Parlando del gas di scisto, lo shale gas come lo chiamano gli anglofoni, ho sempre sottolineato due aspetti che ritengo essere i più importanti per capire di cosa stiamo parlando.
Il primo è il fatto che l’estrazione di questa fonte fossile non convenzionale è un modo per risolvere in parte la crisi delle risorse primarie di energia, specie in paesi, come gli USA, in cui è enormemente più forte la spinta a produrre e consumare che quella a conservare l’ambiente per le generazioni future.
Fanculo la sostenibilità dunque a favore di imprese, multinazionali e lobby varie.
Il secondo aspetto è invece quello legato agli effetti che il metodo di estrazione dello shale gas ha sull’ambiente e di conseguenza sulla salute dei cittadini. Ho spiegato molte volte come tutto questo avviene. Su questo sito trovate una meravigliosa animazione in 3D della Trial Exhibits Inc., che mostra perfettamente il funzionamento del fracking e quali danni esso possa provocare alle falde d’acqua con tutto quello che ne consegue in termini di allevamento di bestiame, coltivazione agricola, uso sanitario e personale.
Se negli Stati Uniti la questione è stata messa da parte con una certa fretta tanto che oggi più di un terzo del gas usato nel sistema produttivo viene dai giacimenti scistici, in Europa, dove i movimenti ecologisti hanno un peso specifico maggiore o forse dove le Big Oil & co. hanno un appeal leggermente minore, ci si muove con i piedi di piombo. Alcuni stati (la Francia ad esempio) hanno bloccato anche le ricerche e il Parlamento Europeo ha ammonito i suoi membri a non muoversi nella direzione dello shale gas senza essere più che sicuri che l’ambiente non verrà danneggiato.
A dire il vero un po’ di confusione ancora esiste, perché le informazioni su questo tipo di risorsa sono frammentarie e poggiano, prevalentemente su indagini condotte da grandi compagnie petrolifere, come la BP, trascinandosi dietro un enorme puzzo di conflitto di interesse.
Il movimento statunitense, mosso dalla realizzazione nel 2010 del documentario Gasland di Josh Fox (che trovate qui con sottotitoli italiani), si va allargando ogni giorno di più ed è facile capirne il motivo quando si pensa che uno dei più grandi giacimenti, il Marcellus, si trova sotto stati come la Pennsylvania, New York, Ohio, ma soprattutto sotto una enorme falda che “abbevera” più di 20 milioni di abitanti, compresi i cittadini di New York City. E questi l’acqua del rubinetto la bevono regolarmente, in percentuali elevatissime, anche quando vanno fuori a cena.
Le preoccupazioni sono dunque legate alla propria salute, a quella del bestiame nelle fattorie, all’inquinamento dei pozzi d’acqua, all’esplosione causata dall’acqua carica di metano che esce dai rubinetti delle abitazioni.
Ma, a queste “quisquiglie” l’establishment (tutte le grandi aziende gasiere) e buona parte della politica oppongono l’esigenza di avere energia per far funzionare la macchina dei consumi, per avere sempre hamburger da McDonalds, per abbagliare Times Square con le mille pubblicità. E poi, continuano, il prezzo del combustibile è calato, visto che il gas che estraiamo da noi non dobbiamo più comprarlo da quegli antipatici dei paesi produttori (come la Russia, il Canada, il Qatar, …). E, continuano nel loro comizio, compriamo anche meno carbone così da ridurre l’effetto serra. Peccato che il minor acquisto di carbone statunitense ne abbia fatto diminuire il prezzo così da consentire ad altri paesi di comprarne di più. Peccato che non si consideri che anche l’estrazione di shale gas provoca effetti serra, regalando all’atmosfera quantità di metano non previste. Il metano è un gas serra 70-80 volte più dannoso della CO2 per la nostra atmosfera.
Cadiamo dunque nel solito dilemma se la preservazione di un ambiente adatto a sostenerci sia più o meno importante del mantenimento di condizioni di “benessere” (nel senso usato per questo termine dalla società dei consumi) raggiunte e rispetto alle quali la maggior parte della cittadinanza dei cosiddetti paesi avanzati non ha intenzione di recedere.
