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Il caso Fenaroli
Il primo caso di cui ci occupiamo, avviene nel 1958 a Roma.La mattina dell’11 settembre (che sembra una data destinata a fatti di sangue eclatanti) verso le 8,30, la domestica di casa Fenaroli suona alla porta dell’appartamento signorile, di via Monaci 21, vicino a piazza Bologna. Lo occupano il geometra Giovanni Fenaroli, originario di Como e la moglie Maria Martirano, che invece proviene dalla provincia di Lecce. La donna ha 47 anni.
Un vicino di casa aiuta la domestica ed entrare nell’appartamento dove trova Maria distesa a terra, morta, strangolata. Le prime indagini notano che mancano gioielli di valore e si pensa quindi ad una rapina finita male. Il marito è a Milano a cena con degli amici, che gli forniscono pertanto un alibi di ferro. La donna era molto guardinga e difficilmente avrebbe fatto entrare di notte qualcuno che non conosceva. Si scopre che quel qualcuno è arrivato verso le 23,20, mentre la morte risale all’incirca all’una di notte. Nel posacenere ci sono molte sigarette, il che testimonia di una permanenza lunga dell’ospite e probabile assassino in compagnia di Maria.
In questi casi, pensare a una responsabilità del marito non è certo peccato. Nonostante l’alibi milanese, si scopre che la sua azienda versa in cattive acque e che, poco prima e senza dire nulla alla moglie, il geometra aveva acceso una polizza sulla vita di entrambi. Il coniuge avrebbe incassato 150 milioni di lire, che, in quel periodo, sono una cifra molto importante.
Nonostante questo e nonostante la richiesta di arresto da parte della polizia, la magistratura non procede nei confronti di Fenaroli, perché non ci sono prove a giustificare l’atto.
Poi però succede qualcosa. Il segretario dell’imprenditore, tale Egidio Sacchi, lo incastra per bene, riportando agli inquirenti alcuni fatti. Intanto che il Fenaroli gli avrebbe confidato il desiderio di uccidere la moglie. Poi che gli aveva fatto prenotare un volo Alitalia Milano-Roma per un certo Rossi. Poi la sera, in presenza del segretario, aveva telefonato alla moglie dicendo che la sera sarebbe passata una persona di sua fiducia, di nome Raoul, per ritirare dei documenti e quindi di lasciarlo entrare.
La polizia impiega un attimo a riconoscere in Raoul, Raoul Ghiani, operaio elettrotecnico milanese di 27 anni. E qui la storia si infittisce di retroscena.
L’imprenditore comasco aveva un’amante, sorella di tale Carlo Inzolia, di cui Ghiani era molto amico. Era stato proprio Inzolia, soprannominato da allora “il terzo uomo”, a mettere in contatto il mandante con Ghiani, che diventa il più probabile esecutore del delitto. Le prove raccolte sono schiaccianti, anche se i tempi sono un pochino stretti. Raoul esce dal lavoro alle 18,30 ed è di nuovo a Milano alle 9 della mattina seguente per eseguire una riparazione che è registrata come fatta proprio da lui.
L’ipotesi della polizia è che, appena terminato il suo turno, Ghiani sia stato prelevato da Fenaroli, portato di corsa con la sua spider a Linate e spedito a Roma.
Una ricostruzione tutta da ridere, perché vari periti rifanno il percorso e nemmeno una volta riescono ad andare dall’azienda Vembi, dove Raoul lavora, a Linate in tempo per prendere l’aereo. Inoltre non c’è modo di tornare a Milano di notte, se non con un treno che però arriva in stazione alle 11.
Insomma le cose non tornano per niente, le prove non sono prove e nemmeno indizi. Cominciare un processo in queste condizioni sembra improponibile.
Poi ecco un altro colpo di scena. A dicembre di quell’anno salta fuori dal nulla un supertestimone, che si presenta in questura, raccontando di aver viaggiato quella notte sulla Freccia del sud, assieme ad un elettrotecnico, un giovane simpatico, che riconosce in Raoul Ghiani.
