Rotondella
Questa storia ci porta in Basilicata, una regione che in quanto ad essere stata oggetto di molte porcherie nel corso degli ultimi 60 anni non è seconda a nessuno. Anche qui è scoppiato in tempi molto più recenti uno scandalo legato al petrolio. Tuttavia, prima, permettetemi di spiegarvi perché questa regione, di cui si parla poco, ha attraversato avvenimenti quanto meno misteriosi negli ultimi 40 anni. Buona parte sono legati alle scorie tossiche e a quelle nucleari. Intrecci internazionali, vendita di armi e "polveri da sparo", strane manovre da coprire: c’è di che tesserne un romanzo thriller mica da ridere.Lo faccio ripercorrendo un capitolo del libro “Bidone nucleare” di Roberto Rossi, uscito nel 2011 per la collana BUR di Rizzoli.
Quando i rifiuti tossici venivano abbandonato su una nave, che veniva poi fatta inabissare al largo delle coste joniche, quello che restava bisognava interrarlo. Occorreva scegliere una zona poco frequentata dalla ‘ndrangheta e dalla camorra e la Basilicata era semplicemente perfetta. Ma c’è di più, come vedremo subito.
Il nostro viaggio parte da Rotondella, un piccolo comune in provincia di Matera, dal quale si vede in lontananza il golfo di Taranto che unisce Puglia e Calabria.
A Rotondella, dunque, nel 1970, viene aperto il centro ITREC: questa sigla significa “Impianto di Trattamento e Rifabbricazione Elementi di Combustibile”, il che significa che qui finiscono le scorie delle attività radioattive italiane (è il periodo in cui si pensa alla costruzione delle centrali nucleari italiane) e quelle scorie vengono trattate per ricavarne altri elementi utili da destinare a varie attività o per semplice ricerca scientifica. Niente di male dunque: saperne di più è sempre un fatto positivo.
Lo studio è rivolto a qualcosa di particolare e precisamente il ciclo Uranio-Thorio. Si vuole, insomma, dimostrare che è possibile rifabbricare combustibile adatto alla fissione, escludendo il Plutonio. Una gran bella cosa da un punto di vista scientifico, perché escludere il più pericoloso degli scarti della fissione non è cosa da poco. Poi, come sappiamo, l’avventura nucleare italiana termina con il referendum del 1987 e qui cominciano i problemi, tanti problemi e tutti molto seri. Ho spiegato molte volte che le scorie del ciclo Uranio-Plutonio (quello, per così dire, tradizionale nelle centrali) … quelle scorie finiscono in centri di riprocessamento appositi, che estraggono quello che possono, vetrificano il resto e poi li rimandano ai siti di provenienza perché siano custodite in qualche deposito sicuro. Così le nostre vecchie barre di Uranio sono ancora in giro per l’Europa, parte in Francia, parte in Inghilterra, da dove torneranno presto a casa (entro il 2025) e ad oggi nessuno sa dove potranno essere custodite.
Purtroppo per il ciclo Uranio-Thorio non c’è neppure un centro che svolga questo lavoro. Lo smantellamento, come è noto, è affidato alla ditta SOGIN, la quale nella sua storia ne ha combinate di tutti i colori, ma in questo caso specifico non ha alcuna responsabilità. E lei, ovviamente, non sa cosa fare. Il combustibile non si può riutilizzare e quindi va stoccato in qualche modo ed è proprio questo “in qualche modo” che rende l’operazione senza futuro. Le 64 barre non sono neanche italiane; arrivavano dagli Stati Uniti per provare gli impianti sperimentali di Rotondella. Le barre avrebbero dovuto riattraversare l’oceano, ma nel frattempo la centrale di Elk River, da dove provenivano, ha chiuso e il governo di Washington non ne vuole sapere di riprendersi un così grazioso giocattolo. E non si può ottenere un risarcimento, un pagamento dell’affitto, perché il vecchio contratto non lo prevede. Un bel casino, insomma, ma solo uno dei tanti che riguardano la Basilicata, regione che con il vecchio nucleare italiano ha un conto aperto lungo così.
