Premessa

In questi ultimi mesi abbiamo esplorato alcune vicende tristi e sanguinose dell’Italia degli anni che vanno dal ’70 alla fine della prima repubblica. Ho raccontato la storia dell’assassinio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, le vicende delle navi dei veleni, del capitano di corvetta Natale De Grazia, dell’abbattimento dell’elicottero della finanza Volpe 132, dello scandalo Lockheed, storie con le quali si potrebbe riempire un contenitore molto, molto grande.
Pensate alle stragi, da quella di piazza Fontana del 1969 in poi, agli assassini impuniti di giornalisti e comunicatori, come Mauro Rostagno, Mauro De Mauro, Giovanni Spampinato, Pippo Impastato e la lettura della lista potrebbe scorrere come un fiume. E poi personaggi dello stato come il generale Della Chiesa, i magistrati Borsellino e Falcone e tantissimi altri. Una ecatombe, come se vivere nel nostro paese da protagonisti, fosse una guerra. Una guerra tra chi vuole cercare e far conoscere la verità e quelli che vogliono impedirlo.
Questi ultimi sono più forti e lo sono tanto più quanto più la gente resta spettatrice disinteressata, inerte, svogliata, succube. Perché versare una lacrima durante il telegiornale che annuncia un’altra strage, un altro dramma, altre vittime innocenti, non basta, non è sufficiente: adesso vogliamo sapere chi è stato, chi è il mostro che sta dietro a tutto questo. Per farlo dobbiamo prepararci meglio ed essere consapevoli che meno cose sappiamo, più grande è il vantaggio che concediamo ai nostri nemici.
Cos’hanno in comune tutte queste vicende con così tanti morti ammazzati? Una cosa ce l’hanno: che non sappiamo chi è stato. Certo in alcuni casi basta dire “è stata la mafia”, “colpa della camorra” ma quasi mai si conosce il volto di chi ha deciso, che spesso è personaggio al di fuori di queste organizzazioni. Leggendo le documentazioni si scoprono indagini monche, insabbiamenti, protezioni internazionali, prove distrutte o rese inutilizzabili, ma si capisce subito che la verità è diversa, molto diversa da quella ufficiale.
É il caso del traghetto Moby Prince, che nel 1991 va a fuoco. Ci sono 140 morti, un superstite e nessun responsabile.
Uno dice: cosa c’entra la Moby Prince con Ilaria Alpi? Il mar Tirreno con la Somalia? Livorno con Mogadiscio? Magari niente, forse qualcosa. Seguiamo la storia e proviamo a capirne di più.
La Moby Prince parte da Livorno verso le 10 di sera del 10 aprile 1991, poco dopo sfonda la pancia della petroliera AGIP-Abruzzo che trasporta grandi quantità di petrolio. L’impatto fa sviluppare un incendio che si propaga molto velocemente. Muoiono 140 delle 141 persone a bordo, mentre l’equipaggio della petroliera si salva.
Il luogo dell’incidente è a non più di 10 miglia dal porto, per cui ci si aspetta un arrivo molto rapido dei soccorsi. Ma questo non avviene.
Come sempre succede, la notizia getta tutti nello sconforto e la gente si chiede cosa diavolo sia successo. Come è possibile, in un tempo in cui la tecnologia è così avanzata, che due navi si scontrino in mare. Il ministro Carlo Vizzini, che viveva i suoi ultimi giorni da ministro della Marina Mercantile per poi passare alle Poste e Telecomunicazioni, dichiara in televisione che si è trattato di un errore umano. Il comandante del porto di Livorno parla della presenza di una fitta nebbia. Qualcuno sostiene che forse l’equipaggio era distratto perché stava guardando in televisione le ultime fasi della partita di calcio Barcellona – Juventus.
Il TG1 apre proprio così il suo notiziario: è colpa dell’equipaggio che, invece di preoccuparsi della nave, si fa i fatti suoi.
Ma ci sono domande alle quali non può bastare una risposta così ovvia. Possibile che tutto l’equipaggio, fatto di 80 persone, fosse davanti al televisore? Come è possibile non vedere una petroliera che è come non vedere un palazzo di cinque piani? E poi: quella notte, la nebbia c’era davvero?
Credo che quasi tutti conoscano i fatti come sono stati raccontati. La versione ufficiale è stata riportata da ogni mezzo di stampa. Cerchiamo di riassumerla di seguito.
Questa parte è un riassunto (con alcune integrazioni) di quanto riportato da Wikipedia, e rappresenta quindi una ricostruzione controllata della vicenda.
L’incendio si sviluppa perché la prua del traghetto perfora uno dei serbatoi della petroliera, che contiene 2700 tonnellate di petrolio. Una parte di queste, forse 300, investono la Moby Prince e le scintille prodotte dallo sfregamento delle lamiere fanno divampare le fiamme. Alle 22,25, il marconista lancia il “Mayday” dal suo portatile perché in quel momento non si trova in sala radio.
L’incendio è all’esterno della nave, che è provvista di paratie tagliafuoco per impedire al fuoco di propagarsi. Secondo gli esperti ci vuole circa mezz’ora perché le fiamme raggiungano il salone “De Lux” dove si trova la maggior parte delle vittime.
Nonostante l’incendio il traghetto ha i motori accesi e si muove in circolo per alcuni km. La sua sagoma in fiamme viene rilevata alle 23,35 oltre un’ora dopo la segnalazione di aiuto e solo dopo che l’SOS è ripetutamente emesso dall’Agip Abruzzo. 

