Introduzione

La storia che sto per raccontarvi fa parte della cronaca nera, anche se qualcuno ha sussurrato che dietro i protagonisti della vicenda poteva esserci la mafia e che le indagini sono state un tantino strane.
La vicenda è quella di una banda di criminali che ha terrorizzato l’Italia, in particolare l’Emilia Romagna, con un centinaio di rapine e decine di morti ammazzati. L’hanno chiamata la banda della Uno bianca, perché questa è l’automobile usata per la maggior parte delle azioni criminose.
unobianca01Le fonti sono, anche qui, molte e alcune particolarmente interessanti. Ad esempio la puntata di Blu notte che Lucarelli ha dedicato alla vicenda e, voglio sottolinearlo in particolare, perché è quello che ho seguito di più, “Gli infedeli”, il libro di Carmelo Pecora, un poliziotto in pensione, che, proprio per questo e per essere stato in servizio nella stessa zona della banda, ha vissuto in maniera sentita tutta la storia. Un libro che forse non merita il premio Bancarella, ma che racconta con precisione quasi maniacale i fatti, i retroscena e tutto il resto. Da leggere!
La Uno bianca in realtà appare in alcune delle rapine. E' una macchina molto diffusa negli anni in cui la nostra storia si sviluppa, il decennio a cavallo del 1990. Quindi facile da rubare e difficile da identificare. Nei primi tempi, però, viene utilizzata una Regata con targa falsa, di proprietà di uno dei componenti la banda. Questi sono, all’inizio, tre fratelli, i fratelli Savi: Roberto, Fabio e Alberto.
Cominciamo con il fare la loro conoscenza, poi racconteremo la storia della banda, delle rapine compiute, 103 per la precisione con 24 morti e 102 feriti. E poi la storia del loro arresto, del processo e delle condanne.
Prima di cominciare, va sottolineato che la peculiarità di questa vicenda, che potrebbe sembrare abbastanza comune, è il fatto che la maggior parte dei banditi, hanno come lavoro quello di fare i poliziotti. E quindi si fa fatica a pensare ad una lotta tra guardie e ladri, visto che i ruoli si sovrappongono e coincidono.
Prima di conoscere i protagonisti parliamo del loro padre, Giuliano, un fascista a tutto tondo, che organizza squadracce a caccia di ebrei. Quando lui e i suoi compari li trovano, li rasano a zero e disegnano con il catrame bollente delle croci sulle loro teste, così che su quel segno non crescano più i capelli. Uno, il padre, che, a tavola, non finisce mai di dire che negri e zingari vanno ammazzati senza pietà. Ecco, in questo ambiente crescono i tre fratelli, Roberto, Fabio e Alberto, in ordine di età. Il padre muore suicida nel 1998 ingoiando sette scatole di Tavor a bordo, e non sembra proprio una coincidenza, di una Uno bianca.

Roberto Savi

E’ del 1954, da giovane si iscrive al Fronte della Gioventù, l’organizzazione giovanile del Movimento Sociale, il partito neofascista di Almirante. A 22 anni entra in polizia e prende servizio a Bologna. Quando inizia  l’attività criminosa della banda ha 33 anni ed è un operatore in volante. Nel 1992 arresta un ragazzo con un po’ di sostanze stupefacenti. Lo porta in centrale e lo rade a zero per punizione preventiva. Questo gesto gli procura un trasferimento alla centrale operativa per cause disciplinari. Viene arrestato il 21 novembre 1994. Durante il processo è glacialw, calmissimo. Racconta i fatti, terribili, come se fossero stati compiuti da altri, Nessuna apparente emozione.

Fabio Savi

unobianca01E’ il fratello di mezzo, nato nel 1960 e l ‘unico della banda a non essere un poliziotto. Aveva fatto richiesta, a suo tempo, ma un difetto alla vista lo aveva escluso. Di lavoro fa il carrozziere. E’ probabilmente il più spietato del gruppo, quello che si scalda più facilmente, quello che mette mano alle armi più velocemente. Ha una collezione imponente di armi di ogni genere, un vero appassionato. Viene arrestato poco dopo il fratello Roberto dalle parti di Tolmezzo, in Friuli, mentre tenta di passare il confine con l’Austria.

Alberto Savi

E’ il più piccolo dei tre fratelli, essendo nato nel 1965. Quando comincia l’attività della banda ha appena 19 anni. Il suo carattere debole subisce l’influenza dei fratelli, che in quanto ad aggressività, sicurezza e volontà ne hanno da vendere. E’ Alberto il primo ad uccidere, a fare la prima delle 24 vittime della banda. Condannato all’ergastolo è l’unico ad usufruire di un permesso nel 2017 per assistere la madre ammalata gravemente.
La banda ha altri componenti, che incontreremo mano a mano raccontando la storia di questi gaglioffi. Va anche anticipato che il nome “banda della Uno bianca” è il terzo in ordine di tempo assegnato a questi banditi. Come vedremo prima si chiameranno in altro modo o per la macchina usata (una regata di Alberto) o per gli obiettivi (le COOP della zona). Ma adesso è ora di cominciare a conoscere i fatti, quelli che in poco più di un’ora riusciamo a raccontare, perché la cronaca delle 103 rapine porterebbe via molto più tempo. (71)