La Basilicata: nucleare connection
Sui misteri nucleari della Basilicata si apre un’inchiesta. É archiviata nel 2009. Ha, secondo il giudice, una “indiscutibile e oggettiva gravità sotto il profilo della sicurezza pubblica in generale”. Ma viene chiusa lo stesso!Curiosamente tutto nasce per caso, quando il magistrato Nicola Pace cerca notizie dei ‘siloi’, strutture architettoniche antiche, risalenti al 500 a.C. che servivano come silos per il frumento e i cereali in genere. Trova una pubblicazione con una foto e dal siloi invece del frumento, sbuca un bel bidone dall’aspetto inconfondibile: è un contenitore di scorie nucleari radioattive. Il magistrato si incuriosisce e decide di scoprire dove diavolo si trovino quei bidoni. Un giorno, riceve la visita di alcuni iracheni (la nazionalità verrà scoperta dalla polizia successivamente) e il libro con i siloi sparisce. Allora si rivolge all’autore, il quale aveva tracciato una mappa dei siloi, ma quando gli chiede di collaborare alla ricerca del materiale radioattivo, i risultati sono nulli e dei bidoni non c’è traccia. Quello che resta dunque è solo il ricordo di un magistrato che ha visto una foto su un libro che non esiste più.
Nicola Pace, tuttavia, non demorde e comincia ad analizzare i dati del centro ITREC di Rotondella. Tutti sanno cosa faceva quel centro, ma nella documentazione non c’è alcuna traccia di scorie radioattive pericolose e il bilancio tra entrata ed uscita dell’Uranio non torna per niente.
Strano ...
Da buon investigatore, Pace interroga i cittadini della zona. Questi raccontano del movimento dentro l’ITREC con camion che vanno e vengono. Infine, nel centro si trovano materiali provenienti dall’esterno che con il lavoro del centro poco hanno a che fare.
Abbiamo più volte affrontato il tema delle navi dei veleni che sono state affondate da non si sa da chi, ma di sicuro con grande aiuto da parte della ‘ndrangheta, di fronte alle coste calabresi. Quelle navi non contenevano soltanto rifiuti tossici, provenienti dalle industrie del Nord Italia; contenevano con ogni probabilità anche sostanze radioattive provenienti da qualche deposito. Natale Pace è convinto che proprio Rotondella sia stata (e sia ancora in quel periodo) una discarica nucleare. Del resto, durante le indagini, si trova di tutto, come quattordici container di materiali radioattivi di provenienza ospedaliera e un sacco di altro materiale non nucleare regolarmente registrato. Il sospetto è che ci sia stata una doppia contabilità … solo che dei libri contabili non c’è traccia nel centro ITREC di Rotondella.
Ma c’è dell’altro …
Le inchieste e le testimonianze
Nel 1995, durante l’inchiesta sulle navi dei veleni, l’ingegner Giglio, che all’epoca svolge attività di sorveglianza per la radioprotezione degli impianti dell’ENEA, mette a verbale che la registrazione delle scorie nucleari di Rotondella era falsificata per consentire la fuoriuscita di materiale radioattivo a scopi militari. Perfino la CIA, emette un rapporto nel 2004, secondo cui una parte del combustibile nucleare iracheno è uscito da Rotondella. Secondo i servizi segreti americani, responsabile di questa “fuga” è la Techint, che si occupa proprio del decommissioning di Rotondella. E proprio la Techint aveva subito a suo tempo alcuni attentati che gli inquirenti attribuivano al Mossad, il servizio segreto israeliano, come ritorsione per l’approvvigionamento all’Iraq. Del resto che Saddam, con il beneplacito USA che aveva il problema di frenare l’Iran degli Imam, si rifornisse a Rotondella è una storia che molti altri autori hanno confermato. C’è una prima inchiesta in cui finiscono imputati i responsabili del centro, tra cui quel Claudio Cao, amico del generale Jean che ha diretto per un certo periodo la società SOGIN. Ci sono due condanne, ma del plutonio nessuna traccia!Per cercare il Plutonio si apre una nuova inchiesta (a Potenza) alla fine del 1998. Finiscono sotto indagine i vertici dell’ENEA di Rotondella, ma 6 anni più tardi a questi si aggiungono nomi eccellenti della ‘ndrangheta. Tra loro Francesco Fonti che si dichiara pentito e collabora. La sua versione dei fatti tuttavia non convince, ma si scopre che egli era stato in carcere assieme a Guido Garelli, il quale invece racconta storie che vengono verificate e si scopre così che la Basilicata è un centro di affari internazionali più o meno loschi che riguardano materiale nucleare e che sono monitorati e seguiti dal Mossad, dal Sismi e dalla CIA.