La prima versione

Quello che si viene a sapere è allucinante. Il personale del traghetto fa accomodare tutti nel salone De Lux, quello più protetto. Ma l’incendio, arrivato al salone, lo salta e diventa un cerchio di fuoco attorno alle persone chiuse là dentro. Non c’è più possibilità di fuga. Sembrava il sistema migliore; e poi - pensano tutti - il porto è a poche miglia e i soccorsi arriveranno in un baleno.
Moby PrinceQuesto purtroppo non avviene, anzi. Gli esami tossicologici sulle vittime mostrano un elevato contenuto di Ossido di Carbonio (CO) nel sangue, segno che non tutti muoiono a causa delle fiamme in pochi minuti. Molti sono uccisi dal gas e ci sono volute ore per farlo. Il sistema di aria condizionata, rimasto acceso fino al giorno dopo, ha perfino dato una mano facendo arrivare i gas nocivi dappertutto. Le salme vengono recuperate un po’ in tutte le zone della nave, anche se, come detto, la maggior parte, 60, nel salone De Lux.
Tutte le indagini e tutte le commissioni di inchiesta che si sono succedute dopo il disastro hanno messo come causa prima l’errore umano. Anzi gli errori umani, come il mantenimento di una velocità troppo elevata alla navigazione e per di più con un portello aperto; il mal funzionamento di alcuni apparati di sicurezza a bordo della nave, l’aver fatto scendere troppo presto il pilota del porto, responsabile dell’uscita dell’imbarcazione dal porto di Livorno ed altre questioni ancora.
La storia della partita di calcio è stata rigettata ben presto in base alla testimonianza dell’unico superstite, il mozzo Alessio Bertrand, il quale avrà, come vedremo alla fine un ruolo decisivo nella ricostruzione dei fatti.
Tra le varie ipotesi, sostenute anche dalla stampa, ad esempio che il timone fosse avariato, è rimasta in piedi solo quella che il sistema automatico antincendio, il cosiddetto impianto Sprinklers, non fosse stato attivato, contro le disposizioni nazionali ed internazionali di navigazione. La sua attivazione avrebbe consentito agli occupanti un tempo maggiore di sopravvivenza e ai soccorsi la possibilità di arrivare prima che sia inutile. Purché fossero partiti in tempo, cosa che non è avvenuta.
E poi c’è il discorso della nebbia. Qui le versioni sono contrastanti, anche se questa sembra essere una posizione condivisa dalle varie inchieste. Ma sul fatto permangono fortissimi dubbi. C’è un filmato del TG1 che mostra un tempo buono, c’è la deposizione di Giuseppe Gentile, capitano della Guardia di Finanza, che esce alle 22,35 dal porto toscano e dichiara in tribunale che “in quel momento c'era bellissimo tempo, il mare calmissimo e una visibilità meravigliosa”.
Le imbarcazioni coinvolte tuttavia sono due. Dove si trovava l’Agip Abruzzo e cosa ci faceva là alla fonda davanti al porto? Nella sentenza di primo grado (ottobre 1998) si afferma che si trovava in una posizione in cui non poteva proprio stare, perché dentro il triangolo di mare riservato alle imbarcazioni che lasciano il porto di Livorno.
Quando il marconista del Moby Prince lancia il suo segnale, l’SOS non viene registrato a terra; non si sente bene, è molto disturbato. C’è un improvviso calo di volume nelle comunicazioni con la capitaneria del porto. Non si sa perché. Ascoltate, ve lo faccio sentire due volte:

E poi c’è l’azione del comandante della petroliera, Renato Superina (morto nel 2011), che chiama aiuto gridando di essere stato investito da una “bettolina” e quindi di dare precedenza al soccorso alla propria nave. La bettolina è una imbarcazione piccola con pochissime persone a bordo.
I primi ad arrivare sono due ormeggiatori, Mauro Valli e Walter Mattei, che raccolgono Bertrand, il quale li invita a soccorrere gli altri perché – dice - a bordo ci sono ancora persone vive. Valli e Mattei via radio chiamano soccorsi immediati. Sono le 23,35: l’incendio divampa da 70 minuti.
Nel frattempo arriva una motovedetta della Capitaneria del Porto, carica Bertrand e lo porta a riva per l’aggravarsi delle sue condizioni. Stranamente i due ormeggiatori a questo punto riferiscono che Bertrand avrebbe detto: “non c’è più nessuno da salvare; tutti morti bruciati”. Perché hanno cambiato versione?
Alle 3,30 il primo marinaio dei soccorsi sale sul Moby Prince per agganciare un cavo di traino.  Dopo di lui passeranno molte ore prima che altre persone mettano piede sul traghetto.
Da varie perizie si scopre quello che si sospettava: molti passeggeri sono morti per l’ossido di carbonio. In particolare si rinviene una cinepresa in una custodia di plastica ancora integra, segno che in quella stanza la temperatura non aveva raggiunto valori eccessivi. La lentezza dei soccorsi, insomma, è responsabile di un buon numero di quelle vittime.

I processi

Come sempre succede di fronte ad una simile tragedia, con tutti quei corpi e per di più morti in un modo così atroce, si formano comitati dei parenti delle vittime, non uno solo, ma diversi perché diverse sono le esigenze, le premesse e le richieste. E naturalmente si avviano le indagini. La prima ad occuparsene, per questioni territoriali è la procura di Livorno che individua 4 possibili imputati: il terzo ufficiale della petroliera, Valentino Rolla, accusato di omicidio colposo plurimo e incendio doloso; Angelo Cedro della Capitaneria di porto e l’ufficiale di guardia Lorenzo Ceccacci ed infine Gianluigi Spartano che non avrebbe trasmesso la richiesta di soccorso; tutti e tre sono accusati di omicidio colposo perché i soccorsi non sono arrivati in tempo. Grazie ai risultati di due commissioni di inchiesta vengono scagionati il comandante della petroliera Renato Superina e l’armatore della Navarma (proprietario del Moby Prince).