C’è da aggiungere che le informazioni che escono sul delitto creano un clima di attesa e di curiosità davvero enorme nel paese intero. Una cosa che i plastici di Bruno Vespa un pochino ricordano. Anche le grandi star, Anna Magnani e Vittorio De Sica, seguono le vicende e non mancano di commentarle. Un clima che pretende che la faccenda abbia un finale certo. Come sempre accade in questi casi, la popolazione è divisa tra innocentisti e colpevolisti. É quello che succede anche oggi, anzi, oggi, con risvolti ancora più coinvolgenti, proprio per quello che ho detto all’inizio sul ruolo dei media e sull’esigenza di soffocare i problemi veri della nostra generazione con il sangue dei poveracci morti ammazzati, spesso anche se si tratta di piccoli bambini indifesi.
Ce n’è abbastanza per mandare sotto processo i due indagati. Una parte della stampa non esita a schierarsi, anche con toni decisamente poco oggettivi. Ecco un breve stralcio di un articolo dell’epoca.
«Fenaroli e Ghiani sono due colpevoli perfetti, la stampa li ha già condannati, il pubblico non li ama: Fenaroli è piccolo, torvo, sfuggente, e ha l’aria di un odioso traffichino. Ghiani si difende abulicamente, come farebbe un colpevole».
Di contro, la Martirano era descritta come una donna ancora assai piacente, caduta vittima di uno squallido complotto coniugale. Insomma il diavolo e l’acqua santa.
Il 10 giugno 1961, il giornalista RAI Lello Bersani, abbandonato il suo grande amore, il cinema, in diretta comunicava al paese che giustizia era fatta. Fenaroli e Ghiani prendono l’ergastolo per uxoricidio, rapina e tentata truffa. Due anni dopo la pena viene riconfermata in appello. Si aggiungono 14 anni per “il terzo uomo” Carlo Inzolia.
L’atteggiamento dei due durante il processo è l’opposto. Fenaroli sembra rassegnato al suo destino, mentre Ghiani, alla lettura della sentenza salta addosso a Fenaroli, urlando “Non voglio morire in un ergastolo … Sono innocente e nessuno mi crede”.
E non gli crede neppure la Cassazione, che conferma le pene e mette il punto a tutto il discorso. Ma Ghiani continua a reclamare la propria estraneità ai fatti di quella tragica notte.
Fin qui la cronaca del processo, adesso però cerchiamo di capire cosa manca a questa vicenda.
Già, perché ci sono un sacco di buchi nella ricostruzione della vicenda. Nel processo di primo grado, il difensore di Ghiani ne evidenzia ben 33, che, a guardare bene, sono enormemente di più delle prove a disposizione della corte.
Nel 1975 i difensori di Ghiani tentano di riaprire il processo, Fenaroli muore di cancro in carcere, Inzolia è uscito di prigione. I famosi supertestimoni, sono semplicemente spariti. Il segretario di Fenaroli, Egidio Sacchi finisce in Argentina in cerca dell’anonimato. Sulla scena rimane il solo Ghiani, che continua imperterrito a reclamare la propria innocenza.
Vediamo alcune delle incongruenze. Ho già detto dei tempi tecnici necessari a percorrere il tratto Vembi – Linate, superiori a quelli necessari per prendere l’aereo per Roma.
Poi la loquacità di Raoul con diverse persone sul treno, cosa che stride con la necessità di non farsi notare dopo un omicidio. E poi, di tutte quelle persone, una sola si ricorda di lui e si presenta senza motivo a testimoniare con ritardo di alcuni mesi. Anche la questione della polizza stona, perché i 150 milioni non vengono dati in caso di morte violenta.
