamento potessero essere diversi dai ladri della strada. L’intervento di Longo ha due scopi precisi. Il primo quello di tutelare tutti i piduisti che non sapevano cosa facevano (lui stesso è iscritto con la tessera 2223) e poi cala una domanda ai suoi colleghi: “Per conto di chi lavora questo signor Gelli? Vi sono palesi contraddizioni nel suo percorso».
L’intervento diventa allucinante quando paragona la situazione attuale a quella del codice Rocco durante il fascismo, con la proposta di Mussolini di sciogliere la massoneria tout court.
Ed infine si scaglia contro la magistratura, rivolgendosi direttamente a Spadolini, perché nel suo discorso non c’è niente che regolamenti le funzioni dei magistrati. Chiede la separazione delle carriere, come avverrà da allora fino ad oggi da parte di tutti gli schieramenti di destra. Vuole sapere quali accordi ci sono stati tra Spadolini e i vertici della magistratura prima di formare il governo. Ingrao, a nome dei comunisti, cade dalle nuvole: quali accordi? A che scopo? Quale regolamentazione dei giudici e dei pubblici ministeri?.
Ma il carico da 90 arriva dall’intervento seguente, quello di Bettino Craxi. É una filippica vera e propria contro i magistrati milanesi che hanno messo le manette ai polsi di uomini eccellenti della finanza, rischiando di creare un disastro nella borsa. Strana preoccupazione, che sarà evidente dieci anni più tardi quando le manette stringeranno i suoi polsi per quelle stesse procedure anomale di cui i magistrati parlano nei loro rapporti a proposito di Calvi, Sindona e compagnia bella.
É poi il turno di Piccoli, che ribadisce i concetti espressi da Craxi, arrivando a chiedere che sia il ministro della giustizia ad assumere poteri che possano evitare situazioni come quella attuale. Una specie di piccolo dittatore insomma a capo della giustizia.
A questo duro attacco rispondono Spadolini, parte della DC non dorotea e i comunisti, creando un asse di difesa della magistratura che durerà nel tempo, perché gli attacchi continueranno e saranno spesso sponsorizzati proprio da chi ha qualcosa da nascondere anche se siede tra i banchi del parlamento.
Ora attenzione! Qui non si tratta di dire chi ha ragione e chi torto. La Storia è storia, racconta fatti accaduti, passati, sui quali non si può tornare indietro e modificarli. Purtroppo in questi casi ognuno ha il proprio punto di vista, legato alla sua fede politica, alle sue personali esperienze di vita ed essere tutti d’accordo semplicemente non si può.
Quello che vale la pena di registrare è che i discorsi dei tre parlamentari seguono passo passo le indicazioni sulla giustizia contenute nel Piano di Rinascita di Licio Gelli, il vademecum, la bibbia di quella associazione, che tutti, anche loro tre, chiedono di eliminare.
Ci sono poi strane coincidenze su cui riflettere. La scoperta del Piano di Rinascita avviene il 4 luglio 1981, quando la figlia di Gelli viene fermata in aeroporto e si scopre il doppio fondo della sua valigia. Come mai proprio allora? E da chi era arrivata ai giudici Turone e Colombo l’informazione su Maria Grazia Gelli? E come mai in un momento in cui il governo Spadolini è appena formato e ancora si discuteva sul da farsi a proposito della giustizia?.
Qualcuno, come Turone, sospetta che sia stata una mossa dello stesso Licio Gelli per serrare le fila dei suoi affezionati iscritti, per mandare un messaggio al nuovo governo, che quelle erano le linee da seguire.
Spadolini sa di non aver molto tempo, sa che la loggia P2 non è affatto sconfitta e che avrebbe in qualche modo deciso della sua fine come presidente del consiglio. Le sue priorità sono di sciogliere definitivamente la loggia e di far rientrare dall’Uruguay il corposo archivio di Licio Gelli. Riesce ad ottenere solo il primo risultato. Una parte degli incartamenti di Gelli arrivano solo quando a palazzo Chigi ci sono inquilini meno curiosi e sicuramente più benevoli nei suoi confronti. I premier successivi a Spadolini sono, nell’ordine, Amintore Fanfani e Bettino Craxi. Poi della P2 non arriva più niente
É il 1896: a S. Giovanni, frazione del paesino savonese di Stella nasce Alessandro Giuseppe Antonio Pertini, per tutti, semplicemente Sandro. Nasce in una famiglia che non ha problemi economici. Suo padre è un piccolo possidente terriero. Di 13 fratelli, sopravvivono all’età adulta in cinque. L’unica femmina, Marion, è destinataria di numerose lettere raccolte in “Mia cara Marion”, libro che racconta gli anni più duri della vita di Sandro.
Ripercorrere la storia di Sandro Pertini significa rivivere la storia d’Italia del Novecento fino agli albori della caduta della prima repubblica, un periodo lungo, ricco di eventi che hanno stravolto il mondo, a molti dei quali lui ha partecipato da protagonista.
Ripercorrere la storia di Sandro Pertini significa rivivere la storia d’Italia del Novecento fino agli albori della caduta della prima repubblica, un periodo lungo, ricco di eventi che hanno stravolto il mondo, a molti dei quali lui ha partecipato da protagonista.
Questo è il testo della puntata che ho realizzato in radio e che contiene, come parte, quello usato per il video di Nova Lectio.
Carissimi amici di NSSI, benvenuti a questa puntata della trasmissione, l’ultima prima della sosta estiva. Credo sia abbastanza chiaro quale sia il tema di oggi. La canzone introduttiva è uno dei canti più famosi dell’anarchismo e ricorda l’espulsione di un gruppo di anarchici dalla Svizzera. Tra questi c’era l’autore del testo che abbiamo appena ascoltato, Pietro Gori. Si era rifugiato in Svizzera perché accusato di complicità nell’omicidio del presidente francese Sadi Carnot nel 1894, ad opera di un altro anarchico, amico di Gori, Sante Caserio.
Da questa introduzione può sembrare che gli anarchici siano tutti bombaroli, per usare un’espressione cara a Fabrizio De Andrè, anche lui anarchico. Questa puntata vuol dimostrare che le cose sono enormemente più complesse e che parlare per sentito dire fa, sempre, fare brutte figure.
Avviso subito che la puntata è bella tosta, piena di riferimenti storici, spesso poco conosciuti dal grande pubblico.
Introduzione
Carissimi amici di NSSI, benvenuti a questa puntata della trasmissione, l’ultima prima della sosta estiva. Credo sia abbastanza chiaro quale sia il tema di oggi. La canzone introduttiva è uno dei canti più famosi dell’anarchismo e ricorda l’espulsione di un gruppo di anarchici dalla Svizzera. Tra questi c’era l’autore del testo che abbiamo appena ascoltato, Pietro Gori. Si era rifugiato in Svizzera perché accusato di complicità nell’omicidio del presidente francese Sadi Carnot nel 1894, ad opera di un altro anarchico, amico di Gori, Sante Caserio.
Da questa introduzione può sembrare che gli anarchici siano tutti bombaroli, per usare un’espressione cara a Fabrizio De Andrè, anche lui anarchico. Questa puntata vuol dimostrare che le cose sono enormemente più complesse e che parlare per sentito dire fa, sempre, fare brutte figure.
Avviso subito che la puntata è bella tosta, piena di riferimenti storici, spesso poco conosciuti dal grande pubblico.
Parlare di Marco Pannella è complicatissimo, non perché il personaggio sia sfuggente o altro, ma per la semplice ragione che non c’è azione politica del dopoguerra in cui non abbia messo piede. Se poi ci riferiamo ai diritti civili questa considerazione va elevata alla ennesima potenza.
Tanto per chiarire: dopo la sua morte, è stato chiesto a molti suoi contemporanei importanti, politici, giornalisti, intellettuali, di definirlo. Non ci sono due definizioni uguali, ciascuno ha privilegiato un suo aspetto, positivo o negativo che fosse, perché Pannella è così: il bene e il male, la luce e l’ombra. Ma resta una figura centrale, anzi centralissima, della politica italiana. Diverso da tutti gli altri, una figura leggendaria per la sua unicità rispetto a quanti lo hanno circondato con affetto o lo hanno respinto con sdegno. Un alieno per metodi non convenzionali, spesso inventati perché ancora non esistenti.
Tanto per chiarire: dopo la sua morte, è stato chiesto a molti suoi contemporanei importanti, politici, giornalisti, intellettuali, di definirlo. Non ci sono due definizioni uguali, ciascuno ha privilegiato un suo aspetto, positivo o negativo che fosse, perché Pannella è così: il bene e il male, la luce e l’ombra. Ma resta una figura centrale, anzi centralissima, della politica italiana. Diverso da tutti gli altri, una figura leggendaria per la sua unicità rispetto a quanti lo hanno circondato con affetto o lo hanno respinto con sdegno. Un alieno per metodi non convenzionali, spesso inventati perché ancora non esistenti.
Introduzione
Oggi ci occupiamo di avvenimenti, molti avvenimenti, che hanno coinvolto un sacco di gente durante gli anni della prima repubblica, diciamo dalla metà degli anni 70 fino a …In realtà alcuni dei personaggi di cui parliamo sono ancora oggi citati nella cronaca, nella cronaca nera, quindi una data di scadenza proprio non esiste. E tuttavia le vicende che maggiormente ci interessano fanno parte di quel grandissimo casino degli anni che finiscono verso la fine del secolo scorso.
Di cosa parliamo? E quali sono i personaggi di cui ho detto? Oggi vi racconto la storia di un gran numero di delinquenti. Questa volta però non è solo un modo di dire, come quando, per fare un esempio, parliamo di qualche politico birichino. Anche se qualcuno di loro entra nel nostro racconto. Si tratta di delinquenti veri, di banditi, tra i più crudeli ed efferati che gli anni dal 1975 in poi abbiano conosciuto. Oggi voglio raccontarvi le vicende legate ad una banda criminale romana, nata in un quartiere degradato, la Magliana. L’argomento di oggi è la banda della Magliana.
É un contadino di 89 anni, vive nella sua piccola fattoria al Cerro, nella periferia di Montevideo. Coltiva fiori, soprattutto crisantemi, che vende al mercato o alle fiorerie della zona. Non si separa mai da Lucìa, sua moglie e da Amelia, la sua cagnetta che ha perso una zampa. É stato per cinque anni presidente dell’Uruguay e, prima, guerrigliero e rinchiuso in carcere per 15 anni, 11 dei quali passati in condizioni disumane. É un uomo saggio, pieno di esperienze, ma anche di sogni, un uomo che, nonostante l’età, non teme di parlare di futuro e di utopia.
É Josè Alberto Mujica Cordano, per tutti semplicemente Pepe Mujica. Questa è la sua storia.
La sua salute, in queste ultime settimane è peggiorata, ma quando scrivo questo pezzo è vivo e vegeto e io spero rimanga tale ancora a lungo.
É Josè Alberto Mujica Cordano, per tutti semplicemente Pepe Mujica. Questa è la sua storia.
La sua salute, in queste ultime settimane è peggiorata, ma quando scrivo questo pezzo è vivo e vegeto e io spero rimanga tale ancora a lungo.
Il giovane Lorenzo
Lorenzo apre gli occhi al mondo il 27 maggio 1923. Capita in una famiglia borghese, che non ha problemi finanziari, possedendo addirittura un feudo a Montespertoli, ma soprattutto in una famiglia di elevata cultura. Il bisnonno è un filologo importante, il nonno è direttore del museo archeologico fiorentino, il padre è chimico, la madre, triestina ed ebrea, ha imparato l’inglese nientemeno che da James Joyce. Lorenzo è il secondo di tre fratelli e in quell’ambiente cresce, acquisendo una cultura vasta e importante. Già da giovanotto parla sei lingue, compresi latino ed ebraico. Eppure, non è uno studente modello e deve soffrire anche qualche bocciatura. Ad ogni modo, si diploma al liceo classico.Nel 1930 la famiglia si trasferisce a Milano, dove, per l’aria che tira contro gli ebrei, i genitori si sposano in chiesa e battezzano i figli. Lorenzo decide di non iscriversi all’Università, ha altre cose in mente: vuole diventare pittore. Così si iscrive a Brera, ma, soprattutto, frequenta lo studio di un artista tedesco, Hans-Joachim Staude dal quale impara un sacco di cose al di là delle tecniche pittoriche, una filosofia che curi i particolari essenziali e punti all’essenziale. Un insegnamento che l’accompagnerà tutta la vita.
Danilo Dolci è stato un uomo straordinario. I siciliani, specie quelli della provincia di Palermo, lo conoscono bene. Ci sono vie e scuole intitolate a lui. Per la maggior parte degli altri è un nome che non dice molto, eppure la sua opera ha provocato in quelle terre una vera e propria rivoluzione. Parlarne oggi, a cento anni dalla sua nascita, è quindi quantomeno doveroso. Danilo nasce il 28 giugno 1924 in mezzo alle doline del Carso, in Friuli, da dove si sposta, per il lavoro del padre, in Lombardia. Antifascista, viene arrestato dai repubblichini, ma riesce a fuggire e a rifugiarsi presso dei pastori in un piccolo borgo dell’appennino abruzzese. É il suo approccio con un altro mondo, un altro modo di essere, una società che la povertà sa benissimo cosa sia. Ma, la sera, con quella gente, in osteria, si trova a parlare di poesia. Dopo la guerra, studia architettura, prima a Roma, poi a Milano. Per racimolare un po’ di soldi insegna in un corso serale e ha tra i suoi allievi Franco Alasia, che sarà sempre al suo fianco in mille battaglie. Partecipa a concorsi di poesia, finendo per gareggiare con nomi come Pasolini, Turoldo, Zanzotto e non è l’ultimo tra i poeti conosciuti.
Che i politici non siano proprio il trionfo della simpatia per il popolo è cosa risaputa. Parlarne è sempre un tantino complicato. In questo caso la storia di un uomo, importante, decisivo per milioni di persone, addirittura, in alcuni casi, per le sorti di una nazione, si intreccia con quella della nostra Repubblica. E lo fa in un periodo straordinariamente ricco di eventi, belli e brutti, ma soprattutto brutti, che hanno segnato i 40 anni dalla fine della seconda guerra mondiale al 1984. L’uomo al quale è dedicato questo video è Enrico Berlinguer, sassarese, del 1922, famiglia di antica nobiltà sarda, decisamente antifascista durante il ventennio, con il padre avvocato, socialista.
Muore da “eroe comunista”, subendo un ictus sul palco di Padova, durante un comizio elettorale nel 1984. Più di un milione di persone parteciperanno ai suoi funerali a Roma. L’effetto della sua scomparsa porterà, per la prima e unica volta, il suo partito ad essere il primo in Italia, anche se per una manciata di voti.
Muore da “eroe comunista”, subendo un ictus sul palco di Padova, durante un comizio elettorale nel 1984. Più di un milione di persone parteciperanno ai suoi funerali a Roma. L’effetto della sua scomparsa porterà, per la prima e unica volta, il suo partito ad essere il primo in Italia, anche se per una manciata di voti.
Oggi dedico questo spazio ad un uomo incarcerato in un carcere di massima sicurezza dal governo britannico, il carcere Belmarsh, non a caso chiamato la Guantanamo d’Inghilterra e il riferimento è a come era il carcere americano, non come è adesso che è stato rimodernato. Ci sono 900 detenuti, tra i più pericolosi, 100 condannati all’ergastolo. Chi vi hanno rinchiuso? Un leader talebano? Un terrorista di Hamas? Un mormone impazzito? Niente di tutto questo. Si tratta di un giornalista, un giornalista famoso, che ha rappresentato con la sua opera e rappresenta tuttora una delle poche voci libere dell’Occidente.
“Porto fuori la spazzatura”. Quante volte l’abbiamo detto: “fuori” è davanti a casa, in attesa del camion della raccolta differenziata o l’isola ecologica di condominio. Oggi parliamo di un altro “fuori”, di quei rifiuti che finiscono in un’altra nazione o addirittura in un altro continente. E qui le cose cambiano drasticamente.
La società dei consumi, quella in cui viviamo, è fondata sui rifiuti. Senza di essi non esisterebbe.
La rivoluzione industriale del ‘700 ci ha regalato un sistema di produzione “lineare”. Si estraggono materie prime: quelle che servono per realizzare le merci, e quelle che servono per produrre l’energia necessaria alla loro lavorazione. Facendolo, si produce inquinamento e, spesso, devastazione dei territori.