Ci vogliono due anni per la sentenza di primo grado, che viene letta in un clima di tensione altissima con l’aula strapiena di forze dell’ordine. Imputati tutti assolti “perché il fatto non sussiste”. Si va in appello e qui la vicenda si conclude all’italiana: nel frattempo è sopravvenuta la prescrizione del reato e tanti saluti al secchio. É il 1999, sono passati 8 anni dal disastro.
Nel frattempo c’è un processo parallelo, contro due tecnici, che si autoaccusano di aver manomesso le prove, orientando il timone su “Automatico” invece che su “Manuale”. Sarebbe una prova che il personale stava facendo altro che governare la nave e seguire la rotta. L’operazione però non riesce perché la leva, ormai bruciata, si sbriciola e quindi i tecnici addetti alle perizie non cadono nel tranello. Con questa motivazione i due vengono assolti perché, nonostante tutto, non hanno danneggiato le indagini. É appena il caso di sottolineare che questo tentativo di addossare la colpa al comandante del traghetto una qualche ragione la deve pur avere. E la cosa più logica è pensare che in questo modo si cerchi di coprire qualcun altro.
L’interpretazione del presidente del tribunale di Firenze, viene poi confermata fino in Cassazione e il caso si chiude.
Si riapre però nel 2006. Questa volta sono i famigliari delle vittime a farne richiesta, in particolare i figli del comandante del traghetto, Ugo Chessa. Sostengono che, guardando i tracciati radar, le immagini satellitari o altro materiale simile, probabilmente si riuscirebbe ad avere maggiori informazioni su quanto accaduto quella notte. E si rivolgono al presidente della Repubblica perché inoltri quella loro richiesta al presidente degli Stati Uniti, Barak Obama.
Uno dice: “Cosa c’entrano gli Stati Uniti?”.
In effetti c’entrano, perché quella notte, in quella zona di mare, stazionano navi da guerra statunitensi e sarebbe carino sapere cos’hanno combinato quella sera e se per caso sono in qualche modo coinvolte nel disastro del Moby Prince.
É questo il senso dell’interrogazione parlamentare dell’on. Realacci. Ma c’è dell’altro, perché sono gli anni in cui tra i porti italiani e i paesi stranieri, in particolare l’Africa, c’è un grande via vai di navi che non devono essere viste, navi che portano armi e rifiuti tossici, con ogni probabilità coperte da amministrazioni compiacenti o almeno da parte di esse, come abbiamo visto nelle recenti puntate di Noncicredo.
É a questo punto che cominciano a succedere cose strane.
agipabruzzoNel novembre del 2006 si trovano alcune bobine di immagini nella Procura di Livorno. Dov’erano durante il processo?
Un anno più tardi un consulente per le intercettazioni telefoniche, Fabio Piselli, raccoglie dati utili anche per la tragedia del Moby Prince. Contatta il giudice Carlo Palermo per organizzare l’ascolto di un possibile testimone. Viene aggredito da quattro energumeni incappucciati, chiuso in macchina alla quale poi danno fuoco. Piselli se la cava per miracolo. Viene aperto un fascicolo contro ignoti per tentato omicidio.
Nel corso del 2009 nuove indagini vengono portate avanti, ma nel 2010 si procede all’archiviazione del caso. Il testo di questo atto è quanto mai interessante.
Tutta la responsabilità è addossata al personale di bordo e quindi al comandante Chessa, che sarebbe andato troppo veloce, avrebbe incontrato improvvisamente un banco di nebbia, dentro il quale si annidava la petroliera, avrebbe acceso le luci peggiorando la visibilità. Il personale era decisamente troppo rilassato come mostra la mancata attivazione di sistemi di sicurezza (il portellone aperto, il sistema antincendio disattivato).
E chiude così:
“Occorre tornare al quesito di base: comprendere fino in fondo come sia possibile che personale di bordo ritenuto preparato, al comando di una nave dotata degli impianti per la sicurezza della navigazione secondo le regole in vigore all'epoca, possa avere così gravemente errato nella conduzione della nave; e come sia possibile che una collisione con una petroliera alla fonda, avvenuta a così poca distanza dal porto di Livorno abbia potuto avere così tragiche conseguenze."
Nel 1998 il relitto del Moby Prince, da allora sotto sequestro, è quasi affondato. Recuperato è stato mandato in Turchia per essere smantellato.
Tutto chiaro dunque? Non proprio, perché ci sono altre ipotesi che sono state prese in considerazioni e altri dubbi che ancora attanagliano le menti dei famigliari delle vittime. 

I dubbi

Quello che segue è l’analisi dei dubbi, così come sono stati redatti nella richiesta di riapertura del caso. L’intero documento di 125 pagine si trova facilmente in rete.
Come già anticipato i dubbi sull’episodio sono sorti fin dall’istante successivo all’incendio.
La storia della nebbia non regge neanche un minuto: nessuno l’ha vista, nemmeno il comandante dell’Agip Napoli, gemella della petroliera incendiata che comunica alla capitaneria: Non capite quello che sta succedendo”, dice, sottolineando la gravità della situazione. Lui è a un miglio e mezzo, due km e mezzo e ci vede benissimo. Altro che nebbia.
