Introduzione
Oggi vi racconto una storia che ha come protagonista Palermo, una storia che è avvenuta mezzo secolo fa, una storia che è avvolta nel mistero più fitto, perché non ha avuto, fino ad oggi, alcuna soluzione.Anche in questo caso è bene citare le fonti. La principale sono i vari filmati della RAI, mandati in onda alcuni anni fa. Cito “Blu Notte” di Lucarelli e “La storia in giallo” di RAI3 perché sono quelli che mi sono serviti di più, ma altri documenti si trovano nel sito della nostra emittente di stato. E poi gli articoli sui giornali dell’epoca e successivi, specialmente quelli dei giornali siciliani. In rete si trovano migliaia di documenti, che richiamano la vicenda. Ma tutti dicono esattamente le stesse cose, a volte con le stesse frasi, le stesse parole. Insomma quello che vi racconto stasera è di dominio pubblico per chi voglia cercare le notizie. Lo scopo è quello di rendere il più scorrevole e semplice possibile la mia comunicazione. Se ci sarò riuscito ne sarò felice.
I fatti
É una serata calda a Palermo, il 16 settembre del 1970. Tira scirocco, quello che si porta dietro la sabbia africana e ti secca la gola. Sono passate le nove ma ci sono ancora quasi trenta gradi. Franca e Salvo stanno tornando a casa di lei. É un’occasione importante: hanno una cena con i genitori di lei. Tra due giorni si sposano e bisogna discutere gli ultimi dettagli della cerimonia. Quando arrivano davanti al condominio di via Magnolia 58, Franca vede la BMW blu scuro del padre. Lui sta armeggiano con qualche pacchetto. Lo salutano e lanciano un messaggio “Intanto andiamo avanti a chiamare l’ascensore” e così fanno. Ma qualche minuto dopo, visto che il papà non arriva, Franca si affaccia al portone e vede un paio di uomini salire sull’automobile e percepisce una parola, una sola, detta con una inflessione dialettale tipicamente palermitana: “Amuninne!” … Andiamo.Dove “andiamo”? E perché? Senza avvertire, che fretta c’è?
Franca non ha un padre qualunque, che so un impiegato, un insegnante, un ragioniere di banca come ce ne sono tanti che si confondono nella folla, uno di quelli che possiamo chiamare uomo comune o uomo della strada.
Lui è un giornalista, un giornalista di un giornale della sera, che a Palermo ha condotto inchieste molto scomode, molte delle quali sulla mafia, ma non solo. É un giornalista molto bravo, di quelli che hanno il rispetto di tutti i colleghi, anche di quelli delle testate concorrenti. É quello che oggi chiameremmo un giornalista d’indagine, come non ce ne sono moltissimi nel 1970.
Si chiama Mauro De Mauro.
Non è la prima volta che succede una cosa del genere, che Mauro si assenti improvvisamente perché chiamato per un servizio urgente o per inseguire una pista troppo calda per poter aspettare. Ma quella sera no, quella sera era dedicata a Franca e Salvo, perché andarsene così senza nemmeno avvertire, senza un “ciao” a due persone amate che si trovano a pochi metri di distanza?
Lo aspettano fino a mezzanotte e poi fino a mattina. Mauro non torna. Anche questo era già capitato altre volte, ma la dinamica osservata dalla figlia non sembra per niente naturale. Quelle persone e quella parola fanno assomigliare la scena ad un rapimento. E così la mattina dopo la signora Elda, la moglie, chiama il giornale alle 6,45 l’orario in cui Mauro si presenta da dieci anni al suo posto di lavoro, sempre puntualissimo, mai un ritardo. Ma in redazione non c’è, nessuno l’ha visto. Chiede anche ad un altro giornale, La Sicilia, dove ogni tanto passa, se l’abbiano visto la sera prima o la mattina. Ma la risposta è sempre la stessa: nessuno l’ha visto.
A quel punto non resta che rivolgersi alla polizia. Le ricerche cominciano e coinvolgono centinaia di poliziotti e forze dell’ordine, il che dà la misura dell’importanza di quell’uomo a Palermo, perché a sparire è stato uno che conta e che va ritrovato a tutti i costi.
Ma questo non avverrà né allora né mai più. A parte i rapitori, Franca e Salvo sono stati gli ultimi a vederlo. Di Mauro De Mauro non si troverà più traccia, è svanito nel nulla.
Chi può essere stato?
Perché? Perché rapire un uomo del genere? Aveva qualche segreto nel cassetto che avrebbe potuto danneggiare qualche potente? Ha pestato i piedi a qualche boss della mafia e per questo doveva sparire?Dalle storie che ho raccontato in questa sezione del sito, abbiamo capito che quando qualcuno scompare improvvisamente, dietro può esserci chiunque: la malavita, i servizi segreti, gruppi di potere. Pensate al mistero che ancora circonda la sparizione di due ragazzine romane, Mirella Gregori ed Emanuela Orlandi. Lo stesso vale per Mauro De Mauro. Questo non significa tuttavia che non si possano fare ipotesi, tentare di dare una spiegazione plausibile all’accaduto, consci che si tratta di congetture e che la verità, al momento, nessuno la conosce e chi la conosce non ha alcun interesse a svelarla.
Certo, sono passati più di 50 anni da allora, ma, sapete com’è, cercare di scoprire la verità sui fatti accaduti una volta aiuta a capire il contesto, a rileggere piccole porzioni della storia di questo nostro paese, che poi, incollate assieme l’una di fianco all’altra, danno un’immagine di “come eravamo” e spesso sono solo il passato di un presente che non è poi così diverso da allora, non lo è nei contenuti, nei fatti, nel metodo. Dunque vale la pena di provarci e, per farlo, la prima cosa da fare è cercare di inquadrare il personaggio. La prima cosa da fare è rispondere alla domanda: “Chi è, o chi era, Mauro De Mauro?”
