Il caso Fenaroli Premessa L'omicidio di WIlma Montesi

L’omicidio

omicidi08La storia che sto per raccontare ci porta a Torino nel 1952, in via Villa della Regina, una strada di quelle aristocratiche, piene di villette singole, a volte decorate in stile liberty. Qui abita Erio Codecà. É un ingegnere, uno degli alti dirigenti della FIAT.
É il 16 aprile. Codecà è appena tornato da qualche giorno di riposo a Rapallo. É tornato da solo: la moglie Elena Piasescki e la figlia Gaby sono rimaste in riviera. Passa la giornata nel suo ufficio, dove ha funzioni di marketing (anche se questo termine è molto più recente dei fatti che sto raccontando). Dunque non maneggia denaro, non ha niente a che fare con la produzione o con le politiche dell’azienda, non ha alcun rapporto con i sindacati. Inoltre è un uomo tranquillo, descritto da tutti quelli che lo conoscono come mite e sempre disponibile. Una pasta d’uomo.
In passato ha diretto la fabbrica in Romania ed è là che ha conosciuto Elena, che diventa sua moglie. Durante la guerra e fino al 1950 dirige il laboratorio sperimentale della FIAT, per poi passare a direttore della S.P.A.
Quella sera, uscito dall’ufficio, torna a casa, verso le sette di sera, saluta la domestica e innaffia il giardino. Cena e, attorno alle 21, esce a fumare una sigaretta. Non c’è niente di strano in questo. Sono tutte cose che fa praticamente ogni giorno, un’abitudine. Poi, senza avvisare la domestica, prende il cane e lo porta a passeggio.
Sono passate da poco le nove, quando in strada si sente uno sparo, un solo sparo, secco a rompere il silenzio di quel quartiere residenziale.
Quasi subito, alcune persone vanno a vedere, si avvicinano alla 1100 di servizio dell’ingegnere. La portiera è socchiusa, dentro c’è il cane, un cocker, terrorizzato. Accanto all’automobile il corpo senza vita di Erio Codecà.
Accorrono in molti, vicini, infermieri di una vicina clinica delle suore domenicane. Nessuno ha sentito niente prima dello sparo. Solo Lorenzo Pacchiotti, che si trovava nella clinica, sostiene di aver visto, subito dopo lo sparo, un furgone rosso o forse un camioncino, allontanarsi in salita lungo via Villa della Regina.
Non si riesce a trovare, nemmeno immaginare, un movente che abbia senso. Poi, dopo qualche giorno spunta l’ipotesi politica. In fondo l’ingegnere avrebbe potuto rappresentare la FIAT in quel momento, certo non l’azienda più amata d’Italia. E poi lo stesso presidente dell’azienda automobilistica torinese il professor Vittorio Valletta aveva ricevuto minacce di morte, tanto da indurre la polizia a sorvegliare la sua abitazione.
La traccia politica o, se preferite usare un termine più recente, terroristica va e viene negli articoli della stampa locale, anche nel quotidiano più letto in città, “La Stampa”, decisamente su posizioni moderate rispetto ad altre pubblicazioni torinesi.
La situazione della FIAT sembra molto tranquilla. Certo, negli anni precedenti c’erano state tensioni e anche qualche episodio grave, come l’attentato dinamitardo in uno dei padiglioni di Mirafiori nel 1950. Le tensioni con i sindacati erano molto forti, ma l’abile conduzione di Valletta e l’inizio dell’apertura del mercato interno porta per tutti un miglioramento. Anche per gli operai che lavorano di più e quindi guadagnano di più, fino a quarantotto ore, con premi di produzione. Insomma una situazione che si va normalizzando in quegli anni.

La Fiat

Ma, a giudicare, da quello che succede dopo l’uccisione di Codecà, l’odio arde sotto la cenere. Compaiono infatti scritte minacciose nei reparti: “E uno! Attenzione al due!”
Dunque la pista politica viene seguita con grande attenzione, dal momento che non ci sono altri appigli. La rapina viene esclusa, nonostante in zona ci siano stati in quel periodo alcuni furti.
omicidi09Anche la posizione del cadavere non lascia dubbi. Il corpo messo perpendicolarmente all’auto è disteso sulla schiena, I piedi sono a pochi centimetri dalla portiera. Il colpo (uno solo) è sparato da vicino, penetra sotto l’ascella destra. Un colpo mortale.
Inoltre tra l’uscita di casa e il colpo di pistola passano forse tre minuti, giusto il tempo di legare il cane in macchina. L’assassino lo stava aspettando. L’unico a vederlo è il cane, che però non può raccontarlo.
Si avviano le indagini, dirette verso alcuni operai scalmanati (definizione dell’epoca) che vorrebbero impiantare il modello moscovita anche a Mirafiori.
La FIAT offre una taglia: 40 milioni di lire, una cifra notevole per il periodo. Gli inquirenti vengono sommersi da lettere anonime, da indicazioni quasi sempre fumose e contraddittorie. I possibili assassini diventano una folla e le indagini si fanno sempre più farraginose.
Poi il colpo di scena.