La banda della Regata fantasma

La storia comincia un venerdì notte poco dopo le 23. E’ il 19 giugno 1987 e al casello di Pesaro della A14 si ferma una Regata scura, si ferma. Scendono tre individui con il volto coperto da passamontagna, portano occhiali scuri e in mano hanno un apistola semiautomatica. Vogliono l’incasso: un milione e trecentomila lire. Fila tutto liscio. E’ buio, non ci sono telecamere di sorveglianza, l’azione è rapidissima. Il casellante racconta alla polizia quel poco che ha potuto vedere, troppo poco per individuare i colpevoli, che si dileguano nella notte attraverso le stradine della zona.
E’ la prima rapina della storia che sto per raccontarvi.
Seguono, in due mesi, altre tre rapine, sempre ai caselli, sempre con la stessa tecnica. Tocca a Cesena, ad Ancona e poi al casello San Lazzaro di Savena, alle porte di Bologna. Diventano “la banda della Regata fantasma”. Arrivano e si dileguano rapidamente, come, appunto, dei fantasmi. I bottini sono sempre di taglia piuttosto contenuta: due milioni, tre e mezzo a Bologna. Il bottino più grosso arriva alla quinta rapina a Rimini Nord in piena stagione turistica: sei milioni e mezzo. Mai visti tanti soldi tutti assieme.
Si deve tenere conto del periodo: un operaio guadagna poco più di 600 mila lire, un caffè al bar ne costa 400.
Il 31 agosto poco prima delle sette si presentano al casello di San Lazzaro, che conoscono bene. Intimano al casellante di dar loro l’incasso. Questi li avvisa di avere solo pochi spiccioli. Fabio crede che lo prenda in giro e gli spara ad una gamba. E’ il primo proiettile, il primo ferito, la prima rapina senza esito in quanto i tre risalgono in macchina senza soldi e spariscono nel nulla.
E’ un salto di livello. Usare le armi, creare terrore vuol dire sentirsi più forti, invincibili. Dopo un paio di altre esibizioni, si calmano. Hanno racimolato soldi che per un po’ bastano, ma si rendono conto anche che è ora di aumentare le proprie ambizioni. Il prossimo passo saranno le estorsioni.
A Rimini, Savino Grossi, possiede un autosalone. Uno di loro lo conosce. L’azione è di tipo mafioso. Sparano contro la vetrina mandandola in frantumi, poi telefonano con voce unobianca01camuffata, dicendo di chiamarsi Picone e chiedendo trenta milioni per essere lasciato in pace. Grossi pensa ad uno scherzo, ripara il danno e continua la sua attività. Ma, pochi giorni dopo, la vicenda si ripete: uno sparo distrugge la vetrata, Picone richiama, questa volta con minacce più gravi. Grossi non ci pensa due volte e si rivolge alla polizia.
La consegna del denaro deve avvenire in modo rocambolesco: lungo l’autostrada A14. Grossi dovrà fare attenzione ai cavalcavia. Dovrà fermarsi a quello dal quale pende una lunga corda, attaccarci la borsa coi soldi e continuare la sua corsa. Nel suo bagagliaio c’è il poliziotto Luigino Cenci, dietro di lui ci sono tre pattuglie della polizia. Quando arriva al punto scelto dai Savi, si ferma e aspetta. I fratelli si fanno impazienti e gli urlano di attaccare la borsa, non è un’operazione così difficile. Intanto arrivano i poliziotti, che si fermano e scendono dall’auto. Dal cavalcavia arriva un diluvio di proiettili. I poliziotti sono sorpresi per la reazione così esagerata per un bottino di appena trenta milioni e rispondono al fuoco. I fratelli salgono sull’Alfetta 2000 di Fabio con targhe false e si dileguano nelle campagne romagnole.
Ci sono tre feriti: Luigino Cenci e Addolorata Di Campi e poi quello più grave, il sovrintendente Antonio Mosca, che dirige quella operazione. Uno dei cinque proiettili che lo colpisce è nella testa. Morirà qualche mese dopo per un tumore al cervello.
La vicenda è andata così male che la banda decide di cambiare obiettivo. Le prossime rapine saranno a danno delle Coop della zona, assalendo il blindato che ritira i soldi per portarli in banca. Dopo Natale del 1988 sono a Celle di Rimini. Il furgone è scortato da due guardie giurate, alla guida c’è Giampiero Picello. Loro i soldi non li vogliono lasciare e oppongono resistenza. E’ Alberto, il piccolo, a sparare. Picello cade in un lago di sangue. Mostrando poco controllo i tre cominciano a sparare all’impazzata e feriscono sei persone, tra cui una bambina di nove anni. Poi scappano, senza i soldi. A terra rimangono sette feriti e un morto, Giampiero Picello, il primo di questa storia, ammazzato da Alberto Savi. E’ il 30 gennaio 1988. Qui la storia della banda cambia di colpo.
Roberto, capo indiscusso, decide che c’è bisogno di forze fresche e comincia ad invitare a casa due giovani colleghi che gli sono stati affidati: Marino Occhipinti e Luca Valicelli. unobianca01Piano piano li convince a far parte della banda. Alla fine li invoglia a comprare un fucile come il suo, un fucile d’assalto AR70, potente e bellissimo. Si parte da un casello, per completare la formazione dei novellini. Alberto, ancora scosso dall’aver ammazzato la guardia giurata, non partecipa. Fila tutto liscio al solito casello di San Lazzaro. Il bottino è di quattro milioni e i novellini si comportano alla grande. Ma Luca Valicelli si chiama subito fuori. Quelle cose non fanno per lui. Terrà la bocca chiusa, ma non ci vuole più entrare e nemmeno essere di turno assieme a Roberto Savi. Questi accetta senza troppi problemi. Luca non tradirà mai, Quando verrà arrestato patteggerà tre anni e otto mesi. Oggi è un uomo libero anche se, ovviamente, destituito dalla polizia.
L’altro agente invece rimane e partecipa con Roberto e Fabio alla prossima impresa, la Coop di Casalvecchio di Reno. La tecnica è collaudata. Le guardie giurate, capita l’antifona, tolgono dalla cassaforte un sacchetto vuoti invece di quello coi soldi. Al primo accenno di reazione, Fabio scarica il suo fucile a pallini sui malcapitati. Poco male: i loro giubbetti antiproiettile servono a bloccarli. Ma il novellino si è portato l’AR70 e quando spara non c’è scampo. Uccide Carlo Beccari, 22 anni, padre di una bimba. Anche Marino Occhipinti ha 22 anni, anche lui è sposato e ha due figli, ma lui è vivo ed è un assassino. I soldi restano in cassaforte e la banda scappa.