Ma ci sono altri testimoni importanti.
C’è Patrizia Volpin, giornalista residente a Selvazzano, che denuncia nel 1997 un traffico di rifiuti illeciti e poi si rifugia in India. La Volpin dice quello che tutti noi abbiamo letto nella storia italiana degli ultimi anni. Che c’è un traffico di rifiuti radioattivi verso l’Africa proveniente da tutta Europa e dall’America. Che c’è stato un accordo tra Italia e Somalia per la transazione di 10 milioni di m³ di scorie non definite. Che dall’Italia arrivano armi ai paesi stranieri in misura molto maggiore al consentito; che la mafia calabrese e pugliese si occupa di interrare nella ex-Jugoslavia i bidoni di rifiuti tossici; che sulla strada tra Mogadiscio e Bosaso vi sarebbero 10 cm di bitume che coprono migliaia di fusti di sostanze radioattive. Questi fusti sono venuti alla luce poco tempo fa. Che Ilaria Alpi è morta per questo e che il Sismi non è certo estraneo alla sua morte. Questo racconta Patrizia Volpin, giornalista, dall’India. Rimane là perché è malata e ha paura di tornare.
Poi c’è Carlo Alberto Sartor, padovano, tecnico informatico. Un giorno gli capita una storia da film. Arrivano dei personaggi che dicono di essere carabinieri dei ROS, lo portano in un capannone anonimo con una macchina anonima e gli dicono di decriptare alcuni dischetti, ma a metà lavoro lo fermano e lo minacciano di non dire niente a nessuno perché sarebbe stato pedinato. Sartor ricorda che nei dischetti c’erano movimenti di svariate migliaia di miliardi di lire, che non sembravano poter essere riferiti né ad una persona, né ad una organizzazione specifica. La Volpin lo aveva avvicinato dicendogli di stare in guardia. Subisce altre minacce ed infine un pestaggio che lo porta in ospedale con un trauma cranico. Finisce sotto processo per calunnia perché riconosce in un colonnello dei servizi segreti uno degli individui che lo avevano contattato (e rapito) la prima volta. Ma lui non sa niente di Rotondella e della Basilicata. Sa solo che tutto quel casino glielo hanno provocato i servizi segreti italiani.
Ed infine c’è Mohammed Aden Sheikh, un medico somalo, già ministro per la sanità nel suo paese prima dell’arrivo di Siad Barre. É lui che testimonia di aver appreso da altri cittadini somali dei traffici illeciti di scorie radioattive tra la Somalia ed altri paesi. È lui ad indicare Giancarlo Marocchino ed Enzo Scaglione come coinvolti nell’affare. Questi nomi figurano tra quelli coinvolti nella questione delle navi dei veleni. Ma la verità non può venire a galla perché i fatti sono coperti da segreto di stato fino al 2026.
Marocchino è un uomo di grande potere in Somalia. E’ quello che ha costruito il porto di El Ma’an, le cui banchine non sono fatte solo di pietre e cemento. Le testimonianze di questi fatti sono racchiuse anche nelle fotografie del 1997, che Greenpeace ha pubblicato nella primavera del 2010. Si vedono le banchine in costruzione con i container che spuntano dal molo in mezzo al cemento. Se le foto sono così vecchie perché prima non se ne è saputo nulla? Erano tra gli atti investigativi della procura di Asti, che non interessavano nessuno. Solo grazie alla "curiosità" di Greenpeace oggi possiamo vederle.
Le foto mostrano cosa c’è dentro quelle banchine. Ci sono i container usati per portare i rifiuti nello stato africano, una marea di container. E non solo quelle banchine sono fatte con i rifiuti europei e americani. La strada che da Garoe va verso Bosaso è indicata da tutti come il sito dei rifiuti tossici che vi venivano interrati prima di realizzare la pavimentazione. "Curiosamente" le ultime riprese di Miran Hrovatim sono lunghe immagini proprio di quella strada. Miram Hrovatim era il reporter che accompagnava Ilaria Alpi nell’ultimo reportage delle loro vite.