Mauro De Mauro
Mauro De Mauro nasce a Foggia nel 1921 e si trasferisce a Palermo all’indomani della seconda guerra mondiale con la famiglia. É fratello di Tullio, professore, linguista, ex ministro dell’istruzione quando il ministero che dirigeva si chiamava ancora Pubblica Istruzione e che è morto qualche anno fa a quasi 85 anni.Allo scoppio della guerra aderisce al partito fascista, ma, soprattutto, si iscrive alla X MAS di Junio Valerio Borghese. Questa flottiglia d’assalto compie durante il conflitto missioni ritenute impossibili, usando le proprie siluranti. Famoso è l’assalto alla marina inglese ad Alessandria d’Egitto, del 19 dicembre 1941, che priva per un lungo periodo la Royal Navy delle sue navi da battaglia nel Mediterraneo.
Il 3 settembre 1943, l’Italia firma l’armistizio con le forze alleate, in un incontro segreto a Cassibile, nei pressi di Siracusa. La sua entrata in vigore avviene quando dell’accordo si dà comunicato ufficiale: è l’8 settembre.
Mentre le forze del regno Italiano smettono qualsiasi avversità con le forze alleate che stanno risalendo la penisola ed inizia la lotta di liberazione dal nazi-fascismo, Junio Valerio Borghese si accorda con i tedeschi e continua la propria attività contro gli alleati e contro la resistenza.
L’uso di metodi di repressione violenti e terroristici rendono la formazione responsabile di crimini di guerra, che in moltissimi casi sono poi stati puniti con la fucilazione, non sempre eseguita in seguito alla condanna di un tribunale. Il 26 aprile 1945, Borghese si arrende al Comitato di Liberazione Nazionale, scioglie il reparto e consegna soldi e armi ai partigiani e si ritira presso amici. Qui aspetta la sua sorte. Ma, a prenderlo, non arriva una pattuglia di partigiani, bensì una camionetta dell’esercito americano, che lo carica e se lo porta via. Su quella jeep c’è un alto ufficiale dell’OSS, i servizi segreti militari statunitensi. Questi hanno stretto, per Borghese, un accordo con i servizi segreti italiani. Alle forze navali statunitensi ed inglesi interessa molto sapere come funzionano quei “maiali”, quelle imbarcazioni che tante imprese avevano portato termine durante la guerra. Viene rilasciato ad ottobre e arrestato dalle forze italiane. Il processo lo condanna a due ergastoli, escludendo, per lui il delitto di crimini di guerra, per il quale è prevista la pena di morte. Poi i due ergastoli diventano 12 anni e, con vari condoni e amnistie se la cava praticamente con nulla e torna libero come se niente fosse accaduto.
Sarà presidente del neonato Movimento Sociale dal 1951 fino al 1953, poi se ne va perché, a suo giudizio, quel partito è troppo debole. Si inserisce allora nei movimenti extraparlamentari di destra, fino al famoso tentativo di colpo di stato del dicembre 1970, fallito, come sembra, per espresso ordine dello stesso Borghese. Le motivazioni di questo dietrofront non sono molto chiare neppure oggi, anche se la più accreditata delle ipotesi è che quel tentativo servisse solo a favorire una svolta autoritaria nella politica italiana. Ma quella dei golpe nel nostro paese è un’altra affascinante storia, che esula dall’attuale racconto.
E Mauro De Mauro? Lui fa parte della XMAS, prima e dopo l’armistizio e quindi è uno di quelli che partecipano alla Repubblica di Salò. Viene rinchiuso nel campo di concentramento di Coltano, in provincia di Pisa, assieme ad altri 32 mila reduci dalla Repubblica di Salò. Riesce però a fuggire prima a Napoli e poi a Palermo. Su di lui pende un mandato di cattura, perché su di lui ci sono molti dubbi del periodo precedente a quello della XMAS. Faceva parte, sostengono gli accusatori, delle SS italiane, collaboratrici della Gestapo di Kappler, partecipando di persona ad interrogatori, torture ed eccidi, come quello delle Fosse Ardeatine a Roma, dove 335 tra ebrei e antifascisti vengono sterminati. Va tuttavia ricordato che successivi processi dimostreranno che all’esecuzione di quella strage non partecipò nessun italiano e quindi nemmeno Mauro De Mauro. Dal processo esce pulito, perché riconosciuto non colpevole, prima per insufficienza di prove e poi con formula piena.
Intanto è a Palermo, dove fa il giornalista. Scrive per vari giornali e in particolare per quel quotidiano della sera, che porta avanti grandi inchieste e grandi battaglie. É il 1959 quando entra in pianta stabile all’Ora di Palermo. Vi resterà fino al giorno del suo rapimento, il 16 settembre 1970. L’Ora è un piccolo giornale, da 20 mila copie appena, ma agguerrito con servizi e firme che diventeranno importanti nel giornalismo italiano. Gli strilloni urlano i titoli nelle vie popolari della città e sono molto spesso titoli pesanti, che preannunciano verità scomode, molto scomode per quella Sicilia.
L’Ora è decisamente orientato a sinistra, vicino alle posizioni politiche ed ideologiche del Partito Comunista Italiano. Qualche suo collega dirà che Mauro era di sinistra col cuore, mentre la testa era sempre ancorata alle vicende della guerra, alla partecipazione al fascismo e alla repubblica di Salò.