La società dei consumi, quella in cui viviamo, è fondata sui rifiuti. Senza di essi non esisterebbe.
La rivoluzione industriale del ‘700 ci ha regalato un sistema di produzione “lineare”. Si estraggono materie prime: quelle che servono per realizzare le merci, e quelle che servono per produrre l’energia necessaria alla loro lavorazione. Facendolo, si produce inquinamento e, spesso, devastazione dei territori.
Quando in Argentina si parla del “golpe”, nessuno ha dubbi che ci si riferisca, tra i tanti avvenuti, a quello che tra il 1976 e il 1983 ha visto al potere una giunta militare.
I numeri sono importanti e dicono molto, ma non tutto, di questo periodo. Ci sono decine di migliaia di morti ma un numero molto minore di cadaveri, migliaia di prigionieri, cittadini fucilati per strada, un milione di esiliati. Questo orribile conteggio, che ancora oggi non ha spento il suo eco, va, in qualche modo, spiegato, perché la dittatura è stata, anche, un atto politico, una presa di potere per la quale occorre porsi alcune domande. Perché è avvenuta? Chi l’ha resa possibile e chi l’ha sostenuta? Quali novità ha portato nella vita sociale, associativa, economica del paese? E poi: perché e come è finita?
I numeri sono importanti e dicono molto, ma non tutto, di questo periodo. Ci sono decine di migliaia di morti ma un numero molto minore di cadaveri, migliaia di prigionieri, cittadini fucilati per strada, un milione di esiliati. Questo orribile conteggio, che ancora oggi non ha spento il suo eco, va, in qualche modo, spiegato, perché la dittatura è stata, anche, un atto politico, una presa di potere per la quale occorre porsi alcune domande. Perché è avvenuta? Chi l’ha resa possibile e chi l’ha sostenuta? Quali novità ha portato nella vita sociale, associativa, economica del paese? E poi: perché e come è finita?
Eccoci arrivati all’ultima puntata sulla deforestazione in questa miniserie. Nella prima abbiamo cercato di capire quanto gli incendi, quasi sempre prodotti dall’uomo, incidano sulla deforestazione. Nella seconda invece ci siamo occupati di studiare il fenomeno del cosiddetto illegal logging, vale a dire il commercio illegale di legname, soprattutto quello di pregio, il teak e il palissandro, in varie regioni del mondo. Abbiamo visto che questa pratica truffaldina, sempre coperta da controllori e quasi sempre dalle amministrazioni pubbliche, è diffusa in ogni parte del globo, dalle regioni africane a quelle asiatiche, e anche in Europa, segnatamente nei Carpazi, in Romania.
Oggi il discorso si allarga, perché vogliamo studiare il fenomeno più diffuso di tutti legato alla deforestazione. Ci chiediamo infatti cosa succede alle zone boschive devastate dalle ruspe e dalle motoseghe. A cosa servono i terreni liberati dagli alberi?
Oggi il discorso si allarga, perché vogliamo studiare il fenomeno più diffuso di tutti legato alla deforestazione. Ci chiediamo infatti cosa succede alle zone boschive devastate dalle ruspe e dalle motoseghe. A cosa servono i terreni liberati dagli alberi?
Cari amici eccoci alla seconda puntata sulla deforestazione. Questa volta parleremo di un argomento davvero poco diffuso, perché siamo abituati a pensare che le cause di questo disastro ambientale siano sostanzialmente due: gli incendi di cui abbiamo parlato l’ultima volta e la creazione di zone verdi adatte al pascolo alla coltivazione, di cui parleremo nella prossima e ultima puntata.
C’è un altro motivo per cui gli alberi vengono tagliati e questo è direttamente legato al tipo di legno con cui sono fatti. Se ci pensate, quante cose fatte in legno avete in casa vostra? Possiamo cominciare dai pavimenti per passare a molti mobili, soprattutto se questi hanno qualche decina d’anni alle spalle da quando sono stati costruiti. E poi librerie, tavoli, sedie e chi più ne ha ….
C’è un altro motivo per cui gli alberi vengono tagliati e questo è direttamente legato al tipo di legno con cui sono fatti. Se ci pensate, quante cose fatte in legno avete in casa vostra? Possiamo cominciare dai pavimenti per passare a molti mobili, soprattutto se questi hanno qualche decina d’anni alle spalle da quando sono stati costruiti. E poi librerie, tavoli, sedie e chi più ne ha ….
Voglio affrontare nelle prossime tre puntate un argomento che credo sia importante e vorrei proporvelo sotto vari punti di vista. Si tratta della deforestazione, che è responsabile di una larga fetta del cambiamento del clima, un’opera criminosa che è cominciata molti decenni fa senza smettere mai.
Prima però vorrei sottolineare un concetto che penso debba essere chiarito.
Le dichiarazioni dei potenti (lo faranno anche a Dubai non c’è dubbio) parlano da molto tempo di “ridurre” la deforestazione. In questo verbo, “ridurre”, c’è tutta la truffa della situazione. Cosa significa, infatti “ridurre”? Significa tagliare meno alberi, vale a dire che invece di eliminarne mille al giorno, ne elimineremo 750. Qual è il risultato? La deforestazione diminuisce? Per niente. Aumenta ancora, anche se ad un ritmo più lento. Altre foreste vengono distrutte, il contenuto di gas serra nell’atmosfera cresce ancora, così come la temperatura media del pianeta, con tutte le conseguenze che ben conosciamo … ma il solito idiota che si informa su Tik Tok sarà felice e contento di aver sentito che la deforestazione viene ridotta.
A chi conviene che le foreste diminuiscano, che si facciano grandi spazi liberi in Amazzonia, in Congo o nel Borneo? E perché?
Prima però vorrei sottolineare un concetto che penso debba essere chiarito.
Le dichiarazioni dei potenti (lo faranno anche a Dubai non c’è dubbio) parlano da molto tempo di “ridurre” la deforestazione. In questo verbo, “ridurre”, c’è tutta la truffa della situazione. Cosa significa, infatti “ridurre”? Significa tagliare meno alberi, vale a dire che invece di eliminarne mille al giorno, ne elimineremo 750. Qual è il risultato? La deforestazione diminuisce? Per niente. Aumenta ancora, anche se ad un ritmo più lento. Altre foreste vengono distrutte, il contenuto di gas serra nell’atmosfera cresce ancora, così come la temperatura media del pianeta, con tutte le conseguenze che ben conosciamo … ma il solito idiota che si informa su Tik Tok sarà felice e contento di aver sentito che la deforestazione viene ridotta.
A chi conviene che le foreste diminuiscano, che si facciano grandi spazi liberi in Amazzonia, in Congo o nel Borneo? E perché?
8 miliardi! É il numero di persone che tra poco popoleranno questo nostro pianeta. 8 miliardi che hanno bisogno di cibo, che vogliono carburanti per le loro automobili, vestiti da indossare, legname per le costruzioni, vogliono avere a disposizione caffè, cacao, pellami, olio, bistecche. La società dei consumi vuole costruire sempre più abitazioni, strade, parcheggi e ipermercati. Per tutto questo serve spazio, terreno, spesso terreno fertile, ne serve sempre di più, e non si sa dove trovarlo. E allora? Allora si elimina una parte delle foreste, che non servono, così come sono, a fare denaro.
Ettore Majorana è scomparso verso la fine di marzo del 1938.
Già … “scomparso”!
É questo l’aggettivo chiave di questa nostra storia. “Scomparso” in questo caso non sappiamo neanche cosa voglia dire: scomparso perché morto o scomparso perché nascosto da qualche parte? E quali motivi avrebbe avuto per nascondersi? E chi lo avrebbe voluto morto? O è lui stesso ad essersi procurato la morte?
Non ci sono, neanche in questo video, risposte a queste domande. Semplicemente: non lo sappiamo noi, come non lo sa nessun altro. In moltissimi, scienziati di chiara fama, storici, scrittori, registi cinematografici, perfino fumettisti, hanno detto la loro. Le ipotesi avanzate sono molte e una diversa dall’altra. Non si riesce neppure a stabilire quale sia il giorno esatto di questa scomparsa: il 25 quando esce dal suo albergo a Napoli? Il 26 quando scrive l’ultimo messaggio? O uno o due giorni dopo, come qualche storico sostiene? É una storia piena zeppa di misteri. Che fine abbia fatto Ettore Majorana non si sa. Le molte fonti utilizzate per questo video sono spesso in disaccordo, alcune sono datate, altre molto recenti. Tutte fanno affidamento su due elementi: i racconti di chi l’ha conosciuto, i colleghi e i parenti, e le sue lettere, molte lettere.
Già … “scomparso”!
É questo l’aggettivo chiave di questa nostra storia. “Scomparso” in questo caso non sappiamo neanche cosa voglia dire: scomparso perché morto o scomparso perché nascosto da qualche parte? E quali motivi avrebbe avuto per nascondersi? E chi lo avrebbe voluto morto? O è lui stesso ad essersi procurato la morte?
Non ci sono, neanche in questo video, risposte a queste domande. Semplicemente: non lo sappiamo noi, come non lo sa nessun altro. In moltissimi, scienziati di chiara fama, storici, scrittori, registi cinematografici, perfino fumettisti, hanno detto la loro. Le ipotesi avanzate sono molte e una diversa dall’altra. Non si riesce neppure a stabilire quale sia il giorno esatto di questa scomparsa: il 25 quando esce dal suo albergo a Napoli? Il 26 quando scrive l’ultimo messaggio? O uno o due giorni dopo, come qualche storico sostiene? É una storia piena zeppa di misteri. Che fine abbia fatto Ettore Majorana non si sa. Le molte fonti utilizzate per questo video sono spesso in disaccordo, alcune sono datate, altre molto recenti. Tutte fanno affidamento su due elementi: i racconti di chi l’ha conosciuto, i colleghi e i parenti, e le sue lettere, molte lettere.
Il due novembre è il giorno dei morti.
2 novembre 1975, ore 6,30: la signora Maria Teresa Lollobrigida arriva da Roma all’Idroscalo di Ostia. É un quartiere periferico, povero, dove il Tevere si butta in mare. Si avvia verso la sua casa, ai margini di un piazzale in terra battuta, quando vede per terra un “mucchio di stracci”. Si avvicina per buttarli, ma si trova davanti ad un corpo umano, un cadavere, il cadavere di Pier Paolo Pasolini.
2 novembre ore 6,30: il giornale radio dà la notizia: “Hanno ammazzato il poeta Pasolini”. Una velocità impressionante. Nessuno, tranne Maria Teresa, sa ancora niente, anche se di cose ne sono già successe un bel po’.
Prima di continuare, un avviso importante a chi guarda questo video. Non fidatevi di quello che sentirete. Non perché vi si voglia imbrogliare, ma perché ci sono molte notizie date per vere, che diventeranno false, in una catena di conferme e smentite che, forse, avrà soluzione solo alla fine.
2 novembre 1975, ore 6,30: la signora Maria Teresa Lollobrigida arriva da Roma all’Idroscalo di Ostia. É un quartiere periferico, povero, dove il Tevere si butta in mare. Si avvia verso la sua casa, ai margini di un piazzale in terra battuta, quando vede per terra un “mucchio di stracci”. Si avvicina per buttarli, ma si trova davanti ad un corpo umano, un cadavere, il cadavere di Pier Paolo Pasolini.
2 novembre ore 6,30: il giornale radio dà la notizia: “Hanno ammazzato il poeta Pasolini”. Una velocità impressionante. Nessuno, tranne Maria Teresa, sa ancora niente, anche se di cose ne sono già successe un bel po’.
Prima di continuare, un avviso importante a chi guarda questo video. Non fidatevi di quello che sentirete. Non perché vi si voglia imbrogliare, ma perché ci sono molte notizie date per vere, che diventeranno false, in una catena di conferme e smentite che, forse, avrà soluzione solo alla fine.
Quando in Argentina si parla del “golpe”, nessuno ha dubbi che ci si riferisca, tra i tanti avvenuti, a quello che tra il 1976 e il 1983 ha visto al potere una giunta militare.
I numeri sono importanti e dicono molto, ma non tutto, di questo periodo. Ci sono decine di migliaia di morti ma un numero molto minore di cadaveri, migliaia di prigionieri, cittadini fucilati per strada, un milione di esiliati. Questo orribile conteggio, che ancora oggi non ha spento il suo eco, va, in qualche modo, spiegato, perché la dittatura è stata, anche, un atto politico, una presa di potere per la quale occorre porsi alcune domande. Perché è avvenuta? Chi l’ha resa possibile e chi l’ha sostenuta? Quali novità ha portato nella vita sociale, associativa, economica del paese? E poi: perché e come è finita?
I numeri sono importanti e dicono molto, ma non tutto, di questo periodo. Ci sono decine di migliaia di morti ma un numero molto minore di cadaveri, migliaia di prigionieri, cittadini fucilati per strada, un milione di esiliati. Questo orribile conteggio, che ancora oggi non ha spento il suo eco, va, in qualche modo, spiegato, perché la dittatura è stata, anche, un atto politico, una presa di potere per la quale occorre porsi alcune domande. Perché è avvenuta? Chi l’ha resa possibile e chi l’ha sostenuta? Quali novità ha portato nella vita sociale, associativa, economica del paese? E poi: perché e come è finita?
Guinea equatoriale, una delle quattro raccontate da questo video. La letteratura è povera, a parte quella di qualche agenzia di viaggi. Ci sono invece inchieste di importanti media, come la BBC, dossier di associazioni per i diritti dei popoli, come Amnesty International, numerosi articoli da riviste come Nigrizia dei Comboniani e riferimenti alle decisioni di tribunali internazionali. Questo non può non incuriosire: cosa succede laggiù, in quel pezzetto di terra sulle coste del Golfo di Guinea?
É uno stato piccolo, molto piccolo, con pochi abitanti, un milione duecentomila secondo il censimento del 2015. Alla faccia del nome, non è nemmeno attraversato dall’Equatore, che si trova un po’ più a Sud.
La terraferma è chiamata Rio Muni; ci sono alcune isole. Tre piccole vicino alle coste e Bioko, ben più importante, dove, stranamente, si trova la capitale, Malabo, 300 mila abitanti, assai più vicina alle coste del Camerun che a quelle della madre patria. Era stata un rifugio per gli schiavi liberati e poi un avamposto navale inglese. Per questo si era popolata ed è stata scelta poi come capitale della repubblica.
É uno stato piccolo, molto piccolo, con pochi abitanti, un milione duecentomila secondo il censimento del 2015. Alla faccia del nome, non è nemmeno attraversato dall’Equatore, che si trova un po’ più a Sud.
La terraferma è chiamata Rio Muni; ci sono alcune isole. Tre piccole vicino alle coste e Bioko, ben più importante, dove, stranamente, si trova la capitale, Malabo, 300 mila abitanti, assai più vicina alle coste del Camerun che a quelle della madre patria. Era stata un rifugio per gli schiavi liberati e poi un avamposto navale inglese. Per questo si era popolata ed è stata scelta poi come capitale della repubblica.
Nelle ultime quattro puntate abbiamo analizzato alcuni aspetti che riguardano il commercio di armi e rifiuti tossici provenienti o comunque passati per il nostro paese.
Abbiamo cominciato dalle navi che trasportano rifiuti ed armi verso paesi stranieri. Paesi che accoglievano volentieri rifiuti anche molto pericolosi, spesso radioattivi, in cambio di forniture di armi oppure di denaro. Lo smaltimento, se possiamo usare questo termine, avveniva spesso in maniera approssimativa, a volte semplicemente gettando le merci sulla riva dei fiumi o sulle spiagge. In Somalia questo è successo e nel paese africano cercavamo di capire cosa era successo Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Probabilmente avevano capito molto, collegando anche l’utilizzo delle navi della cooperazione, con i loro carichi di vestiario, medicinali e cibo, per trasportare armi e rifiuti tossici. E per questo sono stati assassinati il 20 marzo del 1994. Da allora sono passati quasi trent’anni, ma degli assassini e, soprattutto dei mandanti, ci sono solo indizi, ma nessuna certezza.