Proviamo a riassumere: c’è un probabile, ma non accertato traffico di rifiuti radioattivi che passa per la Basilicata. Probabile, perché non ci sono tracce, solo coincidenze. C’è il fatto che a Rotondella c’è un centro nucleare che non produce nulla; c’è il fatto che i bidoni radioattivi in Somalia arrivano e ci sono, ma nessuno è stato trovato sepolto in Basilicata.
E poi c’è Scanzano Jonico.
Scanzano Jonico
Nel 2003 questo paese, che si affaccia sul golfo di Taranto, viene scelto come sede del deposito nazionale dei rifiuti nucleari. È una decisione brusca, improvvisa del tutto immotivata, portata avanti da Carlo Jean, il padrone della SOGIN dell’epoca e il sindaco di Scanzano, Mario Altieri, personaggino tutto pepe che sarà arrestato per brogli elettorali. Il tutto sotto l’egida del governo, il secondo di Silvio Berlusconi.Tutti sanno come sono andate le cose: i cittadini insorgono e il decreto viene ritirato.
La domanda, tuttavia, rimane: perché proprio Scanzano e perché tutta quella fretta? Perché un uomo come Jean, vicino agli affari del SISMI (i servizi segreti italiani), vuole assolutamente Scanzano e non altri luoghi?
E c’è ancora dell’altro. Nel decreto di archiviazione dell’inchiesta di Potenza si leggono alcuni passaggi davvero particolari e strani. Ad esempio quando si parla dei segnali “non molto confortanti riscontrati in occasione delle verifiche investigative che avrebbero dovuto essere condotte da parte del comando Carabinieri per la tutela ambientale e che, al contrario, non hanno avuto svolgimento nei termini che vanno ad esplicare.” A questo punto siamo davvero curiosi e cerchiamo di capire meglio.
Si trattava di verificare se le dichiarazioni del pentito Fonti, che aveva indicato grossomodo le aree dove erano stati sepolti i bidoni in Basilicata, erano vere o no. Per farlo, dopo aver inutilmente scavato in una zona “più calda” si è ricorsi ad un’analisi particolare che andava fatta con aerei dotati di strumentazione sofisticata in grado di individuare terreni più caldi e meno caldi. Se, sotto una certa zona, ci sono bidoni radioattivi, non sarà difficile individuare la zona più calda. Ma non si ottiene nulla. Sfortuna? Bugie di Fonti?
In realtà, leggendo il verbale di archiviazione, si scopre che quei voli non sono mai stati effettuati. Perché? Perché i soldi destinati a quell’indagine sono dirottati a risolvere l’emergenza rifiuti napoletana (siamo nel 2008) e perché la Basilicata viene semplicemente esclusa dalla lista delle regioni che di quel tipo di fondi avrebbero potuto disporre tra il 2007 e il 2013.
I magistrati non si arrendono e si rivolgono a chiunque possa fare qualcosa, le amministrazioni locali, l’ARPA, ma nessuno si prende la briga di fare un passo che sia uno.
Niente da fare dunque. Eppure un’ultima possibilità c’è: si chiama Eugenio Tabet è un professore, esperto in materia nucleare, uno di quelli che hanno partecipato alla commissione incaricata di stilare un elenco dei siti dove piazzare il famoso deposito nazionale delle scorie. E succede una cosa piuttosto strana. Alla SOGIN, responsabile dello smaltimento delle scorie, viene dato l’incarico di individuare il posto del sito PRIMA che la commissione termini i suoi lavori. E ancora più strano è che la SOGIN individui con una rapidità sorprendente Scanzano Jonico come il luogo più indicato.