Il suo passato non è un problema per lui e non lo è neppure per il giornale, perché il suo modo di fare il giornalista è sincero, leale, e soprattutto enormemente competente. Scrive con straordinaria velocità, a volte dettando interi articoli a braccio, senza alcun supporto cartaceo, inventandoli lì per lì, mettendo tutte le parole che servono, i punti, le virgole e tutto il resto.
Ci tiene al suo giornale. Si racconta che una volta abbia prelevato un suo collega e portato in un paese vicino. Abbia suonato ad una porta e alla signora che si affacciava alla finestra abbia gridato: “Suo marito è fuggito con sua sorella”. Se avete visto qualche film sull’onore e sui cornuti in Sicilia negli anni ’60, capirete perché la povera donna sviene. Mauro entra in casa e sollecita il collega a prendere tutte le foto che trova, “così la notizia – dice - ce l’abbiamo solo noi e non la concorrenza”.
Mauro e la mafia
Scrive di tutto per l’Ora, Mauro De Mauro, ed entra in molte inchieste, alcune meno pericolose come quella sul delitto d’onore, sui 4 cappuccini gestori di una banda di estorsori e assassini, altre decisamente pericolose, come quelle sulla nuova mafia nei primi anni ’60.Il direttore, Vittorio Misticò, e i suoi giornalisti vengono spesso denunciati e mandati sotto processo per questo. Lo fa l’assessore ai lavori pubblici e poi sindaco di Palermo, Vito Ciancimino, lo fanno gli onorevoli Salvo Lima, Giovanni Gioia, Giuseppe La Loggia, tutta gente vicina alla mafia. E poi, appunto, c’è la mafia, anzi la nuova mafia.
Di cosa si tratta?
É la svolta, voluta da Lucky Luciano, il boss americano che rende la mafia globalizzata, anticipando di decenni quella che sarà la globalizzazione commerciale. La merce in questione è la droga, che, da quel momento, diventa l’affare masfioso più grosso di cui occuparsi, prima di entrare stabilmente nella produzione industriale e nella politica.
Nel 1958, l’Ora pubblica un’inchiesta con in prima pagina la foto di uno dei boss dell’epoca, Luciano Liggio, con sopra a caratteri enormi il titolo: “Pericoloso!”
A Liggio ovviamente questo non fa piacere e fa esplodere una bomba nella tipografia del quotidiano.
Ma Mauro è uno famoso e la mafia non si sognerebbe di ammazzarlo, a meno che non sia per un motivo davvero importante ed urgente, certo non per un articolo di accuse. Del resto fino a quel momento un solo giornalista, proprio dell’Ora, era stato ammazzato, anche se la sua morte era stata archiviata come suicidio. Ma, dopo il rapimento di De Mauro le cose cambiano: Giovanni Spampinato (1972), Peppino Impastato fatto assassinare dal boss Tano Badalamenti nel 1978, Mario Francese che se l’era presa con i corleonesi di Totò Riina nel 1979, Giuseppe Fava (1984), Mauro Rostagno (1988) e Beppe Alfano (1993) sono tutti giornalisti siciliani che pagano con la loro vita quello che stanno raccontando sulla mafia.
É però parecchio tempo che Mauro De Mauro non si occupa di mafia. L’ultimo articolo scritto nell’estate del 1970 era una rievocazione del decennale di una manifestazione contro il governo Tambroni, quello formato dalla Democrazia Cristiana (dentro tutti i nomi importanti da Andreotti a Segni, da Rumor a Zaccagnini) e sostenuto in parlamento dai voti del Movimento Sociale di Almirante. Un governo che aveva suscitato, proprio per questo sostegno neofascista, un mare di polemiche. Durante quelle manifestazioni la polizia carica violentemente e uccide 4 manifestanti.
E allora perché viene rapito? Se non è per qualcosa che aveva già scritto, probabilmente è per qualcosa che stava per scrivere, per qualche informazione importante che aveva raccolto. Già, ma quale? E su chi?
Vito Guarrasi
É tutto molto strano, perché il giornalista in quei mesi estivi era stato spostato alla pagina sportiva, non per punizione o perché a Mauro piacesse lo sport, anzi. Quella sezione dell’Ora è in sofferenza e va risollevata da un redattore che lo sappia fare e Mauro lo sa fare e bene.Questo nuovo incarico, tuttavia gli lascia un sacco di tempo libero, soprattutto d’estate. Non è quindi escluso che stia lavorando in privato a qualche altro progetto, quello sì, forse, pericoloso per la sua vita.
Adesso dobbiamo far entrare un nuovo personaggio. Si chiama Vito Guarrasi, è morto nel 1999 ed è una delle figure più sfuggenti di questo nostro racconto.
É uno degli ufficiali presenti alla firma dell’armistizio a Cassibile, come aiutante di campo del generale Castellano. Alla fine di Novembre 1944, il console generale statunitense di Palermo scrive al suo Segretario di Stato che Guarrasi è presente, assieme ad altre personalità dell’isola, per un progetto importante. Il titolo del messaggio è questo: “Formation of a group favouring autonomy of Sicily under direction of Mafia”. Ecco il progetto americano: formazione di un gruppo che favorisca l’autonomia della Sicilia sotto la guida della Mafia.
Poi Guarrasi si dà agli affari. Fonda la società di ispirazione socialista “La voce della Sicilia”, è amministratore di una società che estrae zolfo e poi si candida alle elezioni politiche nella formazione di sinistra “Fronte Popolare”. Entra negli anni 50 nel giornale L’Ora, come sappiamo di ispirazione comunista. Questa deriva socialista si interrompe nel 1953, quando si candida al Senato nelle file del Partito Liberale, ma non viene eletto.