Abbiamo cominciato dalle navi che trasportano rifiuti ed armi verso paesi stranieri. Paesi che accoglievano volentieri rifiuti anche molto pericolosi, spesso radioattivi, in cambio di forniture di armi oppure di denaro. Lo smaltimento, se possiamo usare questo termine, avveniva spesso in maniera approssimativa, a volte semplicemente gettando le merci sulla riva dei fiumi o sulle spiagge. In Somalia questo è successo e nel paese africano cercavamo di capire cosa era successo Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Probabilmente avevano capito molto, collegando anche l’utilizzo delle navi della cooperazione, con i loro carichi di vestiario, medicinali e cibo, per trasportare armi e rifiuti tossici. E per questo sono stati assassinati il 20 marzo del 1994. Da allora sono passati quasi trent’anni, ma degli assassini e, soprattutto dei mandanti, ci sono solo indizi, ma nessuna certezza.
Premessa
Siamo arrivati alla quarta puntata di questa storia incredibile che si svolge tra Italia e Africa, con le navi che arrivano per depositare rifiuti tossici, che industrie, organizzazioni e amministrazioni dei paesi ricchi non vogliono tenere per sé né vogliono pagare lo smaltimento secondo le normative vigenti.Abbiamo seguito, nelle scorse puntate camion che interravano rifiuti tossici e radioattivi ovunque, in Italia ma anche all’estero, ad esempio nei paesi dell’Est europeo grazie all’intervento di Cosa Nostra. Abbiamo seguito le rotte così strane di quelle navi che improvvisamente si inabissavano: un sacco di navi forse 40 o forse 100 che ancora oggi riempiono i fondali marini lungo le coste della Calabria e della Basilicata, e anche della Sicilia e della Puglia. Abbiamo saputo, grazie alle indagini di molte procure, grazie alle investigazioni fatte eseguire da alcune commissioni parlamentari, che dietro quegli affari c’erano potenti coperture politiche e militari. Secondo il pentito Francesco Fonti i vertici del partito socialista di Bettino Craxi avevano in mano la situazione, che però lasciavano gestire ai Servizi Segreti, usando come manovalanza gli uomini della ‘ndrangheta, specie quella della famiglia di San Luca e del clan Iamonte.
In mezzo a questo andirivieni di rifiuti compaiono anche le armi, altro grande affare italiano. E armi e rifiuti tossici viaggiano spesso assieme su quelle navi della cooperazione che dovrebbero essere cariche solo di cibo e vestiti per le popolazioni più povere e disgraziate del pianeta.
Nella nostra storia manca un anello importante, che è forse quello che più ha suscitato clamore e sdegno nel paese, o meglio in una piccola parte del paese che sapeva di essere vivo. Gli altri erano troppo impegnati a seguire le gag di Drive In e la pubblicità nascosta di Berlusconi nelle sue televisioni.
L’anello che manca riguarda una giornalista del TG3, Ilaria Alpi, e il suo operatore, Miran Hrovatin, morti ammazzati il 20 marzo 1994 a Mogadiscio, in Somalia. Oggi voglio raccontare la loro storia.
“Il futuro della società sostenibile è legato alle auto elettriche!”
“Le auto elettriche inquinano più dei motori endotermici, altro che sostenibilità!”
Sono queste le frasi che, se cercate in rete “sostenibilità auto elettriche”, saltano fuori, ma non una volta, bensì decine di volte, ciascuna condita di credenziali e presunte prove. “Presunte” per un semplice motivo: di fronte a due verità contrapposte, almeno una delle due dev’essere falsa, di sicuro non possono essere vere entrambe.
Questa è la fine che fanno tutti i dibattiti basati su dogmi o su quell’”ipse dixit” di aristotelica memoria, sostituito purtroppo dalla televisione, dai soloni che pontificano senza averne titolo, da quelli che sono sovvenzionati da questa o quella parte, da quelli che “ho sentito dire che”. Così si cade nei discorsi da ultras del calcio, i quali, di fronte alle stesse immagini, danno interpretazioni opposte, suffragate da quel fenomeno della mente, chiamato tifo. Ci finiscono mille discussioni, anche sulla politica, basta leggere le prime pagine dei quotidiani in una mattina qualsiasi. E viene da chiedersi come si fa a districarsi in questo ginepraio.
É un bel problema. Quello che possiamo fare è usare un metodo pragmatico, eliminando ideologie, posizioni precostituite, preconcetti e tutto il resto che gli va dietro.
“Le auto elettriche inquinano più dei motori endotermici, altro che sostenibilità!”
Sono queste le frasi che, se cercate in rete “sostenibilità auto elettriche”, saltano fuori, ma non una volta, bensì decine di volte, ciascuna condita di credenziali e presunte prove. “Presunte” per un semplice motivo: di fronte a due verità contrapposte, almeno una delle due dev’essere falsa, di sicuro non possono essere vere entrambe.
Questa è la fine che fanno tutti i dibattiti basati su dogmi o su quell’”ipse dixit” di aristotelica memoria, sostituito purtroppo dalla televisione, dai soloni che pontificano senza averne titolo, da quelli che sono sovvenzionati da questa o quella parte, da quelli che “ho sentito dire che”. Così si cade nei discorsi da ultras del calcio, i quali, di fronte alle stesse immagini, danno interpretazioni opposte, suffragate da quel fenomeno della mente, chiamato tifo. Ci finiscono mille discussioni, anche sulla politica, basta leggere le prime pagine dei quotidiani in una mattina qualsiasi. E viene da chiedersi come si fa a districarsi in questo ginepraio.
É un bel problema. Quello che possiamo fare è usare un metodo pragmatico, eliminando ideologie, posizioni precostituite, preconcetti e tutto il resto che gli va dietro.
Puntata 3: riassunto
Vi stavo raccontando l’incredibile storia di Francesco Fonti, affiliato alla ’ndrangheta nella famiglia di San Luca e poi pentito. Ha raccontato tutto, prima di morire nel 2012, lasciando memoriali ai procuratori antimafia, dai quali è possibile risalire ai nomi di tutti i coinvolti. Quelli che appartengono alle varie famiglie della mafia calabrese, quelli che hanno coperto il traffico illecito di rifiuti tossici e di armi, quelli che li hanno forniti, i politici e gli appartenenti ai Servizi Segreti che, chiudendo tutti e due gli occhi hanno intascato un po’ di denaro e, forse di potere.
So che avete già indovinato, ma la sua testimonianza è servita davvero a poco. Molte inchieste sono state frettolosamente chiuse, la quasi totalità dei documenti dichiarati segreti di stato e desecretati solo di recente (di questo parleremo alla fine del nostro racconto) e insomma la cosa si è protratta, segno evidente che le coperture del malaffare arrivavano in alto, molto in alto.
Fonti ha raccontato di decine e decine di navi (secondo i suoi calcoli circa 40, anche se più avanti scopriremo che sono state più del doppio) che vengono affondate lungo le coste italiane, dove i fondali sono abbastanza profondi da evitare indagini imbarazzanti negli anni a venire. Si verificano tuttavia alcuni episodi che, diversi anni dopo (siamo nel 2009) mettono in allarme gli inquirenti, le associazioni ambientaliste e gli abitanti delle zone colpite, segnatamente la Calabria e la Basilicata.
Da un lato, infatti si assiste, ad un inspiegabile aumento di malattie come leucemie e tumori, dovute con ogni probabilità, e questo è l'altro lato, alla strana presenza di livelli molto alti di radioattività nella zona, specie lungo le coste.
Poi c’è la scomparsa della Rigel, assicurata con i Lloyds di Londra, i quali non vogliono pagare e si rivolgono alla magistratura di La Spezia, chiedendo come mai una nave che imbarca acqua non mandi un segnale di pericolo, un SOS. Sarà l’unico caso di una nave scomparsa che andrà sotto processo con condanna finale dell’armatore e delle ditte che avevano provveduto ad un carico completamente diverso da quello che era stato dichiarato. Ed infine la storia della Jolly Rosso (o se preferite della Rosso, secondo la denominazione ufficiale dopo essere stata spedita in Libano a riportare a casa una parte delle schifezze che la ditta Jelly Wax aveva fatto interrare e seppellire in mare in quel lontano stato orientale. La Rosso deve essere affondata, come tutte le altre, ma succede qualcosa, forse un errore nelle manovre di autoaffondamento, e la nave se ne va galleggiando ancora per ore, fino a inclinarsi su un fianco sulla spiaggia di Amantea, rimanendo là come uno strano e inquietante monumento.
L’equipaggio, 16 uomini più il comandante, è tratto in salvo qualche ora prima dagli elicotteri della marina militare.
Ma le cose più strane accadono dopo lo spiaggiamento. Perché non si riesce a trovare il buco da cui sarebbe entrata l’acqua. L’armatore, di fronte alle domande della Guardia di Finanza, sostiene che un muletto fissato male ha urtato le pareti della stiva facendo il buco, solo che non si vede perché è sotto la sabbia. In realtà un buco si trova, ma è un buco squadrato, ben definito, non un buco da carrello o da effetti delle onde marine, più un buco da cannello con fiamma ossidrica. Un buco che con ogni probabilità è servito per togliere in tutta fretta quello che non si doveva vedere. Un’operazione eseguita con la velocità del fulmine. Gli abitanti della zona hanno visto per molti giorni i camion scortati dai vigili del fuoco e dalla finanza portare i resti della Rosso in discarica: scatolette scadute, tabacco avariato, porzioni della nave. Ma hanno visto anche i camion che arrivavano di notte, stavolta senza scorta, portare “altre cose” nella discarica. C’è poi un testimone che dice di aver visto altri camion che partivano dalla Rosso e andavano fino a Foresta, una sperduta località del comune Serra D’Aiello (Cosenza) dove c’è un fiume. Un altro dice di aver visto in quei posti dei bidoni strani, gialli e molto arrugginiti. Interviene allora il nucleo operativo ecologico dei Carabinieri (NOE). Non c’è radioattività, ma ci sono migliaia di metri cubi di fanghi industriali che non appartengono alle attività locali. Troppi indizi.
E così proprio dalla Rosso cominciano le inchieste, che coinvolgono molte procure: Reggio Calabria, Paola, Catanzaro, Roma, Matera, La Spezia, Padova, Asti.
A Reggio Calabria c’è un giovane capitano di corvetta che dà impulso alle ricerche. Il suo nome è Natale De Grazia. La matassa si comincia a dipanare e vengono a galla i legami che tengono assieme tutti quegli affondamenti: la ‘ndrangheta, la massoneria, la mala politica, gli affari illeciti, le connivenze e le complicità dei servizi e di parte delle istituzioni di controllo.
Ecco: questa è la situazione come l’ho raccontata nelle due puntate precedenti, puntate che, se avete voglia potete leggere o ascoltare visitando il mio sito noncicredo.org.
Ed è qui che si inserisce la storia di un militare, coraggioso ed eroico, ma non nel senso idiota che viene usato troppo spesso dai media americani, un eroe vero, di quelli che ci ha lasciato la pelle per una giusta causa, di cui poteva tranquillamente fregarsene come la stragrande maggioranza dei suoi colleghi e superiori. Lui si chiamava Natale De Grazia e questa è la sua triste storia. Prendiamo un respiro, ascoltiamo un breve brano musicale e poi ve la racconto.
De Grazia si occupa in particolare della Rigel per i motivi già detti anche questa sera: è l’unica nave la cui vicenda entra nei documenti di un dibattimento in aula.
La procura prende possesso degli atti del processo contro gli armatori di cui ho già detto e che porteranno alla condanna per affondamento doloso mentre l’associazione a delinquere cadrà nel corso del dibattimento. Leggendo quella documentazione salta subito all’occhio che, nonostante il processo riguardi una nave soltanto, di navi affondate in maniera dolosa e sospetta ce ne sono state parecchie. Ecco la pista che De Grazia vuole seguire: quante navi? cosa trasportavano? chi ha organizzato l’affondamento?
Certo non è un gioco da ragazzini. E’ evidente che un traffico del genere non può averlo messo in piedi la banda bassotti. A La Spezia ci sono basi della NATO, della Marina Militare, c’è il centro di addestramento dei reparti speciali, ci sono fabbriche di armi. La Rigel trasporta presumibilmente uranio, comunque materiali radioattivi: non possono certo venire dal furto di qualche supermercato.
In quel periodo nel porto di La Spezia c’è una nave particolare. Si chiama Latvia, una motonave della ex Unione Sovietica, appartenuta ai servizi segreti, al KGB insomma.
Il corpo forestale dello stato sente puzza di bruciato e, già il 26 ottobre del 1986, invita la polizia a fare un’indagine, perché quell’imbarcazione potrebbe venire usata per trasportare rifiuti tossici e perfino radioattivi.
Di chi è quella nave? Era stata acquistata da una società liberiana con sede in Monrovia, attraverso un ufficio legale di La Spezia. Monrovia è un porto sulla costa Ovest dell’Africa poco più su di dove comincia il golfo di Guinea. La stranezza tuttavia è il prezzo pagato, che risulta superiore al valore reale e questo fa supporre che potrebbe essere utilizzata come “bagnarola” per traffici illeciti.
Qualche settimana più tardi la Latvia entra di nuovo in una annotazione di polizia giudiziaria. Il brigadiere Gianni Podestà comunica alle procure di Reggio Calabria e Napoli che una fonte attendibile ha riferito che famiglie camorristiche e logge massoniche sarebbero implicate nei traffici di rifiuti radioattivi e tossici interessanti la zona di La Spezia e l’hinterland napoletano.
La Latvia, secondo questa fonte, avrebbe seguito la stessa sorte della Rigel, dovendo salpare entro 4 giorni (entro il 14 novembre 95) da La Spezia per Napoli, dove avrebbe ritirato un altro carico per poi muovere attraverso lo Stretto di Messina per Malta. Di ritorno sulle coste joniche sarebbe stata affondata.
Queste informazioni arrivano da un informatore, del quale vi ho parlato l’ultima volta. Si tratta di quel “Pinocchio” (di cui si tace il nome vero) che aveva raccontato molto di quello che succedeva a La Spezia e nel suo porto. La deferenza o la soggezione con cui Pinocchio viene trattato, lascia capire che si tratta di un personaggio di rilievo, forse un agente dei servizi segreti, più che un pentito, con grande probabilità un agente infiltrato nelle cosche del malaffare. Come vado dicendo fin dall’inizio ci sono sempre gli stessi aggettivi a seguire le vicende: “strano” è uno di questi. É tutto troppo strano: ci sono indizi dappertutto ma gli affondamenti continuano indisturbati e nessuno sa mai niente.
A Reggio Calabria lavora un piccolo pool di investigatori. Tra loro il più impegnato e anche quello con maggiore conoscenza del problema è il capitano Natale De Luca, sposato con due figli di 8 e 10 anni. É un esperto di qualunque cosa riguardi il mare: inquinamento, correnti soprattutto dello stretto di Messina, ovviamente la questione delle navi scomparse.
Ad un certo punto arriva in Calabria il pubblico ministero reggino Francesco Neri, dell’antimafia, una presenza che fa capire quanto importante la magistratura ritenga l’intera vicenda.
E la Latvia cade sotto la lente del pool e di Neri, perché si tratta di un’occasione unica e davvero grande. Contrariamente a tutti gli altri casi, qui si può monitorare la faccenda in diretta, osservare e studiare la nave, prendere contatto diretto con gli occupanti.
Per questo il 12 dicembre Natale De Grazia sale in macchina alla volta di La Spezia. Non si sa chi lo abbia deciso: non risulta da nessun documento ufficiale. Nelle indagini della commissione sulla gestione dei rifiuti questo fatto risulterà confermato dalla la deposizione di un soggetto il cui nome è stato segretato. In effetti la decisione viene presa nel più grande segreto, cercando di non farlo sapere praticamente a nessuno. Il suo comandante addirittura firma una delega in bianco perché non venga diffuso il vero obiettivo della missione, nel caso cadesse in mani sbagliate.
Partono di sera, con il buio che a dicembre arriva presto, sotto un diluvio e con una macchina certo non all’altezza per un tragitto tanto lungo, che attraversa l’intera penisola, una Tipo.
Arrivati a Nocera si fermano per la cena. Tutti mangiano le stesse cose; solo Natale ordina un limoncello. Ripartono e, dopo poco, il capitano si accascia e muore. Non si sa perché. Nel suo corpo non vengono trovate tracce di alcool. É un mistero che getta nel dramma la famiglia, sbigottita e l’intero pool con cui lavora.
I sospetti su questo improvviso decesso si fanno ancora più fitti dopo la sua morte. Il 15 dicembre, due giorni dopo la tragica fine di Natale, l’ispettore Tassi manda un fax alla procura di Reggio Calabria. Eccone il testo:
"In data odierna è stata accertata la partenza della Motonave Latvia, avvenuta all'incirca verso la terza decina del Novembre per raggiungere il porto di Ariga (Turchia)".
