Introduzione

VaticanoHo già raccontato la storia dello IOR e dei personaggi che attorno ad esso hanno ruotato, arrivando a suicidare un banchiere che sapeva troppe cose, Roberto Calvi. Personaggi che non sono tutti malavitosi incalliti come Pippo Calò, ma sono banchieri importanti come Michele Sindona, alti prelati come Paul Marcinkus e di sicuro le alte sfere della Santa Sede non erano all’oscuro di tutte le schifezze che avvenivano nel piccolo stato. È Paolo VI a chiamare il suo buon amico Sindona, con il quale lo IOR diventa una banca che cura gli interessi di assassini come quelli della banda della Magliana, di sporche figure politiche e di importanti famiglie mafiose. Diventa una lavanderia di soldi da riciclare, perché derivano da affari che più sporchi non si può. È Giovanni Paolo II ad imbastire, assieme a Marcinkus, il sovvenzionamento di Solidarność, usando quegli stessi soldi, che arrivano sì alla formazione di Lech Wałęsa, ma anche ai regimi totalitari dell’America Latina, che con la supposta filosifia religiosa del cristianesimo non si capisce proprio cosa abbiano in comune.
La fortuna del Vaticano, che dovrebbe uscire con le ossa rotte da queste vicende politico-sociali (poi arriveranno altri guai, non ultimo il ciclone della pedofilia), la fortuna del Vaticano, dicevo, è che i fedeli sono, appunto, fedeli. Questo significa che si fidano ciecamente di quello che viene loro raccontato, perché le religioni, tutte le religioni, non ammettono che si possa ragionare in modo critico sulle cose. Il trucco delle verità rivelate è geniale e contro di esso non c’è proprio niente da fare.
Si concentra proprio su questo aspetto la posizione degli atei e degli agnostici, che non capiscono come si possa credere a qualcosa di cui non esiste alcuna evidenza.

La banda della Magliana

La Santa sede entra ancora in questo racconto, ma i protagonisti della prima e dell’ultima parte della nostra storia sono personaggi differenti dai prelati e dai banchieri. Forse qualcuno li conosce per aver visto uno sceneggiato televisivo chiamato “Romanzo criminale”, che ripercorre, sicuramente mettendoci molto pathos fantastico, la storia di una banda criminale che ha dominato il malaffare a Roma, malaffare in senso generalizzato perché non c’è strada criminosa che non abbia percorso.
Quei personaggi televisivi rappresentano i feroci aderenti alla Banda della Magliana. Così il Libanese altri non è che Franco Giuseppucci, detto “Er negro”, il fondatore della banda, ammazzato nel 1980. Il Freddo, che eredita il comando alla morte del libanese, è Maurizio Abbatino, detto Crispino, attualmente collaboratore di giustizia; il Dandi è Enrico De Pedis, detto Renatino, proveniente dalla gruppo dei Testaccini, il più astuto, ma anche spietato capo della banda; c’è poi Danilo Abbruciati, di cui abbiamo parlato nell’articolo sullo IOR, ucciso a Milano quando ferisce Roberto Rosone, braccio destro di Calvi; e, ancora, Massimo Carminati appartenente ai NAR di Giusva Fioravanti e Francesca Mambro, arrestato per nuovi crimini con la cosiddetta Cupola di Roma, condannato a 14 anni, sentenza poi annullata in attesa della cassazione e attualmente libero per decorrenza dei termini di custodia cautelare.
Ovviamente questi sono solo i nomi più importanti di una schiera di personaggi che hanno terrorizzato Roma dal 1977 in poi. In rete trovate tutte le altre corrispondenze tra i protagonisti dello sceneggiato e la realtà.
VaticanoLa Banda della Magliana è sempre presente. Entra ed esce da quasi tutte le storie di quei decenni di fuoco per il nostro paese. Entra nell’affare Moro, nell’assassinio di Mino Pecorelli, la cui vicenda trovate su questo stesso sito, ed entra nella storia che vorrei raccontarvi adesso e che ha per protagoniste due ragazzine, Mirella Gregori ed Emanuela Orlandi, scomparse nel nulla quando avevano rispettivamente 14 e 17 anni. Ci vorrà un po’ per arrivare a loro, ma credo sia importante capire in che mondo si vive in quel periodo, all’inizio degli anni ’80.
Cominciamo con una sorta di anteprima, ripercorrendo la storia della Banda della Magliana.
Tutto comincia il 29 maggio 1977 quando l’orefice Roberto Giansanti, 29 anni, viene rapito da banditi che sono chiaramente alle prime armi. Li guida Maurizio Abbatino (il Freddo), ma i suggerimenti di come agire sono di Franco Giuseppucci, di Trastevere, detto “fornaretto” e più tardi “er Negro”, per il colorito scuro della sua pelle. Abbatino e i suoi arrivano dal quartiere della Magliana, devastato da un piano regolatore folle, lasciato al degrado con tutto quello che ovviamente ne consegue.
Per Giansanti viene chiesto un riscatto di 5 miliardi di lire, ma alla fine l’incasso è solo di 350 milioni. L’ostaggio viene regolarmente liberato.
Il salto di qualità, se così possiamo esprimerci per una banda di delinquenti, avviene quattro mesi dopo, quando, sempre a Roma, viene rapito il duca Massimiliano Grazioli Lante della Rovere. Viene pagato un riscatto di due miliardi, ma l’ostaggio non torna più a casa. Dopo un mese di trattative il figlio del sequestrato consegna un borsone con due miliardi di lire per liberare suo padre. Ma questi ha visto in faccia uno dei carcerieri e quindi viene ucciso con una sventagliata di mitraglietta. Viene sepolto in un campo nel Salernitano e mai più ritrovato.
VaticanoC’è poi Enrico De Pedis, detto Renatino, che durante il sequestro è in carcere per rapina. Carissimo amico di Giuseppucci, gli affida la sua roba, compreso un carico d’armi, che Er negro nasconde in una vecchia roulotte, che diventerà poi il nascondiglio di un vero e proprio arsenale della banda.
Un giorno a Testaccio un tale, detto Paperino e di professione scippatore, ruba un maggiolone. Nel bagagliaio trova un borsone pieno di armi: pistole, fucili e munizioni. Le rivende per due milioni a un suo amico, che però è già entrato a far parte della Banda della Magliana. La macchina rubata è di Enrico De Pedis, ai quali le armi vengono restituite senza fiatare, perché è rispettato e temuto nell’ambiente. E così nasce l’amicizia tra Giuseppucci e De Pedis da un lato ed il resto della banda dall’altro.
De Pedis si porta dietro la batteria dei testaccini (dal quartiere Testaccio) e nel 1979 la banda è al completo, più compatta e decisa che mai. Le regole sono ferree e chi sgarra se la vede con i capi. Oltre a De Pedis e Giuseppucci, c’è Franco Abbruciati e poi tutti gli altri.
Il ricavato si divide equamente, anche con quelli che sono detenuti in carcere; la loro parte del bottino viene sempre consegnata alle famiglie. Insomma nasce una specie di azienda del crimine, con pagamenti regolari per tutti. Un patto che unisce la banda come se fosse una grande famiglia.

