Introduzione

ItalcasseGli anni ’70 e ’80 sono conosciuti, nel nostro paese, come gli anni di piombo, ma anche gli anni degli scandali. Oggi vorrei raccontarvi la storia di uno di questi, lo scandalo Italcasse. Detta così potrebbe sembrare che quella vicenda sia a sè stante, mentre in realtà è solo una costola di un comportamento generalizzato, di una piaga di corruzione e di mazzette, di gente disonesta, che non è neanche il loro male maggiore, dal momento che si tratta di elementi rappresentativi della nazione, banchieri, industriali e, ovviamente, politici.
In questa vicenda entreranno un sacco di personaggi di quel periodo che, solo apparentemente, non hanno molto a che fare con lo scandalo, mentre sono tutti importanti, a volte importantissimi, per capire come sono andate le cose. Sono Mino Pecorelli, il giornalista ucciso nel 1979 perché ne sapeva troppo di troppe cose, Aldo Moro che coi suoi memoriali ha detto a tutti quello che già pensavano dei suoi colleghi di partito a cominciare da Giulio Andreotti e poi Sindona, Calvi, i Caltagirone, il giudice Vitalone, Cesare Previti in una anticipazione delle malefatte all’ombra di Berlusconi, e tanti altri.
Dunque lo scandalo Italcasse si incastra in un periodo che di scandali ne vede parecchi, molti evidenti fin da subito, altri ben nascosti e saltati fuori solo anni più tardi.
Adesso però, occupiamoci di questa nuova vicenda, che fa scrivere a Wikipedia: Nel 1977 l'Italcasse fu al centro di uno scandalo politico-giudiziario.

Gli intrecci sono davvero tanti e complicano moltissimo questo racconto. Spero di riuscire a seguire un filo logico e a raccontare tutto quello che oggi ne sappiamo. Per questo è meglio, come sempre, cominciare dall’inizio.
Prima però un accenno doveroso alle fonti usate per questo articolo. Sono numerose, alcune decisive; ho preso spunto dagli archivi dei giornali più importanti, in particolare Repubblica e IlSole24ore, ma anche il Corriere e L’Unità, organo ufficiale del defunto Partito Comunista Italiano.  Una lettura davvero stimolante è stata quella della presentazione, da parte della Lega Nord di Bossi, del disegno di legge n. 4508 di cui parleremo tra poco e poi gli atti del processo per l’assassinio di Mino Pecorelli. Ci sono anche le solite informazioni spicciole (ad esempio le date ed i nomi esatti) derivate da molti siti, tra i quali Wikipedia.
Fatto questo doveroso elenco, possiamo cominciare.

Il disegno di legge della Lega Nord

Italcasse è il nome che viene dato, negli anni ’70, ad una banca. Una banca particolare, perché è una sorta di consorzio di istituti di credito, precisamente di Casse di Risparmio italiane, con in testa quella delle province lombarde, che detiene quasi un quarto delle azioni. Ogni banca investe il denaro che i suoi clienti le affidano. Poi ciascuna avanza dei soldi ed è così che nel 1921 si decide di riunirli tutti e creare una superbanca che li gestisca nel modo più opportuno. Questa superbanca è Italcasse. Lo scandalo di cui ci occupiamo, emerge nel 1977. Italcasse fallisce e questo porta alla ricapitalizzazione e al cambio di nome, Istituto di Credito delle Casse di Risparmio Italiane, in sigla, ICCRI. Riprende la sua attività normale, diventando tra l’altro, la prima ad investire, verso la fine degli anni ’80, su varie attività online, che oggi fanno parte dell’home banking. Termina l’attività, in questa forma, nel 2004.
Possiamo affrontare la questione dello scandalo da vari punti di vista. Voglio farlo analizzando una iniziativa parlamentare della Lega Nord, quella di Umberto Bossi, che, nel 1998, presenta un disegno di legge per attivare una Commissione di inchiesta del Parlamento, per capire qualcosa su questa banca e sui suoi legami con il resto del mondo. La richiesta è firmata praticamente da tutti i parlamentari del partito e, rileggerlo, completandolo nei riferimenti, credo ci permetta di capire gli elementi essenziali della vicenda.
Dobbiamo ricordare che all’epoca la Lega era quella di “Roma Ladrona”, quella che si proponeva come paladino dell’onestà e della trasparenza, tutte cose che poi sono svanite nel tempo. Non è perciò strano che sia stato proprio questo partito a presentare il progetto. L’anima destrorsa dei leghisti trova poi particolare terreno fertile nel fatto che il governo in carica fosse di sinistra, retto prima da Romano Prodi e poi da Massimo D’Alema, dopo la famosa staffetta del 1998.
L’accusa che viene lanciata è che Italcasse abbia elargito molti soldi, parliamo di migliaia di miliardi di lire dell’epoca, alla Democrazia Cristiana, ai partiti di centro-sinistra e alla loggia P2 di Licio Gelli. Nella presentazione si fanno nomi e cognomi, come vedremo.
I finanziamenti sono, per usare un’espressione dolce, “allegri”, con indirizzi di destinazione ben precisi.