Poi c’è l’ipotesi dell’attentato, di un ordigno collocato all’interno del traghetto. L’esplosione avrebbe fatto deviare l’imbarcazione che così finisce addosso alla petroliera. Questa pista viene abbandonata quando il mozzo superstite testimonia che nessuna esplosione era avvenuta prima dell’impatto.
Che ci sia un gran traffico nella rada davanti al porto è un’ipotesi che viene inizialmente presa in considerazione: per questo si chiede di poter accedere alle informazioni della marina militare statunitense e della NATO. Ma questa possibilità viene esclusa categoricamente dal comandante la base Nato di Verona, generale Lucio Inneco.
Anche se nei processi la presenza di altre imbarcazioni quella sera nella rada di Livorno non è mai stata chiarita, è assolutamente certo che di navi ce n’erano un bel po’. Anche navi da guerra americane.
C’era sicuramente la Theresa. Nel gennaio 2008 si scopre una traccia audio registrata alle 22,45 della notte della tragedia che dice con un marcato accento greco: Questa è Theresa, questa è Theresa per la Nave Uno ancorata a Livorno, me ne vado, me ne vado, passo e chiudo”.
Uno dice: “Niente di strano, una nave in un porto”. Giusto, ma nei registri del porto di Livorno di quella notte non risulta essere mai stata presente una nave di nome Theresa e non si è neppure mai saputo chi fosse quella “Nave Uno” a cui Theresa comunicava l’uscita dal porto in tutta fretta. Torneremo più avanti su questo punto.
Siccome là vicino c’è la base americana/NATO Camp Darby, la presenza anche di molte navi da guerra non suscita più stupore di tanto. Ma allora come mai quella notte molte navi erano là sotto falso nome o con nomi di copertura? E come mai le eventuali operazioni militari non erano state autorizzate dalla prefettura, come previsto dalla legge italiana?
Se a questo aggiungiamo che nel periodo in questione il traffico di armi e rifiuti andava alla grandissima, beh di dubbi sul reale svolgimento dei fatti che hanno portato alla morte di 140 persone, ce ne sono un bel po’.
Concentriamoci adesso sulla situazione del porto. Ci sono due documenti che meritano una sottolineatura. Il primo è il brogliaccio del porto, vale a dire una specie di istantanea, una fotografia delle navi presenti quella sera. Il secondo è, invece, una lettera arrivata il 15 marzo da New York e firmata dal colonnello Harpole comandante del dipartimento che gestisce il traffico militare statunitense.
Ecco il testo:
A chi di competenza,
Si notifica che le sottoindicate navi trasportano materiali di proprietà del Governo degli Stati Uniti destinato alla base USA/NATO di Camp Darby. Le navi sono sotto il diretto controllo del Dipartimento di Difesa USA (militarizzate) pertanto esenti da qualsiasi tassa o visita di controllo a bordo:
  • CAPE BRETON bandiera USA
  • EFDIN YUNIOR bandiera greca
  • GALLANT II bandiera panamense.”
In parole povere è una dichiarazione del tipo: “Quelle tre sono navi da guerra statunitensi, lasciatele in pace e non ficcateci il naso”.
Sono reduci dalla guerra del golfo, appena terminata, e riportano a casa armi e munizioni non usate in Iraq. Ma scorrendo il brogliaccio si scopre che di navi “militarizzate” in rada quella sera del 10 aprile ce ne sono di più, almeno altre 4, come dirà la Digos di Livorno. Tutte interessate a contenere, trasportare o caricare e scaricare armi e munizioni, quindi carichi pericolosi, ma non soggetti ad alcun controllo da parte delle autorità italiane.
Teniamo presente il nome della nave Galland II, ne riparleremo.
Come già detto questo fatto non è strano, vista la vicinanza della base NATO, è strano che tutto questo non sia mai emerso durante il processo, anche se il tenente della Finanza Giuseppe Gentile, il primo ad arrivare sul luogo del disastro, lo aveva dichiarato già il giorno dopo la tragedia, e ribadito in fase processuale un mese dopo, dicendo, tra le altre cose, che quella sera c’era una giornata chiarissima, senza nebbia e con il mare calmissimo; che c'erano alla fonda quattro navi, mentre a nord c'era una nave grossa illuminata che era quella che stava facendo il carico di armi.
Questo fatto è di per sé grave, perché le attività di movimentazione di armi sono vietate di notte e nelle prossimità di navi civili.
E poi, come detto, c’è la nave Theresa. La sua rotta è rilevata dal radar e registrata. Arriva a Livorno con una velocità troppo elevata, tanto da essere segnalata da diverse imbarcazioni che ne incrociano la rotta. Non c’è nessuna nave attesa a quell’ora. Theresa deve raggiungere un punto della rada perché ha un appuntamento con un’altra nave ancorata nel porto, la “Ship One”. L’incendio è un imprevisto e Theresa deve filarsela in tutta fretta. Non presta aiuto, non chiede nemmeno informazioni, comunica solo alla Nave Uno che se ne va.
Di questa imbarcazione non si saprà niente per molti anni. Chi sia la Nave Uno nemmeno. Cosa doveva fare questa nave così indisciplinata da meritare ben due richiami da parte di comandanti di altre imbarcazioni che erano in rotta di collisione con lei? E quale era la missione così segreta da portare a termine? Non lo sappiamo.