I carabinieri

Il 20 aprile 1988 i due Savi, Roberto e Fabio, sono appostati in una uno bianca rubata vicino alla Coop di Castel Maggiore, per studiare i movimenti. Arriva un’auto con due carabinieri, che si accorgono dei fratelli e li illuminano con il faro in dotazione. Fabio si innervosisce, ma Roberto si presenta con il tesserino di poliziotto. Sono colleghi: ti puoi fidare dei colleghi, pensano i carabinieri. Ma i due banditi li ammazzano a sangue freddo. Poi recuperano l’auto pulita e se ne vanno. Gli omicidi cominciano a diventare molti, ma ammazzare i carabinieri non è uno scherzo. Probabilmente stavolta nasceranno dei guai. I nomi dei caduti sono Cataldo Stati e Umberto Erriu.
E’ il brigadiere Domenico Macauda a incaricarsi delle indagini e a dichiarare con enfasi che quei bastardi verranno presto presi.
Poco dopo fa arrestare una intera famiglia, la famiglia Testori, perché in casa loro sono stati trovati bossoli della stessa arma che ha ucciso i due colleghi. Poco importa che le impronte digitali all’interno della Uno bianca non coincidano minimamente con quelle dei Testori. Nell’abitazione di questi si trovano dosi di eroina, elenchi con contatti di malavitosi della zona e perfino un giornale che parla dell’assassinio di Stasi ed Erriu. La prova conclusiva è che quella famiglia è di sinistra e questo basta e avanza per chiudere il caso.
Passa poco più di un mese e i Testori vengono rilasciati, mentre Macauda finisce dentro per depistaggio delle indagini. Le prove sono false, inventate e costruite ad arte, compresi legami con la mafia catanese e con spacciatori di droga.
Viene condannato a otto anni di carcere, ma nessuno cerca di scoprire se il brigadiere ha cercato di coprire qualcuno. Sulle giustificazioni di Macauda, un tentativo per fare carriera più velocemente, ci sono un miliardo di dubbi mai chiariti.
Le stesse tecniche usate dal brigadiere lascino perplessi, pensando al fatto che si muove assieme ai colleghi e riesce a disseminare prove false ovunque. Ad ogni modo tutto sembra chiudersi qui. Ma non è così, perché salta fuori un testimone, un informatore della polizia, Paolo Steriti, detenuto in semilibertà, che dichiara di aver visto l’auto pulita dei due, uno molto più alto dell’altro (l’alto è Fabio, quello più basso Roberto): E’ sicuro: si tratta di  un’Alfetta 2000 scura con una targa di Forlì che comincia per 54 o 64.
Una pista, finalmente, e una pista buona. Quante Alfette 2000 scure con targa 54 o 64 vuoi che ci siano in circolazione nella zona? L’ispettore al quale Steriti si rivolge va dal capo della Omicidi. Ma questi dice che senza la targa non si può procedere. Perché?
Ma l’informatore spiffera tutto anche ai carabinieri, che saranno più interessati, visto che a morire sono stati due dei loro. Questi fanno le loro ricerche. C’è un’alfetta dell’84 targata FO566488 intestata ad un certo Fabio Savi …
Ma Steriti viene arrestato, accusato di omicidio e le indagini si fermano qui, almeno per il momento.
unobianca01La seconda parte del 1988 porta parecchio denaro in cassa della banda. Rapine alle Coop sostanziose, decine di milioni di bottino. Nasce una nuova immagine, quella della “banda delle Coop”. I vertici investigativi si riuniscono per fare il punto. Sono convinti che si tratti di malavitosi locali con addentellati nel Sud, in Calabria o Sicilia. Del resto Fabio, durante le rapine, parla con accenti strani. I primi sei mesi del 1989 non succede nulla da parte della banda, ma succede molto da parte degli inquirenti. Arrestano 9 persone, vengono emessi ordini di cattura per due già in carcere, tra i quali l’informatore Steriti e due latitanti. Gli inquirenti gongolano: la banda delle coop è in galera; le prove sono schiaccianti e inconfutabili.
Poi, il 24 giugno ecco l’assalto ad un’altra coop, a Bologna in via Gorkij. La tecnica è sempre la stessa, la ferocia anche. Le guardie giurate vengono solo ferite, ma mentre scappano incontrano un pensionato che passa di là per caso. Forse li guarda troppo e il solito AR70 gli tronca la vita. Si chiamava Adolfino Alessandri.
Arriviamo così all’inizio del 1990, quando entra in scena un nuovo personaggio, anch’egli poliziotto della sala operativa di Bologna, arruolato da Roberto. E’ siciliano, si chiama Pietro Gugliotta e viene messo alla prova il 2 di gennaio. Nessuna rapina stavolta. Il movente non sono i soldi, ma l’odio razziale dei Savi. La prova per Pietro è quella di sparare al primo negro che incontrano. Cosa che avviene puntualmente. Un lavavetri nigeriano crolla sotto una raffica di colpi. Per fortuna solo 4 vanno a segno; può essere soccorso e continua a vivere.
E’ da questo momento che l’auto usata sarà sempre una Uno bianca o comunque chiara ed è qui che nasce la leggenda della “banda della Uno bianca”. Durerà altri 4 anni, 4 anni di sangue e terrore che sono perfino difficili da descrivere, tante sono le azioni compiute. Ricordo solo quelle più eclatanti, per capire di che pasta i Savi e il loro socio siciliano sono fatti.
Nell’estate del ‘90 ci sono una decina di rapine tra caselli e distributori di benzina, In uno di questi, il 10 agosto a Cesenatico, mentre una folla di turisti affolla le strade del paese, sulla statale si compie un omicidio di una brutalità assurda. Il benzinaio ha solo un milione e mezzo di incasso. Troppo poco. Gli sparano semplicemente perché sono arrabbiati, perché si sentono onnipotenti, perché ci prendono gusto a fare del male.
Succede altre volte con morti, ammazzati solo perché i soldi sono pochi o perché hanno assistito alla scena e potrebbero parlare. C’è una brutalità e un disinteresse alla vita di quelle persone che fa rabbrividire. Sono dei mostri … e sono poliziotti.
Poi avviene uno dei fatti più gravi dell’epopea della Uno bianca. E’ preceduto da avvisaglie chiare, ma di questo parleremo dopo una breve pausa.

Assassini razzisti

Abbiamo visto prima che l’ambiente famigliare dei Savi non era proprio di quelli democratici di accoglienza degli stranieri. In particolare l’odio razziale si rivolge a "negri e zingari, che vanno ammazzati senza troppi problemi". Ecco dunque un altro capitolo delle imprese della banda della Uno bianca. Con effetti collaterali imprevisti e davvero terribili.
Si comincia a Santa Caterina di Quarto, periferia di Bologna. C’è un campo nomadi e la banda, appostata intorno al perimetro apre un fuoco micidiale in ogni direzione. Ci sono alla fine sette feriti, ma nessun morto per fortuna. L’azione è probabilmente fatta per depistare le indagini e far andare gli inquirenti in direzioni diverse da quelle della banda delle coop. Un pregiudicato del quartiere del Pilastro, Davide Santagata, è sospettato dell’episodio, anche se polizia e carabinieri hanno idee molto distanti ra loro e seguono, ciascuno, una pista diversa.
Si arriva così al 19 dicembre, quando una Uno grigia appare davanti ad una discoteca, frequentata da immigrati. I Savi aprono il fuoco e uccidono Fathi Ben Massen, tunisino. Ci sono altri sette feriti: uno di loro è italiano. Ed infine eccoli di nuovo in un campo nomadi. Questa volta scendono, armi in pugno e uccidono due persone, un uomo e una donna, feriscono una bambina di 4 anni e una donna slava. Poi se ne vanno. Ma qui commettono un errore. Roberto era stato, in divisa assieme al siciliano, proprio in quel campo per dei controlli. Quando arriva la polizia, viene presa malissimo. Era un poliziotto quello, lo abbiamo riconosciuto, è già stato qui.
Ma nessuno crede agli zingari e la segnalazione non viene nemmeno raccolta.
L’anno si chiude con un’altra rapina ad un benzinaio, che viene ferito gravemente senza motivo. Due testimoni vengono ammazzati senza alcuna pietà. E’ Natale, un Natale di sangue e di tragedia per le famiglie delle vittime.