La SIR di Nino Rovelli

Arrivano, tanto per cominciare, ad industriali pieni di debiti, come Nino Rovelli, proprietario della SIR, Società Italiana Resine, il terzo gruppo chimico italiano dopo ENI e Montedison in quegli anni ’70, con ben 13 mila dipendenti.
Rovelli vuol far crescere la sua azienda e quindi accetta finanziamenti dallo Stato che usa banche come IMI, l’Istituto Mobiliare Italiano, che negli anni ’70 ha in mano la gestione dei fondi governativi dedicati allo sviluppo della ricerca industriale. La maggioranza delle azioni sono della Cassa Depositi e Prestiti, quindi del governo attraverso il ministero dell’economia e delle finanze.
ItalcasseL’altra banca che eroga gli aiuti a Rovelli e soci è l’ICIPU, Istituto di Credito per le Imprese di Pubblica Utilità, un istituto che chiude nel 1980 per fallimento, invischiato com’è in losche vicende come quella della SIR di Rovelli.
Costui investe i soldi, in particolare, in Sardegna, dove crea il polo petrolchimico di Porto Torres. Questa espansione non fa piacere ai due colossi della chimica già citati, ENI e Montedison, tanto da portare ad una vera battaglia che si sviluppa sia sul piano dell’informazione (Rovelli è all’epoca proprietario di due quotidiani, La Nuova Sardegna e L’Unione Sarda) che su quello politico. Rovelli è molto vicino alla Democrazia Cristiana e in particolare alla corrente di Andreotti, vantando amicizia con quest’ultimo, oltre che con Giovanni Leone e con Giacomo Mancini, già segretario del Partito Socialista Italiano.
Negli anni ’70 cominciano, per Rovelli, un sacco di problemi economici, che lo costringono a cedere la proprietà della SIR ad un consorzio di banche, che hanno il compito di salvare l’azienda. Lui se ne va in Svizzera con la famiglia e là morirà di infarto nel 1990.
Nel 1979 Rovelli comincia una battaglia contro l’IMI, che accusa di non aver rispettato i patti concordati: si rivolge alla magistratura e la storia, nel 1982, finisce in tribunale. Il caso è conosciuto come l’IMI-SIR. Ci vuole del tempo per arrivare alla sentenza definitiva, che favorisce Rovelli e condanna l’IMI a versare 800 miliardi all’imprenditore. Lui però nel frattempo è morto, lasciando l’incarico di portare a termine la faccenda alla moglie, l’attrice milanese Primarosa Battistella, e al figlio maggiore, emigrato negli Stati Uniti. Tra vari impicci burocratici si arriva alla conclusione dell’IMI-SIR nel 1994. Rovelli muore convinto che dietro tutto ci sia la massoneria, che in quel periodo si identifica per tutti in Licio Gelli.
Ma le cose non sono finite qui, anzi qui è proprio dove cominciano.

Industriali, processi e mazzette

Cominciano proprio da qui perché ci sono, alla procura di Milano, alcuni giudici istruttori che vogliono andare più a fondo nella vicenda. Sono, in particolare, Ilda
Boccassini e Gherardo
Colombo, due magistrati che, un decennio più tardi, faranno parte del famoso pool di Mani Pulite, guidato da Antonio Di Pietro. Loro scoprono che la famiglia Rovelli ha, come dire?, “aggiustato” la sentenza, comprandola a suon di bustarelle. L’incarico poco onesto lo ricevono Giovanni Acampora, Attilio Pacifico e Cesare Previti, ma sì proprio lui che avrà un sacco di rogne a fianco di Silvio Berlusconi. Una piccolissima parentesi: Previti ha avuto due condanne definitive per corruzione, l’interdizione perpetua ai pubblici uffici ed è stato radiato dal ruolo degli avvocati nel 2011, eppure è un rappresentate del popolo, eletto, dal 1994 al 2007 e la gente lo chiama onorevole. Ma dai!
Dunque i tre avvocati hanno l’incarico di corrompere i giudici Renato Squillante, Vittorio Metta e Filippo Verde. Le cifre in gioco sono cospicue: Previti prende 21 miliardi, Pacifico 33 e Acampora 13.
ItalcasseI soldi viaggiano verso conti esteri due anni dopo la sentenza definitiva, nel 1994: lo stesso anno in cui Berlusconi lo chiama al dicastero della difesa … c’è da chiedersi chi mai potrà difendere un simile galantuomo.
L’inchiesta IMI-SIR viene, nel frattempo, riunita con quella del cosiddetto Lodo Mondadori, una causa scatenata per il controllo della casa editrice milanese tra Silvio Berlusconi e Carlo De Benedetti. Alla fine il tribunale dà ragione a quest’ultimo. Silvio però non ci sta e impugna la sentenza riuscendo alla fine ad annullare il lodo. Ed è proprio qui il legame con IMI-SIR. Anche in questo caso la sentenza viene aggiustata a suon di mazzette. E, anche in questo caso, il nostro amico Previti viene processato e condannato, assieme a tutti gli altri imputati, per corruzione, nel 2006.
Ci sono altri industriali pieni di debiti come Rovelli in questa storia e sono nomi illustri nel panorama produttivo italiano: i fratelli Caltagirone di Roma.
Prima di entrare nei dettagli delle vicende di questi fratelli, continuiamo a seguire il discorso della proposta di legge della Lega Nord.
Già, perché non ci sono solo gli imprenditori in questa melma, ma anche molti politici e i loro partiti, che ricevono finanziamenti del tutto illeciti. In particolare vengono foraggiati i partiti al governo (Democrazia Cristiana, Partito Socialista, Partito Socialdemocratico e Partito Repubblicano). Ma, a quanto pare, gli introiti maggiori arrivano alla corrente dominante della DC, la corrente di Giulio Andreotti. Per farlo vengono creati dei fondi neri, nascosti e assolutamente vietati.
Il marcio in Italcasse è ovunque si guardi con attenzione. Ad esempio il trattamento economico dei suoi manager, pagati uno sproposito anche per quei tempi. Tra questi spicca l’ex direttore generale Francesco Arcaini, un nome da tenere a mente perché avremo modo di parlare presto di lui.

Michele Sindona, Licio Gelli, Giulio Andreotti

Il casino salta fuori con il crack della banca finanziaria di Michele Sindona. Credo non ci sia bisogno di ricordare chi è stato Sindona: uno spregiudicato finanziere d’assalto che ha usato tutti i metodi possibili per diventare uno dei più potenti banchieri del mondo. Alle sue spalle si sono mosse la malavita organizzata, il Vaticano dello IOR, i servizi segreti, Cosa Nostra e la P2 di Licio Gelli. Come è noto viene ucciso con un caffè avvelenato nel carcere di Voghera.
Dunque nel 1977 Sindona è in cattive acque e allora si rivolge a Gelli, che gli era stato presentato dal generale Vito Miceli, capo dei servizi segreti italiani. Nei numerosi incontri con il gran maestro si cerca di elaborare un piano per salvare la sua banca, la Banca Privata Finanziaria. Secondo le dichiarazioni rilasciate dallo stesso Sindona, Gelli interessa Andreotti, il quale gli riferisce che “la cosa andava positivamente” e incarica due suoi fidati come Gaetano Stammati, senatore affiliato anch’egli alla loggia P2, e il suo braccio destro Franco Evangelisti, di studiare il modo per salvare la banca di Sindona. Ma questo progetto viene rifiutato da Mario Sarcinelli, vice direttore della Banca d’Italia, un personaggio che tra poco conosceremo meglio.
Sindona chiede soldi anche a Roberto Calvi, il quale glieli nega, facendosi un altro nemico, come se non ne avesse abbastanza, tra la mafia, la camorra e le potenti lobby dello IOR in Vaticano.
Dicevamo dei fondi neri. Consistono in centinaia di miliardi, destinati ai partiti, ma soprattutto alla Democrazia Cristiana. Mazzette arrivano un po’ ovunque: ai segretari amministrativi dei partiti di governo, ai giornali, alle cooperative, a società di area democristiana ma anche comunista. Il tutto finisce su conti correnti ben protetti, ma, evidentemente, non abbastanza protetti.
Le indagini individuano come responsabili di questo enorme giro di denaro proprio Italcasse, ma anche ENI, che, del resto, di mazzette ne sa più di qualcosa, dal momento che il grande Enrico Mattei ne aveva fatto una strategia industriale.
Quando lo scandalo esplode e diventa pubblico, Arcaini si dimette e al suo posto viene nominato Giampaolo Finardi. Questa nomina è molto strana, ma ne veniamo a sapere molto di più quando finalmente è possibile leggere un documento straordinario, che si è cercato di tenere nascosto. È il memoriale di Aldo Moro, scritto durante la sua prigionia nel covo delle Brigate Rosse, prima di essere ucciso.
Come vedete gli intrecci sono davvero impressionanti: entrano in gioco un sacco di vicende di quel periodo e quella di Moro non è certo una che non abbia devastato il nostro paese.