Il cerchio si allarga … fino alla mafia

La strategia della Banda della Magliana è chiara fin dall’inizio. Se qualcuno delinque a Roma per proprio conto, dev’essere estromesso o inglobato. Si comincia con piccole cose, come l’assassinio di Franchino er Criminale, verso il quale c’è certamente del rancore da parte di un affiliato alla banda, ma Franchino è anche quello che gestisce le corse truccate all’ippodromo, lasciando poco o niente spazio agli altri allibratori.
Tra questi anche Vincenzo Casillo, proprietario di cavalli da corsa ma soprattutto luogotenente di Raffaele Cutolo, uno dei più potenti boss della camorra.
Il delitto di Franchino celebra un legame tra i napoletani e la banda, che continuerà nel tempo, come vedremo. Pochi mesi dopo entrano i due miliardi del rapimento Grazioli. I soldi vanno investiti, ma sono tutti tracciabili. Così Abbruciati si rivolge ad un suo amico di Milano, tale Salvatore Mirabella, che restituisce l’importo trasformato in franchi svizzeri. Mirabella è un noto e molto pericoloso mafioso di Catania del clan di Francis Turatello.
Ecco dunque che il cerchio si allarga e ogni volta entrano personaggi di enorme importanza, che imposteranno non solo le relazioni ma anche le azioni della banda.
Se i sequestri hanno portato i primi soldi, è lo spaccio della droga, segnatamente cocaina ed eroina, a riempire di miliardi gli appartenenti alla banda. Questi si comprano lussuose ville e attici un po’ ovunque, intestandoli a parenti o a società di comodo appositamente costituite.
C’è anche il periodo d’oro delle cosiddette “macchinette”, i videopoker, di cui diventano gestori praticamente assoluti, imponendo alla concorrenza semplicemente la legge del più forte. E questo business si tira dietro quello dello strozzinaggio e di conseguenza del recupero crediti dei poveracci che ci cascano.
La Banda della Magliana insomma è ovunque a Roma.
Per capire il giro d’affari, ecco un episodio. Una volta la banda acquista 50 kg di eroina per un miliardo e 750 milioni. É quella sequestrata dalla Guardia di Finanza e depositata vicino all’aeroporto di Fiumicino. La ruba un sottufficiale delle Fiamme Gialle, certo Giuseppe Uglio. La vende a De Pedis per 35 milioni al kg. Questi la rivende ai grossisti per 90 milioni al kg, con un guadagno netto di 2 miliardi e 750 milioni di lire. Come si vede cifre enormi. La droga viene distribuita 10 kg alla volta e, una volta finita, si torna agli abituali spacciatori.

… e la camorra

VaticanoRaffaele Cutolo, detto ‘o professore perché in carcere è uno dei pochissimi a saper leggere e scrivere, passa in galera gran parte della sua vita, ma questo non gli impedisce di gestire la malavita organizzata nella zona di Napoli, ma anche a Roma.
Nella fase di costruzione della sua organizzazione ha bisogno di un piccolo esercito di killers, che siano preparati, esperti e capaci di gestire varie attività criminose, dal rapimento alla rapina, dall’estorsione allo spaccio di droghe, in particolare di cocaina ed eroina.
Cutolo, in carcere, conosce Nicolino Selis. É lui ad aver avuto per primo l’idea di formare una banda composta tutta da romani. Nonostante non sia tra i banditi più ricercati, l’amicizia con un boss della camorra è un biglietto da visita formidabile e un mezzo per tentare di fare il salto di qualità negli affari. E così sarà per la banda della Magliana, che accoglie Selis a braccia aperte.
Selis, tra l’altro, è uno degli assassini di Franchino il Criminale, che, come abbiamo visto, è la prova del fuoco per molti accoliti. Diventa il capozona a Roma dell’organizzazione camorrista di don Raffaele Cutolo. Al professore vengono presentati gli esponenti della banda: Maurizio Abbatino, che diventerà uno dei collaboratori di giustizia; Marcello Colafigli, detto Bufalo, attualmente in carcere condannato a tre ergastoli; e naturalmente il capo, Franco Giuseppucci.
Cominciano così i favori che la Banda offre a don Raffaè, al quale evidentemente non è mai prudente dire di no. Il primo è far rottamare una BMW sporca di sangue, nella quale lo stesso Cutolo aveva fatto fuori due persone con le sue mani.
Intanto in Campania si svolge una ferocissima guerra per il potere tutto interno alla camorra. Da un lato i cutoliani che stanno facendo nascere la Nuova Camorra Organizzata, dall’altro quelli della Nuova Famiglia. Si tratta di una serie di carneficine. Pensate che nel solo 1981 ci sono oltre 200 morti. Alla fine vince la Nuova Famiglia guidata da parecchi capo-famiglia (Zaza, Nuvoletta, Ammaturo e così via), che si sfalderà per beghe di potere interne, cedendo, qualche anno più tradi, il dominio al clan dei Casalesi.
Dunque la Nuova Famiglia vince la battaglia. E la Banda della Magliana salta subito sul carro dei vincitori, perché gli affari sono affari e a loro non importa un fico secco chi comanda a Napoli.
Nelle guerre dei clan (non solo della camorra, ma della malavita organizzata in generale) i cambi di bandiera sono piuttosto frequenti. Succede quando un boss cade in disgrazia, oppure quando si accendono troppo i riflettori della giustizia su una certa organizzazione. Ma le leggi della malavita sono molto più ferree di quelle per così dire civili. E dunque la caccia all’infame di turno è sempre aperta. Infame è usato al posto di traditore, di voltagabbana, termine, dunque, che rende più drammatica la situazione di quella persona.
Tra gli infami finisce il professor Aldo Semerari, noto psichiatra pugliese, di orientamento decisamente neonazista, tanto da dedicarsi con molto trasporto alla sua fede. Figura anche tra i nomi comparsi durante le indagini su fatti eclatanti di quel periodo come la strage alla stazione di Bologna, il rapimento di Ciro Cirillo e l’assassinio del giornalista Mino Pecorelli.
Il suo legame con la Banda della Magliana avviene quando ha bisogno di denaro per le sue iniziative. In cambio fornirà perizie sulla sanità mentale dei delinquenti arrestati, in modo da annullare o alleviare la pena inflitta. Cosa che si verificherà più volte.
Giuseppucci ha idee decisamente di destra, ma questo fatto non incide per nulla sulle sue decisioni e sui rapporti con altre persone. A lui interessano solo due cose, prima di tutto: che entrino dei soldi dagli affari che mette in piedi e non finire in carcere.