Il massaccro del Pilastro

Il 1991 comincia nel modo più drammatico possibile.unobianca01
I tre fratelli stanno andando a San Lazzaro di Savena; attraversano il quartiere del Pilastro, estrema periferia della città. Sono su una Uno bianca rubata. Non c’è una rapina da fare, forse cercano un’altra auto da rubare o qualche negro a cui sparare. Dalla centrale di polizia di Bologna arriva l’avviso che al Pilastro c’è una macchina con uno spacciatore. Arriva una volante e prepara un posto di blocco. La Uno non viene fermata. Sono colleghi, si salutano cordialmente. La macchina sospetta verrà fermata e perquisita più volte prima di trovare un po’ di droga al terzo tentativo. Chissà se quel sacchettino ce l’ha davvero messa il poveraccio che si portano in questura.
Niente di che dunque, i tre Savi proseguono; quando sono in via Savini arriva una Uno blu dei carabinieri che li affianca. Ci sono tre ragazzi dentro, hanno trutti tra i 20 e i 22 anni: Mauro Mitilini, Andrea Moneta e Otello Stefanini. Quasi per abitudine guardano dentro l’auto, la superano, poi rallentano. Per i banditi è un segnale. Probabilmente li stanno identificando, hanno preso il numero di targa, si accorgeranno che è rubata. In un attimo decidono che devono morire. Dalla Uno bianca parte una quantità impressionante di colpi: pistole e il solito maledetto AR70. Due dei carabinieri muoiono nell’auto, il terzo riesce ad uscire e implorare pietà. Ma Roberto è stato ferito all’addome e lo uccide. Viene dato loro il colpo di grazia alla nuca. Poi raccolgono il foglio di servizio e se ne vanno. In terra c’è un tappeto di bossoli, di bossoli particolari, come vedremo più avanti. E’ questo che succede quel 4 gennaio 1991, è questo il massacro del Pilastro.
Roberto, ferito, viene curato dal fratello Fabio, ma non torna a casa nonostante si stia festeggiando il compleanno di suo figlio. Il giorno dopo è puntualmente presente al lavoro. La stessa mattina arriva una rivendicazione di un gruppo che si fa chiamare “Falange Armata”. Le indagini così prendono il largo.
Ma finalmente ci si concentra sulle armi, in particolare su quel fucile d’assalto, che non è che ce ne siano tanti in giro. Si trovano i proprietari, tra i quali anche Roberto Savi. Lui però è furbo: compra un fucile identico e si presenta con quello al comando. E’ pulito, non è quello che ha sparato al Pilastro.
 Nell’elenco ci sono altri due poliziotti; Luca Vallicelli e Marino Occhipinti, ma sono poliziotti anche loro, brave persone. E tutto si ferma là. Non si sa bene da dove esce la notizia che in quella zona si aggiravano personaggi poco raccomandabili meridionali: siciliani o calabresi. Gli inquirenti arrestano un po’ di questi pregiudicati convinti di aver messo fine all’incubo di quella banda. Del resto Roberto e il siciliano erano stati in vacanza in Sicilia e avevano lasciato laggiù, apposta alcuni assegni rubati. 
Nonostante gli arresti, le rapine continuano e continuano anche i morti. Nel maggio del ‘91 la banda dei Savi rapina l’armeria dove Roberto di rifornisce. Uccidono a sangue freddo la proprietaria e un amico di lei, presente in negozio. Questa volta però qualcuno li nota e, per la prima volta, si fanno degli identikit. Uno assomiglia a Roberto, due non assomigliano a nessuno, il quarto somiglia a Pietro Gugliotta.
unobianca01Molte rapine di quell’anno finiscono male per i malcapitati bersagli della banda. In agosto un altro massacro di stampo razzista. Davanti alla loro Uno bianca ce n’è una scura targata Como. A bordo ci sono tre ragazzi senegalesi, in regola con tutti i permessi. Lavorano in Lombardia e sono venuti in Romagna a trovare degli amici, ma sono negri e quindi possono essere fatti fuori solo per sfizio. Così affiancano la Uno scura e cominciano a sparare all’impazzata. Il guidatore viene colpito e la macchina finisce la sua corsa contro il guard rail. I Savi continuano il loro viaggio. Ma dietro di loro c’è un’altra auto, con una coppia di giovani che hanno visto tutto. Seguono la Uno bianca fino a riuscire a leggere la targa, poi tornano indietro e … qui uno si aspetta che chiamino la polizia o quanto meno diano soccorso all’unico sopravvissuto, Madiaw, che è in mezzo alla strada ferito e sanguinante. Ma loro si nascondono e aspettano l’arrivo della polizia. Il giorno dopo il ragazzo si presenta ai carabinieri e racconta tutto. Non è intervenuto perché la sua ragazza aveva paura. Certo non abbastanza paura da rimanere rintanati a guardare. Nessuna accusa di omissione di soccorso raggiunge i due giovani. Arriva una telefonata all’ANSA che rivendica l’attentato. Stavolta sono i Disoccupati Italiani Nazionalisti, che non vogliono una società multirazziale in Italia.
La banda comincia ad avere qualche problema, perché qualcuno comincia a vederli in faccia. E’ quanto avviene il 28 agosto.