Il memoriale di Aldo Moro

Noncicredo ha dedicato alcuni articoli all’affare Moro (vedi qui), alla sua prigionia, alla rinuncia a liberarlo da parte dei vertici della DC e ai famosi memoriali, attorno ai quali ancora oggi c’è un fitto mistero.
ItalcasseTuttavia, dalla lettura di quello che è stato recuperato e diffuso, esce un quadro desolante e terribile della Democrazia Cristiana dell’epoca (ricordo che Moro è prigioniero delle BR nella primavera del 1978). In particolare la figura di Andreotti appare, dalle rivelazioni dello statista pugliese, come quella di uno che “ha il potere di tutelare gli interessi pubblici, {ma usa questo potere} per tutelare invece gli interessi più privati del mondo.”
I riferimenti di Moro sono numerosi in questo senso e si mescolano nella sua analisi i nomi di Sindona, di Italcasse, di Arcaini e Caltagirone e ci sono le rivelazioni sugli interessi di Andreotti nelle banche, nei servizi segreti, nella loggia di Gelli. Che Andreotti abbia finito la sua vita come senatore a vita invece che in un carcere di massima sicurezza rimane un grande mistero italiano.
Ma torniamo alla sostituzione di Arcaini con Finardi.
Secondo Moro la successione ad Arcaini viene trattata dai fratelli Caltagirone, con il beneplacito della Presidenza del Consiglio, cioè di Andreotti. Lo stesso Finardi dichiara di essere stato nominato perché “pressato da autorevoli intermediari.” A spingere perché salga ai vertici della banca sono, in particolare Flaminio Piccoli, della corrente di Aldo Moro, e Franco Evangelisti.
Finardi dura pochi mesi a capo di Italcasse, giusto il tempo per sistemare gli enormi debiti dei fratelli Caltagirone, con un giro di soldi tale, che alla fine quel debito risulta di gran lunga ridotto ad appena (chiedo scusa, ma il termine “appena” è usato dallo stesso Finardi) … ad appena 100 miliardi di lire.
Resta da chiedersi come mai i fratelli Caltagirone abbiano un simile potere, ma di questo parleremo più avanti.

La Banca d’Italia

Nonostante le amicizie e le protezioni, Italcasse non ha finito di soffrire. Interviene infatti la Banca d’Italia, che comincia una serie di controlli che portano a risultati sorprendenti.
Si parte dalla questione delle obbligazioni ENEL. Per ogni obbligazione venduta dall’ente elettrico, Italcasse fa guadagnare ai partiti di governo una certa percentuale. Non si tratta di spiccioli. La prima emissione del 1965 frutta una mazzetta di 5 miliardi, l’ultima, quella del 1974, 2 miliardi e mezzo.
Gli ispettori della Banca d’Italia vanno molto in profondità nella loro indagine e saltano fuori i soldi versati nel periodo 1972-1974: 510 milioni alla DC, 340 milioni alla Voce Repubblicana, organo di stampa del partito Repubblicano, 230 milioni al partito socialista e 60 al socialdemocratico. Poi ci sono i privati. Arcaini incassa, nello stesso periodo, 180 milioni, 10 milioni a Gina Saccardo Aumiller, stretta collaboratrice di Arcaini, quasi 18 milioni alla FRANCIS Spa, società gestita dalla famiglia Arcaini, quasi 73 milioni alla Unione petrolifera, 589 milioni alla SOFID, la finanziaria del gruppo ENI, 168 milioni rimangono ad Italcasse, e l'elenco potrebbe continuare ancora.
Queste notizie dovrebbero creare una rivoluzione contro tutti quelli che hanno ricevuto indebitamente i soldi. Invece succede una cosa molto strana. La stampa mette sotto accusa la Banca d’Italia, per non aver esercitato un controllo sufficiente sulle attività illecite dell’Italcasse. Le accuse pesanti dei media portano ad un’inchiesta e si cominciano a sentire i testimoni, tra i quali il vicedirettore generale della Banca d’Italia, Mario Sarcinelli.
Ma qui dobbiamo fermarci un attimo e fare un piccolo passo indietro per meglio chiarire la vicenda.