É costantemente in contatto con la CIA statunitense, tanto da raccontare che quando un dirigente dell’Intelligence americana passa da Palermo, non manca mai di andare a trovarlo.
Negli anni che qui ci interessano è presidente, amministratore, socio fondatore di decine di società i cui interessi spaziano un po’ ovunque. Nel 1960 diventa consigliere di Enrico Mattei, il presidente dell’ENI, per la costruzione di un metanodotto sottomarino che colleghi la Sicilia con l’Africa del Nord. Una collaborazione breve che non è più in essere quando Mattei muore. Lui però torna in sella con il successore di Mattei, Eugenio Cefis, di cui viene definito il braccio destro. Di questi personaggi avremo modo di parlare ancora.
Per completare il quadro, nel 1986 Guarrasi è iscritto ad una loggia massonica di Palermo, insieme all’esattore di Salemi, Nino Salvo e al boss mafioso Salvatore Greco.
Vedremo che qualche dubbio, anche ascoltando i pentiti di mafia, sulla sua partecipazione alla scomparsa di Mauro De Mauro c’è, ma di questo parleremo più avanti. Adesso torniamo alla scomparsa del giornalista e alle indagini.
Le indagini: il cavalier Buttafuoco
Le ricerche cominciano la mattina dopo il rapimento e la sua BMW viene ritrovata la sera di quel giorno, anche se si trova a poche centinaia di metri dalla sua abitazione. Dentro ci sono le cose che Mauro aveva con sé: i pacchetti di sigarette, il vino francese comprato per festeggiare il futuro genero, un pullover e un paio di occhiali. Uno dei finestrini è aperto. C’è anche un biglietto con degli appunti del giornalista; riguardano una speculazione edilizia.É a questo punto che dobbiamo introdurre un nuovo personaggio nella nostra storia. Un personaggio strano, che sembra vivere nel secolo passato, con la sua paglietta in testa, il suo bastone di canna e l’abitudine a spostarsi con una di quelle carrozzelle, che ormai servono solo ai turisti. Si chiama cavaliere Antonino Buttafuoco. É un commercialista ed è anche, curiosamente, amico di Mauro. I suoi interventi in questo racconto sono stranissimi, probabilmente inspiegabili.
La sera in cui la BMW viene ritrovata e quando la notizia della scomparsa di Mauro De Mauro ancora non è stata diffusa, nell’abitazione di via Magnolia 58, arriva una strana telefonata. Risponde Tullio, il fratello del rapito. Il cavaliere, grossomodo, dice quanto segue:
“Non vi ho chiamato per confortarvi, ma per esporvi la situazione così com’è. Mauro non è stato attento, ma possiamo ancora fare qualcosa per lui.” Tullio si sente ribollire e chiede se dunque lui sappia dove si trova.
“Calma – continua Buttafuoco – io vi aiuterò se voi aiuterete me. Dovete fornirmi ogni notizia in vostro possesso che possa aiutarmi a facilitare la sua liberazione.” Quando Tullio chiede con forza perché mai proprio Mauro sia stato rapito, il cavaliere, fa due ipotesi: una storia di droga che coinvolge la mafia, ma anche forse qualcosa che riguarda l’ENI. E questo è davvero curioso, perché nessuno sa, in quel momento, tranne pochissime persone, che Mauro De Mauro sta svolgendo una inchiesta sugli ultimi due giorni in Sicilia di Enrico Mattei, scritturato dal regista Francesco Rosi per il suo film “Il caso Mattei” che uscirà nel 1972.
Avremo modo di tornare più avanti su questa questione, che è di importanza cruciale.
Chi è Buttafuoco? É il commercialista di casa De Mauro, ma, secondo il vice questore di Palermo, Angelo Mangano, è uno che i suoi bravi legami con la mafia li ha, altrimenti non si spiegherebbero le sue numerose visite ad un ricoverato in ospedale a Roma sotto falso nome. Quel ricoverato è nientemeno che il grande boss Luciano Liggio.
Il cavaliere chiama ancora e poi si reca in visita a casa De Mauro, chiedendo informazioni su quando e come la polizia abbia frugato in casa e cosa, eventualmente, abbia portato via. Poi aggiunge che aveva avuto dei contatti in base ai quali poteva rassicurare che Mauro era vivo e stava bene. Torna un’altra volta e questa volta usa una frase criptata: “Un medico verrà da fuori e solo dopo aver concluso la visita, l’affare si potrà concludere.” Insomma, secondo Buttafuoco, quello che da De Mauro si vuole, sono informazioni e notizie su qualche argomento che nessuno conosce.
Poi arriva una busta al suo giornale: contiene un nastro magnetico con incise poche parole, biascicate come di qualcuno che parli con un fazzoletto premuto sulla bocca e dice: “Questo ora è vivo, non gli facciamo del male, vogliamo chiaccherargli bene.” Un messaggio, dunque che conferma le parole dette una settimana prima dal cavalier Buttafuoco. Questi continua a parlare con la famiglia e chiede insistentemente di chi stia sospettando la polizia, di avere informazioni sulle indagini. Chiede in particolare se sia stata trovata una busta arancione. Questo è un elemento importante, per cui dobbiamo fare un piccolo salto indietro. Il pomeriggio del rapimento, Mauro va dal barbiere: due giorni dopo la figlia si sposta e vuole essere in ordine. Il barbiere è uno dei testimoni sentiti dalla polizia e ricorderà che il giornalista aveva con sé una busta arancione, che non sarà più trovata nella BMW. Cosa contenesse non lo sappiamo, ma è strano che De Mauro non se ne separi neppure quando si siede sulla seggiola del barbiere.