Gli arresti

Dunque il 28 agosto c’è una rapina all’ufficio postale di Santa Maria delle Fabbrecce, provincia di Pesaro. Fila tutto liscio, il bottino è di quasi otto milioni. Recuperano la Regata di Alberto e se ne vanno. Qui vengono agganciati da una civetta della polizia che intima loro di fermarsi. La risposta è, ancora una volta, una valanga di proiettili. I poliziotti, leggermente feriti e sotto shock, dichiarano che li hanno visti bene e possono riconoscerli. E’ così che dalle foto segnaletiche saltano fuori i due responsabili della sparatoria. Sono Settimo Donati e Maurizio Palma, due piccoli spacciatori di Forlì. Così, ancora una volta, l’imperizia delle forze dell’ordine garantisce la libertà ai Savi e soci. Quando i due spacciatori vengono arrestati, i giornali si esaltano con titoli a nove colonne in cui esplode la notizia che la banda della Uno bianca è stata finalmente sgominata. Roberto e Fabio Savi se la ridono.
Tra i giudici di Pesaro c’è Gaetano Savoldelli Pedrocchi, che ragiona sulle armi usate. Non sono armi qualunque, sono sofisticate. Inoltre i bossoli sono ricaricati in casa, alla perfezione. I banditi non possono essere due pregiudicati di bassa lega come quelli arrestati. Devono avere un rapporto speciale con le armi, probabilmente sono militari. Così fa ricerche nei poligoni di tiro per scoprire chi, dopo aver sparato, raccoglie tutti i bossoli e se li porta via. I carabinieri non gli portano un elenco, perché di tiratori con quelle caratteristiche ce ne sono solo due: Roberto Savi e suo fratello Fabio. Ma, anche questa volta, non se ne fa niente. L’arresto dei due spacciatori chiude ogni pista.
Ma le rapine continuano e continua a scorrere sangue. Il 25 novembre 91 prelevano centoquaranta milioni dalla Banca popolare di Cesena. Stavolta intervengono due personaggi chiave per le indagini. Sono due poliziotti, il sovrintendente Mario Peruzzini e l’assistente Salvatore Di Giorgio. Fabio commette un errore grave stavolta. Non si porta via la cassetta della videosorvegglianza. La sua faccia rimane impressa sul nastro e nella mente di Pirazzini, che battezza Fabio “il mascellone”.
Nel 1992 le rapine sono solo cinque, ma alcune molto lucrose, come quella da trecento milioni ad un supermercato o quella da centosessanta milioni alla Cassa di Risparmio di Casalecchio. E’ in quest’anno che Roberto viene colpito dal provvedimenti disciplinare di cui ho detto all’inizio. E’ anche l’anno maledetto delle stragi mafiose, quella di Capaci e di Via D’Amelio, in cui muoiono bravi poliziotti e due tra i più ostinati avversari della mafia, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Il 1993 ricopia più o meno l’anno precedente. Altre rapine, altri morti, a volte solo perché si permettono di guardare negli occhi Fabio, come quel ragazzo di 20 anni che tornava a casa e viene trucidato sul bordo della strada. Si chiamava Massimiliano Valenti.
Arriviamo così all’anno di grazia 1994. Di grazia perché è quello che conclude la carriera malavitosa della banda dei Savi.
Alla procura di Rimini all’inizio di quest’anno arriva Daniele Paci che mette la questione della Uno bianca in cima alla sua agenda. Si rende conto che le indagini fino a quel momento sono state farraginose, frenate, trascurate, fatte da persone decisamente incompetenti. Crea un pool in cui confluiscono polizia, criminalpol e carabinieri. Questi però dopo un po’ si ritirano, dicendo che non hanno risorse sufficienti e non mettono a disposizione il materiale in loro possesso trincerandosi dietro un “Interesse superiore”. Eppure hanno avuto cinque morti e il caso Macauda che ancora scotta.
Ma, da un vecchio fascicolo dei carabinieri, salta fuori lo stato di famiglia di un certo Fabio Savi. E’ quello relativo al riconoscimento dell’Alfetta targata Forlì 56 e qualcosa. Poi il nome torna fuori nell’indagine sui bossoli recuperati al poligono di tiro. Perché i carabinieri hanno lasciato perdere delle tracce così importanti? E perché si sono ritirati dal Pool, con quella che a tutti è sembrata una scusa?
Fabio Savi viene convocato a Cesena dalla polizia, ma ancora una volta non succede niente. Peccato non fosse presente Pirazzini che avrebbe forse riconosciuto il mascellone nella figura di Fabio.
Ci sono però altre rapine a banche della zona e il mascellone viene ripreso nuovamente. Altre rapine, altri milioni, altri fallimenti che costano la vita ad altre persone innocenti. Poi arriva il 21 ottobre e l’ultima rapina della banda della Uno bianca. Una rapina finita in niente, perché gli impiegati non aprono la porta e riescono perfino ad uscirne vivi, feriti, ma vivi.
Il problema per i Savi nasce la notte prima, quando parcheggiano la macchina pulita nei pressi della banca da rapinare. E’ una Mercedes 200 color visone metallizzato. L’ha comprata Fabio ed è intestata a lui. Non si accorgono che là vicino c’è un’auto con tre ragazzi che li osservano. Uno è un poliziotto di Bologna in servizio a Varese. Si chiama Andrea Odorici. Li seguono discretamente. Dopo la rapina, Odorici va al più vicino posto di polizia e fa rapporto. Non solo hanno visto l’auto e notato che la targa di Forlì comincia con 7, ma li hanno visti dietro delle siepi davanti alla banca dell’Agricoltura, quella che ha subito un tentativo di rapina, e poi li abbiamo visti andarsene su una Uno di colore azzurro chiaro.
Odorici, che probabilmente ha il merito di far svoltare le indagini, viene punito per essere stato fuori di casa in orari non consoni. Non ci sono commenti ad un comportamento così idiota da parte dei carabinieri.
A metà anno il pool viene sciolto e le indagini passano a Roma. Ci sono però dei poliziotti veramente in gamba nelle questure romagnole. In particolare l’ispettore Luciano Baglioni e il sovrintendente Pietro Costanza ottengono di poter continuare ad indagare. Hanno carta bianca e cominciano a ragionare come i banditi. Si appostano presso le banche a rischio, studiano ogni delitto commesso, ogni parola rilasciata dai testimoni e alla fine si convincono che quella banda è composta da poliziotti, che sanno tutto sui turni, sui posti di blocco, sulle armi, sulle munizioni.
unobianca08Il cerchio si stringe. Intanto Perazzini e Di Giorgio guardano ore e ore di filmati e seguono ogni passo delle indagini. Quando vedono le foto recuperate all’anagrafe di Fabio Savi, hanno un sobbalzo. Il mascellone è proprio lui. Il telefono viene intercettato. Siamo quasi all’epilogo. Finalmente l’identikit fatto a suo tempo riesce ad avere un nome, quello di Roberto Savi. Il fratello più piccolo no, lui è un bravissimo agente, un ottimo ragazzo, di sicuro non ha niente a che fare con la banda. Quindi gli parlano cercando di convincerlo a facilitare l’arresto dei fratelli senza che ci siano problemi. Alberto non può che abbozzare. Aspetta, assieme ad un altro poliziotto l’arrivo di Fabio. Ma Fabio non viene. Ha prelevato la donna con cui vive da qualche anno, una ragazza rumena di nome Eva, e dopo un girovagare inutile si dirige verso l’Austria per passare il confine e finire in Ungheria, dove aveva conosciuto Eva e altri delinquenti poco raccomandabili della zona.
Il 21 novembre Roberto viene arrestato alle sette della sera. Due ore dopo l’irruzione nella casa di Fabio. Qui si scopre l’arsenale pazzesco del carrozziere: fucili mitragliatori, pistole, munizioni, ricetrasmittenti, parrucche, baffi finti … c’è veramente di tutto.
A casa di Roberto Savi ci vogliono due turni per recuperare tutto il materiale, Tra questi una cassetta della videosorveglianza, cancellata registrandovi sopra l’immagine di una parete bianca. Ma l’inesperienza dei banditi o la fortuna degli investigatori vuole che l’audio sia rimasto acceso e quindi si ascoltano le voci di Roberto e di una seconda persona, che parla con un forte accento siciliano. La ascoltano più volte, Pirazzini e l’agente della criminalpol Roberto Dall’Ara. Lui quella voce la conosce, l’ha già sentita e alla fine capisce: è quella di Pietro Gugliotta, un altro poliziotto nella banda della Uno bianca.
A quei bravi poliziotti deve essere crollato il mondo addosso.  (104)