Un anno e mezzo dopo il delitto, saltano fuori i gioielli, trovati alla Vembi, ricordate? è l’azienda in cui lavora Ghiani. Solo un fesso patentato può nascondere la refurtiva dove di sicuro verrà eseguita una minuziosa perquisizione. Il fatto è che fino ad allora altre perquisizioni erano state eseguite minuziosamente e non era saltato fuori proprio nulla. Sembra che qualcuno abbia messo successivamente i gioielli alla Vembi.
Un altro mistero riguarda il famoso signor Rossi sul viaggio Milano-Roma. Tre giorni dopo l’arresto di Ghiani un poliziotto si presenta all’Alitalia per avere la lista passeggeri di quel volo. C’è il signor Rossi, solo che si tratta dell’ingegnere Wolfango Rossi e il suo posto era stato prenotato, udite udite, proprio da Sacchi, il quale, oltre a lavorare per Fenaroli, lavorava, occasionalmente, anche per l’ingegner Rossi.
Ma la domanda più importante è: “Perché questo documento così importante non compare mai fra gli atti del processo?”.
Tre settimane dopo l’omicidio di Maria Martirano, un incidente stradale si porta via l’ingegner Rossi. Fatalità? O la chiusura di una trama, ordita da Sacchi, ripeto, scappato in Argentina, per incastrare Ghiani e quindi Fenaroli. Perché? e per conto di chi?
L’inchiesta de L’Espresso
Le novità più grosse vengono lette dagli italiani nel 1995, quando un giornalista de L’Espresso pubblica un libro intitolato “Non aprire agli assassini”, un chiaro riferimento alle modalità con cui Maria Martirano è stata uccisa. Quel giornalista è Antonio Padellaro, fino al 2018 presidente della casa editrice che pubblica Il Fatto Quotidiano, di cui è stato direttore prima di Marco Travaglio. L’Espresso è in quegli anni una sorta di sentinella di quello che succede nel paese. Lo è anche oggi con le sue inchieste su fatti incresciosi ai danni dei cittadini.Cosa scrive, di tanto sconvolgente, Padellaro nel suo libro?
Lui costruisce un ponte tra il delitto Fenaroli e altre due storie che salgono alle cronache in quegli anni: lo scandalo Italcasse e la vicenda del SIFAR, il primo servizio segreto del nostro paese.
Italcasse era una banca istituita dalle Casse di Risparmio nel 1921, con lo scopo di investire la liquidità in eccesso raccolta dal sistema delle Casse di Risparmio.
Nel 1977 scoppia uno scandalo clamoroso, perché un’ispezione della Banca d’Italia scopre una serie di irregolarità nella concessione dei fidi bancari, ma quel che è più grave scopre un giro di fondi non dichiarati ai partiti politici, cioè di fondi neri, cosa assolutamente vietata dalla legge. Questo tipo di reato sarà al centro qualche anno più tardi di quel terremoto che è stato Mani pulite e Tangentopoli, che dissolve la prima repubblica e dà il via alla seconda. (vedi qui)
Il legame tra gli scandali politico-economici del periodo e l’omicidio di Maria Martirano non è una novità. Già all’epoca dei processi, il Candido, una pubblicazione satirica di destra, ne aveva fatto cenno con un articolo del giornalista Giorgio Pisanò, che sarebbe diventato senatore nelle file del partito neofascista Movimento Sociale dal 1991 fino alla sua morte nel 1997.
Secondo Pisanò, Fenaroli, d’accordo con la moglie, ricattava l’Italcasse con la quale era in affari, essendo venuto in possesso di documenti compromettenti per la finanziaria, l’ENI e il partito di maggioranza, la Democrazia Cristiana. C’erano grossi nomi in ballo, anzi grossissimi, fino al presidente della repubblica Giovanni Gronchi.