C’è puzza di marcio lontano chilometri. La Commissione parlamentare che indaga sugli illeciti legati allo smaltimento dei rifiuti, presieduta dall’on Gaetano Pecorella, ne prende atto e lo scrive in un italiano giudiziario incomprensibile. Eccolo però tradotto in un linguaggio da bar dello sport.
Non possiamo che sottolineare che questa vicenda è molto particolare. Mentre si sta indagando sull’uso di navi per trasportare rifiuti tossici, c’è la possibilità di controllare una nave, la Latvia, che si sospetta essere una di quelle. Nonostante questo la polizia giudiziaria non fa alcuna verifica approfondita, nessuno interroga gli occupanti della nave, nessuno segue la nave nei suoi spostamenti.
In effetti, durante l’inchiesta per la morte di Natale De Grazia, il pm Francesco Neri dichiara che all’epoca dei fatti lui e un suo collega scrivono al presidente della repubblica, Luigi Scalfaro, comunicando che le indagini sulle navi possono coinvolgere la sicurezza nazionale. E siccome il SISMI non può non essere a conoscenza di questi traffici, il pm richiede tutti i documenti che riguardino il traffico clandestino di rifiuti radioattivi con navi. L’informativa arriva puntualmente tra gli incartamenti dell’inchiesta. I servizi segreti dunque conoscono certamente l’indagine sulle navi.
Forse non serve dire che dopo la morte di Natale le indagini sulle navi dei veleni si arenano e non se ne sa più molto fino agli sviluppi più recenti.
Per chiudere il capitolo sulle indagini vi leggo la chiusura di un articolo pubblicato dal Manifesto e ripreso dal comitato Natale De Grazia, che si occupa non solo di questa vicenda, ma di tutte quelle che hanno a che fare con i rifiuti e con l’ambiente più in generale. www.comitatodegrazia.org.
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Un tragico dicembre
Natale De Grazia era sul punto di chiudere le indagini. Aveva già programmato di utilizzare le festività di fine anno per preparare un rapporto finale, con le conclusioni della lunga inchiesta. Il sei dicembre a Reggio Calabria viene sentito – per la seconda volta – il teste “alfa alfa”, ovvero Aldo Anghessa. Oscuro trafficante, fortemente sospettato di agire spesso per interessi non chiari o come agente provocatore, due giorni prima del ponte dell’immacolata depone davanti a Natale De Grazia. E introduce un nuovo nome, che sarà fondamentale per l’inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi, Giampiero Sebri. «È disposto a collaborare», spiega Anghessa. Sebri qualche anno più tardi – nel 1997 – deporrà a lungo davanti ai magistrati della Dda di Milano, raccontando di una organizzazione internazionale specializzata nel traffico dei rifiuti nucleari. Indicherà anche Giancarlo Marocchino e l’ufficiale del Sisde presente in Somalia nel marzo del 1994, Luca Rajola Pescarini, come personaggi coinvolti, a suo dire, nel traffico. Per quelle dichiarazioni venne condannato per calunnia, condanna penale poi revocata qualche mese fa dalla Corte di Cassazione.
Quattro giorni dopo l’interrogatorio Natale De Grazia, insieme al maresciallo dei carabinieri Nicolò Moschitta, riceve sei deleghe dal procuratore Neri, per compiere indagini a La Spezia e a Como. Chi doveva incontrare De Grazia non lo sappiamo. Il 12 dicembre parte e a mezzanotte viene stroncato da un arresto cardiaco, in circostanze mai chiarite.
I servizi segreti
Il documento arrivato nei mesi scorsi negli uffici della commissione Pecorella che dimostrerebbe l’erogazione di fondi ai servizi segreti per la gestione dei rifiuti nucleari e di armi ha la data – secondo quanto riportato dal quotidiano Terra – dell’11 dicembre 1995, ovvero il giorno prima del viaggio di De Grazia. Il capitano di corvetta sentiva il pericolo come vicino, vicinissimo. Lo raccontava al cognato, mentre da qualche mese – dopo una perquisizione decisamente anomala a Roma – aveva il timore di entrare in contrasto con pezzi importanti dello stato. Sapeva di essere vicino alla verità, e questo lo preoccupava. Quello che probabilmente non sapeva era che quello stesso stato che gli pagava lo stipendio per bloccare i traffici criminali di rifiuti e di armi, finanziava – segretamente – chi quei traffici li copriva o, addirittura, li organizzava.
A ben vedere di misteri misteriosi questa storia è già abbastanza piena. Del resto gli anni ’80 e ’90 sono così ricchi di fatti accaduti che ancora oggi lasciano con l’amaro in bocca perché di essi non si riesce a dare una spiegazione piena e univoca. E sono fatti che si intrecciano in un groviglio incredibile. Tanto per fare un esempio, il pentito Fonti sostiene di aver saputo perfettamente dove si trovava rinchiuso Aldo Moro nell’appartamento in via Gradoli. Il suo capo, Sebastiano Romeo, gli ordina di trovare l’indirizzo. Richiesta poi confermata da Benigno Zaccagnini, allora segretario della DC. Fonti si rivolge al suo contatto per i rifiuti, Pino. Ma è il Cinese della banda della Magliana ad indicargli l’appartamento di via Gradoli. Alcuni contatti della ‘ndrangheta gli danno conferma e anche Giuseppe Sansovito, generale del SISMI e appartenente alla loggia massonica P2 di Licio Gelli. Ma quando torna a S. Luca con l’informazione il suo boss gli dice che i politici non hanno più interesse nella ricerca di Aldo Moro.
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Verità? Fantasie? Non lo so. Tuttavia gli intrecci tra politica, malavita organizzata, servizi segreti, massoneria deviata, perfino frange estremistiche di paesi stranieri non sono certo una novità di quel periodo. Potremmo scorrere un elenco lunghissimo di fatti non accertati come alcune stragi (quella di Bologna e di Ustica su tutte), omicidi eccellenti come quello di Pecorella, dei giornalisti De Palo e Toni in Libano e, ovviamente di Ilaria Alpi e Miran Hrovatim in Somalia. Molti protagonisti dei fatti, da Moro a Cossiga, dai generali dei servizi segreti ad Andreotti se ne sono andati per sempre e con loro una buona fetta di possibilità di arrivare alla verità vera. Cosa c’entra tutto questo con natale De Grazia? Il semplice fatto che lui è ben consapevole in quale fanghiglia si sta cacciando, eppure continua il suo lavoro e muore. Continueremo dopo una pausa musicale.f
Abbiamo usato l’aggettivo “strano” tante e tante volte. Va tirato fuori anche quando si decide di guardare dentro la casa di Giorgio Comerio. Comerio è uno dei nomi chiave delle inchieste sul traffico dei rifiuti, delle scorie radioattive e delle armi. É fuggito in Tunisia e ha rilasciato interviste in cui ha attaccato tutti i suoi accusatori.
Di lui è arcinoto il progetto ODM (Oceanic Disposal Management) col quale pretendeva di eliminare le scorie radioattive delle centrali nucleari, infilandole dentro dei siluri lungi 16 m, sparati poi in mare per farli inabissare in fondali fangosi e lasciarle là. Progetto rigettato da tutte le nazioni per motivi che credo sia inutile spiegare.
La commissione ecomafie ha preteso la declassificazione dei documenti riguardanti Comerio, dai quali sembrerebbe che l’ingegnere italiano sia uno dei fornitori della Corea del Nord di materiali radioattivi. Insomma un bel personaggino.
A noi qui interessa il fatto che nei documenti trovati durante quella perquisizione si scopre che nella casa di Giorgio Comerio, Natale trova un’agenda con questa notazione “Lost the ship” (La nave è persa) il giorno 21 settembre 1987, lo stesso giorno in cui affonda la Rigel. E quel giorno nessuna altra nave risulta dispersa in mare, secondo l’Organizzazione Marittima Internazionale. De Grazia trova anche una copia del certificato di morte di Ilaria Alpi. Perché mai uno come Comerio dovrebbe tenersela in casa? Soprattutto se si considera che nessun altro, neppure i genitori di Ilaria l’anno mai avuta?
Giorgio Comerio tratta l’acquisto della Jolly Rosso, la motonave che deve affondare al largo del Golfo di S. Eufemia, ma che per un errore finisce spiaggiata sulla sabbia di Amantea. Questa storia la racconterò tra non molto con tutti i suoi risvolti misteriosi.
L’ultima parte di questo racconto riguarda ancora la morte del capitano di corvetta Natale De Grazia. Riguarda quello che è stato fatto dopo quel 13 dicembre per scoprire se davvero è deceduto per cause naturali come riporta il referto oppure no.
La diagnosi del medico legale che ne constata il decesso è arresto cardio-circolatorio. Eccolo di nuovo: “strano”! Aveva 37 anni e il suo fisico era integro e in perfetto stato.
Viene ordinata l’autopsia. A questo punto nei romanzi gialli il mistero si dirada e i colpevoli saltano fuori. Ma non è questo il caso perché l’autopsia non rivela nulla di particolare, anche se immagino che il sospetto di un avvelenamento durante quella cena sia forte in chiunque abbia seguito il racconto fino ad ora.
Vediamo come sono andate le cose.
Il primo esame viene svolto il 19 dicembre 1995, sei giorni dopo la morte del capitano. E’ il sostituto procuratore Cinzia Apicella a disporlo e la dottoressa Del Vecchio ad eseguirlo. Ed è lei che traccia la prima sentenza: morte naturale, probabilmente dovuta ad un arresto cardiaco improvviso, dovuto ad una ischemia del miocardio con conseguenti gravi turbe cardiache. Insomma una morte improvvisa tipica di persona adulta. Ma Natale De Grazia è un uomo giovane, per di più militare e come tale soggetto a frequenti visite mediche, durante le quali mai era stata riscontrata una qualsiasi patologia cardiaca.
Anche la famiglia vuole vederci chiaro e affida ad un altro medico legale, il dott. Asmundo, una verifica. Ma il risultato non cambia di molto. La causa remota supposta potrebbe essere stata un superlavoro conclusosi con un accidente cardiaco.
Proprio le riserve della famiglia portano ad una seconda perizia, svolta un anno e mezzo dopo la prima, nell’aprile del 1997, una equipe di medici, tra i quali ancora la dottoressa Del Vecchio, sono incaricati di indagare sulla presenza di agenti chimico-tossici nell’organismo del capitano. Anche in questo caso, le considerazioni medico-legali escluderanno "la presenza di sostanze tossiche di natura esogena nei campioni esaminati". Negativa risulterà anche la ricerca di arsenico nei capelli e nel fegato. La conclusione è la medesima di un anno e mezzo prima: "Si ritiene, anche alla luce delle ulteriori indagini di laboratorio eseguite che la causa della morte del Capitano De Grazia Natale sia da ricondurre ad un evento naturale tipo ‘morte improvvisa dell'adulto’, come già ci esprimemmo in merito nella precedente relazione di consulenza tecnica medico-legale affidataci".
E il discorso sembra chiuso qui.
Noi facciamo solo una timida domanda: come mai un secondo esame che dovrebbe controllare la bontà del precedente, viene affidato alla stessa dottoressa Del Vecchio?
Quindici anni dopo, siamo alla fine del 2012, la Commissione Parlamentare che indaga sulle attività illecite collegate al ciclo dei rifiuti, richiede una ulteriore perizia. La commissione è presieduta da Gaetano Pecorella, ex PDL poi passato al gruppo che fa riferimento a Mario Monti.
Il perito incaricato è Giovanni Arcudi, 67 anni, titolare della cattedra di Medicina legale all'università' romana di Tor Vergata e docente alla Scuola ufficiali dei carabinieri. Ovviamente non è nemmeno il caso di riesumare la salma che non darebbe ulteriori apporti, per cui si può solo ripercorrere il lavoro dei medici di allora e riesaminare i reperti istologici.
Una lunga relazione viene fornita alla commissione. Si può trovare in rete facilmente. In essa si dichiara l’impotenza del medico nei confronti di conclusioni sul presunto avvelenamento del capitano, ma si traggono alcune conclusioni davvero inquietanti.
Primo. L'indagine medico legale condotta dalla Dott.ssa Del Vecchio si è conclusa con una diagnosi di morte improvvisa dell'adulto, facendo intendere che vi fossero in quel quadro anatomico ed istopatologico elementi concreti che potevano ben sostenere detta diagnosi. Ma non c’è nulla nella relazione delle precedenti autopsie che possa validare la conclusione di una morte improvvisa dell’adulto. La conclusione della dottoressa Del Vecchio dunque non corrisponde alla verità scientifica. Diciamolo meglio: la conclusione dell’autopsia è in contrasto con quanto la stessa dottoressa scrive nelle pagine precedenti.
Secondo. Ci sono le testimonianze dei suoi compagni di viaggio. De Grazia si era addormentato subito dopo essere risalito in macchina e russava in modo strano. Ad un certo punto reclina la testa sulla spalla e per questo viene scosso. Lui reagisce sollevando il capo senza svegliarsi e senza dire niente se non un suono indefinito. Poco dopo reclina ancora la testa e non risponde più alle sollecitazioni.
E questo modo di morire, conclude il professor Arcudi, non ha nulla a che fare con una questione cardiaca: mancano infatti i segni e le reazioni (come il dolore) che normalmente accompagnano un attacco cardiaco.
Tutte le manifestazioni osservate invece si accordano bene con una progressiva crisi delle funzioni del sistema nervoso centrale. Questa può avvenire in caso di incidenti cerebrovascolari, esclusi però dalle autopsie precedenti. L’unica causa che rimane è quella tossica. Quale essa potrà essere stata, se c’è stata, ormai non lo si può più accertare.
E’ chiaro che, anche se questo referto non conclude il giallo, porta però elementi inquietanti e toglie quella sicurezza sulla morte naturale di Natale che fino ad allora era data per assodata.
Nel febbraio 2013 la commissione Pecorella arriva alla conclusione. Su questo argomento scrive:
“Non è compito di questa Commissione pronunciare sentenze né sciogliere nodi di competenza dell'autorità giudiziaria, tuttavia non si può non segnalare che la morte del capitano De Grazia si inscrive tra i misteri irrisolti del nostro Paese.”
Già, una morte misteriosa, un caso irrisolto, come per altri morti violente: Graziella De Palo e Italo Toni, in Libano nel 1980; Ilaria Alpi e Miran Hrovatin a Mogadiscio nel 1994, Mino Pecorelli nel 1979, come Antonio Russo nel 2000, e tanti altri, troppi altri che se ne sono andati in modo misterioso avendo come unica colpa quella di cercare la verità.
Ma c’è molto altro che succede in quegli anni e che fa dell’Italia il ricettacolo delle schifezze di organizzazioni nazionali e internazionali, di aziende che trattano materiali radioattivi o comunque sostanze pericolose e tossiche.
Vorrei riprendere le deposizioni del pentito Fonti, di cui vi ho parlato a lungo all’inizio di questa puntata. Lo faccio non perché non basti quello che ho già detto, ma perché si capisca la vastità degli interessi in gioco.
Ed inoltre, ricordiamo che racconto qui solo le vicende che Fonti conosce, che sono poi quelle della ‘ndrina di San Luca. E dunque le vicende vanno moltiplicate per tutte le famiglie attive sul territorio. Insomma questo racconto è decisamente all’acqua di rose, come volume d’affari (chiamiamoli così).
La scorsa volta avevamo incontrato un personaggio curioso, il dottor Tommaso Candelieri dell'Enea di Rotondella. Si tratta di un comune in provincia di Matera, in Basilicata. Qui sorge uno dei centri nucleari italiani, che all’epoca era destinato alla ricerca di nuove tecnologie nucleari, in particolare alla conservazione e al ritrattamento del combustibile nucleare derivato da un ciclo torio-uranio. Oggi il centro è affidato alla SOGIN, l’azienda incaricata della dismissione di tutti i residui nucleari italiani.
Dunque il dottor Tommaso stocca in quel periodo rifiuti decisamente pericolosi, che però provengono da ogni parte e non solo dall’Italia. Arrivano, da Svizzera, Francia, Germania e Stati Uniti. In quel preciso momento ha l'esigenza di far sparire una certa quantità di materiale.