Su questo aspetto si potrebbe aprire un capitolo immenso che ci coinvolge tutti. Basta un dato qualsiasi estratto da tutti quelli che fotografano la situazione. Potremmo parlare del consumo di carne che implica consumo di suolo e di acqua; o del consumo di carburante per muovere persone e oggetti con motori a scoppio (37 milioni gli autoveicoli in Italia con un rapporto di 10 a 1 tra il trasporto su gomma e su ferro delle merci); o la costruzione di centrali termoelettriche inutili (il pacchetto di produzione di energia italiano da fonti fossili è il doppio di quello che serve) e si potrebbe continuare a lungo.
Si fa dunque fatica, molta fatica, a convincere il nostro vicino che il gas di scisto è una porcheria perché non risolve affatto i problemi del mondo, anzi li acuisce e ne crea di nuovi.
Ci vorrebbe, per convincere gli scettici, un argomento economico, di quelli che dimostrino che tutti questi vantaggi che la Halliburton, La Exxon, la Total sbandierano sono dei falsi miti, delle bugie proprio come tutto l’ambaradan che hanno messo in piedi spacciando per progresso l’indebitamento economico, sociale e soprattutto ambientale che abbiamo subito negli ultimi 60 anni.
Bene, oggi quell’argomento ce l’abbiamo.
A febbraio di quest’anno è uscito negli Stati Uniti uno studio molto robusto di circa 180 pagine, ricchissimo di dati, tabelle, grafici, chiamato “Drill, baby, drill”. Il che significa: “Trivella baby trivella”. E come sottotitolo: “Può il combustibile non convenzionale portarci verso un’era di abbondanza energetica?” L’autore è David Hughes, geologo, il quale ha studiato per 40 anni i problemi delle fonti non convenzionali soprattutto in Canada. Si è occupato anche del picco del petrolio e del gas, diventando come scienziato un punto di riferimento in questi ambiti.
Il documento di cui sto parlando è stato realizzato per il Post Carbon Institute. Si tratta di un’associazione che ha come scopo quello di guidare la transizione verso un mondo più resiliente, equo e sostenibile. Lo fa coinvolgendo aspetti di ogni genere: individuali, delle comunità, della produzione e politici. Il loro sito, in inglese, è www.postcarbon.org, ricchissimo di materiale e di informazioni.
Quanto segue è un riassunto delle parti che riguardano lo shale gas. Tutte le informazioni e le immagini sono di proprietà del Post Carbon Institute.
Si comincia con un’analisi decisamente interessante, ma che qui ci porterebbe troppo lontano, sui consumi pro capite dei combustibili fossili divisi per aree geografiche e per tipo.
Quello che si capisce è che la produzione di fonti primarie fossili negli Stati Uniti è nettamente calata negli anni. Ad esempio il numero di pozzi petroliferi attivi è sceso dal 1970 ad oggi del 30%, con un andamento progressivo che non fa certo sperare in una ripresa miracolosa.
La produzione di gas, al contrario, non ha subito negli ultimi 15 anni variazioni degne di nota; essa è sempre stata insufficiente, costringendo gli States all’importazione, che tuttavia a partire dal 2006 si è progressivamente ridotta.
Un’altra osservazione interessante è la riduzione negli ultimi tempi del gas proveniente dall’oceano (è assai probabile che la disgrazia nel golfo del Messico qualche strascico l’abbia lasciato), che ormai è solo un piccola parte del combustibile proveniente dai pozzi in terraferma.
Quello che stupisce è il fatto che, mentre i pozzi crescono di numero, quasi raddoppiando, la produttività media di ogni singolo pozzo si riduce drasticamente di quasi il 40%. Questo si può tradurre dicendo che per mantenere la produzione attuale è necessario scavare nuovi pozzi in numero sempre maggiore.
Quando si comincia a discutere di shale gas ci imbattiamo nelle previsioni dell’EIA (Energy Information Administration) un reparto del ministero dell’energia statunitense che si occupa delle valutazioni su qualunque cosa abbia a che fare con l’energia. Certo che fare previsioni sullo shale gas non è semplice anche perché è comparso da poco sulla scena in modo importante. Così l’EIA offre diversi scenari possibili dipendenti dal tipo di crescita economica e dal costo del petrolio.
Ma tutte le situazioni portano allo stesso risultato: la crescita nei consumi di metano per gli USA è basata sul gas di scisto!