Mino Pecorelli

C’è un altro personaggio importante che entra in scena nel nostro racconto. É Mino Pecorelli, al quale ho dedicato molto spazio (vedi qui) e di cui avremo modo di parlare anche più avanti.
Dunque Pecorelli è uno di quei giornalisti senza peli sulla lingua, con una sfilza enorme di infiltrati in ogni ambiente della politica, delle organizzazioni di controllo (ad esempio il generale Dalla Chiesa), dei servizi segreti e della finanza. Lui sa molte cose sui rapporti tra Andreotti, uno dei suoi bersagli preferiti, e l’Italcasse. Così nel numero del 14 ottobre 1977, intitola un pezzo sulla sua rivista OP, “Presidente Andreotti, a lei questi assegni chi glieli ha dati?” e nell’interno elenca le matrici degli stessi assegni, facendo capire chiaramente che provengono in modo illecito proprio da Italcasse. E aggiunge che, oltre alla SIR di Rovelli, tanti soldi sono finiti nelle tasche dei Caltagirone, alla Nuova Flaminia di Domenico Balducci, che è pappa e ciccia con la banda della Magliana e con il rappresentante di Cosa Nostra a Roma, Pippo Calò. Insomma una gran bella compagnia!
ItalcasseL’attacco su questo tema, Pecorelli, non lo porterà mai a termine, poiché verrà assassinato prima di poterlo fare, ammesso che volesse farlo davvero. Avremo modo comunque di chiarire tra poco anche questa vicenda.
Secondo Pecorelli, anche Arcaini, oltre a Moro, ha realizzato un dossier accusatorio a tutela propria e dei figli. Del resto ha guidato per vent’anni Italcasse e ha unto e oliato mille ruote, come abbiamo già visto. Di scheletri nell’armadio se ne intende, eccome.
Torniamo alla Banca d’Italia. Il governatore è Paolo Baffi, da tutti ritenuto persona onesta e competente, un vero galantuomo, tutte qualità che in certi ambienti possono dare molto fastidio. Vediamo come sono andate le cose.
Tre giorni dopo la morte di Pecorelli, il 23 marzo 1979, il segretario generale del presidente Pertini, Antonio Maccanico, scrive nei suoi diari: «Ho ricevuto Giovanni De Matteo, il quale mi ha informato della proposta di un suo sostituto di procedere contro Baffi e Sarcinelli… Sono rimasto allibito… Ho informato il presidente, La Malfa e Baffi … Ho un gran sospetto che vi sia un legame con l’Affare Caltagirone, cioè che si voglia premere su Baffi e Sarcinelli perché questi divengano più arrendevoli di fronte al caso Caltagirone-Italcasse».
Giovanni De Matteo è il capo della procura di Roma. Ugo La Malfa, che morirà tre giorni dopo questa informazione, era il ministro del bilancio e programmazione economica.
Il giorno dopo, Sarcinelli viene arrestato e Paolo Baffi viene incriminato per interesse privato in atti d’ufficio e favoreggiamento, per non aver trasmesso all’autorità giudiziaria una relazione degli ispettori, che ci stavano lavorando dall’anno precedente.
É come una bomba, perché si tratta del personaggio più importante nel panorama bancario italiano del momento.
A tutti risulta chiaro che l’azione arriva dai vertici politici, affaristici e giudiziari e il motivo vero è che i due hanno appena fatto sciogliere il consiglio di amministrazione di Italcasse, il più importante istituto di credito, dominato dal potere democristiano.
Baffi e Sarcinelli, infatti, si accorgono che ci sono istituti di credito che sono dei veri e propri covi di malfattori. Gli ispettori vengono spediti ovunque per raccogliere prove di queste malversazioni. L’ispezione forse decisiva per le sorti dei due alti dirigenti della Banca d’Italia avviene poco prima di ferragosto del 1977. Riguarda i fratelli Caltagirone, Italcasse, Arcaini e il suo successore. Qui però è necessario fare un’altra pausa e chiarire come entrano i Caltagirone in questa faccenda.

I fratelli Caltagirone

Cominciamo la nostra analisi da un vecchio articolo pubblicato da Repubblica nel 1989 e intitolato “La business-story dei Caltagirone firmato da Elena Polidori.
Per capire l’importanza dei Caltagirone basta ricordare una dichiarazione del governatore della banca d’Italia, Paolo Baffi, riportata da Panorama nel 1990: “7 febbraio 1978. Un alto esponente dell’amministrazione finanziaria viene a chiedermi con una incredibile insistenza di approvare la sistemazione del debito dei Caltagirone.”
ItalcasseChi sono dunque questi Caltagirone così potenti da mandare emissari prepotenti e minacciosi al governatore della Banca d’Italia? Il più importante è Gaetano, che prende in mano l’azienda immobiliare di famiglia, aperta dal nonno a Bagheria nel lontano 1905. I problemi cominciano nel 1979, quando una ventina di sue aziende falliscono per l’intervento di Italcasse. Gaetano è accusato di peculato. L’ordine di cattura non viene eseguito perché i tre fratelli Caltagirone sono rifugiati negli Stati Uniti.
Partono indagini e procedimenti penali, ci sono centinaia di articoli sulla stampa, quintali di atti giudiziari, dibattiti in parlamento, dimissioni di ministri e banchieri, ma alla fine, nel 1988, i fratelli sono dichiarati innocenti e viene condannata Italcasse al risarcimento. Ma ormai Italcasse non esiste più, Arcaini è morto e altrettanto è accaduto a Camillo Caltagirone. I suoi due fratelli, Gaetano e Francesco, non vivono più in Italia. Dentro lo scandalo Italcasse ci sono anche loro; nel 1977 si scopre infatti che la banca ha concesso ai palazzinari di Roma finanziamenti per 209 miliardi di lire. Una somma enorme per quei tempi, accordata, secondo le accuse, senza le necessarie garanzie. Per la difesa invece, le garanzie ci sono eccome, e sono costituite da centinaia di fabbricati di proprietà. I fratelli hanno agganci potenti e numerosi. Li hanno nella magistratura, nella Roma bene alla quale offrono feste milionarie da film. E soprattutto sono ottimi amici di Giulio Andreotti e del suo braccio destro Franco Evangelisti. Ma hanno contro la stampa e questo li rende vulnerabili.
Ma anche Italcasse non è messa bene. Gli ispettori mandati da Baffi e Sarcinelli spediscono una documentazione minuziosa e molto corposa alla procura. L’accusa è grave: i soldi forniti dall’Italcasse alle società, nei bilanci di quelle società non ci sono. Non è solo Pecorelli a divulgare la notizia, lo fanno molti giornali progressisti. Lo fa, soprattutto L’Unità, organo di stampa del partito comunista italiano. Salta fuori questo intreccio perverso tra politica, banche e mondo dei palazzinari. Si muove la magistratura, che si lacererà in mille scontri che finiranno per allontanare la ricerca della verità. Il nuovo direttore di Italcasse, il democristiano Remo Cacciafesta, chiede il fallimento dei tre costruttori. Questi rispondono di avere un patrimonio valutabile in mille miliardi di lire e quindi di essere solventi. Ci sono poi le parole di Aldo Moro di cui abbiamo già detto.
Qual è la verità? Non lo sappiamo.