Quello che sia Pisanò che Padellaro adombrano è questo. In casa dei Fenaroli ci sono carte scottati e pericolose per le alte cariche dello stato. Viene così incaricato il SIFAR di recuperale, sottraendole ai due disgraziati. Maria resiste alla consegna e per questo viene uccisa. Poi si costruisce una impalcatura che incastri il marito e un disgraziato qualsiasi da far comparire come assassino.
Anche questa è certamente solo una interpretazione dei fatti, ma le vicende descritte da Padellaro son così ben circostanziate da rendere plausibile una riapertura delle indagini e, successivamente, una revisione del processo.
Cerchiamo di seguire la strada di Padellaro.
La sua fonte sarebbe un ex funzionario del SIFAR, il tenente colonnello Enrico De Grossi. Vorrei che a raccontare questa storia sia il diretto interessato, Antonio Padellaro, di cui riporto un articolo, apparso su Repubblica il 16 ottobre 1996, un anno dopo la pubblicazione del libro.
Articolo di Antonio Padellaro
PRIMO: quando, nel 1958, Maria Martirano venne uccisa ero poco più di un ragazzo e, in seguito, quel vecchio delitto non suscitò in me particolari curiosità.SECONDO: ho sempre apprezzato le controinchieste del giornalismo civile sui cosiddetti misteri italiani; ma come tutti ho dovuto anche constatare che, purtroppo, non sono quasi mai servite a fare giustizia.
TERZO: la tesi che fa risalire alla responsabilità dei servizi segreti, deviati o no, tutti i guai di questo Paese non mi ha mai convinto. Quando perciò, nell'inverno del ‘94, ricevetti all'"Espresso" la lettera in cui il tenente colonnello a riposo, Enrico De Grossi, prometteva rivelazioni sul ruolo avuto dai servizi segreti nel caso Fenaroli fui tentato di cestinarla. Di ordinarie storie di spioni i giornali ne avevano a iosa. E andare a rimestare nei vecchi intrighi dell'Italia che fu non aveva davvero molto senso. Per puro scrupolo professionale decisi comunque di ascoltare De Grossi poiché esisteva un piccolo ragionevole dubbio che egli non fosse uno dei tanti mitomani che affliggono i giornali con i loro memoriali. Un ragionevole dubbio che cominciò a germogliare quando appresi che De Grossi aveva lavorato per il Sifar e che sul caso Fenaroli aveva avuto modo di raccogliere informazioni riservate e di prima mano. Un dubbio che si rafforzò quando constatai che, negli stessi anni, un battagliero giornalista di destra, Giorgio Pisanò, era giunto con una lunga inchiesta sul settimanale "Il Candido" alle stesse conclusioni di De Grossi, sia pure per strade diverse. E, cioè, che all'origine dell'assassinio di Maria Martirano c'era, molto probabilmente, una storia di fondi neri maturata nell' Italia politico-affaristica di quegli anni. NON si era trattato, insomma, del classico delitto all' americana (il costruttore fallito Fenaroli che incarica il killer Ghiani di sopprimergli la moglie per incassare un cospicuo premio d'assicurazione) come era stato stabilito nei tre gradi di processo. Una storia dunque polverosa ma non priva di fascino. Ma perché scriverci sopra un libro? Perché, prima di tutto, era un modo per descrivere l'Italia di oggi attraverso l'Italia di ieri. A ben guardare, infatti, nella vecchia foto di gruppo del caso Fenaroli spiccano le eterne figure della nostra tragedia nazionale: industriali bancarottieri, banchieri maneggioni, poliziotti, magistrati e agenti dei servizi manovrati da chissà chi. Con il contorno, neanche a dirlo, di politici corrotti e ricattati. Mi sembrava poi non del tutto irreale l'ipotesi che già nell'Italia degli anni Cinquanta operasse una sorta di super-agenzia omicidi. Qualcosa di