Nel 1992, Fonti si presenta a Candelieri chiedendo se c’è del lavoro. “Il lavoro in questo settore non manca mai” risponde il dottore dell’ENEA.
Questa volta si tratta di mille bidoni di rifiuti tossici e radioattivi. Ci sono fanghi e rifiuti ospedalieri, ossido di uranio, cesio e stronzio, il tutto contenuto in fusti che a loro volta sono sistemati in 20 container lunghi 25 metri e alti 6 di proprietà della società Merzario Marittima, che tra l'altro controllava per conto delle autorità somale l'ingresso delle navi nel porto nuovo di Mogadiscio.
Ho già sottolineato nelle precedenti puntate di fare mente locale alle dimensioni dei container. La stanza in cui siete probabilmente misura 4x4x2,70 e contiene quindi un volume circa 10 volte inferiore a quello di uno solo di quei container.
Uno dei personaggi che entrano nell’affare è il sedicente conte di Piacenza Mirko Martini. Questo si rivelerà essere un uomo dei servizi segreti italiani, ammanicato con la CIA e intimo del presidente ad interim della Somalia Ali Mahdi, per il quale ha in ballo un grosso affare per la consegna di una notevole quantità di armi. Si tratta di 75 casse di kalashnikov, 25 casse di munizioni e 30 casse di mitragliette Uzi. Arrivano dall’Ucraina sulla nave Jadran Express a Trieste, qui caricate su camion e portate a La Spezia da Fonti, parcheggiate in un capannone dal quale devono poi proseguire per l’imbarcazione, la Mohamuud Harbi.
Nel frattempo Fonti organizza il trasporto dei rifiuti; oltre ai container ci sono i rifiuti dell’ENEA, che arrivano al porto di Livorno su 20 camion. La nave che deve portarli in Somalia è la Osman Raghe. Le due navi partono e arrivano assieme a Mogadiscio. E’ l’inizio di febbraio 1993.
In Somalia, lo abbiamo già incontrato in precedenza, c’è Giancarlo Marocchino, factotum e uomo molto potente nel paese africano. É un amico di Mirko Martini e, come si saprà più avanti, sostenuto nelle sue azioni dai Servizi segreti italiani (come lui stesso affermerà più avanti, ma questa è storia che scopriremo leggendo le pagine desecretate tra qualche puntata).
Ricorderete che ne abbiamo parlato come il referente del gruppo Bizzio in Somalia, quello che ha denunciato il pentito Sebri facendolo condannare per calunnia.
E, mentre le armi viaggiano verso Ali Mahdi, i rifiuti vengono trasferiti in diversi punti, ma sempre nella regione attorno alla città di Bosaso, che si trova all’estremo nord del paese. Un’altra parte finisce invece a Sud, vicino al confine con il Kenia. L’operazione fila liscia e costa a Candelieri:
Come detto, questo racconto va moltiplicato per un numero abbastanza grande. Negli anni 80 molti governi affidavano a faccendieri più o meno disonesti lo smaltimento dei rifiuti pericolosi perché non sapevano dove metterli. Uno dei personaggi ricordati da Fonti nel suo memoriale è l’ingegner Giorgio Comerio, di cui ho detto poco fa. Comerio, nella zona dei Balcani, traffica in armi di qualunque tipo. Fonti lo incontra nel Montenegro in un ristorante nel 1993. Con lui fa alcuni affari riguardanti le armi, che, grazie a lui, compra dalla tedesca Thyssen per rivenderla agli ustascia jugoslavi. Per capire chi è Comerio a Fonti vengono offerti 75 aerei russi da rivendere. Quegli aerei sarebbero finiti poi in Liberia, passando da un faccendiere ukraino.
Gli affari con Comerio continuano.
Nel 1995 una grossa partita di niobio, materiale usato nella costruzione dei reattori nucleari, viene portato in Sierra Leone per 250 milioni di lire.
Comerio racconta a Fonti dei suoi buoni rapporti con la famiglia Iamonte di Melito Porto Salvo, che lo aveva aiutato, dagli anni 80 in poi, nell'affondamento di navi cariche di rifiuti tossici e radioattivi in acque internazionali davanti alla costa ionica calabrese.
In particolare Fonti riferisce il caso della nave Rigel. Leggiamo dal suo memoriale ...
“Comerio mi spiegò che affondava navi cariche di rifiuti pericolosi per ottenere un doppio guadagno, sia da parte di chi commissionava il trasporto, sia da parte dell'assicurazione che veniva frodata. Le sue parole mi sono state poi confermate dallo stesso Iamonte, il quale mi ha spiegato come Comerio gli avesse chiesto di fornirgli il personale di bordo per l'affondamento della Riegel, la nave della società May Fair Shipping di Malta, noleggiata dalla Fjord Tanker Shipping, a sua volta noleggiata a un'altra ditta di cui non ricordo il nome, mandata a picco nel settembre del 1987 davanti a Capo Spartivento. Iamonte mi disse che l'affondamento era avvenuto 25 miglia fuori dalle acque territoriali. La 'ndrangheta aveva fornito il capitano e il suo aiuto italiano, mentre il resto dell'equipaggio veniva da varie nazioni. Sempre Iamonte ha fatto partire un motoscafo dalla costa con i candelotti di dinamite per mandare a picco la Riegel, dopodiché il capitano e l'aiuto sono stati riportati sulla costa di Capo Spartivento, mentre l'equipaggio è stato prelevato dalla nave jugoslava Karpen collocata in zona, che l'ha portato in Tunisia".
Ma anche la famiglia di San Luca è attiva nel settore. Si accordano con la società di navigazione Ignazio Messina. Fonti organizza l’affondamento della Yvonne A, della Voriais Sporadais e della Cunski, da cui tutto il nostro discorso è cominciato.
Le operazioni sono semplicissime; le navi al largo della costa vengono raggiunte da motoscafi che piazzano l’esplosivo, caricano l’equipaggio e se ne vanno. Gli uomini vengono poi spediti in treno al Nord e chi s’è visto s’è visto. L’incasso è di 150 milioni per nave. Il carico della Cunski sono 120 bidoni di scorie radioattive!
Fonti fornisce l’esatta ubicazione dell’affondamento, che coincide al centimetro con il luogo in cui è stato localizzato il relitto. Già, le navi inabissate e i rifiuti. E poi le armi e tutto il resto. Sembra fin troppo facile che un simile sistema malavitoso se la cavi sempre e comunque e che le condanne riguardino solo persone coinvolte marginalmente: armatori, fornitori, guardie di controllo nei porti. Mai e poi mai saltano fuori gli esecutori o, peggio ancora, i mandanti. E quando qualcuno si avvicina abbastanza alla verità, come Natale De Grazia, farlo fuori è questione di un attimo, grazie ad una organizzazione incredibilmente estesa ed efficiente.
Quello che sappiamo sulla vicenda è basata, almeno per ora, sulle parole dei pentiti, in particolare di Francesco Fonti. É interessante leggere i documenti della camera dei deputati che riportano le inchieste, gli interrogatori, anche le considerazioni di esperti. Questi documenti sono pubblici; ognuno vi può accedere basta cercare all’interno dei siti delle nostre istituzioni. Perché quasi nessuno lo fa? In parte perché la gente non sa di questa possibilità, in larga parte perché se ne frega, ritenendo inutile scoprire quanto marcio sia piovuto sulla popolazione italiana e continui a piovere. L’organizzazione sociale è fatta apposta per dare concretezza alla famosa frase: ti tirano merda e dicono che piove.
Ma torniamo ai documenti. In alcuni di questi le dichiarazioni di Fonti sembrano confuse. Ma la storia, nel suo insieme sembra reggere e non è un caso se quelle affermazioni sono state messe alla base di numerose indagini.
Io continuo ad insistere sul fatto che sto raccontando una storia e che le testimonianze dei pentiti nel fanno parte, così come la documentazione desecretata qualche anno fa, di cui parleremo a lungo in una delle prossime puntate.
Ho già raccontato molto delle dichiarazioni di Fonti, ma qualcosa da aggiungere c’è ancora. Ad esempio il fatto che le famiglie camorriste avevano le coperture necessarie, anche politiche, per non avere fastidi. In particolare la famiglia di San Luca (quella cui appartiene Fonti) aveva rapporti diretti con i Servizi Segreti. Il boss Giuseppe Nirta, fin dagli anni ’80 era in contatto con collaboratori del SISMI (il servizio segreto militare). I nomi coinvolti, secondo il pentito, sono quelli di Giorgio Giovannini e Giovanni Di Stefano. Sono questi due a chiedere alla famiglia di San Luca se erano disposti a fornire manodopera per trasportare rifiuti tossici e radioattivi in Somalia per conto di aziende italiane. Ecco dunque il giro. Le aziende non si rivolgono direttamente alla ‘ndrangheta, ma fanno intervenire le istituzioni dello stato. Secondo Fonti anche Craxi era al corrente della cosa, ma non la seguiva personalmente, lasciando mano libera ai Servizi.
Per l’affare con l’Enea di Rotondella, la famiglia Romeo (che guidava la ‘ndrina di San Luca) ha l’appoggio di Francesco Corneli, uomo vicino al Sisde (il servizio civile), che garantisce le opportune coperture al porto di Livorno e La Spezia. Nel 1993 Corneli chiede a Fonti di caricare sulla nave, in partenza da La Spezia per la Somalia, alcune casse di armi che dovevano essere consegnate a Giancarlo Marocchino.
Altre informazioni piovono su uno dei politici più discussi dell’epoca, il veneziano Gianni De Michelis. Fonti racconta di aver parlato di armi e rifiuti con l’onorevole, il quale sostiene che la ‘ndrangheta è solo un aiuto per comodità, ma che avrebbero potuto fare il tutto per proprio conto. Insomma, secondo questa versione, De Michelis muoveva le fila, mettendo direttamente in contatti Pilitteri con la famiglia di San Luca. Ancora una pausa e poi concludiamo.
"Anche nel 1993 il business con l'Enea coinvolse Corneli. Anche questa volta ci fornì la protezione, sia al porto di La Spezia sia a quello di Livorno. Inoltre Corneli mi chiese di caricare sulla nave che partiva da La Spezia per la Somalia alcune casse di armi che dovevano essere recapitate a Giancarlo Marocchino. In seguito sono stato arrestato, ma i rapporti tra servizi segreti e la mia famiglia della 'ndrangheta sono continuati, come d'altronde sono sempre stati costanti quelli con la politica. Cito per esempio l'incontro che ebbi nel dicembre 1992 al ristorante Villa Luppis a Pasiano di Pordenone con l'ex ministro degli Esteri Gianni De Michelis, che come ho spiegato alla Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria già conoscevo bene. Io partii in auto da Milano con Consolato Ferraro, rappresentante della 'ndrangheta reggina per la Lombardia, e quando arrivammo ci sedemmo a tavola con De Michelis e Attilio Bressan, un imprenditore del luogo che avevo già conosciuto in precedenza ed era molto amico del ministro. De Michelis faceva lo spiritoso, diceva che senza i politici noi della malavita non saremmo esistiti, e che se la politica avesse voluto spazzarci via lo avrebbe fatto senza problemi. Diceva così perché quell'anno c'erano stati gli omicidi di Falcone e Borsellino, ed era stata modificata la cosiddetta legge sui pentiti. Lui diceva che se anche questi pentiti avessero svelato fatti legati alla politica, sarebbe stato un boomerang, in quanto i politici si sarebbero comunque tirati fuori e si sarebbero vendicati. Inoltre parlai con De Michelis di Somalia, armi e rifiuti. Lui sosteneva che i politici avrebbero potuto trasportare qualunque cosa anche senza la collaborazione della 'ndrangheta, e che ci usavano per comodità. Io gli risposi che era vero quello che diceva, ma era vero anche che i politici si potevano sedere in Parlamento grazie ai nostri voti".
"In quell'incontro" - continua l'ex boss - "si è poi parlato di investimenti che la famiglia di San Luca voleva fare a Milano. De Michelis disse che se avevamo bisogno di comprare locali, potevamo rivolgerci a Paolo Pillitteri, e così facemmo. Fu deciso nel corso di una riunione tra vari boss che avvenne subito dopo a Milano nel ristorante 'Pierrot', in zona Ripamonti, alla quale partecipai anch'io. In quell'occasione Antonio Papalia, rappresentante della 'ndrangheta zona aspromontana in Lombardia, si offrì di presentarci Pillitteri, con cui aveva già concluso affari. La presentazione avvenne nel suo ufficio di piazza Duomo e oltre a Papalia c'eravamo io, Stefano Romeo e Giuseppe Giorgi. Grazie ai buoni uffici di Pillitteri, la famiglia di San Luca ha perfezionato l'acquisto di un bar in Galleria Vittorio Emanuele, che poi è stato sequestrato proprio perché comprato con soldi sporchi, quello di un altro bar in via Fabio Filzi e di altri locali dei quali ho sentito parlare ma che non ho seguito direttamente".
Arriviamo così al 1994, anno in cui Fonti comincia a collaborare con la giustizia, precisamente con la direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria; entra quindi nella protezione testimoni, da cui esce volontariamente nel 1999.
Nel 2009 viene interrogato di nuovo e Fonti fa il nome di un esponente della Democrazia Cristiana, Riccardo Misasi, il quale sarebbe stato quello che decideva se le scorie radioattive dovevano finire in territorio italiano o straniero. Così rientra nuovamente nella protezione testimoni. L’11 marzo 2010 viene trovata nel golfo di Lamezia una nuova nave affondata: è una di quelle di cui ha raccontato Fonti.
Muore di malattia nel dicembre 2012. In questo caso non si può certo dire che si è portato i segreti di cui era a conoscenza nella tomba.
É un intreccio pazzesco, con protagonisti che non dovrebbero esserci, rappresentando spesso chi dovrebbe tutelare la popolazione.
Ancora una volta rimaniamo schifati dai connubi tra politica, amministrazioni, servizi e malavita. Ci sarebbe da dire: “speriamo che oggi non sia più così”, ma a leggere queste vicende per raccontarle in radio ci si crede sempre meno.
So che avete già indovinato, ma la sua testimonianza è servita davvero a poco. Molte inchieste sono state frettolosamente chiuse, la quasi totalità dei documenti dichiarati segreti di stato e desecretati solo di recente (di questo parleremo alla fine del nostro racconto) e insomma la cosa si è protratta, segno evidente che le coperture del malaffare arrivavano in alto, molto in alto.
Fonti ha raccontato di decine e decine di navi (secondo i suoi calcoli circa 40, anche se più avanti scopriremo che sono state più del doppio) che vengono affondate lungo le coste italiane, dove i fondali sono abbastanza profondi da evitare indagini imbarazzanti negli anni a venire. Si verificano tuttavia alcuni episodi che, diversi anni dopo (siamo nel 2009) mettono in allarme gli inquirenti, le associazioni ambientaliste e gli abitanti delle zone colpite, segnatamente la Calabria e la Basilicata.
Da un lato, infatti si assiste, ad un inspiegabile aumento di malattie come leucemie e tumori, dovute con ogni probabilità, e questo è l'altro lato, alla strana presenza di livelli molto alti di radioattività nella zona, specie lungo le coste.
Poi c’è la scomparsa della Rigel, assicurata con i Lloyds di Londra, i quali non vogliono pagare e si rivolgono alla magistratura di La Spezia, chiedendo come mai una nave che imbarca acqua non mandi un segnale di pericolo, un SOS. Sarà l’unico caso di una nave scomparsa che andrà sotto processo con condanna finale dell’armatore e delle ditte che avevano provveduto ad un carico completamente diverso da quello che era stato dichiarato. Ed infine la storia della Jolly Rosso (o se preferite della Rosso, secondo la denominazione ufficiale dopo essere stata spedita in Libano a riportare a casa una parte delle schifezze che la ditta Jelly Wax aveva fatto interrare e seppellire in mare in quel lontano stato orientale. La Rosso deve essere affondata, come tutte le altre, ma succede qualcosa, forse un errore nelle manovre di autoaffondamento, e la nave se ne va galleggiando ancora per ore, fino a inclinarsi su un fianco sulla spiaggia di Amantea, rimanendo là come uno strano e inquietante monumento.
L’equipaggio, 16 uomini più il comandante, è tratto in salvo qualche ora prima dagli elicotteri della marina militare.