La svolta politica: Franco Evangelisti

Poi, nei primi mesi del 1980 ecco una svolta importante. Andreotti viene sconfitto nel suo partito ed esce dal governo. Comincia, all’interno della Democrazia Cristiana, una guerra tra le correnti, a colpi di dossier e rivelazioni, per prendere il posto del Divo Giulio ed è in questo marasma che il più fedele servo di Andreotti fa una mossa pazzesca, degna del più autentico kamikaze. Franco Evangelisti, allora ministro, concede un’intervista a Repubblica, confessando la sua stretta amicizia con Gaetano Caltagirone, in quei giorni accusato anche di evasione fiscale, e soprattutto di aver preso soldi per finanziare la corrente andreottiana, le campagne elettorali, il partito. La parte più succosa dell’intervista è la descrizione del suo rapporto personale con Gaetano Caltagirone. Ci conosciamo da vent’anni – dice – e ogni volta che ci vediamo o sentiamo, lui mi chiede: “A Fra’ che te serve?” una frase che diventa una specie di mantra nella popolazione italiana del momento. A Franco, Gaetano dà tutto quello che chiede. E poi racconta che i soldi dei Caltagirone sono finiti anche alle altre correnti, ai fanfaniani, ai dorotei di Piccoli, Rumor, Bisaglia e a Forze nuove di Carlo Donat Cattin. Un suicidio politico: Evangelisti si dimette da ministro e termina qui la sua avventura politica.
ItalcasseInterviene poi il giudice romano Antonio Alibrandi, il quale, siamo nel marzo 1980, spicca 49 mandati contro i membri del consiglio di amministrazione e contro i maggiori beneficiari dei mutui. Finiscono in carcere in 38: presidenti e direttori generali delle più importanti Casse di risparmio. Nell' ordinanza di rinvio a giudizio il giudice Alibrandi sottolinea che alcuni imprenditori si rivolgevano sempre all' Italcasse perché sapevano che i finanziamenti, dati i comuni legami con il potere politico (la Dc) venivano puntualmente concessi anche in mancanza di garanzie.
I tre fratelli Caltagirone riescono ad evitare le manette, ma pochi giorni dopo anche per loro scatta l’ordine di cattura: Camillo è arrestato a Santo Domingo, trasferito in un carcere italiano, dove rimarrà un anno. I suoi fratelli sono fermati a New York dall’FBI e restano in prigione un paio di settimane. É un incubo, finché non si arriva al loro proscioglimento nel 1984.
Questa è la storia dei fratelli Caltagirone, che sono comparsi in questa brutta storia dell’Italcasse. Ma adesso dobbiamo tornare all’indagine condotta dalla Banca d’Italia, perché le cose strane non finiscono certo qui …