É, quanto meno, curioso l’interesse del cavalier Buttafuoco per le indagini, arrivando a chiedere alla moglie di Mauro di recarsi dal questore, farsi dare i nomi dei sospettati e poi riferirli a lui. Così la polizia intercetta le sue telefonate. Ma lui di questo argomento parla solo da telefoni pubblici, tranne una volta quando dice ad un anonimo questa frase: “Rassicura gli amici di Trapani che non ci fu ammazzatina per il giornalista.”
E poi c’è un’altra conversazione. Cerca insistentemente qualcuno a Parigi, fino a che non riesce a trovarlo.
Il signor X
Ad ottobre il sostituto procuratore che coordina le indagini fa arrestare Buttafuoco per concorso nel sequestro di Mauro De Mauro. I fatti avvengono molto rapidamente. La questura lascia trapelare che ci saranno grosse novità a Palermo, novità grosse, perché la pista che si sta seguendo porta in alto, molto in alto. I mandanti farebbero parte del mondo politico ed economico del paese, con nomi grossi invischiati in questo sporco affare. La polizia starebbe per arrestare un uomo chiave della vicenda, quello che chiamerà il signor X.Secondo la stampa il signor X è proprio la persona che Buttafuoco cerca insistentemente a Parigi. Sconosciuto, poco appariscente, mai una carica politica, finché un giornalista sul Mondo fa uscire un nome: Vito Guarrasi, che abbiamo già incontrato in questa nostra storia. Sembra proprio che ci siamo, che le congetture si trasformino finalmente in qualcosa di più solido. Il 14 novembre la polizia deve presentare un rapporto al riguardo. Ma il 14 novembre ecco il colpo di scena. Si ferma tutto, le indagini, le ipotesi, gli arresti clamorosi. Nessun rapporto accusatorio. Tre giorni dopo il rapporto arriva, ma è di tono completamente diverso. Buttafuoco esce di prigione. Viene riconosciuto innocente dopo un processo che termina nel 1983.
Finisce tutto qui?
Non proprio perché sulle ipotesi si può lavorare ancora e ancora.
A cosa lavorava Mauro De Mauro?
Abbiamo già detto che, se il rapimento non è stato per qualcosa che Mauro aveva già scritto, probabilmente è per qualcosa che ancora doveva scrivere. Il suo collega Bruno Carbone raccoglie una confidenza di Mauro. “Ho qualcosa di grosso per le mani, qualcosa che può far saltare per aria mezza Italia”, ma non vuole spiegare di cosa si tratti perché ancora non ha tutte le certezze in mano. Carbone gli consiglia di recarsi dal procuratore Bruno Scaglione per riferire. E così fa, Mauro, ma di quello che i due si sono detti non sappiamo niente, perché niente è stato verbalizzato e in seguito Scaglione non potrà più farlo. Verrà infatti ucciso, l’anno successivo, da un commando guidato da Luciano Liggio.Cosa ha scoperto Mauro De Mauro per finire nell’elenco delle persone pericolose che vanno eliminate?
I carabinieri sono guidati dal colonnello Alberto Dalla Chiesa. Lui pensa che il motivo del rapimento sia il fatto che Mauro ha scoperto qualcosa di grosso sul traffico di droga gestito dalla mafia che collega la Sicilia con gli Stati Uniti. Si reca in procura con un grosso rapporto col quale chiede decine di mandati di cattura.
La polizia ha invece idee diverse. Per loro il rapimento ha a che fare con qualcosa che è successo molto prima, il 27 ottobre 1962, la morte di Enrico Mattei.
Enrico Mattei
Il 27 ottobre 1962 da Catania parte un aereo privato, un piccolo aereo, diretto a Milano. Ci sono tre persone a bordo: il pilota, un giornalista americano e il presidente dell’ENI, ingegner Enrico Mattei. Lui non è solo un alto dirigente statale, perché, grazie alla sua posizione, controlla un vasto impero di pozzi di petrolio e metano, di oleodotti, di contratti miliardari, insomma lui è probabilmente l’uomo più potente d’Italia in quel momento. Il suo braccio destro è Eugenio Cefis, personaggio che entrerà nelle storie più torbide italiane, dallo scandalo petroli alle stragi, dalla fondazione della loggia massonica P2 a … qui ci dobbiamo fermare perché non ci sono prove. Ma molti indicano proprio in Cefis il mandante dell’uccisione di Mattei e anche di Pier Paolo Pasolini, per via del suo romanzo poliziesco Petrolio, nel quale racconta una storia molto verosimile, di cui è protagonista proprio l’alter ego di Eugenio Cefis.Ma torniamo all’aereo che vola verso Milano. Ormai è quasi arrivato mancano pochi minuti all’atterraggio, meno di cinque, quando sparisce dagli schermi radar e interrompe ogni comunicazione con la torre di controllo. Cade nelle campagne della provincia di Pavia. Un contadino racconta di aver visto il velivolo esplodere in volo, ma poi, di fronte agli inquirenti ritratta: non ha visto niente.
É un tipo tosto Mattei. Lui è convinto che non si possa continuare a dipendere energeticamente dagli Stati Uniti. L’Italia per diventare politicamente autonoma, deve esserlo prima di tutto da un punto di vista energetico. Questo non può che dare molto fastidio alle multinazionali del settore, le cosiddette “sette sorelle”. Ma non è tutto: anche i francesi non lo sopportano, perché sta finanziando l’Algeria che si sta liberando dal dominio di Parigi. Anche da noi le cose sono complicate. Ci sono settori della Democrazia Cristiana che lui non vuole più finanziare e poi, come in ogni famiglia che si rispetti, ci sono parti dello stesso ENI che la pensano in modo diverso sulle strategie aziendali.