Ma le cose più strane accadono dopo lo spiaggiamento. Perché non si riesce a trovare il buco da cui sarebbe entrata l’acqua. L’armatore, di fronte alle domande della Guardia di Finanza, sostiene che un muletto fissato male ha urtato le pareti della stiva facendo il buco, solo che non si vede perché è sotto la sabbia. In realtà un buco si trova, ma è un buco squadrato, ben definito, non un buco da carrello o da effetti delle onde marine, più un buco da cannello con fiamma ossidrica. Un buco che con ogni probabilità è servito per togliere in tutta fretta quello che non si doveva vedere. Un’operazione eseguita con la velocità del fulmine. Gli abitanti della zona hanno visto per molti giorni i camion scortati dai vigili del fuoco e dalla finanza portare i resti della Rosso in discarica: scatolette scadute, tabacco avariato, porzioni della nave. Ma hanno visto anche i camion che arrivavano di notte, stavolta senza scorta, portare “altre cose” nella discarica. C’è poi un testimone che dice di aver visto altri camion che partivano dalla Rosso e andavano fino a Foresta, una sperduta località del comune Serra D’Aiello (Cosenza) dove c’è un fiume. Un altro dice di aver visto in quei posti dei bidoni strani, gialli e molto arrugginiti. Interviene allora il nucleo operativo ecologico dei Carabinieri (NOE). Non c’è radioattività, ma ci sono migliaia di metri cubi di fanghi industriali che non appartengono alle attività locali. Troppi indizi.
E così proprio dalla Rosso cominciano le inchieste, che coinvolgono molte procure: Reggio Calabria, Paola, Catanzaro, Roma, Matera, La Spezia, Padova, Asti.
A Reggio Calabria c’è un giovane capitano di corvetta che dà impulso alle ricerche. Il suo nome è Natale De Grazia. La matassa si comincia a dipanare e vengono a galla i legami che tengono assieme tutti quegli affondamenti: la ‘ndrangheta, la massoneria, la mala politica, gli affari illeciti, le connivenze e le complicità dei servizi e di parte delle istituzioni di controllo.
Ecco: questa è la situazione come l’ho raccontata nelle due puntate precedenti, puntate che, se avete voglia potete leggere o ascoltare visitando il mio sito noncicredo.org.
Ed è qui che si inserisce la storia di un militare, coraggioso ed eroico, ma non nel senso idiota che viene usato troppo spesso dai media americani, un eroe vero, di quelli che ci ha lasciato la pelle per una giusta causa, di cui poteva tranquillamente fregarsene come la stragrande maggioranza dei suoi colleghi e superiori. Lui si chiamava Natale De Grazia e questa è la sua triste storia. Prendiamo un respiro, ascoltiamo un breve brano musicale e poi ve la racconto.
Il capitano Natale de Grazia
Tra gli uomini che indagano sulle sparizioni delle navi c’è un capitano di corvetta di 37 anni. Si chiama Natale De Grazia. Il suo compito è quello di ricostruire le rotte di quelle navi. Da dove sono partite, dove hanno attraccato prima di sparire, seguendo rotte completamente diverse da quelle dichiarate. Ricordate? La Nicos I doveva andare in Togo ed invece è finita a Cipro, in Libano, per poi inabissarsi da qualche parte tra Grecia e Italia.De Grazia si occupa in particolare della Rigel per i motivi già detti anche questa sera: è l’unica nave la cui vicenda entra nei documenti di un dibattimento in aula.
La procura prende possesso degli atti del processo contro gli armatori di cui ho già detto e che porteranno alla condanna per affondamento doloso mentre l’associazione a delinquere cadrà nel corso del dibattimento. Leggendo quella documentazione salta subito all’occhio che, nonostante il processo riguardi una nave soltanto, di navi affondate in maniera dolosa e sospetta ce ne sono state parecchie. Ecco la pista che De Grazia vuole seguire: quante navi? cosa trasportavano? chi ha organizzato l’affondamento?
Certo non è un gioco da ragazzini. E’ evidente che un traffico del genere non può averlo messo in piedi la banda bassotti. A La Spezia ci sono basi della NATO, della Marina Militare, c’è il centro di addestramento dei reparti speciali, ci sono fabbriche di armi. La Rigel trasporta presumibilmente uranio, comunque materiali radioattivi: non possono certo venire dal furto di qualche supermercato.
In quel periodo nel porto di La Spezia c’è una nave particolare. Si chiama Latvia, una motonave della ex Unione Sovietica, appartenuta ai servizi segreti, al KGB insomma.
Il corpo forestale dello stato sente puzza di bruciato e, già il 26 ottobre del 1986, invita la polizia a fare un’indagine, perché quell’imbarcazione potrebbe venire usata per trasportare rifiuti tossici e perfino radioattivi.
Di chi è quella nave? Era stata acquistata da una società liberiana con sede in Monrovia, attraverso un ufficio legale di La Spezia. Monrovia è un porto sulla costa Ovest dell’Africa poco più su di dove comincia il golfo di Guinea. La stranezza tuttavia è il prezzo pagato, che risulta superiore al valore reale e questo fa supporre che potrebbe essere utilizzata come “bagnarola” per traffici illeciti.
Qualche settimana più tardi la Latvia entra di nuovo in una annotazione di polizia giudiziaria. Il brigadiere Gianni Podestà comunica alle procure di Reggio Calabria e Napoli che una fonte attendibile ha riferito che famiglie camorristiche e logge massoniche sarebbero implicate nei traffici di rifiuti radioattivi e tossici interessanti la zona di La Spezia e l’hinterland napoletano.
La Latvia, secondo questa fonte, avrebbe seguito la stessa sorte della Rigel, dovendo salpare entro 4 giorni (entro il 14 novembre 95) da La Spezia per Napoli, dove avrebbe ritirato un altro carico per poi muovere attraverso lo Stretto di Messina per Malta. Di ritorno sulle coste joniche sarebbe stata affondata.
Queste informazioni arrivano da un informatore, del quale vi ho parlato l’ultima volta. Si tratta di quel “Pinocchio” (di cui si tace il nome vero) che aveva raccontato molto di quello che succedeva a La Spezia e nel suo porto. La deferenza o la soggezione con cui Pinocchio viene trattato, lascia capire che si tratta di un personaggio di rilievo, forse un agente dei servizi segreti, più che un pentito, con grande probabilità un agente infiltrato nelle cosche del malaffare. Come vado dicendo fin dall’inizio ci sono sempre gli stessi aggettivi a seguire le vicende: “strano” è uno di questi. É tutto troppo strano: ci sono indizi dappertutto ma gli affondamenti continuano indisturbati e nessuno sa mai niente.
A Reggio Calabria lavora un piccolo pool di investigatori. Tra loro il più impegnato e anche quello con maggiore conoscenza del problema è il capitano Natale De Luca, sposato con due figli di 8 e 10 anni. É un esperto di qualunque cosa riguardi il mare: inquinamento, correnti soprattutto dello stretto di Messina, ovviamente la questione delle navi scomparse.
Ad un certo punto arriva in Calabria il pubblico ministero reggino Francesco Neri, dell’antimafia, una presenza che fa capire quanto importante la magistratura ritenga l’intera vicenda.
E la Latvia cade sotto la lente del pool e di Neri, perché si tratta di un’occasione unica e davvero grande. Contrariamente a tutti gli altri casi, qui si può monitorare la faccenda in diretta, osservare e studiare la nave, prendere contatto diretto con gli occupanti.
Per questo il 12 dicembre Natale De Grazia sale in macchina alla volta di La Spezia. Non si sa chi lo abbia deciso: non risulta da nessun documento ufficiale. Nelle indagini della commissione sulla gestione dei rifiuti questo fatto risulterà confermato dalla la deposizione di un soggetto il cui nome è stato segretato. In effetti la decisione viene presa nel più grande segreto, cercando di non farlo sapere praticamente a nessuno. Il suo comandante addirittura firma una delega in bianco perché non venga diffuso il vero obiettivo della missione, nel caso cadesse in mani sbagliate.
Partono di sera, con il buio che a dicembre arriva presto, sotto un diluvio e con una macchina certo non all’altezza per un tragitto tanto lungo, che attraversa l’intera penisola, una Tipo.
Arrivati a Nocera si fermano per la cena. Tutti mangiano le stesse cose; solo Natale ordina un limoncello. Ripartono e, dopo poco, il capitano si accascia e muore. Non si sa perché. Nel suo corpo non vengono trovate tracce di alcool. É un mistero che getta nel dramma la famiglia, sbigottita e l’intero pool con cui lavora.
I sospetti su questo improvviso decesso si fanno ancora più fitti dopo la sua morte. Il 15 dicembre, due giorni dopo la tragica fine di Natale, l’ispettore Tassi manda un fax alla procura di Reggio Calabria. Eccone il testo:
"In data odierna è stata accertata la partenza della Motonave Latvia, avvenuta all'incirca verso la terza decina del Novembre per raggiungere il porto di Ariga (Turchia)".
C’è puzza di marcio lontano chilometri. La Commissione parlamentare che indaga sugli illeciti legati allo smaltimento dei rifiuti, presieduta dall’on Gaetano Pecorella, ne prende atto e lo scrive in un italiano giudiziario incomprensibile. Eccolo però tradotto in un linguaggio da bar dello sport.
Non possiamo che sottolineare che questa vicenda è molto particolare. Mentre si sta indagando sull’uso di navi per trasportare rifiuti tossici, c’è la possibilità di controllare una nave, la Latvia, che si sospetta essere una di quelle. Nonostante questo la polizia giudiziaria non fa alcuna verifica approfondita, nessuno interroga gli occupanti della nave, nessuno segue la nave nei suoi spostamenti.
In effetti, durante l’inchiesta per la morte di Natale De Grazia, il pm Francesco Neri dichiara che all’epoca dei fatti lui e un suo collega scrivono al presidente della repubblica, Luigi Scalfaro, comunicando che le indagini sulle navi possono coinvolgere la sicurezza nazionale. E siccome il SISMI non può non essere a conoscenza di questi traffici, il pm richiede tutti i documenti che riguardino il traffico clandestino di rifiuti radioattivi con navi. L’informativa arriva puntualmente tra gli incartamenti dell’inchiesta. I servizi segreti dunque conoscono certamente l’indagine sulle navi.
Forse non serve dire che dopo la morte di Natale le indagini sulle navi dei veleni si arenano e non se ne sa più molto fino agli sviluppi più recenti.
Per chiudere il capitolo sulle indagini vi leggo la chiusura di un articolo pubblicato dal Manifesto e ripreso dal comitato Natale De Grazia, che si occupa non solo di questa vicenda, ma di tutte quelle che hanno a che fare con i rifiuti e con l’ambiente più in generale. www.comitatodegrazia.org.
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Un tragico dicembre
Natale De Grazia era sul punto di chiudere le indagini. Aveva già programmato di utilizzare le festività di fine anno per preparare un rapporto finale, con le conclusioni della lunga inchiesta. Il sei dicembre a Reggio Calabria viene sentito – per la seconda volta – il teste “alfa alfa”, ovvero Aldo Anghessa. Oscuro trafficante, fortemente sospettato di agire spesso per interessi non chiari o come agente provocatore, due giorni prima del ponte dell’immacolata depone davanti a Natale De Grazia. E introduce un nuovo nome, che sarà fondamentale per l’inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi, Giampiero Sebri. «È disposto a collaborare», spiega Anghessa. Sebri qualche anno più tardi – nel 1997 – deporrà a lungo davanti ai magistrati della Dda di Milano, raccontando di una organizzazione internazionale specializzata nel traffico dei rifiuti nucleari. Indicherà anche Giancarlo Marocchino e l’ufficiale del Sisde presente in Somalia nel marzo del 1994, Luca Rajola Pescarini, come personaggi coinvolti, a suo dire, nel traffico. Per quelle dichiarazioni venne condannato per calunnia, condanna penale poi revocata qualche mese fa dalla Corte di Cassazione.
Quattro giorni dopo l’interrogatorio Natale De Grazia, insieme al maresciallo dei carabinieri Nicolò Moschitta, riceve sei deleghe dal procuratore Neri, per compiere indagini a La Spezia e a Como. Chi doveva incontrare De Grazia non lo sappiamo. Il 12 dicembre parte e a mezzanotte viene stroncato da un arresto cardiaco, in circostanze mai chiarite.
I servizi segreti
Il documento arrivato nei mesi scorsi negli uffici della commissione Pecorella che dimostrerebbe l’erogazione di fondi ai servizi segreti per la gestione dei rifiuti nucleari e di armi ha la data – secondo quanto riportato dal quotidiano Terra – dell’11 dicembre 1995, ovvero il giorno prima del viaggio di De Grazia. Il capitano di corvetta sentiva il pericolo come vicino, vicinissimo. Lo raccontava al cognato, mentre da qualche mese – dopo una perquisizione decisamente anomala a Roma – aveva il timore di entrare in contrasto con pezzi importanti dello stato. Sapeva di essere vicino alla verità, e questo lo preoccupava. Quello che probabilmente non sapeva era che quello stesso stato che gli pagava lo stipendio per bloccare i traffici criminali di rifiuti e di armi, finanziava – segretamente – chi quei traffici li copriva o, addirittura, li organizzava.
A ben vedere di misteri misteriosi questa storia è già abbastanza piena. Del resto gli anni ’80 e ’90 sono così ricchi di fatti accaduti che ancora oggi lasciano con l’amaro in bocca perché di essi non si riesce a dare una spiegazione piena e univoca. E sono fatti che si intrecciano in un groviglio incredibile. Tanto per fare un esempio, il pentito Fonti sostiene di aver saputo perfettamente dove si trovava rinchiuso Aldo Moro nell’appartamento in via Gradoli. Il suo capo, Sebastiano Romeo, gli ordina di trovare l’indirizzo. Richiesta poi confermata da Benigno Zaccagnini, allora segretario della DC. Fonti si rivolge al suo contatto per i rifiuti, Pino. Ma è il Cinese della banda della Magliana ad indicargli l’appartamento di via Gradoli. Alcuni contatti della ‘ndrangheta gli danno conferma e anche Giuseppe Sansovito, generale del SISMI e appartenente alla loggia massonica P2 di Licio Gelli. Ma quando torna a S. Luca con l’informazione il suo boss gli dice che i politici non hanno più interesse nella ricerca di Aldo Moro.
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Verità? Fantasie? Non lo so. Tuttavia gli intrecci tra politica, malavita organizzata, servizi segreti, massoneria deviata, perfino frange estremistiche di paesi stranieri non sono certo una novità di quel periodo. Potremmo scorrere un elenco lunghissimo di fatti non accertati come alcune stragi (quella di Bologna e di Ustica su tutte), omicidi eccellenti come quello di Pecorella, dei giornalisti De Palo e Toni in Libano e, ovviamente di Ilaria Alpi e Miran Hrovatim in Somalia. Molti protagonisti dei fatti, da Moro a Cossiga, dai generali dei servizi segreti ad Andreotti se ne sono andati per sempre e con loro una buona fetta di possibilità di arrivare alla verità vera. Cosa c’entra tutto questo con natale De Grazia? Il semplice fatto che lui è ben consapevole in quale fanghiglia si sta cacciando, eppure continua il suo lavoro e muore. Continueremo dopo una pausa musicale.f
Di cosa è morto Natale De Grazia?
Dicevo che di tutti questi intrecci è probabilmente consapevole il capitano reggino, il cui lavoro investigativo (meno quello che aveva in testa ovviamente) è contenuto nei fascicoli dell’inchiesta giudiziaria sull’affondamento della Rigel.Abbiamo usato l’aggettivo “strano” tante e tante volte. Va tirato fuori anche quando si decide di guardare dentro la casa di Giorgio Comerio. Comerio è uno dei nomi chiave delle inchieste sul traffico dei rifiuti, delle scorie radioattive e delle armi. É fuggito in Tunisia e ha rilasciato interviste in cui ha attaccato tutti i suoi accusatori.
Di lui è arcinoto il progetto ODM (Oceanic Disposal Management) col quale pretendeva di eliminare le scorie radioattive delle centrali nucleari, infilandole dentro dei siluri lungi 16 m, sparati poi in mare per farli inabissare in fondali fangosi e lasciarle là. Progetto rigettato da tutte le nazioni per motivi che credo sia inutile spiegare.
La commissione ecomafie ha preteso la declassificazione dei documenti riguardanti Comerio, dai quali sembrerebbe che l’ingegnere italiano sia uno dei fornitori della Corea del Nord di materiali radioattivi. Insomma un bel personaggino.