La Banca d’Italia e Paolo Baffi

Baffi si affida, per condurre la sua inchiesta, ad un personaggio da film, un vero mastino, che diventerà più avanti lui stesso governatore della Banca d’Italia, Vincenzo Desario. Ecco un rapporto di Desario:
Sono stati trascurati i più elementari principi di organizzazione aziendale…Si era fatto frequente ricorso a ‘frenetici’ movimenti contabili, interni o in contropartita con altre aziende di credito, allo scopo di far disperdere ogni traccia di operazioni irregolari, di cui ovviamente non si rinveniva in atti alcuna documentazione probante …
Incredibilmente estesa e ricorrente è risultata l’emissione di assegni Iccri o la richiesta di circolari all’ordine di nominativi di ‘pura fantasia’ per corrispondere senza motivo a terzi somme di pertinenza dell’Istituto’. Il presidente di Italcasse, Giuseppe Arcaini, in modo surreale, cercò di giustificarsi in modo maldestro, scrivendo un appunto per gli Ispettori, dove i movimenti intervenuti nei fondi interni sono ‘Operazioni da me ordinate nell’interesse dell’Istituto e senza alcun onere per lo stesso’. Emergono – conclude Desario - tutte le irregolarità e gli abusi che si sono concretizzati in un danno a carico dell’Iccri a tutto vantaggio di terzi”.
I ‘nomi di fantasia’ dei conti che servono per i traffici del direttore generale sono indicativi del pressapochismo e della poca immaginazione: ‘Pentola Vecchia’, ‘Pentola Calda’, ‘Francis’, ‘Silvio Colli’, ‘Micheli Rivelli’, ‘Luigi Fantozzi’.
Desario scrive ancora:
Si evince con immediatezza che, in un arco di tempo pari a poco più di due anni (1972-1974), l’Iccri ha erogato – mediante artifizi contabili – notevoli disponibilità a persone e organizzazioni che formalmente non avevano alcun titolo per introitare le somme ricevute”.
Baffi, ricevuta la relazione, dopo aver consultato gli uffici legali della Banca, chiede al Ministro del Tesoro il commissariamento dell’Italcasse e lo scioglimento del consiglio di amministrazione.
Non c’è solo Desario che scrive dell’Italcasse. Lo fa anche Aldo Moro nelle sue lettere dalla prigione. Leggiamo un passaggio:
«E lo sconcio dell’Italcasse? E le banche lasciate per anni senza guida qualificata, con la possibilità, anche perciò, di esposizioni indebite, delle quali non si sa quando ritorneranno e anzi se ritorneranno. È un intreccio inestricabile nel quale si deve operare con la scure. […] E a proposito d’Italcasse, o, come si è detto, grande elemosiniere della D.C., è pur vero che la trattativa in nome dei pubblici poteri per la scelta del successore dell’On. Arcaini è stata fatta da un privato, proprio l’interessato Caltagirone, che ha tutto sistemato in famiglia».
La vicenda scatena anche la stampa, quella generalista, come il Corriere della Sera, che pubblica un articolo di Renzo Martinelli, che dice: «Dalla pentola sono usciti gli assegni del ministro Evangelisti, quelli dei fratelli Caltagirone, le elargizioni ai partiti, i finanziamenti a Rovelli e a Ursini, i prestiti alle immobiliari. E ancora: i miliardi per i “fondi neri”, quelli fuori bilancio utilizzati per gratifiche e regalie, per investimenti folli, per parcelle favolose, ma soprattutto per ungere le ruote del sistema politico. Per trent’anni l’Italcasse è stato il forziere del palazzo, la cassaforte dei potenti».
Come abbiamo visto tutto questo terremoto che, secondo logica, dovrebbe preludere ad una inchiesta, anche del Parlamento, contro i banchieri corrotti, partorisce una conclusione incredibile e assurda. Sotto accusa, infatti, non finiscono i ladri, i corrotti i delinquenti e i loro complici, ci finiscono gli sceriffi buoni, Baffi e Sarcinelli. A muovere le accuse con un astio incredibile è il già citato giudice Antonio Alibrandi, padre, tra l’altro, del terrorista nero dei NAR Alessandro, morto in uno scontro a fuoco con la polizia nel 1981 e probabile responsabile della morte di Walter Rossi, il giovane di Lotta Continua. Lui però in questa storia non c’entra. Quel che è certo è che il padre non è meno fascista del figlio.
A difendere la Banca d’Italia dalle accuse di Alibrandi padre c’è Giuliano Vassalli, che sarà anche ministro di Grazia e Giustizia dall’87 al 91. E lui dice: “Il desiderio di Alibrandi di voler fare l’inquisitore del governatore della Banca d’Italia era certamente legato a una procedura, credo quella dell’Italcasse, che doveva essere stroncata e non andare avanti. L’Italcasse era una specie di fondo della Democrazia Cristiana, a capo della quale c’era Arcaini. La faccenda dell’Italcasse dava noia e questo processo doveva essere smontato: siccome il principale accusatore era Sarcinelli, tutto si orientò per trovare qualche cosa a carico di Sarcinelli. Qualcosa fu trovato, ma a carico di Baffi. […] Baffi era consigliere di un ente, l’IMI, che aveva commesso non so quale presunto errore. Insomma vollero scoprire Baffi: quanta pena ci passammo, mamma mia!
Chi c’è dietro questo attacco disperato contro Baffi e Sarcinelli? É una bella domanda, ma la risposta non è semplice. Forse possiamo dedurre qualcosa dal comportamento dei principali protagonisti della vicenda.
Cominciamo con Giulio Andreotti.
Il senatore non dice mai una parola in difesa dei due rappresentanti della Banca d’Italia. Eppure dovrebbe, essendo lui il rappresentante più importante dello Stato in quel momento. In compenso si incontra molte volte con l’avvocato Rodolfo Guzzi, per discutere del salvataggio delle banche di Michele Sindona, di cui Guzzi è l’avvocato. Ha un rapporto strettissimo con i fratelli Caltagirone. Va anche considerato che la DC, di cui è in quel momento il massimo esponente, una caduta di popolarità dalle vicende Italcasse la riceve e neanche troppo lieve. Ci sono poi i molti incontri del suo braccio destro, Evangelisti, con Sarcinelli per trovare una soluzione alla vicenda Caltagirone. Sono tutti elementi che portano a pensare che Andreotti abbia un forte interesse ad allontanare quei due rompiscatole dalla Banca d’Italia.
Un’altra delle colpe attribuite a Baffi e Sarcinelli è l’ispezione fatta al Banco Ambrosiano di Roberto Calvi. Non è forse un caso che l’arresto di Sarcinelli avvenga subito dopo la fine di quella ispezione.
E poi, ancora, l’opposizione ai piani di salvataggio delle banche di Sindona, il cui commissario liquidatore è Giorgio Ambrosoli, che finisce ammazzato da un sicario di Sindona l’11 luglio del 1979.
ItalcasseIl figlio, Umberto Ambrosoli, a proposito delle interferenze sulla liquidazione delle banche, scrive: “Queste sollecitazioni mirano a far sì che alla liquidazione sia data una soluzione fantasiosa ... il buco lasciato dalle condotte criminose di Sindona sarebbe stato ripianato con i soldi della collettività. Di fatto, sarebbe stato annullato il provvedimento di commissariamento e messa in liquidazione della banca, Sindona sarebbe stato restituito vergine alla sua capacità di continuare a fare affari in Italia, sarebbe venuto meno il processo penale: tutto grazie ai soldi della collettività”.
Le sollecitazioni, di cui parla il figlio di Ambrosoli, sono quelle che arrivano a Sarcinelli da Andreotti, Evangelisti e dal già citato avvocato Guzzi. Sarcinelli si stupisce e risponde: “Noi non guardiamo cose che ci provengono dagli avvocati di persone che secondo noi sono dei bancarottieri, perché dobbiamo guardarle?
C’è anche di mezzo la Loggia P2 di Licio Gelli. É Francesco Pazienza a parlarne durante il processo a suo carico. Pazienza è un faccendiere, condannato a 13 anni, che entra ed esce dalle inchieste più oscure di quel periodo, dalla vicenda Alì Agca, al rapimento di Ciro Cirillo, alla strage di Bologna. Secondo Pazienza, sarebbe stato proprio Licio Gelli a decidere l’incriminazione dei due funzionari della Banca d’Italia.
Se questo sia vero non lo sappiamo, sappiamo però che pochi giorni dopo l’arresto, il 2 aprile 1979, i migliori economisti italiani firmano una dichiarazione a favore di Baffi e Sarcinelli, definendo un “ignobile attacco” quello della magistratura nei loro confronti. Qualche settimana dopo vengono tutti convocati in massa a Palazzo di giustizia da Alibrandi e, secondo le cronache, trattati malissimo dal giudice istruttore, con frasi denigratorie e accusatorie. Davanti a lui c’è il gotha dell’economia italiana: robe da non credere. É evidente che si sente sicuro e protetto.
Si arriva così al 1981, quando Baffi e Sarcinelli vengono scagionati da tutte le accuse. Il presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, proporrà, dieci anni dopo questa vicenda a Paolo Baffi di riprendere il suo ruolo di Governatore. Ma l’economista rifiuta per paura che il suo ruolo venga in qualche modo ostacolato dalle vicende giudiziarie passate.
Chiudo questa storia con un commento di Marco Vitale, economista, professore, coscienza critica e feroce degli affari milanesi. Il 30 marzo 1979 scrive:
“Ho sempre sostenuto che la nomina di Baffi a governatore della Banca d'Italia è stata l'unica riforma di struttura degli anni '70. Non è dunque un caso che Baffi e Sarcinelli siano trattati come malfattori. Così come non è un caso che tutta l'Italia seria, quella che guarda al futuro e non al passato, ha subito compreso, al di là del merito giuridico, il significato politico dell'episodio e dice a Baffi ed a Sarcinelli: resistete. La realtà è che questa Banca d'Italia seria dava fastidio e meritava una lezione. Così come merita una lezione tutta questa Italia seria che sta cercando, con tanta fatica, di ricostruire il proprio tessuto economico e il proprio volto di paese civile.”