Ne ha, insomma, di nemici Enrico Mattei e non è difficile pensare che qualcuno di questi fosse dietro l’attentato che fa cadere l’aereo: sono quasi le sette di sera, Enrico Mattei muore a 56 anni.
L’inchiesta decreta che si è trattato di un incidente, un errore umano, come recita la conclusione della commissione istituita da Giulio Andreotti. Ma parecchi anni più tardi, nel 1995, l’inchiesta viene riaperta dal sostituto procuratore di Pavia, Vincenzo Calia. Oltre a cercare ancora nella campagna altri pezzi dell’aereo, vengono riesumati i corpi dei tre passeggeri di quella sera. Le conclusioni sono clamorose: i segni sulle parti metalliche della fusoliera, i pezzi di metallo nei cadaveri, i segni sugli oggetti rinvenuti, come l’anello e l’orologio di Mattei, fanno capire che a bordo è esplosa una bomba. Una piccola bomba, innescata dall’apertura del carrello, quindi quando il velivolo è molto vicino alla pista di atterraggio. Quando cade, l’aereo si trova a circa 15 km da Linate. Dunque Enrico Mattei è stato ucciso. Da chi? Perché?
Quando Mauro De Mauro scompare a Palermo, ufficialmente la morte di Mattei è ancora dovuta ad un incidente, anche se sono davvero in pochi a crederci.
Che relazione c’è tra la morte di Enrico Mattei e Mauro De Mauro? Il legame è un regista italiano, Francesco Rosi, molto impegnato politicamente, i cui film sulla società italiana e su fatti eclatanti sono numerosi e molto significativi.
Lo studio per “Il caso Mattei”
In quel periodo Rosi sta preparando il film “Il caso Mattei”, che uscirà nel 1972 avendo come protagonista Gian Maria Volonté. Per la sceneggiatura ha bisogno di ricostruire gli ultimi giorni prima della morte, quelli passati in Sicilia. E affida l’incarico proprio a De Mauro, ormai diventato conosciuto per le sue numerose indagini. Del resto il giornalista dell’Ora si occupa, come abbiamo visto, di sport e questo gli lascia molto tempo libero per indagare.De Mauro, ormai lo sappiamo, non è un topo di biblioteca: indaga, interroga persone, legge libri, cerca sempre più a fondo. Sulla sua scrivania, dopo il rapimento c’è un libro, “L’assassinio di Enrico Mattei” di Bellini e Previdi, uscito in quell’anno, il 1970. Ci sono parti sottolineate da Mauro: riguardano la partenza di Mattei da Catania: di fianco ha messo un punto interrogativo.
Si procura materiale e perfino il nastro dell’ultimo discorso fatto da Mattei prima di ripartire per Milano. Poi incontra Graziano Verzotto, arrivato in Sicilia come braccio destro di Enrico Mattei. Adesso dirige l’Ente minerario siciliano, entrando in contrasto con l’attuale presidente dell’ENI, Eugenio Cefis. Verzotto racconta a Mauro un sacco di cose e lo indirizza verso uno che ne sa più di lui, l’avvocato Vito Guarrasi. Non si sa se De Mauro ci sia davvero andato. Quello che Verzotto racconta è che De Mauro in quell’occasione tiene con sé una busta arancione. Dentro, gli dice il giornalista, c’è quello che ha raccolto sul caso Mattei. Due giorni dopo De Mauro scompare e con lui scompare anche quella busta arancione, l’unico oggetto non più ritrovato nella BMW.
De Mauro è entusiasta del suo lavora. Ne parla con alcune persone, dicendo che presto pubblicherà un servizio che farà scoppiare l’Italia. Ma a nessuno rivela di cosa tratti nei particolari questo servizio. Si sa solo che ha a che fare con l’uccisione di Enrico Mattei.
La figlia Junia di Mauro, segna sul suo diario una conversazione col padre quella stessa sera del 14 settembre, quando è tornato dal colloquio con Verzotto. Dice che il suo lavoro riguarda Mattei e che ha scoperto una cosa sensazionale. Ci sono solo due persone che sapevano l’ora esatta del decollo di quell’aereo. Una è l’attuale presidente, cioè Eugenio Cefis.
La polizia indaga, disponendo di straordinari investigatori, come Bruno Contrada e Boris Giuliano (che sarà assassinato dalla mafia nel 1979). Secondo loro ad aver deciso il rapimento di De Mauro sono stati un alto esponente politico e un alto dirigente dell’ENI.
Nel 1998, quando l’inchiesta su Mattei viene riaperta, il sostituto procuratore Ugo Saito dice:
“Noi, con la polizia, ritenevamo infatti, con assoluta certezza, che De Mauro era stato eliminato perché aveva scoperto qualcosa di eccezionalmente rilevante relativamente alla morte di Enrico Mattei. Ritenevamo inoltre che il ragionier Buttafuoco non era altro che l’ultimo anello di una catena che faceva capo ad Amintore Fanfani e alla sua corrente.”
Il blocco delle indagini
Si arriva, come visto, all’arresto di Buttafuoco e alle dichiarazioni del signor X, probabilmente Vito Guarrasi, poi però succede qualcosa di molto strano.Anzi non succede più niente. Tutto si ferma e ciò rende perplesso il procuratore Saito, che ne parla con Boris Giuliano. Sarà proprio il commissario a raccontargli quello che è avvenuto in quel mese di novembre 1970.