Giuseppe Faletto, ex partigiano, indiziato perfetto

Arrivano due amici del presunto colpevole, o almeno di quello che loro dichiarano essere l’assassino. Secondo loro a sparare sarebbe stato un certo Giuseppe Faletto, ex partigiano, comunista, che dopo la guerra ha continuato la sua personale lotta fatta di violenza contro il padrone. Faletto ha 33 anni, proviene dal Canavese, la campagna attorno a Torino e sembra che gli stessi partigiani lo abbiano allontanato perché troppo violento.
Il giornalista Giorgio Bocca, scrive di lui:
La guerra civile, a cui resistono solo le coscienze più forti, trascina nel suo baratro il Faletto rivelandone gli istinti criminali, se si preferisce, le tare psichiche. Faletto va coi partigiani garibaldini e dirà poi di essere un partigiano. La verità è che i partigiani lo cacciano, quasi subito, dalle loro formazioni e che un tribunale presieduto, dicono i comunisti, da Osvaldo Negarville lo condanna a morte per i crimini che ha compiuto fra la popolazione del Canavese.
É innegabile che Faletto costituisca il perfetto identikit dell’assassino di un rappresentante della “classe padrona”. Ideali comunisti, violento, denunce a non finire e perfino una condanna a 24 anni, poi ridotta a tre dalla Cassazione, perché le azioni compiute vengono ritenute atti politici e non semplici delitti.
Lo stesso Faletto si sarebbe vantato con i due amici di essere stato lui a far fuori il Codecà. La cosa strana però è che la testimonianza dei due arriva tre anni dopo l’omicidio. C’è, nei testimoni, un odio particolare nei confronti di Faletto, astio che si manifesta quando viene preparata una trappola. I due invitano il sospettato a cena per farlo parlare, mentre nella stanza a fianco i carabinieri registrano ogni cosa. I due propongono al malcapitato addirittura di uccidere il presidente della FIAT Vittorio Valletta, in cambio di venti milioni di lire. Ma Faletto non si sbilancia. Così occorre un nuovo incontro, durante il quale il Faletto dice: “Se ammazzo uno lo faccio per l’ideale, i soldi vengono dopo …”.

Il processo

Sono queste parole a costituire la linea portante dell’accusa, quando si apre il processo. Ma Faletto nega ogni cosa: quelle parole le ha dette così, tanto per vantarsi. Non avrebbe mai e poi mai portato a termine quella missione.
Passano decine di testimoni a rafforzare l’idea di un uomo spietato, che ha ammesso numerose uccisioni durante la guerra, sempre con l’odio di classe a giustificarle, sentendosi un po’ come un giustiziere del popolo nella lotta di classe, peraltro spinta in modo forte dalla stampa comunista del periodo.
omicidi08La cosa strana, a giudicare dagli atti del processo, è che, durante il dibattimento, non emergono mai rapporti precedenti alla morte di Codecà con i due testimoni, che sono decisivi sia per le confessioni rese che per il ruolo giocato nell’incastrare Faletto.
É una situazione stranissima. Faletto confessa nove omicidi avvenuti durante la guerra di Resistenza, ma non può essere condannato per quelli, che sono ormai stati tutti amnistiati. SI dichiara innocente per l’ultimo delitto, quello di Codecà. Ed, in effetti, il tribunale dove ammettere che non ci sono prove sufficienti a carico di Faletti e così lo dichiara innocente.
Per il delitto Codecà non ci sono altri indiziati. Alla FIAT e nelle altre industrie italiane qualche decennio dopo i manager avranno paura di diventare bersaglio di altre formazioni come le Brigate Rosse.
Dunque Faletti è il solo ad aver avuto, per così dire, l’onore delle cronache su questo caso. Ma, anche nella mente degli inquirenti, restano aperto altre domande: è proprio lui il vero responsabile della morte dell’ingegnere? E, in questo caso, ha agito completamente da solo? É vero che il movente è quello della lotta di classe esasperata? É vero che non c’è nessun mandante sopra di lui?
Sono tutte domande legittime, che aspettano una risposta, sempre che ce ne sia una.
In quel periodo ci sono altri morti ammazzati (un giornalista e perfino un parroco). La FIAT in quel momento è in grande crescita commerciale, grazie all’ottimo lavoro di Valletta. Non è che le minacce di morte al presidente e l’assassinio di Codecà rientrino in un piano per destabilizzare l’azienda torinese?
Per quel che sappiamo, questo delitto potrebbe rientrare in quel clima di scontri di potere, che ha sempre fatto molte vittime, quando si intrecciano economia, industria, politica ed eversione.
Resta la domanda finale: “Il caso Codecà è chiuso davvero?
Una domanda che resta senza alcuna risposta.
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