Pecorelli e la cena alla Casa Piemontese

Torniamo adesso a parlare di Mino Pecorelli. Abbiamo già visto come abbia rivelato la storia degli assegni arrivati ad Andreotti, ma quello che adesso vi racconto è molto curioso. Pecorelli afferma di essere in possesso delle matrici degli assegni e di volerli pubblicare, con una copertina di OP che non lascerà alcun dubbio sul coinvolgimento del Divo Giulio.
Il 24 gennaio del 1979, due mesi prima dell’assassinio del giornalista, Mino Pecorelli viene invitato a cena. Ha appuntamento presso la Casa Piemontese, un locale molto scic a Roma, facente parte di un club privato molto esclusivo, che conta tra i suoi soci i nomi più importanti dell’epoca, perfino Oscar Luigi Scalfaro, deputato per tutta la vita nelle file della Democrazia Cristiana, ministro un gran numero di volte e futuro presidente della Repubblica. Lui in questa storia non c’entra nulla, è solo per capire il livello dei frequentatori di quel locale.
ItalcasseAd invitare Pecorelli è il vicepresidente del circolo, Walter Bonino, che fa accomodare i suoi ospiti in una saletta riservata. Non ci sono altri avventori: il circolo per chiunque altro è chiuso. Alla sua destra siede il personaggio più importante della serata, Claudio Vitalone, magistrato finito più volte sotto processo, ma sempre dichiarato innocente.
Poi c’è Adriano Testi, altro magistrato invitato da Vitalone e il generale della guardia di finanza Donato Lo Prete, quello coinvolto nello scandalo petroli (vedi qui), nella faccenda Isomir e in altre losche questioni. Cos’hanno in comune queste persone, a parte Pecorelli? Che sono tutti legati a doppio filo a Giulio Andreotti.
Dopo la morte di Pecorelli, quella cena diventa un motivo di indagine piuttosto serio, visto i personaggi che vi hanno partecipato.
Va detto che non c’è chiarezza su quanto realmente accaduto. Possiamo solo fare affidamento sulle dichiarazioni ufficiali dei partecipanti.
All’inizio nessuno spiega il perché di quell’invito. Poi però succede qualcosa. É Testi il primo a parlare. Racconta di una serata movimentata. Dice che Pecorelli si lamenta di un sacco di cose: del ritiro del suo passaporto, degli attacchi che ha rivolto alla finanza, della mancanza di fondi per la rivista e poi della copertina di O.P., che sarebbe uscita quella settimana. Una copertina sugli assegni Italcasse presi da Andreotti, assieme ad un articolo sul presidente. Vitalone è molto agitato e insiste perché quelle informazioni non escano sul giornale. Pecorelli però non assicura nulla e, in quel momento, è convinto che pubblicherà tutto.
A quel tavolo ci sono due magistrati importanti e un generale della Guardia di Finanza. Per 15 anni nessuno svelerà il segreto di cosa si sia davvero detto quella sera.
Poi Pecorelli viene ammazzato e, dalle indagini, salta fuori anche la cena e qualcuno fa il nome di Vitalone, come possibile coinvolto nell’omicidio. Allora il magistrato si presenta spontaneamente per fare alcune dichiarazioni. Dice che proprio in quell’occasione ha appreso con stupore che Pecorelli veniva finanziato da Franco Evangelisti, il più stretto collaboratore, amico e fedelissimo di Andreotti. Pecorelli si lamenta che le sovvenzioni sono via via calate, fino a scomparire. É evidente agli inquirenti che Vitalone cerca di tirarsi fuori dalla questione, mettendo al centro il rapporto Pecorelli-Evangelisti. Nel contempo però con le sue dichiarazioni fa capire che durante la cena si è parlato di ben altro che delle piccole cose di cui aveva riferito Testi.
15 anni dopo la cena, il 24 febbraio 1994 Testi, Bonino e Lo Prete vengono raggiunti da un avviso di garanzia per il reato di aver reso false dichiarazioni al pubblico ministero di Perugia. É allora che gli illustri convitati alla cena alla Famiglia Piemontese, improvvisamente recuperano la memoria e ricordano che, sì … si è discusso di soldi, quelli che Evangelisti aveva dato a Pecorelli, ma che adesso non arrivavano più.
Il primo a parlare è Bonino, che in una lunghissima deposizione racconta come si sono svolti i fatti. E racconta di una strana, per lui, animosità del generale Lo Prete verso Pecorelli, con ogni probabilità legata alla conoscenza da parte di Pecorelli dei retroscena dello scandalo Italcasse e dello scandalo petroli. E poi saltano fuori i famosi soldi pagati da Evangelisti, molti soldi, 300 milioni, con Vitalone che casca dalle nuvole. Anche di questo Bonino si stupisce e ricorda che Vitalone gli aveva chiesto come fare a contattare Pecorelli. Al che, Bonino aveva risposto che, essendo lui un caro amico di Andreotti, non poteva avere difficoltà, visto che il braccio destro del presidente, l’onorevole Evangelisti, aveva colloqui costanti e duraturi con il giornalista molisano.
A proposito della famosa copertina accusatoria nei confronti di Andreotti, Bonino è convinto che Vitalone abbia riferito, subito dopo la cena, i discorsi a Evangelisti e questi, al presidente.
Del resto, lo stesso Vitalone è amico stretto di Andreotti, tanto da essere stato attaccato più volte per un uso strumentale della giustizia, in particolare in riferimento al Golpe Borghese. Bonino poi ricorda un particolare interessante. Lui ha avuto l’impressione, sia dagli incontri precedenti la cena, che durante la serata alla Famiglia Piemontese, che l’interesse di Vitalone per Pecorelli non sia personale, ma attinente alla corrente andreottiana della Democrazia Cristiana e, ancora più in particolare, alle vicende di Gaetano Caltagirone, grande e intimo amico di Andreotti.
Il Pubblico Ministero chiede, ad un certo punto, perché mai Bonino se ne sia stato in silenzio per 15 anni, prima di vuotare il sacco. La risposta è netta: è Vitalone, che agiva per conto di Andreotti, a raccomandare il silenzio e l’omertà. Nessuna minaccia, ma Vitalone fa presente a Bonino che raccontare di quella cena e dei discorsi fatti (in particolare sui soldi, sulla copertina, sull’atteggiamento di Lo Prete), avrebbero messo in imbarazzo Andreotti e con lui le alte cariche dello stato. Insomma, secondo Vitalone, il silenzio era dovuto, per salvaguardare le istituzioni democratiche della repubblica. Se volete, potete aggiungere voi “Me cojoni!”.
Dopo che Bonino ha vuotato il sacco, tocca a Testi. Lui continua a negare fino al 24 marzo 1994, quando invia un memoriale alla Procura di Perugia, nel quale ritratta tutto e spiega che effettivamente:
  1. Pecorelli si è lamentato degli scarsi contributi da parte di Evangelisti
  2. Pecorelli ha preannunciato un attacco ad Andreotti per la questione degli assegni (quelli legati agli scandali Italcasse e petroli)
  3. Vitalone ha invitato il giornalista a desistere dalla pubblicazione
  4. le ragioni vere della cena sono dovute all’intento di conciliare Pecorelli con Vitalone e Lo Prete, criticati sulle pagine della rivista O.P.
L’anno prima di queste dichiarazioni era stata sentita, sempre a Perugia, anche Rosita, la sorella di Mino Pecorelli. Aveva raccontato quello che sapeva e le confidenze che tra fratelli si fanno. Il giorno della sua morte, dice Rosita, era contento perché aveva raggiunto un accordo con il gruppo di Andreotti, nella persona di Franco Evangelisti. Una promessa che la rivista, che non navigava affatto in buone acque dal punto di vista economico, sarebbe stata stampata da Ciarrapico, altro amicone di Andreotti, a Cassino a prezzi decisamente inferiori a quelli attuali.
Insomma si prospetta, alla data del 20 marzo, una soluzione per la rivista, con maggiori introiti pubblicitari e minori spese. Non se ne farà nulla, perché quello stesso giorno termina la vita di Carmine Pecorelli, detto Mino.