Così come non sappiamo chi fosse e da dove provenisse l’elicottero che volteggiava sopra il luogo dell’incidente, osservato da vari testimoni, ma che non era partito da nessuna base italiana e nemmeno dalla base NATO di Camp Darby.
Così come non sapremo mai se vicino alla petroliera c’era la bettolina che l’equipaggio aspettava per fare rifornimento di carburante e della quale parla il comandante dell’Agip Abruzzo, Renato Superina, salvo poi rifiutarsi di testimoniare durante il processo.
Navi diverse dalle due protagoniste vengono viste in quella zona anche da altri testimoni: ad esempio dai due ormeggiatori Mattei e Valle mentre si recano sul luogo dell’incendio. E lo stesso riferisce un giornalista de L’Unità, Luigi Malventi, citando due fonti che rimangono anonime.
Altre stranezze arrivano dalle dichiarazioni di due ufficiali che alloggiano al porto. Loro vedono prima le fiamme in lontananza e solo più tardi arrivare il traghetto Moby Prince, come se l’incendio fosse scoppiato prima dell’impatto.

Altre stranezze

A ben vedere altre stranezze sono rintracciabili nelle prove e nelle testimonianze. Un’altra domanda cruciale è: “perché quasi tutti i corpi sono stati rinvenuti nel salone De Lux?” Sulla nave bruciata si trova un filmato girato da uno degli sfortunati clienti, il signor Canu.
La pellicola, sopravvissuta alle fiamme, ma stranamente “tagliata”, mostra gli avventori del bar, gli inservienti e un nutrito numero di persone che sta guardando la partita in televisione. Come mai nessun corpo è stato trovato qui? Quello che sembra è che il personale di bordo abbia avviato tutti nel salone De Lux e che quindi il botto e l’incendio non siano stati qualcosa di improvviso e imprevedibile. Sul fatto che il nastro fosse tagliato e ricomposto artigianalmente non c’è mai stata una spiegazione decente.
Il marconista non è al suo posto di lavoro, ma sul ponte principale dove viene rinvenuto il cadavere. Da qui viene inviato il “Mayday” con un apparecchio portatile. Perché aveva abbandonato la sua postazione?
Fino alle 22,23 tutto era normale e le conversazioni tra porto e nave non avevano niente di preoccupante o sospetto. Il grido d’aiuto arriva due minuti dopo: cos’è successo in quei due minuti?
Profeta Brandimarte, uno dei consulenti delle parti civili, offre la sua conclusione, che, è bene sottolinearlo, rimane un’ipotesi, ma un’ipotesi che spiegherebbe alcuni dei fatti strani che riempiono di dubbi quella tragedia. Eccola.
A bordo del traghetto, la sera del 10 aprile ’91, avviene qualcosa che rende impossibile proseguire la navigazione secondo l’itinerario previsto ma che non comporta un immediato pericolo di vita, “qualcosa” che precede di almeno due minuti la collisione. “Questo è il mio pensiero da marittimo, da navigante, comunque mi metto nei panni del comandante: la prima operazione da fare è quella di mettere in sicurezza i passeggeri. Quindi, avrà certamente fatto convogliare i passeggeri nel salone de Lux e questo comporta, comunque, un certo tempo, non lungo, ma diciamo sufficiente a convogliare questi passeggeri nel salone, a seguito dell’evento straordinario che si è avuto in quel momento. Devo anche dire e pensare che il Comandante avesse necessità di sapere cosa fosse realmente successo. Per cui diciamo: mettere in sicurezza i passeggeri, capire cosa poteva essere successo, quindi dare anche degli ordini agli ufficiali che erano con lui e prepararsi ad effettuare un possibile e prossimo rientro in porto. Questo lo dico perché non è pensabile, con una qualsiasi emergenza poco dopo la partenza, di proseguire il viaggio e arrivare fino a destinazione. Questa era la situazione. Diciamo anche che il Comandante non aveva l’obbligo di informare le autorità marittime o chicchessia nell’immediatezza dell’evento, anche perché – torno a dire – doveva capire cosa era successo, doveva manovrare, doveva mettere i passeggeri in sicurezza. Lo avrebbe certamente fatto se ne avesse avuto la possibilità, se avesse potuto concludere questa emergenza.”
moby chessaE del resto il comandante Chessa, nonostante le conclusioni del tribunale che abbiamo sentito prima, è ritenuto uno dei migliori, con grande esperienza.
Ma c’è di più.
Quando il chimico della Criminalpol sale a bordo per fare i rilievi del caso, trova tracce di almeno sette sostanze, cinque tipiche di composizioni esplosive ad uso “civile”, denominate Gelatine-Dinamiti, due presenti soprattutto in esplosivi militari e in plastici da demolizione (SEMTEX H). Sei di queste sostanze sono esplosivi ad alto potenziale sia singolarmente che in miscela. Le tracce di questi esplosivi vengono trovate nel locale motore dell’elica di prua, anche se, essendo in quantità molto piccole, non è possibile capire se fossero contenute in un ordigno. Ma la domanda resta: come mai c’erano sostanze esplosive su un traghetto passeggeri?
Adesso ci trasferiamo sulla Agip Abruzzo, perché anche qui ci sono dei bei misteri da svelare. Cominciamo dalla sua posizione in mare. Dove si trovava? La risposta data dalle inchieste è “Non si sa”. La posizione è importante, perché all’uscita del porto esiste un cono di transito all’interno del quale nessuna nave può sostare, specie se trasporta materiali pericolosi come il petrolio. Le indicazioni su dove si trova la nave vengono dal comandante Superina, che dice La posizione è proprio all’interno di quel cono, dove la petroliera non poteva assolutamente stare.