Ci sono altre intercettazioni che svelano particolari da orrore. Ci sono due personaggi minori in questa storia che si chiamano Agostino Massi e Gaetano Trezza. Il primo è responsabile del supporto informatico dell’ENEA, il secondo un chimico che ha lavorato per la stessa ENEA. Dopo le dichiarazioni molto soft agli inquirenti vengono beccati più volte a chiacchierare tra loro, parlando dei bidoni radioattivi che erano stati sepolti sotto la mensa del sito. Rendendosi conto che un’indagine sta procedendo, i due a loro volta si incontrano con altri protagonisti e parlano di fustini prelevati dalla Trisaia, il centro ENEA, e portati a Casaccia, altro centro ENEA nei pressi di Roma e di qualcosa da nascondere con questi traslochi di materiale estremamente pericoloso.
Nonostante tutte queste indagini e un mare di indizi, nessuna prova conferma la presenza di materiale radioattivo sepolto da qualche parte in Basilicata. E l’indagine piano piano si arena fino alla sua definitiva chiusura il 27 ottobre 2009.
E’ interessante leggere il verbale dell’archiviazione:
“E’ oggettivamente quasi impossibile ricostruire cosa i vari organi, i tecnici e i soggetti titolari della politica del nucleare abbiano fatto all’interno del centro Trisaia nel corso degli anni, considerando che le lavorazioni nel campo nucleare sono state dal principio un po’ pionieristiche, le misure di sicurezza utilizzare erano spartane e le conseguenza degli errori dell’uomo erano imprevedibili.”
E conclude con:
“coloro che virtualmente potevano essere a conoscenza di fatti e circostanze a suffragio dell’ipotesi investigativa non hanno inteso fornire alcun contributo o per timore di ritorsioni da parte di alcuno o perché le loro conoscenze erano e sono solo millantate”.
Ma le scorie restano e con loro i pericoli di contaminazione.
E adesso?
Il referendum del 12-13 giugno 2011 ha sancito – così almeno speriamo – la fine di ogni inserimento del nucleare nella politica energetica del nostro paese. Gli italiani hanno detto con grande fermezza: “non lo vogliamo!”.
Tuttavia il nucleare italiano non è ancora morto. I paesi e le città devono ancora temere l’ultimo colpo di coda: lo stoccaggio delle scorie. Siccome siamo tutti umani la domanda che ci facciamo è “dove verrà realizzato il sito di stoccaggio nazionale?”.
Tra le molte opzioni c’è ancora la Basilicata, ancora vicino a Rotondella, vicino ai misteri di tanti anni in cui il nucleare si è mescolato alla vendita di armi e di combustibili nucleari da parte dell’Italia a paesi che oggi visitiamo solo coi carri armati e gli aerei di guerra.
Una brutta storia.
Altro scandalo, sempre Basilicata
Il 10 marzo 2021 l’ENI (Ente Nazionale Idrocarburi), è stata condannata in primo grado per traffico illecito di rifiuti. Ricordo che ENI è una società per azioni, controllata dallo Stato, attraverso il Ministero dell’economia e delle finanze, che a sua volta controlla la Cassa Depositi e Prestiti, che è il maggior azionista di ENI.Per arrivare a questa condanna bisogna però ripercorrere tutta la storia, che si svolge, indovinate un po’? … Già proprio in Basilicata.
Ci sono 7 persone condannate, una multa amministrativa di 700 mila euro e la confisca di circa 45 milioni, da cui sono sottratti quelli che sono stati spesi da ENI per rimediare al danno fatto.
L’inchiesta parte nel 2014 e porterà, tra le altre cose, due anni più tardi, alle dimissioni del ministro per lo sviluppo economico, Federica Guidi, nel governo presieduto da Matteo Renzi. La colpa della Guidi è stata quella di avvertire il compagno, Gianluca Gemelli, indagato nella stessa inchiesta, di opportunità economiche offerte da una legge che il governo Renzi stava per varare.
Anche questa vicenda è piuttosto intricata, per cui bisogna, come sempre, partire dall’inizio. E l’inizio è, ancora una volta, in Basilicata. Più precisamente a Viggiano, nel cuore della Lucania in provincia di Potenza e a Corleto Perticara, piccolo comune nell’alta val del Sauro, dove si trovano due giacimenti petroliferi. A Viggiano c’è il Centro Olio dell’ENI, a Corleto il progetto Tempa Rossa della francese TOTAL.
Entrambe queste attività sono finite sotto inchiesta nel 2014, provocando l’arresto di 7 persone, all’indagine su altre 60 persone e, come ricordato, alle dimissioni del ministro Federica Guidi.