In conclusione …

La vicenda Italcasse è molto istruttiva per noi che la vediamo inserita in un periodo storico, che ne anticipa altri, ancora più rumorosi della vita pubblica di questo nostro paese.
A proposito delle tristi vicissitudini sofferte da Sarcinelli e Baffi, è interessante rileggere quello che l’ex governatore pensava e scriveva.
italcasse10Lui non capiva quale rapporto ci potesse essere tra fare il proprio dovere secondo la legge, quella scritta nei testi e quella dettata dalla morale, e ritrovarsi addosso un mare di nemici agguerritissimi: magistrati e governanti, anche di grande spessore e importanza.
Nei suoi diari, il 27 marzo 1979, Baffi annota: “«Non ci sono, ahimè, Einaudi, Mortara, Moro, La Malfa (spentosi ieri mattina), che mi avrebbero difeso a spada tratta; Parri è malato. I vecchi sono deboli anche in ragione della scomparsa degli amici
Già, i grandi vecchi che hanno fatto dell’onore, del proprio onore, della saggezza e della virtù bandiere da sventolare con orgoglio.
Eugenio Scalfari scriverà a questo riguardo: “Il potente ha sconfitto un uomo, e il paese delle persone perbene ha assistito a questo delitto senza alcuna apprezzabile reazione”.
È questo il sistema che porta ad un potere che puzza di regime lontano un miglio. Quando qualcuno si mette di traverso ad un’opera malandrina va tolto di mezzo. Ci sono sistemi diversi per farlo. A volte quattro colpi di pistola chiudono la faccenda, come nel caso di Mino Pecorelli, freddato nella sua auto il 20 marzo 1979. Altre volte questo non si può proprio fare, per lo spessore e il nome degli avversari da eliminare. E allora ecco tirar fuori vecchie pratiche del tutti irrilevanti per incastrare delle brave persone come, per l’appunto, Sarcinelli e Baffi.
Sì, lo so che sembra di ascoltare le trame di un sacco di film di spionaggio, solo che là, quasi sempre i buoni riescono a vincere, a dimostrare che loro sono quelli dalla parte della ragione. Nella vita reale questo capita, purtroppo, molto, ma molto raramente.
La testimonianza di tutto ciò è proprio quella dello scandalo Italcasse. Alla fine nessuno è finito dentro, neppure i politici di minore rilevanza, quelli dei quali nessuno oggi ricorda il nome. Anzi è assai probabile che abbiano fatto carriera nei rispettivi partiti.
Possiamo tornare all’inizio di questo articolo, quando dicevo della legge presentata dalla Lega Nord perché si indagasse sulle questioni legate all’Italcasse. La presentazione della stessa in parlamento contiene alcuni passi che meritano di essere ascoltati.
Le vicende giudiziarie che di recente hanno coinvolto importanti esponenti di partiti politici italiani hanno richiamato alla memoria eventi scandalosi di carattere criminale, politico e finanziario. Quello che viene comunemente definito il "caso Previti" non è altro che la prosecuzione dello scandalo IMI-SIR a cui si associa il marchio dell'Italcasse, banca di Stato che ha elargito migliaia di miliardi tanto alla Democrazia cristiana quanto ai partiti della sinistra, nonché alla P2.
E ancora, ricorda il ruolo avuto da importanti politici come Flaminio Piccoli e Franco Evangelisti, che agiva per conto di Andreotti, nella nomina di Finardi e nella motivazione che era quella di mettere a posto i conti di cari amici e finanziatori come i fratelli Caltagirone.
C’è poi la chiusura della presentazione. Eccola:
Da questa ricostruzione risulta quindi che gli affari della Democrazia cristiana e dei partiti di sinistra nell'Italcasse trovano nei loro dirigenti di allora, alcuni dei quali sono oggi di massimo vertice, alleati di grande spessore.
Purtroppo, questa è la verità e la presente proposta di legge è diretta ad indagare ed, eventualmente, alla fine processare i soggetti realmente responsabili della vicenda.
È preciso dovere del Parlamento verificare le responsabilità di funzionari, personaggi politici, dirigenti ed amministratori disonesti ed incapaci, e, dunque, accertare le condizioni che abbiano favorito quei meccanismi illeciti per i quali migliaia di miliardi si sono volatilizzati.”
Ma quel parlamento, come quelli della maggior parte degli anni della nostra Repubblica, ha sempre difeso in modo omertoso e mafioso i propri iscritti, andando contro una logica di legge e una logica qualsiasi anche in presenza di prove più che provate del loro coinvolgimento in sporchi affari, sempre guidati dalla sete di potere e di denaro.
Io non dico mai “sono tutti uguali”, ma la difesa di delinquenti ancorché eletti, spesso inconsciamente da un elettorato decisamente ignorante, va oltre ogni regola del buon senso.
Chiudo con le parole di uno storico, un professore dell’Università di Torino, Miguel Gotor, politico di sinistra, senatore eletto nelle liste del MDP (Movimento Democratico e Progressista). Qui non è nelle vesti politiche, ma in quelle di saggista. Dice:
«Con la vicenda dell’Italcasse si entra, quindici anni prima di Tangentopoli, dentro le dinamiche di funzionamento del sistema di potere nazionale, vale a dire l’intreccio endemico tra politica e mondo imprenditoriale, dimensione privata e funzione pubblica, cricca e libero mercato».
La sensazione che resta, studiando questa vicenda, è l’amara consapevolezza che l’azione di questi personaggi avviene, inevitabilmente, senza alcuna vergogna.