Deposito di armi

VaticanoIl professor Semerari, stimato psichiatra, entra dunque nel giro della banda. Ha un collaboratore, tale Paolo Aleandri, che entra in gioco quando, per un previsto arresto dei componenti della banda, c’è bisogno di nascondere le armi. Si tratta di una grossa sacca contenente pistole, un paio di fucili e due bombe a mano. Aleandri si offre di portare a termine questa missione, ma poi, attratto dal guadagno, vende tutto. Quando la banda, dopo alcuni mesi di carcere, esce e reclama le armi, quelle non ci sono più. Anche Semerari prende tempo, così Giuseppucci e soci risolvono la questione a modo loro. Rapiscono Aleandri e lo tengono prigioniero per dieci giorni. É la mossa decisiva: poco dopo arriva un altro borsone: non ci sono dentro le armi originali, ma due mitra MAB modificati e due bombe ananas. La banda reputa il cambio vantaggioso e tutto si chiude qui. A portare il borsone è un personaggio importante delle storie che racconto qui a Noncicredo. Lo abbiamo già incontrato a proposito della strage di Bologna. Si tratta di Massimo Carminati, appartenente ai NAR, la formazione di estrema destra con Valerio Fioravanti e Francesca Mambro.
Evidentemente Carminati, che diventa presto un elemento anche della Banda della Magliana, non perde mai il vizio, visto che nel 2014 viene arrestato nell’inchiesta su Mafia Capitale e condannato a 20 anni di carcere per associazione a delinquere.
Quello che, tuttavia, qui interessa è il fatto che, dopo aver spazzato via o inglobato la delinquenza comune romana, dopo gli intrecci con la camorra, un nuovo legame si stabilisce tra la Magliana e i movimenti terroristici di estrema destra.
E le cose non finiscono qui, anzi il bello (in senso figurato si intende) deve ancora venire.

Pippo Calò

Nel 1972 si trasferisce a Roma un siciliano. Si fa chiamare Mario, ma lui è un don, un uomo importante, don Giuseppe Calò, per tutti Pippo Calò, boss della mafia, amico di Tommaso Buscetta e Totò Riina. Scala rapidamente le gerarchie fino a che gli viene assegnato un ruolo molto importante: quello del riciclo del denaro sporco che arriva da ogni attività illecita di Cosa Nostra. Per questo si trasferisce a Roma, dove è più facile portare a termine il suo compito. Abbiamo visto, nella puntata sullo IOR, che i soldi girano il mondo e tornano puliti grazie a banche compiacenti, tra le quali anche quella del Vaticano.
VaticanoA Roma, il boss “Mario” ha bisogno di uomini decisi ed esperti, abili a sparare, che non si facciano problemi se c’è da ammazzare qualcuno e che sappiano organizzare attività criminose come rapimenti, rapine, spaccio di droga, recupero crediti e via discorrendo.
Si rivolge ai testaccini, a quella parte della Banda della Magliana capeggiata da Renatino De Pedis e Danilo Abbruciati.
In questo periodo scoppia anche nella mafia siciliana la guerra interna per accapparrarsi il potere della cupola. Da un lato i Corleonesi con Totò Riina e dall’altro la vecchia guardia delle famiglie, gli Inzerillo, Buscetta, Bontate. Sappiamo come sono andate le cose: alla fine vincono i corleonesi. Calò non è certo un eroe e si barcamena senza prendere posizioni nette, per cui alla fine riesce a salire sul carro dei corleonesi di Riina, anche quando non condivide del tutto le loro azioni. Insomma non è in una posizione tranquilla; sente di aver bisogno di protezione, che chiede proprio alla banda della Magliana, stringendo un rapporto sempre più stretto con loro.
Il racconto fatto fin qui serve a capire quanto capillari fossero i legami della banda in ogni tessuto malavitoso dell’epoca. Negli anni complicati di quel periodo per l’intera società italiana, la banda ne è spesso protagonista, in un modo o nell’altro.
Basterebbe ricordare i nomi di Massimo Carminati, coinvolto pesantemente nella strage alla stazione di Bologna o Danilo Abbruciati, invischiato nelle oscure vicende legate al Banco Ambrosiano, allo IOR, a Marcinkus e Calvi. Abbruciati viene ucciso durante un attentato a Roberto Rosone, braccio destro del banchiere lombardo.
A proposito della strage di Bologna ricordo che una delle più grandi azioni di depistaggio da parte dei servizi segreti è quella chiamata “terrore sui treni”. Sull’espresso Taranto - Milano viene trovata una valigia piena di armi, che, almeno all’inizio, vengono ricondotte agli arsenali della banda della Magliana, in particolare a quello al Ministero della Sanità, dove la banda tiene il proprio enorme arsenale, grazie a talpe e fedelissimi dipendenti dell’ente.
Anche l’omicidio di Mino Pecorelli vede coinvolta la banda della Magliana, specialmente nella persona di Massimo Carminati.
Entra, la banda, anche in vicende così ricche di sospetti di politici molto chiacchierati, come Giulio Andreotti, il suo braccio destro Franco Evangelisti, Claudio Vitalone e altri ancora.
Legami si sono evidenziati anche nel rapimento e uccisione di Aldo Moro e della sua scorta.
Questo dunque è il clima e questa è la presenza molto puntuale della banda romana in moltissime operazioni del periodo. Adesso abbandoniamo per un po’ i banditi romani, che ritroveremo alla fine della puntata.

Cosa vuole papa Woytila?