diverso dalla mafia e dalle altre organizzazioni criminali che ammazzano per scopi esclusivamente inerenti alla propria ragione sociale. Qualcosa che avesse l'affidabilità, i mezzi e l'efficienza per sopprimere chicchessia contando su una sostanziale impunità. Qualcosa che avesse a che fare con lo Stato e che avesse ritenuto di liquidare la pratica Martirano nel modo più rapido. Di quante di queste morti "strane" è costellata, del resto, la storia italiana? UN libro, poi, perché sono un giornalista e raccontare è il mio mestiere. Possibilmente senza tesi precostituite, bensì cercando di esporre i fatti nella loro oggettività. Un libro, infine, perché alla luce delle contro-indagini di De Grossi e Pisanò, e riesaminando con occhio diverso le prove processuali, è possibile che Raoul Ghiani sia stato condannato ingiustamente. Quel ragionevole dubbio, appunto, che ho raccontato in "Non aprite agli assassini" e a cui Ghiani affida ora le sue speranze di riabilitazione
Il racconto del colonnello De Grossi
E cosa racconta di tanto sconvolgente il colonnello De Grossi?L’ex agente segreto rivela che Fenaroli ha messo le mani su un tabulato trafugato presso lo studio di un sottosegretario al quale si era rivolto per concludere alcuni affari. In quelle carte c’è la prova di tangenti pagate dall’Eni di Enrico Mattei all’allora Capo dello Stato, Giovanni Gronchi. L’imprenditore decide di ricattarlo, contatta il suo entourage e gli propone uno scambio: 500 milioni di lire in cambio di quei documenti e del suo silenzio. L’accordo sembra vicino quando subentra anche la moglie di Fenaroli, che è a conoscenza della vicenda e che chiede al Presidente della Repubblica altrettanti soldi. A questo punto Gronchi chiede aiuto a Giovanni De Lorenzo, quello del piano Solo. La soluzione evidentemente è drastica. Per il colonnello De Grossi la signora Martiroli è stata uccisa da due uomini dei servizi segreti, giunti in casa sua per simulare una contrattazione in cambio delle carte che peraltro la vittima non aveva. Uno l’ha immobilizzata alle spalle mentre l’altro l’ha soffocata premendole una mano sulla bocca e l’altra sul collo. Se la donna fosse stata strangolata da un uomo solo le sarebbero rimaste impresse sulla nuca, ma la scientifica non le aveva rinvenute. A questo punto acquista un senso anche la testimonianza fornita la sera del delitto da un meccanico, scartata però dagli investigatori. L’uomo aveva visto due signori scendere da una 1100 (auto in uso al Sifar) ed entrare nel palazzo di via Monaci. Forse i due agenti segreti. De Grossi, che non è un mitomane e ha alle spalle un eccellente stato di servizio, lancia un sasso che nessuno raccoglie. La sua verità fa paura. E se le cose fossero andate davvero così, il primo a temere che potesse emergere questa spy-story sarebbe stato Giovanni Fenaroli, che si è sempre proclamato innocente ma che non ha mai suggerito questa pista. Forse avrà pensato che sarebbe stato meglio l’ergastolo che le “attenzioni” dei servizi segreti.
I dubbi svaniscono ai processi
La ricostruzione con il complotto al centro della scena, poggia sui dubbi che ho cercato di evidenziare. Ma nel 1975, quando i processi arrivano alla conclusione, questo scenario non esiste e non è nemmeno lontanamente immaginabile.Solo nel 1981, a Ghiani viene concessa la semilibertà che gli permette di stare qualche ora al giorno fuori dal carcere di Firenze dove è rinchiuso. Un privilegio non abituale per un ergastolano, ma la sua ottima condotta e ragioni di malattia fanno sì che Raoul possa riprendere a fare l’elettrotecnico in uno stabilimento tessile di Prato.