Tra le ipotesi di reato anche quella di disastro ambientale.
La prima inchiesta
A muovere le acque è stato il gip del Tribunale di Potenza, Tiziana Petrocelli, ma sono state successivamente coinvolte le procure di mezza Italia, coordinate, addirittura, dalla Direzione nazionale antimafia. Il Procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti, non ha dubbi al riguardo, quando afferma che: “Siamo di fronte a una organizzazione criminale di stampo mafioso, organizzata su base imprenditoriale.” Sono emersi presunti coinvolgimenti di altissime sfere, come il capo di stato maggiore della marina.Cerchiamo qui di seguire l’inchiesta, che è divisa in due filoni, ed è sicuramente la parte più interessante di questo racconto.
Partiamo da Viggiano, in Val d’Agri, dove l’ENI estrae all’incirca 100 mila barili di greggio al giorno. Questo ovviamente non è un reato, lo è invece lo smaltimento illecito di rifiuti industriali, su cui comincia ad indagare il Nucleo Operativo Ecologico dei Carabinieri.
Tra le varie attività sotto investigazione anche quella di aver ributtato nel pozzo le acque di strato derivate dalle attività produttive, senza prima trattarle adeguatamente. Come è facile capire c’è il rischio di inquinamento dei terreni sottostanti e delle falde d’acqua.
Per smaltire rifiuti in modo illecito è necessario avere dei complici. Tra questi l’azienda Tecnoparco di Pisticci Scalo, 50 km a Nord di Rotondella, sempre in provincia di Matera. L’accusa è quella di aver fatto passare per “normali” dei rifiuti pericolosi, perché così la spesa dello smaltimento è decisamente inferiore, ma il rischio di inquinamento decisamente maggiore.
È chiaro che avere giacimenti petroliferi nel nostro paese, per come la struttura economico-produttiva è impostata, è importante. Ma varrebbe la pena di capire anche se è vantaggioso. Questo significa che si dovrebbe cercare di capire che benefici ha portato al territorio, quali costi e impatti negativi in termini sanitari e ambientali ha prodotto. E quali introiti ha negato all’economia locale in campo turistico e agricolo.
Tutte questioni che non hanno mai suscitato uno straccio di dibattito, in nome, come sempre, del progresso a tutti i costi.
Dopo aver negato con ostinazione, l’ENI di Claudio Descalzi (inquisito e condannato anche per altri reati, tra i quali la corruzione), finalmente ammette che sono state sversate 400 tonnellate di petrolio, inquinando un’area di circa 6 mila metri quadri.
Va tenuto presente che la contaminazione avviene a meno di due km dalla diga del Pertusillo, un bacino idrico che fornisce acqua anche alla Puglia.
Oltre al danno economico, anche a carico della regione e quindi dei cittadini, uno studio del CNR, condotto dal professor Fabrizio Bianchi, ha stimato che nella zona del Centro Oli si muore di più e ci si ammala di più, per alcune patologie, sia rispetto al resto della valle, che della regione. Secondo questo studio, i risultati mostrano che la causa di tutto questo è proprio l’inquinamento prodotto dal Centro Oli di Viggiano.
Nel 2016, all’Università di Padova viene effettuato uno studio intitolato “Petrolio e biodiversità in Val d’Agri – Linee guida per la valutazione di impatto ambientale di attività petrolifere onshore”, curata da Alberto Diantini. La cosa più curiosa di questo lavoro è che non fornisce conclusioni, non per cattiva volontà, ma perché, come dice il testo, “per buona parte degli impianti di estrazione presenti non sono disponibili gli Studi di Impatto Ambientale”, il che ha reso impossibile un controllo adeguato. Lo studio si basa quindi su fotografie e vedute dall’esterno, che lo rende, in ultima analisi, non esaustivo, per usare un termine contenuto nello stesso documento. Un’altra segnalazione importante è “la sostanziale mancanza di trasparenza da parte di molte pubbliche amministrazioni contattate in merito e il generale disinteresse manifestato da Eni nei confronti della richiesta di informazioni.”