Il 13 maggio 1981, in piazza S. Pietro, un turco, Alì Agca, spara due colpi all’addome del papa polacco Carol Woytila.
Perché? Chi è Alì? É il gesto solitario di un folle? O un attentato che fa parte di una strategia ben precisa?
Non possiamo dimenticare che il Vaticano di quegli anni non è solo luogo dispensatore di preghiere e di fede. Le sue banche sono ammanicate con finanzieri e faccendieri di ogni genere; gestiscono aziende importanti, hanno agenzie all’estero, nei paradisi fiscali, riciclano i soldi della mafia, esportano per conto terzi capitali all’estero, quando questa operazione è illegale. Insomma la Santa Sede non è poi così santa e fare soldi e detenere potere è spesso prioritario rispetto a molte altre opere di bene.
Siamo negli anni ’70 quando il cardinale di Cracovia comincia una missione nel suo paese, una missione pericolosa perché si tratta di andare contro il regime socialista sovietico e quello polacco. Carol Woytila viene tenuto sotto stretta osservazione dai servizi segreti russi, dal KGB, come emergerà più tardi dal dossier Mitrokhin. Va anche detto che il Vaticano non è affatto diverso da tutti gli altri stati del mondo e spie di ogni genere hanno vissuto e operato al suo interno fino ai giorni nostri.
Per i pochi che non ricordano, il dossier Mitrokhin raccoglie una enorme quantità di documenti, riportati e commentati dall’archivista Vasilij Mitrokhin. Quesi documenti raccontano la storia del KGB dal 1917 al 1984, quando Vasilij va in pensione. Ci sono molte pagine anche dedicate all’Italia. Dalle 6 casse di documenti nascono 3’500 rapporti di controspionaggio, distribuiti dal servizio sergeto inglese a 36 paesi. In Italia le 261 schede che ci riguardano vengono consegnato al SISMI, il servizio segreto militare.
Ma torniamo al cardinale di Cracovia: il problema, per il regime, diventa esplosivo quando Woytila diventa papa. Le sue visite in Polonia e i suoi discorsi al popolo polacco sono manifestamente anticomunisti e vanno contro il regime dell’allora capo dello stato Gierek. Bresnev, in occasione di una visita del pontefice a Varsavia, sollecita Gierek a non riceverlo, ma questo è impossibile. Non si può infatti dimenticare che la stragrande maggioranza dei cittadini polacchi è di fede cattolica e uso il termine fede e non religione non a caso.
Le intenzioni dei vari servizi segreti orientali, al KGB si aggiunge la STASI della Germania dell’Est e il servizio polacco, non sono cruenti nei confronti di Woytila. Si tratta di discreditarlo, di farlo apparire come il paladino di una guerra che rischia di modificare in peggio gli equilibri, già così instabili, tra il blocco occidentale e quello socialista. Se a questo aggiungiamo le azioni dei suoi banchieri che, su espresso ordine del papa, finanziano il sindacato Solidarnosc di Walensa, viene da pensare che l’ipotesi di un inasprimento della guerra fredda non fosse poi tanto azzardata.

Alì Agca: chi diavolo è costui?

Quando Alì Agca spara al papa, una ridda di ipotesi si fanno strada sui reali mandanti del tentato omicidio. Agca racconterà tante storie, cambiandole continuamente e facendo entrare, Vaticanotra gli altri, anche i servizi segreti italiani, che gli avrebbero ordinato di raccontare di aver agito per conto di una pista bulgara e comunque di una pista comunista. Non che sia assurdo: in effetti qualcosa che torna nel suo racconto c’è.
Nel 1977, un anno prima dell’elezione di Woytila a papa, Alì Agca viene selezionato e spedito in un campo di addestramento palestinese in Siria, gestito dal KGB. Le lezioni (se così possiamo dire) sono tenute da agenti bulgari e tedeschi dell’est. Viene quindi inserito dal KBG nel gruppo di estrema destra dei “Lupi grigi”, con il compito di indebolire il ruolo della Turchia in seno alla NATO.
Tutto il resto sono solo ipotesi o racconti senza lo straccio di una prova. Tra questi quanto dichiarato da Orak CeliK, membro importante dei lupi grigi, il quale sostiene che due cardinali avrebbero incontrato più volte Alì Agca prima dell’attentato. I due prelati non avrebbero sopportato la presenza di un papa straniero dopo tanti secoli di papi italiani. Ma, come detto, queste sono solo storie fantastiche e ancora oggi rimane un mistero il motivo per cui il papa si è beccato due pallottole e, se mai ci sono stati, chi sono i mandanti.
Se volessimo fare un elenco delle supposizioni sui retroscena di quell’attentato al Pontefice, dovremmo aggiungere altre piste, dette, suggerite, smentite. Tra le tante anche quelle fornite dalla Cia. É strano che un’organizzazione solitamente così ben informata sulle mosse di tutto il mondo, non abbia avuto alcun sentore di quello che stava per avvenire a Roma. Molti analisti statunitensi credono che all’epoca si sia stabilito una specie di tacito accordo tra l’Unione Sovietica e papa Woytila per impedire agitazioni in Polonia. Questo al fine di evitare epiloghi dolorosi come quelli in Ungheria nel 56 e in Cecoslovacchia nel 68. La CIA insomma, prima insegue la ormai famosa pista bulgara, per poi smentirla. Ma, mai, l’intelligence americana accusa apertamente l’Unione Sovietica dell’attentato.
C’è anche una pista mafiosa. É il pentito Vincenzo Calcara, nel 1993, a raccontare che Cosa Nostra aveva commissionato l’eliminazione di Giovanni Paolo II.
Non c’è nessuna conferma per tutto questo. Del resto, anche se il papa rischia di morire per davvero, l’uso dell’arma, una piccola Browning, lascia supporre che si volesse dare un avvertimento e non uccidere per davvero il Santo Padre. Agca, un killer esperto in grado di freddare un uomo da 40 metri, spara da pochi passi e mira verso il basso. Non è pensabile che abbia semplicemente sbagliato mira.
La mafia, come sappiamo, di interessi legati al Vaticano ne ha, in quel periodo, a bizzeffe. Secondo il SISDE (il servizio segreto civile italiano) l’attentato di Agca è stato un avvertimento perché la politica della Santa Sede non intralci i traffici di Cosa Nostra.
Insomma non se ne viene fuori.
Perché e da chi sia stato commissionato quell’attentato rimane uno dei tanti misteri di quegli anni.
C’è, però, un’ultima importante osservazione da fare. Come si comporta il Vaticano durante le indagini? A curarle è un giudice che abbiamo conosciuto analizzando la tristissima vicenda del DC9 dell’Itavia, fatto precipitare nel mare davanti a Ustica: Rosario Priore.
La reticenza della Santa Sede è perlomeno strana.
Nessuna delle numerose rogatorie internazionali promosse dal magistrato ha avuto risposta completa. La Santa Sede non ha mai voluto veramente conoscere il movente di quel gesto folle. Perché? Non si sa.