EIA fornisce anche, a seconda degli scenari, le previsioni di quanto costerà nei prossimi anni il gas. E le valutazioni, anche quelle “peggiori” portano a valori che sono comunque inferiori a quelli sperati e valutati dai produttori di shale gas. E questa non è sicuramente una bella notizia per Halliburton e soci.
E brutte notizie arrivano anche sulle quantità necessarie a sostenere la società attuale degli Stati Uniti fino al 2040. In sostanza secondo EIA la quantità di combustibile di cui occorre disporre è davvero troppa rispetto a quella disponibile, una quantità che oggi nessuno sa dove si potrà andare a cercare.
Serve infatti l’intera produzione di gas tradizionale attualmente disponibile più quasi altrettanto da fonti che non si sa nemmeno se esistono. Più precisamente si dovrà disporre dell’intera produzione attuale più il 60% di quella potenzialmente presente nei giacimenti, ma che in questo momento non si può dire se si potrà estrarre.
I conti sono presto fatti:
La prospettiva terrificante è quella di creare quasi 80 mila trivellazioni l’anno fino al 2040. E non è tutto, perché questo dato non tiene conto della riduzione della produttività (di cui parleremo tra breve).
In effetti i pozzi saranno sempre meno tradizionali e sempre più orizzontali con l’utilizzo della tecnica del fracking. Secondo l’EIA nei primi anni non ci saranno grossi problemi: nei primi 4 anni (fino al 2016) per incrementare la fornitura del 28% basterà un ritmo di crescita dei pozzi del 4%. Ma poi la quantità estratta calerà inevitabilmente (vedremo meglio più avanti come) e per avere un aumento del 10% di produttività servirà un ritmo di crescita delle trivellazioni di oltre il 70% ogni anno.
Non sempre ci fermiamo a riflettere quando ci viene detto quanto gas o petrolio rimane a disposizione di questa società energivora. Ci accontentiamo dei valori lordi. Ed è un po’ come calcolare il tempo che occorre per raggiungere in automobile un certo paese, semplicemente in base al chilometraggio, senza badare a semafori, ingorghi, code e quant’altro.
In questo modo otteniamo i valori migliori possibili, non calcoliamo quale parte di quei giacimenti ha combustibile di alta qualità, quale parte ha combustibile ad alta concentrazione, quale parte è di facile estrazione, quale parte presenta costi di estrazione abbordabili e quale no.
Se a questo aggiungiamo che i dati forniti al mondo intero provengono da BP (British Petroleum) non è che possiamo avere tutta questa fiducia.
L’immagine a fianco (a piramide) mostra la situazione che mette insieme risorse, spese necessarie per ricavare il gas (sia in termini energetici che finanziari). Più ci muoviamo verso il basso e maggiore è la quantità di combustibile presente, ma diminuisce la sua qualità essendo meno concentrato, più difficile e costoso da estrarre. La prima linea mostra il limite oltre il quale diventa antieconomico operare. E’ sicuramente vero che nuove tecnologie (e tra queste va annoverato il fracking) possono abbassare questa linea permettendo di recuperare combustibile che prima era inaccessibile, ma non si potrà mai superare la seconda barriera che rappresenta la situazione di pareggio energetico, cioè quando l’energia per ottenere il combustibile è uguale a quella che da esso si potrà poi ricavare.
Spesso, quando sentiamo dire che avremo combustibili ancora per 100, 200 o 300 anni, si tratta di boutade che non tengono in nessun conto questo tipo di osservazioni.
In effetti chiunque abbia studiato un po’ di fisica sa che il bilancio energetico ha senso se il lavoro compiuto è inferiore all’energia ricavata. Il concetto di rendimento insomma deve essere ben chiaro. A questo riguardo è anche molto interessante osservare che non tutti i combustibili “costano” allo stesso modo. Ad esempio per ricavare un barile di petrolio tradizionale basta bruciarne un ventiquattresimo, il resto è energia netta disponibile; mentre per ottenere un barile di olio dalle sabbie bituminose bisogna spenderne mezzo. Ogni combustibile dunque è più o meno conveniente anche a seconda dell’energia necessaria per portarlo dai giacimenti sul mercato.