A noi qui interessa il fatto che nei documenti trovati durante quella perquisizione si scopre che nella casa di Giorgio Comerio, Natale trova un’agenda con questa notazione “Lost the ship” (La nave è persa) il giorno 21 settembre 1987, lo stesso giorno in cui affonda la Rigel. E quel giorno nessuna altra nave risulta dispersa in mare, secondo l’Organizzazione Marittima Internazionale. De Grazia trova anche una copia del certificato di morte di Ilaria Alpi. Perché mai uno come Comerio dovrebbe tenersela in casa? Soprattutto se si considera che nessun altro, neppure i genitori di Ilaria l’anno mai avuta?
Giorgio Comerio tratta l’acquisto della Jolly Rosso, la motonave che deve affondare al largo del Golfo di S. Eufemia, ma che per un errore finisce spiaggiata sulla sabbia di Amantea. Questa storia la racconterò tra non molto con tutti i suoi risvolti misteriosi.
L’ultima parte di questo racconto riguarda ancora la morte del capitano di corvetta Natale De Grazia. Riguarda quello che è stato fatto dopo quel 13 dicembre per scoprire se davvero è deceduto per cause naturali come riporta il referto oppure no.
La diagnosi del medico legale che ne constata il decesso è arresto cardio-circolatorio. Eccolo di nuovo: “strano”! Aveva 37 anni e il suo fisico era integro e in perfetto stato.
Viene ordinata l’autopsia. A questo punto nei romanzi gialli il mistero si dirada e i colpevoli saltano fuori. Ma non è questo il caso perché l’autopsia non rivela nulla di particolare, anche se immagino che il sospetto di un avvelenamento durante quella cena sia forte in chiunque abbia seguito il racconto fino ad ora.
Vediamo come sono andate le cose.
Il primo esame viene svolto il 19 dicembre 1995, sei giorni dopo la morte del capitano. E’ il sostituto procuratore Cinzia Apicella a disporlo e la dottoressa Del Vecchio ad eseguirlo. Ed è lei che traccia la prima sentenza: morte naturale, probabilmente dovuta ad un arresto cardiaco improvviso, dovuto ad una ischemia del miocardio con conseguenti gravi turbe cardiache. Insomma una morte improvvisa tipica di persona adulta. Ma Natale De Grazia è un uomo giovane, per di più militare e come tale soggetto a frequenti visite mediche, durante le quali mai era stata riscontrata una qualsiasi patologia cardiaca.
Anche la famiglia vuole vederci chiaro e affida ad un altro medico legale, il dott. Asmundo, una verifica. Ma il risultato non cambia di molto. La causa remota supposta potrebbe essere stata un superlavoro conclusosi con un accidente cardiaco.
Proprio le riserve della famiglia portano ad una seconda perizia, svolta un anno e mezzo dopo la prima, nell’aprile del 1997, una equipe di medici, tra i quali ancora la dottoressa Del Vecchio, sono incaricati di indagare sulla presenza di agenti chimico-tossici nell’organismo del capitano. Anche in questo caso, le considerazioni medico-legali escluderanno "la presenza di sostanze tossiche di natura esogena nei campioni esaminati". Negativa risulterà anche la ricerca di arsenico nei capelli e nel fegato. La conclusione è la medesima di un anno e mezzo prima: "Si ritiene, anche alla luce delle ulteriori indagini di laboratorio eseguite che la causa della morte del Capitano De Grazia Natale sia da ricondurre ad un evento naturale tipo ‘morte improvvisa dell'adulto’, come già ci esprimemmo in merito nella precedente relazione di consulenza tecnica medico-legale affidataci".
E il discorso sembra chiuso qui.
Noi facciamo solo una timida domanda: come mai un secondo esame che dovrebbe controllare la bontà del precedente, viene affidato alla stessa dottoressa Del Vecchio?
Quindici anni dopo, siamo alla fine del 2012, la Commissione Parlamentare che indaga sulle attività illecite collegate al ciclo dei rifiuti, richiede una ulteriore perizia. La commissione è presieduta da Gaetano Pecorella, ex PDL poi passato al gruppo che fa riferimento a Mario Monti.
Il perito incaricato è Giovanni Arcudi, 67 anni, titolare della cattedra di Medicina legale all'università' romana di Tor Vergata e docente alla Scuola ufficiali dei carabinieri. Ovviamente non è nemmeno il caso di riesumare la salma che non darebbe ulteriori apporti, per cui si può solo ripercorrere il lavoro dei medici di allora e riesaminare i reperti istologici.
Una lunga relazione viene fornita alla commissione. Si può trovare in rete facilmente. In essa si dichiara l’impotenza del medico nei confronti di conclusioni sul presunto avvelenamento del capitano, ma si traggono alcune conclusioni davvero inquietanti.
Primo. L'indagine medico legale condotta dalla Dott.ssa Del Vecchio si è conclusa con una diagnosi di morte improvvisa dell'adulto, facendo intendere che vi fossero in quel quadro anatomico ed istopatologico elementi concreti che potevano ben sostenere detta diagnosi. Ma non c’è nulla nella relazione delle precedenti autopsie che possa validare la conclusione di una morte improvvisa dell’adulto. La conclusione della dottoressa Del Vecchio dunque non corrisponde alla verità scientifica. Diciamolo meglio: la conclusione dell’autopsia è in contrasto con quanto la stessa dottoressa scrive nelle pagine precedenti.
Secondo. Ci sono le testimonianze dei suoi compagni di viaggio. De Grazia si era addormentato subito dopo essere risalito in macchina e russava in modo strano. Ad un certo punto reclina la testa sulla spalla e per questo viene scosso. Lui reagisce sollevando il capo senza svegliarsi e senza dire niente se non un suono indefinito. Poco dopo reclina ancora la testa e non risponde più alle sollecitazioni.
E questo modo di morire, conclude il professor Arcudi, non ha nulla a che fare con una questione cardiaca: mancano infatti i segni e le reazioni (come il dolore) che normalmente accompagnano un attacco cardiaco.
Tutte le manifestazioni osservate invece si accordano bene con una progressiva crisi delle funzioni del sistema nervoso centrale. Questa può avvenire in caso di incidenti cerebrovascolari, esclusi però dalle autopsie precedenti. L’unica causa che rimane è quella tossica. Quale essa potrà essere stata, se c’è stata, ormai non lo si può più accertare.
E’ chiaro che, anche se questo referto non conclude il giallo, porta però elementi inquietanti e toglie quella sicurezza sulla morte naturale di Natale che fino ad allora era data per assodata.
Nel febbraio 2013 la commissione Pecorella arriva alla conclusione. Su questo argomento scrive:
“Non è compito di questa Commissione pronunciare sentenze né sciogliere nodi di competenza dell'autorità giudiziaria, tuttavia non si può non segnalare che la morte del capitano De Grazia si inscrive tra i misteri irrisolti del nostro Paese.”
Già, una morte misteriosa, un caso irrisolto, come per altri morti violente: Graziella De Palo e Italo Toni, in Libano nel 1980; Ilaria Alpi e Miran Hrovatin a Mogadiscio nel 1994, Mino Pecorelli nel 1979, come Antonio Russo nel 2000, e tanti altri, troppi altri che se ne sono andati in modo misterioso avendo come unica colpa quella di cercare la verità.
C’è dell’altro?
Certo questa vicenda è uno scandalo enorme, perché coinvolge un po’ tutti e, soprattutto, perché l’affondamento delle navi procura danni alle popolazioni locali, che vedono aumentare il rischio di tumori e altre malattie, oltre che rendere il mare una vera e propria pattumiera.Ma c’è molto altro che succede in quegli anni e che fa dell’Italia il ricettacolo delle schifezze di organizzazioni nazionali e internazionali, di aziende che trattano materiali radioattivi o comunque sostanze pericolose e tossiche.
Vorrei riprendere le deposizioni del pentito Fonti, di cui vi ho parlato a lungo all’inizio di questa puntata. Lo faccio non perché non basti quello che ho già detto, ma perché si capisca la vastità degli interessi in gioco.
Ed inoltre, ricordiamo che racconto qui solo le vicende che Fonti conosce, che sono poi quelle della ‘ndrina di San Luca. E dunque le vicende vanno moltiplicate per tutte le famiglie attive sul territorio. Insomma questo racconto è decisamente all’acqua di rose, come volume d’affari (chiamiamoli così).
La scorsa volta avevamo incontrato un personaggio curioso, il dottor Tommaso Candelieri dell'Enea di Rotondella. Si tratta di un comune in provincia di Matera, in Basilicata. Qui sorge uno dei centri nucleari italiani, che all’epoca era destinato alla ricerca di nuove tecnologie nucleari, in particolare alla conservazione e al ritrattamento del combustibile nucleare derivato da un ciclo torio-uranio. Oggi il centro è affidato alla SOGIN, l’azienda incaricata della dismissione di tutti i residui nucleari italiani.
Dunque il dottor Tommaso stocca in quel periodo rifiuti decisamente pericolosi, che però provengono da ogni parte e non solo dall’Italia. Arrivano, da Svizzera, Francia, Germania e Stati Uniti. In quel preciso momento ha l'esigenza di far sparire una certa quantità di materiale.
Nel 1992, Fonti si presenta a Candelieri chiedendo se c’è del lavoro. “Il lavoro in questo settore non manca mai” risponde il dottore dell’ENEA.
Questa volta si tratta di mille bidoni di rifiuti tossici e radioattivi. Ci sono fanghi e rifiuti ospedalieri, ossido di uranio, cesio e stronzio, il tutto contenuto in fusti che a loro volta sono sistemati in 20 container lunghi 25 metri e alti 6 di proprietà della società Merzario Marittima, che tra l'altro controllava per conto delle autorità somale l'ingresso delle navi nel porto nuovo di Mogadiscio.
Ho già sottolineato nelle precedenti puntate di fare mente locale alle dimensioni dei container. La stanza in cui siete probabilmente misura 4x4x2,70 e contiene quindi un volume circa 10 volte inferiore a quello di uno solo di quei container.
Uno dei personaggi che entrano nell’affare è il sedicente conte di Piacenza Mirko Martini. Questo si rivelerà essere un uomo dei servizi segreti italiani, ammanicato con la CIA e intimo del presidente ad interim della Somalia Ali Mahdi, per il quale ha in ballo un grosso affare per la consegna di una notevole quantità di armi. Si tratta di 75 casse di kalashnikov, 25 casse di munizioni e 30 casse di mitragliette Uzi. Arrivano dall’Ucraina sulla nave Jadran Express a Trieste, qui caricate su camion e portate a La Spezia da Fonti, parcheggiate in un capannone dal quale devono poi proseguire per l’imbarcazione, la Mohamuud Harbi.
Nel frattempo Fonti organizza il trasporto dei rifiuti; oltre ai container ci sono i rifiuti dell’ENEA, che arrivano al porto di Livorno su 20 camion. La nave che deve portarli in Somalia è la Osman Raghe. Le due navi partono e arrivano assieme a Mogadiscio. E’ l’inizio di febbraio 1993.
In Somalia, lo abbiamo già incontrato in precedenza, c’è Giancarlo Marocchino, factotum e uomo molto potente nel paese africano. É un amico di Mirko Martini e, come si saprà più avanti, sostenuto nelle sue azioni dai Servizi segreti italiani (come lui stesso affermerà più avanti, ma questa è storia che scopriremo leggendo le pagine desecretate tra qualche puntata).
Ricorderete che ne abbiamo parlato come il referente del gruppo Bizzio in Somalia, quello che ha denunciato il pentito Sebri facendolo condannare per calunnia.
E, mentre le armi viaggiano verso Ali Mahdi, i rifiuti vengono trasferiti in diversi punti, ma sempre nella regione attorno alla città di Bosaso, che si trova all’estremo nord del paese. Un’altra parte finisce invece a Sud, vicino al confine con il Kenia. L’operazione fila liscia e costa a Candelieri:
- 1,2 miliardi di lire per l’organizzazione somala
- 8,8 miliardi vanno a Fonti che li distribuisce ai suoi contatti (Martini ne prende 350 milioni, Marocchino 400). Il resto alla famiglia Romeo di San Luca.
Come detto, questo racconto va moltiplicato per un numero abbastanza grande. Negli anni 80 molti governi affidavano a faccendieri più o meno disonesti lo smaltimento dei rifiuti pericolosi perché non sapevano dove metterli. Uno dei personaggi ricordati da Fonti nel suo memoriale è l’ingegner Giorgio Comerio, di cui ho detto poco fa. Comerio, nella zona dei Balcani, traffica in armi di qualunque tipo. Fonti lo incontra nel Montenegro in un ristorante nel 1993. Con lui fa alcuni affari riguardanti le armi, che, grazie a lui, compra dalla tedesca Thyssen per rivenderla agli ustascia jugoslavi. Per capire chi è Comerio a Fonti vengono offerti 75 aerei russi da rivendere. Quegli aerei sarebbero finiti poi in Liberia, passando da un faccendiere ukraino.
Gli affari con Comerio continuano.
Nel 1995 una grossa partita di niobio, materiale usato nella costruzione dei reattori nucleari, viene portato in Sierra Leone per 250 milioni di lire.
Comerio racconta a Fonti dei suoi buoni rapporti con la famiglia Iamonte di Melito Porto Salvo, che lo aveva aiutato, dagli anni 80 in poi, nell'affondamento di navi cariche di rifiuti tossici e radioattivi in acque internazionali davanti alla costa ionica calabrese.
In particolare Fonti riferisce il caso della nave Rigel. Leggiamo dal suo memoriale ...
“Comerio mi spiegò che affondava navi cariche di rifiuti pericolosi per ottenere un doppio guadagno, sia da parte di chi commissionava il trasporto, sia da parte dell'assicurazione che veniva frodata. Le sue parole mi sono state poi confermate dallo stesso Iamonte, il quale mi ha spiegato come Comerio gli avesse chiesto di fornirgli il personale di bordo per l'affondamento della Riegel, la nave della società May Fair Shipping di Malta, noleggiata dalla Fjord Tanker Shipping, a sua volta noleggiata a un'altra ditta di cui non ricordo il nome, mandata a picco nel settembre del 1987 davanti a Capo Spartivento. Iamonte mi disse che l'affondamento era avvenuto 25 miglia fuori dalle acque territoriali. La 'ndrangheta aveva fornito il capitano e il suo aiuto italiano, mentre il resto dell'equipaggio veniva da varie nazioni. Sempre Iamonte ha fatto partire un motoscafo dalla costa con i candelotti di dinamite per mandare a picco la Riegel, dopodiché il capitano e l'aiuto sono stati riportati sulla costa di Capo Spartivento, mentre l'equipaggio è stato prelevato dalla nave jugoslava Karpen collocata in zona, che l'ha portato in Tunisia".
Ma anche la famiglia di San Luca è attiva nel settore. Si accordano con la società di navigazione Ignazio Messina. Fonti organizza l’affondamento della Yvonne A, della Voriais Sporadais e della Cunski, da cui tutto il nostro discorso è cominciato.
Le operazioni sono semplicissime; le navi al largo della costa vengono raggiunte da motoscafi che piazzano l’esplosivo, caricano l’equipaggio e se ne vanno. Gli uomini vengono poi spediti in treno al Nord e chi s’è visto s’è visto. L’incasso è di 150 milioni per nave. Il carico della Cunski sono 120 bidoni di scorie radioattive!
Fonti fornisce l’esatta ubicazione dell’affondamento, che coincide al centimetro con il luogo in cui è stato localizzato il relitto. Già, le navi inabissate e i rifiuti. E poi le armi e tutto il resto. Sembra fin troppo facile che un simile sistema malavitoso se la cavi sempre e comunque e che le condanne riguardino solo persone coinvolte marginalmente: armatori, fornitori, guardie di controllo nei porti. Mai e poi mai saltano fuori gli esecutori o, peggio ancora, i mandanti. E quando qualcuno si avvicina abbastanza alla verità, come Natale De Grazia, farlo fuori è questione di un attimo, grazie ad una organizzazione incredibilmente estesa ed efficiente.
Quello che sappiamo sulla vicenda è basata, almeno per ora, sulle parole dei pentiti, in particolare di Francesco Fonti. É interessante leggere i documenti della camera dei deputati che riportano le inchieste, gli interrogatori, anche le considerazioni di esperti. Questi documenti sono pubblici; ognuno vi può accedere basta cercare all’interno dei siti delle nostre istituzioni. Perché quasi nessuno lo fa? In parte perché la gente non sa di questa possibilità, in larga parte perché se ne frega, ritenendo inutile scoprire quanto marcio sia piovuto sulla popolazione italiana e continui a piovere. L’organizzazione sociale è fatta apposta per dare concretezza alla famosa frase: ti tirano merda e dicono che piove.