Un segreto misterioso …

Il 13 maggio 2000, 19 anni esatti dopo l’attentato, Woytila è a Fatima e qui decide di svelare il terzo segreto di quelli che la madonna avrebbe rivelato ai pastorelli portoghesi. L’interpretazione di quel segreto porta proprio all’uccisione di un vescovo vestito di bianco. Esattamente un mese dopo Agca viene graziato dallo Stato italiano e trasferito in Turchia, dove ha altri dieci anni da scontare per l’uccisione di un giornalista.
VaticanoE così l’attentatore se ne va, portandosi dietro un segreto, quello vero, delle trame ordite contro il pontefice. Il segreto di Fatima è servito solo a coprire quello dell’attentato. Un segreto del tutto ipotetico e probabilmente inventato, fa da scudo ad un fatto cruento, reale, drammatico.
Del resto, leggendo il testo diramato più tardi di quel famoso terzo segreto, si scopre che non ha nulla a che fare con quanto accaduto il 13 maggio in piazza S. Pietro. Nella visione dei tre pastorelli, infatti, il papa non cade a terra come morto, come aveva sostenuto il Cardinale Sodano, incaricato da Woytila di diramare il segreto, ma “viene ucciso da un gruppo di soldati che gli sparano vari colpi di arma da fuoco e frecce”. Sembra una presa di potere del Vaticano da parte di un esercito e i due episodi, quello ipotetico di Fatima e quello reale, sono decisamente differenti.
Viene da pensare, anche qui senza prove, che quel segreto divino, custodito per oltre 80 anni, diventi l’occasione per chiudere, e per sempre, un mistero troppo imbarazzante per tutti e, soprattutto, per il Vaticano. Che sia davvero così?

Emanuela Orlandi

Facciamo adesso un salto in avanti di circa due anni. Il 22 giugno del 1983 attorno alle 19,30, la figlia diciassettenne di un funzionario del Vaticano sparisce nel nulla. Si chiama Emanuela Orlandi.
VaticanoAd oggi nessuno sa dove sia finita, che fine abbia fatto e, soprattutto, perché sia stata rapita e da chi.
Anche in questo caso le ipotesi sono molte, ci sono dichiarazioni e controdichiarazioni, piste e contropiste, che però rimangono sempre nell’ambito di pure ipotesi senza uno straccio di prova. Cercherò di raccontare la vicenda e quel poco che si sa.
Prima di cominciare tuttavia è bene ricordare che la sparizione di Emanuela non è la sola di quel periodo. 46 giorni prima un’altra ragazza, Mirella Gregori, di 14 anni fa la stessa fine di Emanuela. Anche di lei non si saprà più nulla. Ci sono elementi, che forse accomunano la sorte delle due ragazze, ma loro non si conoscono e non hanno alcuna frequentazione comune.
Emanuela Orlandi quel mercoledì di giugno fa quello che fa sempre. Si reca alla scuola di musica, dove da anni prende lezioni di flauto. Dalla fermata dell’autobus all’ingresso dell’edificio scolastico ci sono 300 metri da fare a piedi. Probabilmente è qui che comincia la sua disavventura.
Quello che sappiamo essere successo di sicuro è che Emanuela viene avvicinata da un signore che le propone di partecipare ad una sfilata di moda per propagandare prodotti della casa di cosmetici Avon. Il compenso promesso è di 350 mila lire, una bella sommetta per una ragazzina, grossomodo lo stipendio mensile di una commessa. Emanuela però è coscienziosa e telefona a casa per chiedere alla mamma di accompagnarla il sabato successivo. Ne parla con la sorella Federica, dal momento che la mamma non c’è. Racconta di quell’opportunità con entusiasmo alla sua amica Raffaella, anche lei studentessa di musica. Raffaela la accompagna alla fermata dell’autobus. É l’ultima informazione che abbiamo: da questo momento in poi di Emanuela Orlandi non si sa più niente.
Le indagini cominciano 48 ore dopo e sono gestite dalla polizia, ma, e il fatto è abbastanza curioso, anche dal SISDE, il servizio segreto civile, all’epoca diretto da Vincenzo Parisi, che diventerà capo della polizia per 7 anni fino alla sua morte nel 1994. Parisi manda a casa Orlandi due agenti, che non sembrano prendere molto sul serio il loro incarico e parlano di tratta delle bianche e raccolgono le testimonianze dei famigliari su due telefonate di rivendicazioni arrivate fino a quel momento. I telefonatori dicono di chiamarsi “Pierluigi” e “Mario”. Le telefonate sono di due personaggi che mescolano informazioni fasulle ad altre di chi conosce fatti personali della ragazza e della sua famiglia. Torneremo più avanti sulla seconda di queste telefonate.
La polizia intanto riesce a scovare due testimoni. Il primo è un vigile urbano, Alfredo Sambuco, che quel giorno, alle 17, vede una ragazza dalle sembianze di Emanuela intrattenersi con un uomo di carnagione scura, capelli castani molto radi. Sono vicino ad una BMW, che il vigile chiede all’uomo di spostare perché in divieto di sosta. L’uomo parte subito, ma il vigile nota una cartella con la scritta Avon.
Un’ora dopo gli si avvicina un altro uomo che chiede informazioni per raggiungere la sala Borromini, la stessa dove il sabato dopo avrebbe dovuto recarsi Emanuela per propagandare i prodotti Avon.
Sono tutte situazioni strane, ma la cosa più strana è la presenza del SISDE. Perché i servizi segreti si occupano di un rapimento come ce ne sono tanti? Forse perché Emanuela è cittadina Vaticana e suo padre è un funzionario della Santa Sede?
Passa una settimana e Roma viene tappezzata da manifesti con il voto sorridente di Emanuela. Chi l’ha vista deve telefonare ad un certo numero. Anche il papa fa il primo appello a favore della ragazza: è il 3 luglio.
Dei rapitori, fin qui, nessuna traccia.
Poi cominciano le telefonate di rivendicazione. La prima arriva in sala stampa del Vaticano il 5 luglio. É quasi l’una quando una voce dal forte accento slavo rivendica il rapimento e chiede il riscatto: la liberazione di Alì Agca entro il 20 luglio.
Una seconda telefonata arriva a casa Orlandi. É davvero molto strana. Una voce con inflessioni americane e una scarsa conoscenza della nostra lingua informa che Emanuela sta bene, fa ascoltare una breve frase con la sua voce, ripetuta sette volte, in cui dice delle cose che con il rapimento non c’entrano nulla: “Scuola Vittorio Emanuele secondo. Dovrei fare il terzo liceo quest’altr’anno”. L’uomo annuncia che funzionari del Vaticano si metteranno in contatto con la famiglia per ulteriori accordi.
Non si capisce molto da questi primi contatti: chi c’è dietro, cosa si vuole in cambio della vita di Emanuela. Di certo c’entra, in un modo o nell’altro, il Vaticano. É con lo stato pontificio che le trattative devono essere portate avanti.
Finalmente, il 6 luglio, il rapimento diventa ufficiale. Questa volta la voce che parla al telefono è chiara, giovanile, senza alcuna inflessione dialettale. Si rivolge all’ANSA alle 16,30 e dice:
Stammi bene a sentire. Noi abbiamo Emanuela Orlandi, la studentessa di musica. La libereremo soltanto quando sarà scarcerato Agca, l’attentatore del papa.
Ma a che gruppo appartenete?” chiede il giornalista.
Non importa a quale gruppo apparteniamo. Ti posso dire soltanto che giorni fa abbiamo avuto un contatto con la Segreteria di Stato del Vaticano. Un messaggio che il Vaticano ha nascosto. Nel messaggio si chiedeva l’intervento del pontefice presso il governo italiano affinché desse disposizioni per la liberazione di Alì Agca, che deve avvenire entro 20 giorni.”
E che succederà se entro venti giorni non avviene quanto chiedete?” domanda il giornalista.
Io non lo so. Sono soltanto colui che è stato incaricato di telefonare. Andate in piazza del Parlamento e in un cestino dei rifiuti troverete la prova che la ragazza è nelle nostre mani.”
Nel cestino si trova una busta che contiene documenti di Emanuela, una cassetta con la sua voce registrata e un biglietto con scritto. “Con tanto affetto, la vostra Emanuela.”
Da quel momento le telefonate si moltiplicano. Arrivano agli Orlandi, al Vaticano, ai giornali, sempre con la stessa richiesta: la liberazione di Agca.
Sembra un pantano in cui non si riesce a muovere un dito. Poi arriva, improvvisa e inaspettata, la reazione del protagonista di tutta la vicenda, Alì Agca.