Tre anni più tardi, all’inizio del 1984, il presidente Sandro Pertini gli concede la grazia. Ghiani prende casa a Firenze con la sua compagna. Il suo unico desiderio è quello di essere lasciato in pace, di dimenticare tutto, nonostante la sua costante e continua, quasi cocciuta affermazione di non essere responsabile di quell’omicidio, di essere assolutamente innocente. Ma poi legge il libro di Padellaro, apprende delle inchieste di Pisanò e la voglia di rifarsi delle ingiustizie subite torna prepotente alla ribalta.
Anche lui era stato contattato, in carcere, da De Grossi, che gli aveva raccontato la sua tesi. Ma non aveva uno straccio di prova, di documentazione. La sola speranza è la riapertura del processo. Così, nel 1996, a 38 anni dal delitto, Ghiani presenta formale esposto alla Procura di Roma per chiedere la riapertura del caso.
Lo fa perché nemmeno la pubblicazione del libro di Padellaro produce nessun effetto ed è passato già più di un anno.
Non produce nessun effetto neppure la richiesta di Ghiani.
In questa storia ci sono alcuni elementi da sottolineare. Intanto che, ancora oggi, se cercate in rete notizie su Ghiani o sul delitto, trovate molta cronaca sui fatti fino al 1996, ma niente di quel che succede dopo.
Un’altra cosa che salta all’occhio è che, lo ripeto, ancora oggi, la stampa si divide tra innocentisti e colpevolisti. Ci sono articoli di fuoco contro questo “teatrino” (termine usato in un articolo e non mio) in cui confluiscono trame segrete, finanziamenti illeciti e servizi segreti.
A me, personalmente, non stupirebbe neanche un po’ che le trame ci siano state per davvero, anche se non ho alcun elemento per stare da una parte o dall’altra, cosa che evidentemente non ha nessuno, vista la situazione. Tuttavia dopo quello che in questo sito ho raccontato sui servizi segreti, i colpi di stato, gli assassinii e le stragi, coperte, se non eseguite direttamente per proteggere questo o quel politico o questo o quell’affare, dopo tutto questo non avrei nessuna vergogna a credere che il SIFAR potesse ammazzare una povera donna per salvare uomini dello stato in grave crisi di onestà.
Certo è che questo, come altri delitti, lasciano aperta la porta ad ogni possibile soluzione. Che poi un tribunale condanni degli innocenti non è cosa così strabiliante, soprattutto in un paese dove il clima di attesa di giustizia per uno dei delitti più pubblicizzati nella storia della repubblica viene esasperato e da tutte le parti ci sono pressioni forti di fare in fretta.
Lasciate che vi legga le prime righe di un articolo di un quotidiano romano che ricorda quel giorno del 1961, quando la corte emette la sentenza di primo grado.
“Immaginate 20 mila persone assiepate fino alle 5 di mattina in una piazza di Roma, tra venditori di bibite e panini e una tribuna per le personalità occupata spesso da divi come Vittorio Gassman o Anna Magnani. Tutto questo non per assistere a una finale dei mondiali di calcio, o all’elezione di un novo pontefice, ma per attendere il verdetto del processo al geometra Fenaroli, al fido Raoul Ghiani e a tale Inzolia, tutti coinvolti a vario titolo nel delitto di Maria Martirano, uccisa a 49 anni in casa sua a Roma, via Ernesto Monaci 21, la sera del 10 settembre 1958.
E’ l’alba del 12 giugno 1961 quando i giudici leggono il verdetto, poche ore prima anche la giovanissima Rai-Tv attraverso un altrettanto fresco Lello Bersani aveva ritratto la tensione di quell’attesa, dividendo il pubblico tra innocentisti e colpevolisti.”
Forse qualcuno ha visto il bel film di Dino Risi “Il vedovo” con una doppia sontuosa interpretazione di Alberto Sordi e Franca Valeri. Bene il soggetto è ispirato proprio al delitto di via dei Monaci, in cui perde la vita la signora Maria Martirano, e a seguito del quale finiscono in carcere il marito e Raoul Ghiani, ritenuti colpevoli … forse.
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