C’è stata una riunione, in un night, tra i responsabili della polizia palermitana e i vertici dei servizi segreti. Tra questi il direttore, il generale Vito Miceli, che verrà arrestato per cospirazione contro lo stato nel 1974 a seguito dell’indagine sulla Rosa dei Venti. Viene assolto con formula piena, anche se la sua appartenenza a Gladio e alla loggia massonica P2, qualche perplessità la lasciano, dal momento che dirige uno degli organismi più delicati della repubblica, come il SID, il Servizio Informazioni Difesa, insomma il servizio segreto militare.
Ma torniamo a quella riunione. C’è un ordine che arriva dall’alto, da molto in alto: “Annacquare le indagini”. Buttafuoco viene liberato e assolto e il caso Mattei scompare dalle ipotesi sulle cause del rapimento di Mauro De Mauro.
Certo, ne restano altre. La droga e la mafia, un articolo sui mafiosi Nino e Ignazio Salvo, due noti mafiosi, eletti nelle liste della Democrazia Cristiana, di cui sono grandi elettori.
Altre possibilità dunque, ma nessuna certezza. Cinque giorni dopo il sequestro l’Ora esce con un titolo a caratteri cubitali: “Aiutateci”. Ma, anche se qualcuno ha visto qualcosa, nessuno si muove, proprio nessuno, nello stile più puro dell’omertà.
Il golpe Borghese
Nella notte tra il 7 e l’8 dicembre 1970, gruppi dell’estrema destra, sostenuti da una cinquantina di membri di Cosa Nostra, stanno per effettuare un colpo di stato. Li guida Junio Valerio Borghese. A mezzanotte il Viminale è conquistato e in tutta Italia gruppi di fascisti sono pronti ad intervenire. In Calabria ci pensa la ‘ndrangheta. É tutto pronto, anche il proclama di Borghese da leggere alla RAI. Ma poi arriva un contrordine: tutti a casa e nella notte le forze degli insorti si dileguano. É come se non fosse mai successo nulla.Questa, almeno, è la ricostruzione fatta dalla commissione antimafia.
Sulla stampa la notizia arriva in marzo 1971, grazie a Paese Sera.
Come entra De Mauro in questa vicenda che è successiva al suo rapimento? Forse, sostengono gli inquirenti, aveva avuto qualche confessione da un mafioso di Palermo, certo Giacomo Micalizio, che era uno dei partecipanti ai preparativi del golpe. Non possiamo dimenticare il passato del giovane De Mauro, schierato a fianco dei suoi camerati nella XMAS, proprio quella del principe nero, Junio Valerio Borghese. Questi tra l’altro nel 1970 è spesso in Sicilia per cercare finanziamenti e fa numerosi comizi, uno di questi in un cinema proprio di fronte all’Ora.
Uno scoop sul golpe Borghese era già stato fatto da un altro giornalista, Camillo Arcuri, di cui ascoltiamo il racconto.
Come già detto, Borghese coinvolge anche la Mafia nel suo progetto. É il pentito Tommaso Buscetta a parlarne per primo, poi anche Luciano Liggio e Antonino Calderone. Nella riunione era presente il super boss Totò Riina. Poi però la Mafia non ci sta; non si fida di quell’uomo. Che non succeda poi che ci arrestano tutti- dice Luciano Liggio.
Che sia per questo che De Mauro viene rapito? Che abbia saputo in anticipo notizie sul golpe Borghese?
Sia come sia, del caso si perde ogni interesse, nessuno ne parla più se non in occasioni particolari come gli anniversari. Quando a Pavia si riapre l’inchiesta sulla morte di Mattei e si pensa ci possa essere un legame con la scomparsa del giornalista siciliano, gli incartamenti arrivano a Palermo e questo obbliga ad una nuova apertura del caso. La televisione ne dà notizia al telegiornale, così.
Cosa dicono i mafiosi sul rapimento di De Mauro
Francesco di Carlo è un boss importante. Quando diventa collaboratore di giustizia racconta che le informazioni le ha avute da Tano Badalamenti e Stefano Bontate. De Mauro, lo hanno rapito per sapere cosa sapesse del golpe Borghese, poi lo hanno ucciso e hanno fatto sparire il corpo. Come sono arrivati a sapere che Mauro possiede informazioni pericolose? Ecco il racconto dello stesso pentito.Al circolo della stampa, si passano serate a giocare ed il posto è frequentato da molte persone, tra le quali anche giornalisti, mafiosi e detective. Ce n’è una di queste persone che Mauro conosce e che suppone sia vicino ai mafiosi di Palermo, Emanuele D’Agostino. Così lo avvicina e, da buon giornalista, lascia cadere alcune domande per cercare di avere una conferma o una smentita. D’Agostino però non è uno qualunque, è un pezzo grosso, un killer al soldo di Stefano Bontate. Riferisce al suo boss quanto ha intuito da De Mauro, questi agli altri boss e tutti assieme a quelli di Roma, quelli del golpe. Da qui la condanna a morte del giornalista dell’Ora.
A prenderlo sotto casa, quella sera, i tre sarebbero stati lo stesso D’Agostino, Stefano Giaconia e Bernardo Provenzano.
Ora, questo è quanto dice il boss Francesco Di Carlo e, come sempre, possiamo credere oppure no a queste rivelazioni. Noi le registriamo semplicemente perché sono avvenute e hanno a che fare, eccome, con il caso di cui stiamo raccontando la storia.
Che sia andata così non lo sappiamo, non lo sa neppure il procuratore Antonio Ingroia, che si occupa all’inizio di questo secolo del caso. Il suo commento è quanto mai interessante: sostiene, infatti, che le indagini sulla mafia diventano terribilmente difficili, quando alla mafia si aggiungono altre entità, legate alla mafia, ma non mafiose in senso stretto. Lui ritiene effettivamente la pista Borghese quella più plausibile. E ricorda, oltre al mistero sulla sorte di De Mauro, i numerosi tentativi di depistaggio, che certo non sono tipici del comportamento mafioso.