Gli arresti di tutta la banda

Il primo interrogatorio è quello di Gugliotta, che ammette le rapine ma non i morti, non le stragi. Racconta una serie lunghissima di eventi, spesso tutti uguali. Dopo tre ore viene portato in carcere, a forte Boccea a Roma, il carcere militare.
Proprio l’assenza alle rapine con morti ammazzati ridurrà la sua pena, rispetto agli altri a 18 anni di carcere, dei quali ne sconterà 14. Dal 2008 è tornato in libertà.
La banda era sgominata, i suoi appartenenti arrestati. Ce n’erano altri? A chi si poteva chiedere se non alla persona più vicina ai Savi, vale a dire al più piccolo della famiglia, Alberto? Così viene convocato come persona informata dei fatti. Nessuna accusa contro di lui, ma neppure un dubbio sulla sua estraneità e sul fatto di essere davvero un bravo ragazzo. Il 26 novembre però iul colpo di scena: Alberto si presenta ai magistrati accompagnato dal suo avvocato. Perché? Se sei un poliziotto innocente, perché quella mossa?
Le domande all’inizio sono quasi di prammatica: “hai visto le armi dei tuoi fratelli? Sapevi della lor attività criminosa?” cose così insomma. Poi però Alberto fa qualche ammissione addossando la responsabilità a Roberto, di cui, dice, ha sempre avuto paura. Ma uccidere no, non l’ha mai fatto.
Lo stesso giorno a Tolmezzo, viene interrogato Fabio, che invece racconta tutto per filo e per segno, quasi vantandosi di una simile lunga mattanza. E tira in ballo anche Alberto, il più piccolo, che era presente – dice – al Pilastro quando abbiamo ammazzato i tre carabinieri.
E così si arriva anche agli altri poliziotti, i novellini, quelli che sono entrati solo per un periodo nella banda. Luca Vallicelli e Marino Occhipinti. Il primo, lo abbiamo visto, ha sulla coscienza solo una rapina senza danni a persone. Concorderà una pena molto lieve, rispetto agli altri: tre anni e otto mesi.
Occhipinti invece ha ucciso un ragazzo di 22 anni. All’inizio nega, poi salterà fuori la verità. Ergastolo anche per lui. Ma esce nel 2010 per partecipare vicino a Padova ad una via crucis. Nel 2012 gli viene concessa la semilibertà. Nell’estate del 2018 viene scarcerato definitivamente. Oggi è un uomo libero.
Tutto questo non è piaciuto per niente ai familiari delle vittime. Ne parla, in particolare, Gennaro Mitilini, il padre di uno dei carabinieri assassinati al Pilastro e dice:
"Oggi, con tutti i benefici già concessi ai componenti di questa efferata banda, come padre di un carabiniere che ha dato la propria vita per difendere la collettività, mi sento tradito da questo Stato. E' un atto che indigna i familiari e offende le vittime trucidate dalla famigerata banda di assassini."
E continua:
"Noi familiari delle vittime non comprendiamo le ragioni che hanno spinto il Tribunale di Sorveglianza a convincersi che il pentimento di Occhipinti sia autentico, riteniamo che senza il perdono dei familiari delle vittime non si possa chiudere gli occhi su tante atrocità. Non bisogna dimenticare che la liberazione è avvenuta senza una fattiva collaborazione con gli inquirenti che indagavano sulla banda della Uno bianca che ha ucciso e ferito centinaia di persone, una collaborazione che avrebbe salvato tante vite umane se fatta a tempo debito e che avrebbe permesso di fare piena luce su una banda, di cui non conosciamo tutta la verità e tutti i componenti, così come accertato nell'ambito del processo degli anni 90".
In effetti, a guardare bene, i Savi hanno tutti famiglia, qualcuno come Fabio ha lasciato la moglie per vivere con un’altra donna, Eva Mikula. Anche Roberto, poco prima di essere arrestato aveva iniziato una relazione con una donna nigeriana, Sandy, e viveva con lei a Bologna.
Insomma di donne che frequentavano i Savi ce ne sono. Le loro mogli vengono tutte convocate e interrogate per capire quanto fossero, anche loro, dentro la banda.
Anna Maria, la moglie di Roberto parla un po’ alla volta. Lo fa più dettagliatamente nel 1995, quando si presenta con l’avvocato per rivendicare un libretto da nove milioni che le servono per il figlio. E racconta di quella volta che Roberto è tornato ferito e Fabio l’ha medicato. Era la sera del massacro del Pilastro. E anche delle altre rapine di cui Roberto raccontava una volta tornato a casa. Pensate che bel quadretto. Cosa hai fatto oggi? Di solito uno racconta del proprio lavoro, delle beghe col capoufficio, delle difficoltà della giornata. Là invece il racconto è del tipo: “Abbiamo preso cinque milioni al casello. Il tizio si è ribellato e gli abbiamo sparato in faccia. Quei negri li abbiamo fatti fuori. La moglie sa tutto e non parla mai. Evidentemente i soldi che entrano fanno più comodo di una coscienza pulita.
Stesso discorso per la moglie di Fabio, ma qui c’è un’aggravante da raccontare. Abbiamo visto come Fabio, nel suo viaggio in Ungheria abbia conosciuto la bionda Eva Makula, all’epoca sedicenne. Usando contatti malavitosi locali riesce a procurarle i documenti necessari per espatriare e arrivare in Italia. Qui compra un appartamento e ci va a vivere con Eva.
La moglie, Maria Grazia, scopre tutto fin dal principio, è consapevole che la banda della regata fantasma, delle coop, della uno bianca, è sempre la stessa e che suo marito è uno dei suoi membri. Eppure nemmeno lei dice mai niente. Non lo fa neppure quando Fabio la abbandona. Anzi in quell’occasione si appoggia ad un collega dei due, il poliziotto Riccardo Mazza, che presto diventa il suo amante. Lui dice di non credere ai sospetti che la donna ha e, nonostante sia un poliziotto, non riferisce niente ai suoi superiori. Il colmo accade prima, nella notte del Pilastro, quando Mazza va a casa di Fabio per fare delle foto al figlio che compie gli anni dal momento che il padre non è rientrato. Viene così a sapere della ferita all’addome di Roberto, delle cure fatte da Fabio e dei sospetti di Maria Grazia sugli autori del massacro. Ma, nonostante ci siano tre carabinieri morti, Mazza non dice niente a nessuno. Secondo la testimonianza data da Mazza, lui si accorge dell’intrigo quando viene fuori la storia della Mercedes 200 color visone con la targa che inizia con il numero 7. Mazza allora chiede alla moglie di verificare e tutto coincide  perfettamente. La macchina è quella di Fabio, che nel frattempo ha venduto per comprare una Renault rossa. Invece di andare al primo comando di polizia, chiede alla donna di scrivere una lettera anonima. Ma come si può comportarsi così da vigliacco? E poi, perché? Per coprire il marito della sua amante? Per non passare da infame, accusando un collega? Perché?
Anche Maria Grazia, quando viene interrogata, si barcamena attribuendo la colpa di tutto al padre dei Savi, violento, razzista, spesso ubriaco quando li inseguiva con un coltello in mano. Ma non ha mai parlato neanche lei, pur sapendo benissimo cosa stava accadendo.
L’unica moglie che probabilmente non sa niente del marito è Antonella, la consorte di Alberto. E’ la sola a restare a fianco del marito fino all’arresto, ma è anche quella che si dissocia nettamente e si schiera a fianco delle vittime.
La storia, salvo pochi particolari di secondaria importanza, potrebbe chiudersi qui, ma non le considerazioni sulla vicenda, perché c’è ancora qualcosa che non torna, che non torna per niente. Ne parleremo dopo una breve pausa.  (95)