Alì Agca cambia versione

Alì Agca si trova in carcere, condannato in via definitiva all’ergastolo. Sta collaborando con la magistratura, indicando la famosa via bulgara come mandante dell’attentato al pontefice. In particolare indica come mandante più vicino a lui il caposcalo della compagnia di bandiera di Sofia, Serghei Antonov.
Ma, dopo il rapimento di Emanuela, Alì cambia atteggiamento, demolisce la pista bulgara, negando quello che lui stesso aveva confessato poco prima. Cosa è successo? Perché questo cambiamento repentino?
Nella mente di Agca si fa strada l’idea che i due fatti, il rapimento della Orlandi e l’attentato al papa, siano collegati tra loro. E collegata è anche la sua collaborazione con la magistratura, che porta alla pista bulgara e al coinvolgimento dei servizi sovietici. A questo si aggiunge il fatto che le autorità italiane permettono a due sedicenti giudici bulgari di avere colloqui riservati con Agca. Si tratta in realtà di agenti del KGB che di sicuro non sono andati in carcere per portare dei cioccolatini al terrorista turco.
Il 17 luglio, un nastro simile a quello fatto trovare a San Pietro, viene recapitato all’ANSA. Da un lato c’è la solita richiesta di liberare Agca, dall’altro si sentono urla e gridi di aiuto di Emanuela, come se la stessero torturando o violentando. Le trattative proseguono per molti giorni, avendo da questo momento in poi come unico interlocutore il cardinale Casaroli, Segretario di Stato della Santa Sede.

Mirella Gregori

VaticanoPoi compare una nuova sigla, quella del Fronte di liberazione turco anticristiano, Turkesh.
Ci sono i soliti riferimenti ad Emanuela e a fatti personali della ragazza. Si tratta di un movimento di estrema destra, forse di connotazione islamica, ma più probabilmente, secondo gli inquirenti, è un tentativo di dimostrare che Alì Agca non ha sparato su ordine dei sovietici.
Questo episodio potrebbe essere del tutto irrilevante se i messaggi non contenessero un nuovo elemento. C’è infatti un riferimento chiaro e agghiacciante alla scomparsa dell’altra giovane, Mirella Gregori, di appena 14 anni.
Come accennato prima, Mirella sparisce il 7 maggio di quel 1983. Anche per il suo caso le ipotesi più o meno fantasiose si moltiplicano. Che ci sia un legame tra i due rapimenti viene sostenuto da più parti. In particolare Günter Bohnsack, ex ufficiale della STASI (il terribile servizio segreto della DDR) racconta ad un giornalista di Repubblica che a rapire le due ragazze sono stati i servizi segreti dell’EST (Germania, Bulgaria e Unione Sovietica) inventando false sigle come i Lupi Grigi e Turkesh, proprio per deviare le indagini parallele sulla pista bulgara per l’attentato al papa.
Anche in questo caso ci sono episodi curiosi e strani. Il giorno del rapimento Mirella viene chiamata da un certo “Sandro”, al quale risponde (secondo quello che la madre ha ascoltato) seccata “Se non mi dici chi sei, non scendo”. Poi però propone di vedersi attorno alle 15.00. La ragazza esce a quell’ora dicendo di doversi incontrare con un compagno di classe, il quale però quel pomeriggio si trova da tutt’altra parte.
In una visita al papa, qualche anno dopo, la madre riconosce in un uomo della vigilanza vaticana Raoul Bonarelli, una persona che spesso si intrattiene con la figlia e una sua amica in un bar vicino a casa.
Il telefono del Bonarelli viene messo sotto intercettazione e c’è una telefonata nella quale egli chiede ad un anonimo interlocutore come si deve comportare di fronte ai magistrati. Poi il colpo di scena. Messa a confronto con l’uomo, la madre di Mirella non lo riconosce più come frequentatore della figlia. Perché? Non si sa.
Il SISDE produce un documento sul caso nel 1983. C’è scritto, tra l’altro, che la ragazza conosceva l’identità dell’uomo che la convince a seguirlo. I magistrati che indagano hanno questo documento a disposizione per un anno, ma non approfondiscono mai le informazioni in esso contenute. Perché? Non si sa.
E così anche il caso di Mirella Gregori rimane aperto e senza alcuna soluzione.
La vicenda è sempre più ingarbugliata, mano a mano che passano i mesi e gli anni. Ad un certo punto comincia a prendere forza il sospetto che in realtà, dietro a tutto questo, ci sia una strategia che porta alle lotte di potere interne alla Santa Sede, tra fazioni legate alla massoneria, quella bianca a cui fa riferimento l’Opus Dei e quella più laica, dedita agli affari e ai soldi.
Anche il comportamento del pontefice non è dei più lineari. Il giorno di Natale dell’83 va a trovare la famiglia Orlandi e lo fa mandando via eventuali testimoni. I fratelli di Emanuela diranno che le parole di Carol Woytila sono state “Quello di Emanuela è un caso di terrorismo internazionale”. Due giorni dopo si reca a Rebibbia per un colloquio col suo attentatore. É un colloquio riservato: quello che i due si sono detti rimane un segreto, per usare le parole del papa.
É tutto. Mirella ed Emanuela non sono più tornate a casa e, a questo punto, dopo 35 anni, vanno considerate morte.