Tenendo presenti queste osservazioni possiamo passare al gas di scisto. Che gli USA abbiano riserve più che abbondanti di questa fonte primaria è chiaro guardando l’immagine a fianco, fornita da EIA nel settembre 2011. La distribuzione è abbastanza uniforme, tanto da aver fatto gridare all’industria che l’autosufficienza sarebbe stata raggiunta ovunque. La realtà è diversa, perché non tutti i giacimenti sono uguali: ce ne sono di migliori, che riescono ad offrire gas di qualità a basso prezzo e altri che sono esattamente l’opposto.
Ma se consideriamo la storia dello shale gas, possiamo osservare che nel 2012 ha raggiunto il 40% della produzione totale di gas degli USA, anche se nel 2012 la produzione si è fermata senza ulteriormente crescere. Questo ha bilanciato comunque il calo nella produzione di combustibile convenzionale.
Se si analizza la produzione di tutti i pozzi, i sei più attivi forniscono l’88% del gas complessivo. Segno che la maggior parte delle trivellazioni sono a rendimento molto basso. E poi ci sono i “tassi di declino” che sono enormi. Nel giro di tre anni o poco più il livello di produzione scende del 90% e nuovi pozzi vanno scavati. Questo si traduce in 42 miliardi $ di investimenti annui per mantenere la produzione attuale, cifra che probabilmente non sarà coperta dalla vendita dei prodotti al prezzo attuale del gas. E, dal momento che in futuro, a meno di scoperte oggi non ipotizzabili di nuove tecniche meno dispendiose di estrazione, la situazione è destinata a peggiorare, questo imporrà un aumento dei prezzi e manderà a gambe all’aria la teoria secondo cui la bilancia energetica Usa sta migliorando di giorno in giorno.
I giacimenti “storici” e più famosi di gas di scisto sono il Barnett in Texas, dove tutta la storia è cominciata e dove è stata elaborata la tecnica del fracking. Un anno fa quasi 15 mila pozzi erano attivi, producendo 6 miliardi scarsi di metri cubi di metano al giorno. Il giacimento di Haynesville tra Texas e Louisiana è oggi il maggior produttore statunitense, mentre il Marcellus, in Pennsylvania, è al terzo posto. Questi ultimi due hanno avuto un boom improvviso negli ultimi anni (dopo il 2007).
Come tuttavia si vede dall’immagine la crescita impetuosa avvenuta dal 2000 in poi si è arrestata nell’ultimo anno in tutti i pozzi presi in considerazione.
E proprio del giacimento campione, Haynesville, osserviamo la curva di decadimento produttivo, che non è diversa da quella degli altri siti. In essa è stata calcolata la produttività media di tutti i pozzi presenti nei 4 anni di attività. I dati appaiono piuttosto chiari: non sono pozzi destinati a produrre per molto tempo, se nell’arco di 3 anni passano da una produzione 100 a meno di 10.
Come detto si tratta di valori medi, perché ad Haynesville ci sono alcuni pozzi che pompano decisamente tanto e, guarda caso, sono quelli che vengono regolarmente citati dalla stampa e nelle pubblicità.
Anche questa immagine è significativa. Se infatti consideriamo solo i pozzi scavati prima del 2011, osserviamo come la loro produttività è calata vistosamente. Per mantenere il livello occorrerebbe perforare 774 nuovi pozzi, con una spesa di circa 7 miliardi € l’anno, al netto di altri costi per le infrastrutture. E siccome la densità dei pozzi è ormai altissima non è che si possa pensare di continuare in questa direzione.
La conclusione di queste osservazioni (‘) è che l’avventura del gas di scisto non ha un futuro molto roseo. Delle due l’una: o si dovrà continuare a scavare pozzi ad un ritmo forsennato o si dovranno sensibilmente alzare i prezzi del gas.
Se a questo aggiungiamo i rischi ambientali e sociali connessi con l’utilizzo del fracking, mi sembra che nessun cittadino statunitense possa essere minimamente contento.
------------------------------
(‘) fonti:
Mark J. Kaiser and Yunke Yu, 2012, “LOUISIANA HAYNESVILLE SHALE—2: Economic operating envelopes characterized for Haynesville shale,” Oil and Gas Journal, January 9, 2012.
United States Geological Survey, “Variability of Distributions of Well-Scale Estimated Ultimate Recovery for Continuous (Unconventional) Oil and Gas Resources in the United States,” 2012.