Ma l’inchiesta vuole conferme e manda, due giorni dopo, una nave militare a controllare. Questa è comica: controllare cosa? Dopo l’incendio le registrazioni delle comunicazioni provenienti dall’Agip Abruzzo fanno capire che la nave si è mossa uscendo dal cono. Da quel momento in poi la confusione su questo punto è massima, fino alla conclusione che stabilire dove si trovasse al momento dell’incendio non è proprio possibile.
Curiosamente il comandante dell’Agip Napoli, che conferma la posizione dentro il cono della nave gemella, al processo non si presenta mai, perché “impegnato in attività lavorative”.
C’è un altro aspetto inquietante nell’intera vicenda. Le comunicazioni radio del comandante la petroliera forniscono la prova che la nave era ancorata all’interno del famoso cono riservato, con la prua diretta a Sud. Ascoltate infatti cosa dice: Stiamo suonando, solo che abbiamo la prua a Sud per questo non sentite” dice ai soccorritori che chiedono di farsi sentire perché il fumo dell’incendio rende difficile avvistare l’imbarcazione.
Ma se la prua è a Sud, significa che la cisterna colpita dal Moby Prince, che stava uscendo da Livorno, è rivolta verso il mare aperto. Come diavolo ha fatto il traghetto a colpire un punto della petroliera che si trovava dall’altra parte della stessa rispetto alla sua direzione di navigazione?
Rimane il giornale di bordo, dal quale è sicuramente possibile risalire ai dati. Ma, quando il comandante Superina scende dalla petroliera, lo dimentica a bordo. Due giorni dopo un incendio sviluppatosi sulla petroliera lo distrugge.  Un’altra delle mille stranezze del caso.
Nel porto di Livorno in quei giorni c’è una nave molto particolare: un peschereccio, il “21 October”. Quello che ha di particolare è che si tratta dell’ammiraglia di una flotta di pescherecci di proprietà della Scifco. Già, proprio quella che il governo italiano aveva regalato alla Somalia per pescare e poi vendere il pesce nell’ambito della Cooperazione internazionale. Nella puntata su Ilaria Alpi avevamo incontrato questa flottiglia: è quella su cui indagava Ilaria prima nella ex Jugoslavia e poi a Bosaso, perché sospettata di non avere niente a che fare col pesce, ma con rifiuti tossici e armi. La nave è ferma per riparazioni, come le accade spesso e per periodi straordinariamente lunghi, qui a Livorno, dopo aver toccato i porti di Tripoli, Beirut, e altri in Iran, che non sembrano essere proprio dei paradisi per i pescatori. Quella sera la 21 October fa il pieno e anche questo è curioso: perché mai una imbarcazione in riparazione dovrebbe rifornirsi di carburante? Ci sono testimoni che giurano di aver notato che quella notte del 10 aprile, la 21 October al molo dove era stata attraccata, non c’è più. Strano …

Altre anomalie

Il traffico di navi in una certa zona di mare è controllato, proprio come quello degli aerei, da una serie di radar. Ci sono quelli del porto, quelli delle singole imbarcazioni, quelle di altre strutture circostanti la zona.
Livorno poi non è una città qualsiasi: ci sono basi militari, accademie, bersagli sensibili e dunque il monitoraggio è formidabile. Eppure quella sera succede qualcosa di veramente sorprendente. C’è “qualcosa” che produce forti disturbi elettromagnetici, tanto che i radar di soccorso vanno in tilt mentre si avvicinano alla zona dov’è ancorata l’Agip Abruzzo. Lo abbiamo visto all’inizio ascoltando il Mayday della Moby Prince. Ancora più curioso è il fatto che queste anomalie riguardino solo i mezzi di soccorso, mentre da terra tutto è regolarissimo.
Attorno alla città toscana c’è il centro radar di Poggio Ballone, poi La Spezia, e ancora il centro Mari-tele-radar al porto labronico dotato delle attrezzature più sofisticate. E poi c’è l’aeroporto di Pisa.
C’è anche un aereo della linea Roma - Pisa che transita a quell’ora sopra Livorno, vede l’incendio e lo comunica alla torre di controllo di Pisa, da dove parte verso Radio Livorno un messaggio informativo, che resta impresso sul nastro: sono le 22.41’41”. Sono passati meno di 20 minuti dall’incendio. Ce ne vorranno altri 55 perché i soccorsi si muovano. Perché?
Perché la Commissione non chiede l’acquisizione di tutti i tracciati radar disponibili riguardanti l’area del porto di Livorno di quella sera?  Perché nessuna stazione di avvistamento fornisce questo materiale alla Capitaneria di Porto di Livorno?
Ma di quell’area, a quell’ora non si trovano tracce. Un oscuramento dei dati sorprendente. Ci sono le registrazioni di tutto quello che è accaduto prima, i tracciati delle navi, alcune con la stessa rotta della Moby Prince, ma non di quello che succede in un certo punto della rada ad una certa ora: le 22,25, l’ora della collisione, l’ora in cui si perdono le tracce della nave Theresa, l’ora in cui poco più a Nord avvengono le operazioni di carico e scarico di armi e munizioni.
All’interno del salone De Lux sono chiuse decine di persone, la maggior parte con cellulari. Nessuna chiamata risulta essere uscita, per informare, chiedere aiuto … come è possibile? Forse i cellulari non erano utilizzabili per qualche interferenza esterna? Come mai gli ispettori e i responsabili dell’armatore non riescono a comunicare con il telefono della Moby Prince?