I pentiti della banda della Magliana

L’ultima parte di questo articolo riguarda ancora la vicenda Orlandi, ma questa volta da un altro punto di osservazione e precisamente quello dei pentiti della banda della Magliana.
La prima domanda è: perché ci sono dei pentiti anche di livello tra gli aderenti alla banda della Magliana? C’è da dire che, a parte quelli morti … ammazzati o, più raramente, di morte naturale, la maggior parte di loro sono in carcere a scontare pene enormi, anche se moltissimi omicidi sono rimasti impuniti o per mancanza di prove o per sopravvenuta prescrizione.
Proprio di fronte all’enormità del tempo da passare dietro le sbarre, qualcuno ha preferito vuotare il sacco. E poi ci sono state le epurazioni, l’eliminazione trasversale di ex amici, che improvvisamente sono diventati troppo ingombranti o che hanno scelto strade diverse o che si sono alleati con le persone sbagliate. E le pistole armate e usate contro gli amici lasciano rancori, odi profondi, che si possono esprimere anche come vendetta vuotando il sacco.
Ecco dunque le informazioni che i collaboratori di giustizia della banda hanno rivelato. Naturalmente non sappiamo se quanto affermato sia vero o falso, ma lo registriamo come cronaca di una vicenda che abbiamo già capito essere avvolta nel mistero più misterioso.
Del resto, come abbiamo già visto, i silenzi e il riserbo ostinato del Vaticano sulla vicenda Orlandi, lascia spazio a molti dubbi e alla possibilità che le cose siano andate in modo molto diversa da come sostenuto dai personaggi che abbiamo incontrato fin qui.
In effetti finora la Banda della Magliana non sembra aver nulla a che fare con la scomparsa di Emanuela. Ricorderete quelle prime telefonate, in particolare quella del sedicente “Mario” che non chiedeva nulla ma diceva che la famiglia sarebbe stata ricontattata da qualche alto papavero dello stato del Vaticano. Chi è questo Mario? Lo scopre nel 2009 il procuratore Giancarlo Capaldo. A fare quella telefonata è stato Giuseppe De Tommasi, un malavitoso di spessore, molto vicino ai Testaccini, già dai tempi di Giuseppucci e poi tra i più stretti collaboratori di Enrico De Pedis per questioni finanziarie. Ecco il legame con la banda della Magliana.
Questa scoperta è figlia di una dichiarazione alla trasmissione “Chi l’ha visto” del pentito Antonio Mancini, detto l’Accattone, al quale si devono scottanti rivelazioni sul ruolo della banda nella ricerca della prigione di Aldo Moro e sull’uccisione di Mino Pecorelli, oltre che sulle varie attività diciamo così di routine. La sua convivente, Fabiola Moretti, dopo aver collaborato con la giustizia, ha ripreso le attività criminali e passa periodi in carcere ed altri agli arresti domiciliari.

Renatino de Pedis e la sua sepoltura a S. Apollinare

Un’altra testimone di notevole impatto sulle vicende che stiamo raccontando è Sabrina Minardi, ex prostituta, amante e compagna di Enrico De Pedis nei primi anni ’80. Anche in questo caso a scoprire la donna è una giornalista di “Chi l’ha visto”, Raffaella Notariale. Durante una puntata della trasmissione, nel 2005, arriva una telefonata in diretta che dice: “Se volete scoprire qualcosa sul caso Orlandi, andate a vedere chi è seppellito nella basilica di Sant’Apollinare e il favore che fece all’epoca Renatino al cardinale Ugo Poletti.
Enrico De Pedis, detto Renatino, è stato uno dei più feroci criminali della capitale, capo incontrastato della Banda della Magliana. Un genio del male perché il suo potere diventa sempre più grande, finché si convince che i grandi affari che portano un sacco di soldi sono roba sua, perché è lui a organizzare e gestire tutte le azioni. Il resto della banda, specie quelli della Magliana, non possono sopportare che non si divida più nulla, soprattutto per i carcerati, ai quali era sempre stata data una parte del bottino fin dalla nascita della banda. E così si organizzano e, al secondo tentativo, lo ammazzano in strada con un solo colpo. La cosa strana è che si è venuto a sapere più tardi che c’era una documentazione precisa su questi fatti e che la preparazione e l’esecuzione di Renatino era ampiamente conosciuta dalle forze dell’ordine ben prima che realmente avvenisse. E nessuno ha mosso un dito. Questo fa nascere il sospetto che i servizi segreti approvassero l’eliminazione di un bandito che stava diventando troppo potente anche per i loro affari.
Detto questo, dobbiamo tornare alla basilica di Sant’Apollinare, perché là viene sepolto Enrico De Pedis. É vero che un sacco di delinquenti sono sepolti nelle chiese, basta pensare ai potenti del medioevo che addirittura ne facevano costruire perché contenessero la loro tomba. Ma qui siamo nel 1990 e le cose sono un tantino cambiate.
Due anni prima di morire De Pedis si era sposato con Carla Di Giovanni nella basilica di Sant’Apollinare. Il bandito aveva indicato alla moglie una cripta dicendole che alla sua morte gli sarebbe piaciuto essere seppellito là. Forse una battuta, ma il rettore della chiesa, Piero Vergari, aveva preso sul serio le parole di quello che era diventato suo amico in carcere, dove il prete prestava opera di volontariato. Il nulla osta viene dal cardinale Poletti, a seguito di una lettera di Vergari in cui si esaltano le innumerevoli buone azioni compiute da De Pedis per la comunità e, in particolare, per la basilica. I termini usati sono sorprendenti, perché il delinquente diventa “un grande benefattore dei poveri e dei giovani interessandosi soprattutto alla loro formazione cristiana e umana”.
La sepoltura avviene senza clamore e con un assegno per la basilica, staccato dalla vedova, di 37 milioni.
Solo nel 1997 il Messaggero rende pubblica questa vicenda, facendo partire un’indagine della DIA (Direzione Investigativa Antimafia) che vuole aprire la tomba anche per vedere se, accando al cadavere di De Pedis non sia seppellito qualcun altro, magari una ragazzina di 17 anni. Serve l’OK del Vaticano, che arriva solo nel 2010, ma per riesumare la salma bisogna spettare altri due anni. Nel 2012 il corpo di Renatino viene cremato e le ceneri spostate in un cimitero normale. Ci sono state inchieste anche a carico di padre Vergari per coinvolgimento in sequestro di persona. Ancora una volta, il Vaticano ha mostrato una grande reticenza in ogni fase della vicenda. Nella cripta, ma non nella tomba di De Pedis, si sono trovate circa 200 ossa, la maggior parte di persone morte da secoli.