L’inefficienza delle forze dell’ordine

Credo che sia chiaro che togliere di mezzo una banda simile sia un merito molto grande per la collettività. Quelli coinvolti nelle indagini si aspettano una promozione, perché i complimenti vanno bene, ma i soldi da portare a casa non sono certo molti per i poliziotti.
Ma le promozioni non arrivano, anzi.
La vicenda della Uno bianca presenta, come abbiamo visto dal racconto, troppi buchi, troppe reticenze, troppe mancate segnalazioni, troppa superficialità o addirittura incapacità di giudizio. E’ quindi il caso di ficcare il naso in quelle procure a Bologna, a Rimini, a Forlì per distinguere, se non altro il marcio dai servitori onesti dello stato.
Il capo della polizia, Ferdinando Masone, spedisce a Bologna il suo vice, il prefetto Achille Serra con il compito di verificare se nel comportamento delle forze dell’ordine non si ravvisasse qualche forma di favoreggiamento.
unobianca01Serra realizza un dossier che fa scalpore. Ne parla diffusamente anche quando viene interpellato dalla commissione parlamentare sul terrorismo e le stragi.
Il clima del rapporto Serra si evidenzia fin dalle prime parole del prefetto. Parla di faide interne, di lotte  tra il prefetto e il sindaco (all’epoca era Imbeni del Partito Comunista e successive emanazioni) su come gestire la sicurezza nella città. Perfino i due sindacati di polizia  erano spaccati. Perfino i magistrati che seguivano l’inchiesta non andavano d’accordo. E questi sono alcuni dei motivi per cui i Savi l’hanno sempre fatta franca.
Naturalmente vennero ascoltati anche altre autorità militari (perfino il direttore del SISDE), ma a noi interessa qui la relazione di Serra, perché punta i riflettori proprio su quelle scene che abbiamo raccontato in questa puntata. E le cose non sono certo finite qui. Il rapporto è di circa cento pagine ma ha un difetto grave. Racconta fatti ed episodi, senza mai fare nomi e cognomi.
Un’agente donna per usare a titolo personale un mezzo di servizio, blocca l’attività  della polizia giudiziaria per un pomeriggio. Quando l’ispettore capo riferisce al funzionario viene, lui, redarguito aspramente. Le voci dicono che tra la donna e il funzionario ci fosse una relazione affettuosa.
Insomma la disciplina è molto discrezionale, le coperture e i favoritismi all’ordine del giorno.
E poi c’è questo scollegamento tra i vari reparti che conducono le indagini, un atteggiamento che rende la questura di Bologna una lumaca e una struttura ferma agli anni passati. Nessun rinnovamento, mai.
Insomma la squadra mobile di Bologna, secondo il pretore Serra, è totalmente inefficiente (i termini sono quelli della relazione).
Quando poi nel 1991 arriva un nuovo capo alla mobile, si trova di fronte ad un muro invalicabile di ostracismo che arriva anche alle calunnie a mezzo stampa. Resta pochi mesi e poi si arrende e se ne va.
Il clima cambia ancora, questa volta in peggio. Il nuovo dirigente chiede arresti da pubblicizzare alla stampa e sulle radio private locali. Così le volanti, dopo il normale servizio, si sentono autorizzate a continuare le perquisizioni, gli appostamenti, sentendosi come Al Pacino in Serpico.
Il questore richiama più volte il funzionario a un maggiore controllo dell’attività, ma senza risultato. Un anonimo testimonia la verità di tutto questo e dice: “Noi tutti in questura stavamo a guardare, compreso il questore.”
Arriviamo infine alla truppa. Secondo Serra c’è un clima di forte rambismo, come se loro avessero diritto di vita e di morte sui malcapitati sospettati di delitti o anche di semplici infrazioni. Abbiamo ricordato l’esempio di Roberto Savi e dello spacciatore rasato a zero, ma fatti simili anche se meno gravi sono all’ordine del giorno.
Gli equipaggi escogitano anche un piano per riposarsi durante i turni notturni. Dormono nel parcheggio della mobile, avvertiti dai colleghi nel caso di una improvvisa ispezione. Non è certo difficile immaginare che questo lascia scoperte e senza sorveglianza zone della città. Insomma la parola da usare è “totale anarchia”.
Certo questa situazione paradossale non può in nessun modo giustificare il terrore che la banda della Uno bianca ha sparso a piene mani nel territorio. Lo riassume molto bene il presidente della commissione stragi, Giovanni Pellegrino, quando afferma:
Devo dire, sia pure a titolo personale, che il quadro che emerge dal rapporto Serra sulla situazione della questura di Bologna è abbastanza desolante ma, più in generale, direi che lo è tutto il sistema dei controlli. Tuttavia ci sembra non vi sia proporzione tra i momenti di deroga alla legalità che avvengono alla questura di Bologna e quello che poi hanno fatto i fratelli Savi e gli accoliti. Allo stesso tempo, malgrado quella situazione di disorganizzazione che in qualche modo sembrerebbe aver riguardato anche la magistratura inquirente, il fatto che per così lungo tempo non si sia percepito che gli autori di quei crimini fossero appartenenti alle forze dell’ordine è un fatto che ci lascia comunque sorpresi e che ci sta portando ad approfondire questa attività d’indagine.
Alle indagini sui comportamenti viene nominato un consulente che in quegli anni è sulla bocca di tutti: Antonio Di Pietro. Il magistrato che ha sgominato, almeno per il momento, il marcio della politica con quella rivoluzione che prende il nome di “Mani pulite”.
Di Pietro porta altre informazioni. Riporto le sue parole riferite alla sua relazione. Tra virgolette
Voi dovete sapere, ma qui non c’è scritto, che la sera prima del blitz, vi è stata una riunione tra i vari sostituti procuratori di Bologna e di Rimini e rappresentanti della polizia giudiziaria per decidere in merito allo stesso blitz. Bologna non ritenne di intervenire direttamente, tanto è vero che i decreti di perquisizione furono firmati solo da Rimini. Dopo le perquisizioni, le persone arrestate vennero interrogate solo dai sostituiti procuratori di Rimini, perché quelli di Bologna erano scettici sulla possibilità che questo gruppo Savi fosse realmente responsabile dei fatti, fatti per i quali altre persone erano già state arrestate e proprio su mandato dei giudici bolognesi.” 
In effetti l’autorità giudiziaria ha fatto arrestare 57 persone ritenute appartenenti alla banda della Uno bianca tenendole in carcere per mesi e anni senza alcun motivo. Le scelte sono solo due: o si ha l’umiltà di pensare che si può anche seguire una pista sbagliata e si torna indietro, o si persevera nell’impostazione iniziale, ma questo può comportare un doppio errore, perché si persevera nell’errore. Questo concetto di Di Pietro chiude la nostra storia, che vivrà solo un’appendice molto breve dopo una pausa musicale.  (91)

Conclusioni

Siamo alla fine e possiamo riassumere con qualche numero. La banda della Uno bianca compie 103 rapine, alcune non riuscite. Ferisce più di cento persone e ne ammazza 24, molte delle quali a sangue freddo e senza alcun motivo, per così dire, strategico, cioè utile perché l’azione malavitosa riesca.
Molti finiscono in carcere per reati che con la banda nulla hanno a che fare. Il carabiniere Macauda, il depistatore, è stato condannato a 8 anni di carcere.
I tre Savi, e Marino Occhipinti sono stati condannati all’ergastolo. Occhipinti, come già ricordato è di nuovo libero.
Per Gugliotta la pena è di 28 anni, poi ridotti a 14 tra indulto e legge Gozzini, che introduce nuove norme per la detenzione, compresa quella della riduzione della pena se il comportamento del carcerato è buono e si intravvedono sentimenti di pentimento.
Vallicelli patteggia 3 anni e otto mesi.
unobianca08Il tribunale poi riconosce le responsabilità del ministero dell’Interno e condanna lo stato a versare diciannove miliardi di vecchie lire alle famiglie delle vittime. Osservo sottovoce che tutti quei soldi li abbiamo pagati noi, per la ferocia di alcuni banditi e l’incompetenza assurda delle istituzioni.
Nessun altro viene condannato, non i famigliari che pure tutto sapevano e nulla hanno detto, non i poliziotti e i carabinieri che si sono dimenticati di riferire o quelli che, ricevendo le informazioni, le hanno chiuse in un cassetto.
Chiudo con le osservazioni che l’ex poliziotto Carmelo Pecora fa alla fine del libro che ha scritto. Lui si rivolge al generale dei carabinieri Federici che, in commissione, minimizza e giustifica le mancanze evidenti e macroscopiche dell’Arma con la giovane età dei ragazzi nel momento in cui vengono arruolati. Anche lui, Carmelo, è entrato in polizia a vent’anni e anche lui ha passato la vita negli ambienti in cui i suoi colleghi hanno vissuto e lavorato. Ma non ha mai avuto un solo momento in cui ha pensato di derogare ai propri impegni. E come lui tanti altri, tantissimi altri.
Ma se ci chiediamo se il bubbone, il machismo, il senso di superiorità nei confronti dei cittadini è svanito, non possiamo dimenticare quello che è accaduto più tardi, nel 2001 a Genova durante il G8 o quello che hanno subito Federico Aldrovandi, Stefano Cucchi, Riccardo Rasman, il disabile psichico ammazzato a Trieste da tre poliziotti, Michele Ferrulli, bastonato a morte durante un fermo di polizia e morto poco dopo. I poliziotti accusati del fatto vengono assolti. Questi sono solo i nomi più famosi tra quelli che vengono offesi, umiliati e a volte picchiati ... in nome della legge.