Cosa è successo? La risposta è sempre la stessa: non si sa!
A questo punto, pensare ad un occultamento elettromagnetico volontario e premeditato è molto meno fantasioso di quanto si possa pensare.
Dieci anni dopo si scopre uno scatolone contenente immagini satellitari del luogo dell’incidente, provenienti dalla Spagna e dalla Germania. Perché non sono mai citate nel procedimento?
La risposta è “Perché non potevamo fare degli ingrandimenti utili”. Magari non nel 1991, ma nel 1997 la tecnica di ingrandimento di quelle immagini era superiore. E comunque non ci si è nemmeno provato. Nessuno le ha mai usate.
Ed infine c’è la testimonianza di Bertrand, il solo sopravvissuto, che cambia da una volta all’altra anche a proposito della nebbia che prima non c’è assolutamente, ma alla fine finisce, soprattutto per colpa sua, nelle conclusioni del processo.
Sulla base di tutte queste e di altre osservazioni analoghe, le associazioni dei famigliari delle vittime chiedono e ottengono la riapertura del caso nel 2006. Ma tutto finisce 4 anni dopo con la chiusura delle indagini.
Nessun mistero dunque dietro i 140 morti davanti a Livorno, solo un tragico, fatale incidente e niente più.
E tuttavia rimangono i dubbi, ancora oggi, rimangono le incongruenze, rimane il fatto che non si sa nulla di quello che realmente avviene quella notte. Rimane il fatto che molti non hanno parlato, altri hanno parlato in modo diverso in tempi diversi. Rimane, insomma il mistero.
Cosa è accaduto dopo il 2010?
C’è un resoconto di SKY TG 24 andato in onda il 10 aprile 2013. Già perché di queste stranezze anche la stampa se ne occupa solo in occasione degli anniversari, come per Ilaria Alpi, come per Piazza Fontana, come per le stragi, i morti ammazzati, le verità nascoste.
In quel breve reportage viene intervistato Fabio Piselli. Lui non ha alcun dubbio. Ascoltiamolo. 
Aggiungo solo che proprio in quel periodo si dimostra finalmente che la Gallant II, di cui parla Piselli, è la famosa nave Theresa, che si allontana in tutta fretta dal luogo del disastro, scomparendo nel nulla.
Un po’ più avanti nel tempo, nel 2013, per vedere quali novità emergono dal desiderio, tanto sbandierato dalla politica, di svuotare l’armadio dagli scheletri della prima repubblica?
I famigliari delle vittime non si sono mai arresi, hanno continuato a dare battaglia, a chiedere con fermezza che i processi vengano rifatti o per lo meno che si formi una commissione d’inchiesta parlamentare sul caso. Ci sono troppi buchi nelle spiegazioni per potervi credere.
Se ne rendono conto anche alcuni parlamentari di SEL che chiedono ai ministri Cancellieri (Giustizia) e Mauro (Difesa) del governo Letta che intenzioni hanno. La risposta arriva, ma ci mette un po’: otto mesi, ed è una risposta disarmante. Sono quindici righe, depositate nella cassetta personale del deputato Piras a Montecitorio, in cui si riprendono le conclusioni, vecchie come il cucco, delle procure che all’epoca avevano indagato.
La Cancellieri (ricordate? quella che ha disgustato la nazione con il suo ipocrita singulto di pianto pronunciando la parola “sacrifici”) molto semplicemente dice: “Il caso è archiviato, discorso chiuso!”. Mauro nemmeno risponde: evidentemente è troppo occupato a comprare gli F35.
C’è una levata di scudi generale di chiunque si interessi a vicende come questa. La frase “mi vergogno di essere un cittadino italiano” è la più morbida che si ascolta.
Si arriva così all’inizio del 2014, quando i 19 capigruppo dei partiti presenti in parlamento sono soggetti ad un “mail bombing” cioè all’invio massiccio di e-mail che chiedono tutte una commissione d’inchiesta, ricordando le anomalie del caso: i tempi di sopravvivenza anomali, la presenza delle navi da guerra, la vicenda di Theresa, i documenti scomparsi, i filmati tagliati e tutto il resto di cui abbiamo parlato oggi. É il popolo, indirizzato dalle associazioni, a chiedere con migliaia di mail di sapere cos’altro si vuole nascondere, chi si vuole coprire.
Investita da lettere durissime, il ministro Cancellieri decide finalmente di dare udienza ai rappresentanti dell’associazione delle vittime. Viene fissata la data: il 31 gennaio 2014. Una settimana prima c’è un altro incontro, con alcuni parlamentari: il solito Piras di SEL e alcuni rappresentanti del Movimento 5 stelle, con in testa Sara Paglini. Loro sosterranno la formazione di una commissione sul caso in parlamento, dicono, e predisporranno un disegno di legge che serva allo scopo. Un altro parlamentare che si è sempre interessato della vicenda Moby Prince è il senatore del PD Luigi Manconi, non presente all’incontro. Lui non ha molta fiducia nelle commissioni parlamentari, del resto visti i precedenti come dargli torto?
moby filmIl 31, finalmente l’incontro. Angelo Chessa, figlio del comandante del Moby Prince, consegna il dossier raccolto, con tutte le anomalie, i dubbi, le mancanze delle indagini condotte. E finalmente la Cancellieri cede, non si sa se per ragioni di opportunità o se convinta dal fatto di aver letto finalmente qualche carta sulla tragedia del 1991. Garantisce che farà di tutto per arrivare ad una nuova inchiesta della magistratura oppure ad una commissione parlamentare. Ci vuole una proposta di legge che è già stata presentata. Ci vorrà anche un po’ di tempo, ma di quello ne è già passato tanto, decenni, e i 140 morti non hanno più fretta, l’avevano mentre aspettavano i soccorsi, che però non sono arrivati in tempo.