La seconda inchiesta
Il secondo filone d’inchiesta coinvolge invece la Total e l’altro giacimento, quello di Tempa Rossa. È proprio durante questa inchiesta che si dimette il ministro Guidi. Il motivo è che il suo compagno d’allora, Gianluca Gemelli, imprenditore e commissario di Confindustria Siracusa, approfitta della convivenza con il ministro e delle informazioni che da questo riceve, per presentarsi alla Total per ottenere le qualifiche necessarie per diventare un fornitore ufficiale e, leggiamo dalla disposizione dell’inchiesta, “partecipare alle gare di progettazione ed esecuzione dei lavori per l’impianto estrattivo di Tempa Rossa”.Oltre ai vertici Total, restano coinvolti anche amministratori locali, come il sindaco di Corleto, Rosaria Vicino, accusata di corruzione per aver chiesto e ottenuto assunzioni varie.
Total non è nuova nelle aule dei tribunali italiani. Forse qualcuno ricorderà il pubblico ministero John Woodcook, che aveva fatto condannare i vertici della Total per un giro di tangenti.
Tempa Rossa è un grosso investimento. Si parla di circa 1,6 miliardi di euro, molti dei quali coperti con l’intervento del CIPE, (Comitato interministeriale programmazione economica) che non usa certo i risparmi della nonna, con un esborso di 1,3 miliardi di euro.
Questo intervento dello stato è giustificato dall’essere un progetto strategico. Infatti il greggio estratto in Basilicata viaggia verso Taranto, dove viene stoccato e riversato agli impianti di raffinazione.
Le due indagini portano ai risultati già ricordati: la condanna di Eni.
Ruggero Gheller, Nicola Allegro, Luca Bagatti, Enrico Trovato, Roberta Angelini e Vincenzo Lisandrelli, figure apicali dell’azienda nella gestione dell’impianto in Val d’Agri, e l’ex dipendente della regione Basilicata, Salvatore Lambiase, sono stati condannati a pene detentive fino a due anni. L’Eni e i sette imputati dovranno risarcire i danni, patrimoniali e non, alle 278 parti civili riconosciute nel procedimento. Sono stati invece 27 gli imputati assolti.
C’è un risultato importante, al di là della condanna. Che perfino la televisione di stato ha dovuto dare la notizia nei telegiornali della sera. Cosa che di solito non avviene per la Basilicata, la regione meno popolata e più povera d’Italia, perché tanto non interessa a nessuno.
Ovviamente l’ENI non si è arresa, contestando a più riprese i documenti prodotti, come la Valutazione di Impatto Sanitario, che segnalava le anomalie di morti e ammalati nella zona. Sappiamo che i potenti non guardano in faccia nessuno. È accaduto a Giuseppe Di Bello, tenente di polizia provinciale, che aveva denunciato l’inquinamento all’invaso del Petrusillo. Viene spedito a fare il custode al museo di Potenza. O alla professoressa universitaria Albina Colella, citata per diffamazione dall’Eni per ben cinque milioni di euro in merito a uno studio svolto sull’inquinamento delle acque a ridosso del pozzo petrolifero Costa Molina 2. Causa che l’Eni ha perso, subendo a sua volta una condanna per lite temeraria.
È andata peggio, molto peggio, a Gianluca Griffa, ex responsabile del Centro Olio di Val d’Agri, trovato morto, suicida, in un bosco del Piemonte. In un memoriale aveva raccontato buona parte di quanto i pubblici ministeri di Potenza hanno poi ricostruito nell’inchiesta che ha portato al procedimento per disastro ambientale.
Certo, si tratta solo di una condanna di primo grado, alla quale farà sicuramente seguito un appello. Ma non possiamo dimenticare che ci sarà anche un altro processo, per quelle 400 tonnellate di petrolio sversato e qui l’accusa sarà di disastro ambientale. E alla sbarra ci sarà di nuovo l’ENI e alcuni dei manager appena condannati.
Insomma la storia è appena cominciata. Alla Basilicata e a noi tutti non resta che aspettare.
I danni fatti al popolo difficilmente si possono ripagare. La condanna di ENI, nel processo di primo grado, non può suonare come consolazione per un paese in cui dove ti giri non vedi altro che truffatori, delinquenti, amministratori incapaci … di essere semplicemente onesti.