La nostra storia non finisce qui, perché ci sono ancora altri eventi successivi. Cominciamo con il 2006, quando inizia il processo contro Totò Riina, accusato di essere mandante ed esecutore del delitto De Mauro.
Il pentito Francesco Marino Mannoia racconta di come Mauro sia stato strangolato e poi sepolto in un cimitero della Mafia. Successivamente, viene spostato, assieme agli altri corpi, perché devono iniziare dei lavori sulla circonvallazione che passa là accanto. Tutti i corpi sono sciolti nell’acido ed è per questo che del giornalista non si trova alcuna traccia. Dopo 5 anni di dibattimenti, per Riina viene chiesto l’ergastolo, ma il boss mafioso viene assolto perché le prove non sono sufficienti. Un anno dopo la sentenza viene depositata alla Corte d’Assise al di là dell’assoluzione di Riina, una frase colpisce: “De Mauro è stato eliminato perché si era spinto troppo oltre nella sua ricerca sulla verità delle ultime ore di Enrico Mattei.”
Nel 2013, la corte s’assise di Palermo conferma l’assoluzione per Riina, dopo aver riascoltato le deposizioni di Francesco De Carlo relative al coinvolgimento di Cosa Nostra nel golpe Borghese.
Anche la Cassazione ha confermato l’assoluzione di Totò Riina “per non aver commesso il fatto”. Il caso è chiuso e Riina è morto nel novembre del 2017.
É stata la mafia … ma perché?
Il dispositivo della sentenza di assoluzione di Totò Riina merita una lettura. Eccone il passo saliente, che qui ci interessa:“L'omicidio del giornalista Mauro De Mauro fu deciso ed eseguito da uomini di Cosa nostra" e la "relativa causale è individuabile nelle informazioni riservate di cui la vittima era entrata in possesso in relazione alla sua attività professionale, verosimilmente, anche se non certamente, riconducibili, secondo le risultanze del processo di merito, al coinvolgimento di esponenti mafiosi nella morte di Enrico Mattei, più che nella vicenda relativa al tentativo di golpe cosiddetto Borghese".
Eccoci dunque all’epilogo e al tentativo di dare un senso a tutto il discorso. Possiamo riassumere che sicuramente Mauro De Mauro è stato ammazzato da uomini di Cosa nostra, molto probabilmente dal gruppo di Bontate. Si tratta di capire perché e qui le cose si fanno molto meno scontate, anzi si fanno decisamente nebulose.
Ci sono, come abbiamo visto, varie ipotesi.
- La prima è seguente ad un rapporto del questore di Palermo, datato 13 aprile 1972. Un documento scomparso da tutte le indagini, i processi, le inchieste, chissà mai perché? Il questore è Bruno Contrada, che riferisce di una confidenza raccolta dal vicequestore Boris Giugliano. Un impiegato del tribunale di Palermo gli confida che Mauro De Mauro, accompagnato dal ragionier Buttafuoco era stato nella sezione commerciale del tribunale in cerca delle cosiddette esattorie. Si tratta, come accennato prima, di quelle dei cugini Nino e Ignazio Salvo. Il giornalista cerca una prova su una colossale frode all’erario, soldi che servono per comprare protezioni a tutti i livelli e per finanziare campagne elettorali. Si parla di una cifra enorme per l’epoca, 70 miliardi di lire. Ma il rapporto del questore va oltre, aggiungendo che Buttafuoco, in una sorta di ripensamento, nei giorni successivi si muove parecchio per impedire che De Mauro possa utilizzare le notizie di cui è entrato in possesso. E cita, il rapporto, che proprio Buttafuoco - in un colloquio avuto col giornalista Roberto Ciuni - manifesta preoccupazione «per aver confidato a De Mauro fatti riguardanti grosse evasioni fiscali o atti di corruttela nell’ambiente degli uffici tributari di Palermo».
La scarsa moralità di Buttafuoco credo sia già emersa nel racconto di oggi. - La seconda strada riguarda solo la mafia e il traffico di eroina, che sta diventando in quel periodo l’affare più colossale della malavita. Il traffico è gestito dagli Stati Uniti, dove le famiglie mafiose, con Lucky Luciano in testa, individuano, dopo Cuba, la Sicilia come punto di distribuzione della merce, affidata, è ovvio, alle potenti famiglie mafiose della zona. Anche su questo De Mauro aveva lavorato, ma gli articoli erano già usciti e questo pone forti dubbi su un possibile movente del rapimento e dell’uccisione.
- La terza questione riguarda il golpe Borghese, di cui abbiamo a lungo parlato. Il coinvolgimento della mafia è pesante, specie nella preparazione dell’azione sovversiva e quindi la pista è più che mai valida.
- Infine la morte di Enrico Mattei. Perché la mafia sarebbe interessata e coinvolta in questo affare?
Qui il discorso si allarga. Abbiamo visto come Mattei fosse una spina nel fianco dei grandi distributori e produttori di petrolio mondiali, le famose o famigerate “sette sorelle”, grandi multinazionali che avevano una sorta di monopolio sui prodotti energetici mondiali. Mattei cerca altrove rifornimenti, in Russia, in Africa, per essere libero ed indipendente. Quel dirigente italiano è un granello in un ingranaggio che frena gli affari e pertanto va fermato in un modo qualsiasi. La scena potrebbe essere questa. Le multinazionali si rivolgono alle grandi famiglie mafiose degli Stati Uniti, le quali chiamano i loro fratelli siciliani, quelli di Catania, dove l’aereo del presidente sta per decollare. Il resto è quello fin qui raccontato.