Nel frattempo, 2013, è uscito un film-documentario di Lucibello, intitolato “140, la strage dimenticata”.
Giovanni Minoli ha dedicato alla vicenda una indagine nell’ambito del suo programma “La storia siamo noi”. É il 2005 quando dichiara:
«Quest’indagine giornalistica alla fine lascia grande angoscia. Emergono grosse novità rispetto alla ‘verità ufficiale.  Il Moby Prince è un’altra Ustica, di cui non erano conosciuti, finora, i contorni inquietanti.
Finisce qui la storia di Moby Prince. Mi auguro che l’ultimo capitolo sia ancora da scrivere, che si riesca in qualche modo a recuperare l’unica cosa ancora disponibile per quei 140 poveri disgraziati: la verità.
Siamo di fronte ad una nuova inquietante tragedia senza risposta. Quando si ficca il naso in queste vicende si esce sempre con un senso di nausea che si mescola con la tristezza del cittadino impotente di fronte allo Stato e alle forze occulte che hanno regolato e probabilmente ancora regolano la nostra vita di cittadini.
Ma non bisogna mollare, non bisogna mollare mai. 

E oggi?

Siamo agli inizi del 2018: come stanno oggi le cose? Cos’è successo nel frattempo? La commissione si è effettivamente formata al Senato e qualche novità è emersa. Certo, l’episodio è ormai lontano più di un quarto di secolo, ma quei 140 morti meritano, se non altro che si sappia com’è andata veramente.
La prima osservazione da fare è che l’unico sopravvissuto, l’allora mozzo, Bertrand ha confermato ancora una volta quello che disse ai primi soccorritori. E cioè che c’era altra gente da salvare e bisognava far presto. L’ha ribadito in ogni modo, anche se una delle versioni accreditate, purtroppo anche presso la magistratura, era l’esatto contrario e cioè che, ormai, non c’era più niente da fare. La sua versione è confermata dalle registrazioni che i due soccorritori inviano alla Capitaneria del Porto: “Il naufrago dice che c’è ancora gente viva da salvare” ma la Capitaneria non risponde e i soccorsi non partono mai. Lo stesso Bertrand viene recuperato tre quarti d’ora dopo la collisione.
La commissione del senato ha tirato fuori molti dei dubbi che ho cercato di elencare stasera. E altri ancora. Intanto viene scartata l’ipotesi dell’errore umano. Poi i timoni della Moby Prince erano girati a 30°, manovra che si fa per evitare un ostacolo. Quale ostacolo? E ancora, perché il capitano della Agip Abruzzo parla di una collisione con una bettolina, quando si vede arrivare contro una barca enorme come è il traghetto? E perché quella nave, la Agip Abruzzo, non è stata adeguatamente controllata? Anzi è stata smantellata sei mesi dopo il rogo? Nei giorni precedenti aveva compiuto un viaggio dal porto di Sidi Kerir, in Egitto, a quello di Livorno a tempo di record e senza apparenti ragioni, una traversata a tutta velocità per arrivare all’ancora davanti a Livorno due giorni prima del previsto. Poi le caratteristiche del carico: nessuno né magistratura, né avvocati, né Capitaneria ha mai analizzato quanto greggio nelle cisterne dell’Agip Abruzzo e di che qualità fosse. Tutti si sono fidati di un’autocertificazione, quella del comando della petroliera e dell’armatore, la Snam.
E poi c’è la teoria della morte veloce, sopravvenuta al massimo in mezz’ora per tutti le 140 vittime, ma, come già detto, questo fatto non regge neanche un po’. Qualcuno ha avuto una lunga agonia.
Questo fatto è di una gravità estrema, perché in quelle lunghe ore in cui il traghetto brucia e, con ogni probabilità, si potrebbe ancora salvare qualcuno, i soccorsi non fanno assolutamente niente. A dirigere l’opera c’è l’ammiraglio Sergio Albanese. Lui rimane in silenzio per svariate ore, a bordo di una motovedetta e alla commissione Senato si giustifica dicendo che ormai sembrava logico che fossero tutti morti, perché nessuno si buttava in mare, segno che non c’erano passaggi per farlo e quindi neppure passaggi per salire. Una giustificazione che poteva essere data solo da un imbecille o da un connivente. I passeggeri, in ciabatte, calzoncini e canottiera, non avevano certo tute antincendio, calzature adatte e respiratore come i soccorritori, che però sono stati tenuti lontani dal fuoco. Perché?
Insomma la Commissione ha stravolto tutte le deduzioni della Procura.
É ancora al lavoro, l’ultima riunione si è tenuta pochi giorni fa, durante le festività natalizie. C’è da sperare che con la sopravvenuta fine della legislatura non finisca anche il prezioso lavoro dei senatori per venire a capo di una vicenda tanto misteriosa e così intricata.
La storia della Moby Prince è solo una delle tante che costellano la nostra storia recente di fatti incresciosi, misteriosi e che lasciano, quasi sempre, i cittadini con un palmo di naso, attoniti di fronte alla domanda “Chi è stato?”. Una domanda che, come abbiamo ormai imparato dalle tante vicende che vi ho raccontato, ha sempre la stessa risposta: “Non si sa!”.
io