Dov’è finita Emanuela?

VaticanoDi dove sia oggi Emanuela Orlandi ne abbiamo sentite di ogni tipo. Alì Agca sostiene che è viva e tornerà presto a casa; un sedicente ex agente del SISMI telefona in TV per dire che è in un manicomio in Inghilterra sempre sedata. Ma quello che raccontano i pentiti della Banda della Magliana è tutta un’altra storia.
Cominciamo da Sabrina Minardi, all’epoca la donna di De Pedis, quella che era più intima del capo della banda. Lei racconta che Emanuela è stata rapita dagli uomini di De Pedis e tenuta prigioniera in un sotterraneo. Ma il motivo per cui tutto questo avviene è, ancora una volta, legato ai soldi e al potere. Era stato Marcinkus, il padrone incontrastato dello IOR, a volere quel rapimento, per dare un segnale forte nelle alte sfere, così che non uscissero certi segreti che avevano a che fare con il crack del Banco Ambrosiano, la morte di Calvi e soprattutto con i giochetti finanziari che lo IOR da tempo conduceva a favore di potenti, ricchi, mafiosi e camorristi.
Lo stesso De Pedis, racconta sempre Sabrina, era di casa da Marcinkus. Arrivava con borsoni pieni di soldi da far ripulire. Inoltre lei stessa aveva accompagnato a casa dell’arcivescovo ragazze disponibili, perché il prelato, a suo dire, aveva un debole per le minorenni. Per far capire che razza di intrecci avesse creato De Pedis (e non perché c’entri in qualche modo con la vicenda Orlandi) Sabrina ricorda due visite di De Pedis a casa di Giulio Andreotti, ricevuto con simpatia da parte del politico e di sua moglie. Del resto, Antonio Mancini, detto Accattone, si chiede come abbia fatto De Pedis a morire incensurato, avendo ammazzato più gente di lui ed eseguito almeno lo stesso numero di rapine. Evidentemente era stato abile a costruirsi attorno una trama di amicizie molto importanti.
Lo stesso Mancini, confermando quello che Sabrina aveva detto, racconta:
La Orlandi è opera della Banda della Magliana, di quelli di Testaccio. Io di questo sono sicuro. Le ragioni … per una questione di denaro per recuperare i soldi che la banda – e non solo la banda, ma anche la mafia e altri poteri finanziari – aveva investito su Calvi. Poi c’è stata l’impiccagione di Calvi … perché Calvi terrorizzato aveva cominciato a ricattare il Vaticano … e si era fatto pericoloso e allora uomini collegati al Vaticano dicono … bisogna eliminare Calvi perché ci sta creando dei problemi … e visto che nonostante queste pressioni i soldi non tornavano o quanto meno non tornavano tutti, allora per far vedere che chi aveva investito, cioè De Pedis, non si sarebbe fermato davanti a niente … stabilirono di portare via la ragazzina …”.
Queste sono tutte frasi estratte dal racconto dell’Accattone, uno che era nei quartieri alti della banda romana.
Altri particolari agghiaccianti vengono rivelati da Sabrina Minardi. Secondo la sua testimonianza, lo stesso Marcinkus era andato a trovare la ragazza, rinchiusa in una villa a Torvajanica e là l’avrebbe violentata. Sabrina racconta di aver sentito urlare Emanuela.
C’era anche lei quando la Orlandi era stata trasferita in quella villa. Doveva fermarsi una sola notte, ma vi rimase due settimane. Secondo lei a uccidere Emanuela e occultarne il cadavere sarebbero stati sempre gli uomini di De Pedis.
La testimonianza di una donna cocainomane non può essere presa per buona senza se e senza ma. Tuttavia nel 2010 gli inquirenti decidono che la superteste è affidabile e così il procuratore Capaldo e il pubblico ministero Maisto, ritengono credibile che Emanuela Orlandi sia stata rapita dalla banda della Magliana per il divertimento sessuale di qualche alto prelato. E quindi andava poi eliminata per non avere in giro una testimone così scomoda di una verità tanto raccapricciante. Del resto una simile storia avrebbe messo la banda romana nella condizione di ricattare il Vaticano, aggiungendo un ulteriore strumento per il recupero dei soldi evaporati dalle operazioni finanziaria dello IOR.

Altri strani risvolti

VaticanoAltri fatti curiosi rientrano nella vicenda Orlandi, come quella dell’agente del SISDE che cerca la famosa BMW che era stata vista quando l’uomo aveva proposto a Emanuela di partecipare alla sfilata con i prodotti Avon. Forse l’ha anche trovata in una officina. L’aveva lasciata una signora che l’agente rintraccia al residence Mallia, quello in cui avevano abitato Danilo Abbruciati e la sua donna, Fabiola Moretti.
Appena tornato in ufficio l’agente viene ripreso dal suo superiore che gli impone di lasciar perdere quella ricerca e di smettere di cercare quella macchina, perché quella vicenda non è affar suo. Come aveva fatto in così breve tempo a sapere che era stato in quel residence? Non si sa.
C’è poi un altro clamoroso risvolto. Qualche anno fa un fotografo romano, Marco Fassone Accetti, si è accusato del duplice rapimento delle due ragazze: Emanuela e Mirella. Ha avuto un sacco di pubblicità: interviste e comparsate TV, c’è addirittura chi ha scritto un libro su di lui, ma alla fine è stato denunciato per calunnia e autocalunnia. Per gli inquirenti è solo un mitomane, uno dei tanti che sguazzano quando casi del genere restano senza un perché.
Ed è così che finisce la nostra storia, senza un perché. Non abbiamo nessuna notizia certa, solo dichiarazioni e supposizioni, molte ipotesi e pochi fatti. Come del resto nella maggior parte delle vicende oscure di quel periodo così buio della nostra Repubblica. Ma chissà … forse un giorno …