Ma torniamo ai documenti. In alcuni di questi le dichiarazioni di Fonti sembrano confuse. Ma la storia, nel suo insieme sembra reggere e non è un caso se quelle affermazioni sono state messe alla base di numerose indagini.
Io continuo ad insistere sul fatto che sto raccontando una storia e che le testimonianze dei pentiti nel fanno parte, così come la documentazione desecretata qualche anno fa, di cui parleremo a lungo in una delle prossime puntate.
Ho già raccontato molto delle dichiarazioni di Fonti, ma qualcosa da aggiungere c’è ancora. Ad esempio il fatto che le famiglie camorriste avevano le coperture necessarie, anche politiche, per non avere fastidi. In particolare la famiglia di San Luca (quella cui appartiene Fonti) aveva rapporti diretti con i Servizi Segreti. Il boss Giuseppe Nirta, fin dagli anni ’80 era in contatto con collaboratori del SISMI (il servizio segreto militare). I nomi coinvolti, secondo il pentito, sono quelli di Giorgio Giovannini e Giovanni Di Stefano. Sono questi due a chiedere alla famiglia di San Luca se erano disposti a fornire manodopera per trasportare rifiuti tossici e radioattivi in Somalia per conto di aziende italiane. Ecco dunque il giro. Le aziende non si rivolgono direttamente alla ‘ndrangheta, ma fanno intervenire le istituzioni dello stato. Secondo Fonti anche Craxi era al corrente della cosa, ma non la seguiva personalmente, lasciando mano libera ai Servizi.
Per l’affare con l’Enea di Rotondella, la famiglia Romeo (che guidava la ‘ndrina di San Luca) ha l’appoggio di Francesco Corneli, uomo vicino al Sisde (il servizio civile), che garantisce le opportune coperture al porto di Livorno e La Spezia. Nel 1993 Corneli chiede a Fonti di caricare sulla nave, in partenza da La Spezia per la Somalia, alcune casse di armi che dovevano essere consegnate a Giancarlo Marocchino.
Altre informazioni piovono su uno dei politici più discussi dell’epoca, il veneziano Gianni De Michelis. Fonti racconta di aver parlato di armi e rifiuti con l’onorevole, il quale sostiene che la ‘ndrangheta è solo un aiuto per comodità, ma che avrebbero potuto fare il tutto per proprio conto. Insomma, secondo questa versione, De Michelis muoveva le fila, mettendo direttamente in contatti Pilitteri con la famiglia di San Luca. Ancora una pausa e poi concludiamo.
I politici socialisti
E gli altri politici? Ecco cosa scrive Fonti. Aperte virgolette."Anche nel 1993 il business con l'Enea coinvolse Corneli. Anche questa volta ci fornì la protezione, sia al porto di La Spezia sia a quello di Livorno. Inoltre Corneli mi chiese di caricare sulla nave che partiva da La Spezia per la Somalia alcune casse di armi che dovevano essere recapitate a Giancarlo Marocchino. In seguito sono stato arrestato, ma i rapporti tra servizi segreti e la mia famiglia della 'ndrangheta sono continuati, come d'altronde sono sempre stati costanti quelli con la politica. Cito per esempio l'incontro che ebbi nel dicembre 1992 al ristorante Villa Luppis a Pasiano di Pordenone con l'ex ministro degli Esteri Gianni De Michelis, che come ho spiegato alla Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria già conoscevo bene. Io partii in auto da Milano con Consolato Ferraro, rappresentante della 'ndrangheta reggina per la Lombardia, e quando arrivammo ci sedemmo a tavola con De Michelis e Attilio Bressan, un imprenditore del luogo che avevo già conosciuto in precedenza ed era molto amico del ministro. De Michelis faceva lo spiritoso, diceva che senza i politici noi della malavita non saremmo esistiti, e che se la politica avesse voluto spazzarci via lo avrebbe fatto senza problemi. Diceva così perché quell'anno c'erano stati gli omicidi di Falcone e Borsellino, ed era stata modificata la cosiddetta legge sui pentiti. Lui diceva che se anche questi pentiti avessero svelato fatti legati alla politica, sarebbe stato un boomerang, in quanto i politici si sarebbero comunque tirati fuori e si sarebbero vendicati. Inoltre parlai con De Michelis di Somalia, armi e rifiuti. Lui sosteneva che i politici avrebbero potuto trasportare qualunque cosa anche senza la collaborazione della 'ndrangheta, e che ci usavano per comodità. Io gli risposi che era vero quello che diceva, ma era vero anche che i politici si potevano sedere in Parlamento grazie ai nostri voti".
"In quell'incontro" - continua l'ex boss - "si è poi parlato di investimenti che la famiglia di San Luca voleva fare a Milano. De Michelis disse che se avevamo bisogno di comprare locali, potevamo rivolgerci a Paolo Pillitteri, e così facemmo. Fu deciso nel corso di una riunione tra vari boss che avvenne subito dopo a Milano nel ristorante 'Pierrot', in zona Ripamonti, alla quale partecipai anch'io. In quell'occasione Antonio Papalia, rappresentante della 'ndrangheta zona aspromontana in Lombardia, si offrì di presentarci Pillitteri, con cui aveva già concluso affari. La presentazione avvenne nel suo ufficio di piazza Duomo e oltre a Papalia c'eravamo io, Stefano Romeo e Giuseppe Giorgi. Grazie ai buoni uffici di Pillitteri, la famiglia di San Luca ha perfezionato l'acquisto di un bar in Galleria Vittorio Emanuele, che poi è stato sequestrato proprio perché comprato con soldi sporchi, quello di un altro bar in via Fabio Filzi e di altri locali dei quali ho sentito parlare ma che non ho seguito direttamente".
Arriviamo così al 1994, anno in cui Fonti comincia a collaborare con la giustizia, precisamente con la direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria; entra quindi nella protezione testimoni, da cui esce volontariamente nel 1999.
Nel 2009 viene interrogato di nuovo e Fonti fa il nome di un esponente della Democrazia Cristiana, Riccardo Misasi, il quale sarebbe stato quello che decideva se le scorie radioattive dovevano finire in territorio italiano o straniero. Così rientra nuovamente nella protezione testimoni. L’11 marzo 2010 viene trovata nel golfo di Lamezia una nuova nave affondata: è una di quelle di cui ha raccontato Fonti.
Muore di malattia nel dicembre 2012. In questo caso non si può certo dire che si è portato i segreti di cui era a conoscenza nella tomba.
Conclusione
Questa è la storia del boss Francesco Fonti. Come ho detto più volte, possiamo farci affidamento oppure no. Ma lui sembra essere presente sulla scena di un sacco di cose strane: i rifiuti e le armi, l’inabissamento delle navi dei veleni e l’esportazione di rifiuti pericolosi negli stati africani. Addirittura nell’affare Moro, scoprendo con facilità il luogo segreto in cui è detenuto, ma venendo poi a sapere che i politici quell’informazione non la vogliono più.É un intreccio pazzesco, con protagonisti che non dovrebbero esserci, rappresentando spesso chi dovrebbe tutelare la popolazione.
Ancora una volta rimaniamo schifati dai connubi tra politica, amministrazioni, servizi e malavita. Ci sarebbe da dire: “speriamo che oggi non sia più così”, ma a leggere queste vicende per raccontarle in radio ci si crede sempre meno.
Introduzione
Abbiamo cominciato, due settimane fa, parlando della gestione, se mi passate questo termine, dei rifiuti pericolosi e tossici. Le industrie, ma, come vedremo, anche organizzazioni statali e non solo italiane, quando producono scarti nella loro lavorazione devono seguire percorsi e rispettare normative particolari, specie se quegli scarti rischiano di danneggiare l’ambiente in cui vengono sversati e i cittadini che in quelle zone abitano. Così dagli anni ’60 in poi si è andata affermando una pratica meno dispendiosa. Si contatta un’azienda, per così dire, birichina, che si occupa, zitta zitta, di mettere qua e là i rifiuti. Sotto uno stadio, nel sottosuolo di un’autostrada o del parcheggio di un aeroporto. Quando però la quantità di monnezza è eccessiva, occorre inventarsi qualcosa di più raffinato. Nasce così la tratta di rifiuti Nord-Sud, con destinazione particolare nelle regioni della Campania e della Basilicata. Sulla Basilicata avremo molte cose da dire, ma solo più avanti nella nostra storia. A dirigere il traffico interviene la camorra, poi la ‘ndrangheta, e la mafia siciliana.
Le mille discariche abusive campane, scoperte negli anni, stanno a dimostrare che questo è un vero e proprio sistema. É chiaro che gli effetti devastanti di materie particolarmente pericolose (pensate alla diossina, tanto per non fare nomi), incidono sulla produzione di ortaggi, sul mangime delle capre e delle bufale e quindi di tutti i latticini che vengono poi venduti in ogni angolo del mondo. Un crimine a largo spettro che ha come vittime l’ambiente e tutti i suoi abitanti. Ma frutta una quantità enorme di denaro, molto più, a detta di alcuni pentiti, del traffico della droga, che è tutto dire!
Le mille discariche abusive campane, scoperte negli anni, stanno a dimostrare che questo è un vero e proprio sistema. É chiaro che gli effetti devastanti di materie particolarmente pericolose (pensate alla diossina, tanto per non fare nomi), incidono sulla produzione di ortaggi, sul mangime delle capre e delle bufale e quindi di tutti i latticini che vengono poi venduti in ogni angolo del mondo. Un crimine a largo spettro che ha come vittime l’ambiente e tutti i suoi abitanti. Ma frutta una quantità enorme di denaro, molto più, a detta di alcuni pentiti, del traffico della droga, che è tutto dire!
Voglio parlarvi del Delta del Niger, una regione della Nigeria ricchissima per la presenza di vasti giacimenti di petrolio; una regione poverissima perché la maggior parte dei cittadini che vi abitano vivono nella miseria più nera. Una regione in cui governi ed esercito hanno fatto centinaia, forse migliaia di morti, sparando su manifestanti pacifici; una regione attraversata da bande armate, che assaltano strutture e rapiscono lavoratori stranieri. Una regione tra le più inquinate ed invivibili al mondo. Una regione che si affaccia sui bracci del fiume Niger che si tuffa nell’Oceano nel golfo di Guinea.
Questa regione si trova a sud della città di Port Harcourt, costruita dagli inglesi come centro di esportazione del carbone all’inizio del secolo scorso. Oggi conta oltre un milione e duecento mila abitanti, ha un centro cittadino ed è circondata da molte bidonville dove il degrado è assoluto. Come mai?
Questa regione si trova a sud della città di Port Harcourt, costruita dagli inglesi come centro di esportazione del carbone all’inizio del secolo scorso. Oggi conta oltre un milione e duecento mila abitanti, ha un centro cittadino ed è circondata da molte bidonville dove il degrado è assoluto. Come mai?
Gli anni ‘60
Oggi parliamo di segreti, di servizi segreti e di politici, di interferenze americane e di tentati colpi di stato. In particolare oggi parliamo del SIFAR, il servizio segreto militare del dopoguerra.Prima di cominciare una precisazione. Occorre non fare confusione tra quello che accadeva allora negli anni del dopoguerra e quello che avviene oggi, quando un presidente del senato fa affermazioni che non stanno né in cielo né in terra sull’anima antifascista della nostra costituzione. Insomma essere di destra oggi è probabilmente differente da 60 anni fa, anche se qualcuno sembra non essersene accorto. Almeno io spero che sia così.
La nostra storia, questa sera, comincia negli anni ’60. É difficile fare discorsi obiettivi per chi, come il sottoscritto, quegli anni ha vissuto da ragazzo ed ha quindi una visione romantica, nella quale gli aspetti positivi diventano giganteschi e quelli negativi quasi spariscono come la polvere sotto il tappeto. Troppa indulgenza? Allora cerchiamo di richiamare i fatti, allontanandoli se possibile dalle opinioni.
Ci sono rifiuti e rifiuti …
E dunque cominciamo. Cominciamo parlando di rifiuti, un tema che abbiamo affrontato ormai molte decine di volte da ogni punto di vista. Qui però non si tratta di discutere di come gestire la filiera o di come arrivare al riciclo della quasi totalità dei rifiuti che produciamo. Qui il discorso è diverso: l’unico punto di contatto è che, come sempre, il motore di tutto quanto è il denaro. Lo vedremo bene nel corso delle puntate.Il ragionamento che stiamo per cominciare riguarda, in particolare, i rifiuti tossici, le scorie radioattive e le armi; è molto lungo e a riassumerlo in poco spazio si rischierebbe di perdere in chiarezza e in dettagli, che qui non sono solo importanti, sono davvero essenziali per seguire tutti i rivoli delle vicende piuttosto complicate e intricate di cui vi parlerò.
In effetti, come ho avuto modo di dire tante volte da questi microfoni, è impensabile dividere i problemi e le questioni in piccole scatole separate. Non esiste il problema dei rifiuti, quello dell’energia, quello della povertà, quello dell’acqua e così via, esiste un solo problema che è la qualità della vita delle persone, che coinvolge anche la loro dignità di esseri umani. Esiste il problema della sopraffazione del ricco sul povero, del potente sul debole. Queste connessioni sono importanti e vanno capite.
La questione dei rifiuti tossici è talmente vasta che saranno necessarie diverse puntate della trasmissione per venirne a capo. All’inizio di ogni successiva trasmissione a questa farò un breve riassunto delle puntate precedenti.
Per chi non ne avesse mai sentito parlare, avviso che l’argomento è piuttosto crudo. A volte sembra di essere precipitati dentro un film dell’orrore.
La storia che stiamo per raccontare ha poche certezze. Le sue origini si perdono molto lontano nel tempo, mescolando storia e fantasia, scienza e mito. Chi ne ha parlato, ha suggerito ipotesi tutte diverse, spesso contrapposte. In una simile situazione possiamo fermarci alle poche fonti certe, oppure possiamo lasciarci trasportare dal “sentito dire”, dalle “voci” che sono state raccolte nei secoli, dalle leggende che sull’ignoranza dell’accaduto sono nate e si sono sviluppate. Oggi vogliamo raccontarvi la storia di un’isola del Pacifico, un’isola misteriosa, che noi europei conosciamo come Isola di Pasqua. La sua storia è talmente enigmatica, che qualcuno, come Erich von Däniken, si è convinto che i primi ad arrivare, nella notte dei tempi, siano stati degli extra-terrestri, che, prima di svanire nel nulla, avrebbero lasciato il loro sapere agli umani che ci vivevano. Affascinante narrazione: ma, come vedremo, di tutte quelle ipotetiche conoscenze, quegli abitanti non ne hanno fatto buon uso.
Il bello di raccontare le storie è proprio questa possibilità di mescolare informazioni documentate con altre che poggiano su racconti antichi, chissà quante volte modificati nel corso dei secoli.
Detto questo, possiamo cominciare.
Il bello di raccontare le storie è proprio questa possibilità di mescolare informazioni documentate con altre che poggiano su racconti antichi, chissà quante volte modificati nel corso dei secoli.
Detto questo, possiamo cominciare.
Introduzione
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Veniamo da un periodo straordinario, dove un piccolo virus ha messo in ginocchio l’intera società di questo pianeta, riempiendo i nostri cimiteri di morti e portando il terrore, tanto che abbiamo dovuto chiudere tutto, negozi, attività, produzione, centri di ricreazione, barricarci in casa per sopravvivere. Il tutto per un periodo piuttosto lungo e non sappiamo ancora quando tutto questo finirà e potremo tornare alle nostre solite vite. Ora, non è detto che se, 250 anni fa, avessimo impostato la società in modo diverso, ad esempio sfruttando altre energie invece di quelle basate sulle fonti fossili, che hanno riempito la nostra aria di gas serra, fatto crescere la temperatura media del pianeta, impestato di ogni tipo di schifezze le nostre montagne, i nostri mari, le nostre pianure … non è detto – dicevo – che cambiando il tipo di società non avremmo avuto lo stesso una pandemia del genere. Del resto nei secoli passati epidemie simili sono già avvenute, anche in periodi che possiamo giudicare migliori di questo dal punto di vista ambientale.
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