Il primo è il fatto che l’estrazione di questa fonte fossile non convenzionale è un modo per risolvere in parte la crisi delle risorse primarie di energia, specie in paesi, come gli USA, in cui è enormemente più forte la spinta a produrre e consumare che quella a conservare l’ambiente per le generazioni future.
Fanculo la sostenibilità dunque a favore di imprese, multinazionali e lobby varie.
Il secondo aspetto è invece quello legato agli effetti che il metodo di estrazione dello shale gas ha sull’ambiente e di conseguenza sulla salute dei cittadini. Ho spiegato molte volte come tutto questo avviene. Su questo sito trovate una meravigliosa animazione in 3D della Trial Exhibits Inc., che mostra perfettamente il funzionamento del fracking e quali danni esso possa provocare alle falde d’acqua con tutto quello che ne consegue in termini di allevamento di bestiame, coltivazione agricola, uso sanitario e personale.
Se negli Stati Uniti la questione è stata messa da parte con una certa fretta tanto che oggi più di un terzo del gas usato nel sistema produttivo viene dai giacimenti scistici, in Europa, dove i movimenti ecologisti hanno un peso specifico maggiore o forse dove le Big Oil & co. hanno un appeal leggermente minore, ci si muove con i piedi di piombo. Alcuni stati (la Francia ad esempio) hanno bloccato anche le ricerche e il Parlamento Europeo ha ammonito i suoi membri a non muoversi nella direzione dello shale gas senza essere più che sicuri che l’ambiente non verrà danneggiato.
A dire il vero un po’ di confusione ancora esiste, perché le informazioni su questo tipo di risorsa sono frammentarie e poggiano, prevalentemente su indagini condotte da grandi compagnie petrolifere, come la BP, trascinandosi dietro un enorme puzzo di conflitto di interesse.
Il movimento statunitense, mosso dalla realizzazione nel 2010 del documentario Gasland di Josh Fox (che trovate qui con sottotitoli italiani), si va allargando ogni giorno di più ed è facile capirne il motivo quando si pensa che uno dei più grandi giacimenti, il Marcellus, si trova sotto stati come la Pennsylvania, New York, Ohio, ma soprattutto sotto una enorme falda che “abbevera” più di 20 milioni di abitanti, compresi i cittadini di New York City. E questi l’acqua del rubinetto la bevono regolarmente, in percentuali elevatissime, anche quando vanno fuori a cena.
Le preoccupazioni sono dunque legate alla propria salute, a quella del bestiame nelle fattorie, all’inquinamento dei pozzi d’acqua, all’esplosione causata dall’acqua carica di metano che esce dai rubinetti delle abitazioni.
Ma, a queste “quisquiglie” l’establishment (tutte le grandi aziende gasiere) e buona parte della politica oppongono l’esigenza di avere energia per far funzionare la macchina dei consumi, per avere sempre hamburger da McDonalds, per abbagliare Times Square con le mille pubblicità. E poi, continuano, il prezzo del combustibile è calato, visto che il gas che estraiamo da noi non dobbiamo più comprarlo da quegli antipatici dei paesi produttori (come la Russia, il Canada, il Qatar, …). E, continuano nel loro comizio, compriamo anche meno carbone così da ridurre l’effetto serra. Peccato che il minor acquisto di carbone statunitense ne abbia fatto diminuire il prezzo così da consentire ad altri paesi di comprarne di più. Peccato che non si consideri che anche l’estrazione di shale gas provoca effetti serra, regalando all’atmosfera quantità di metano non previste. Il metano è un gas serra 70-80 volte più dannoso della CO2 per la nostra atmosfera.
Cadiamo dunque nel solito dilemma se la preservazione di un ambiente adatto a sostenerci sia più o meno importante del mantenimento di condizioni di “benessere” (nel senso usato per questo termine dalla società dei consumi) raggiunte e rispetto alle quali la maggior parte della cittadinanza dei cosiddetti paesi avanzati non ha intenzione di recedere.
Su questo aspetto si potrebbe aprire un capitolo immenso che ci coinvolge tutti. Basta un dato qualsiasi estratto da tutti quelli che fotografano la situazione. Potremmo parlare del consumo di carne che implica consumo di suolo e di acqua; o del consumo di carburante per muovere persone e oggetti con motori a scoppio (37 milioni gli autoveicoli in Italia con un rapporto di 10 a 1 tra il trasporto su gomma e su ferro delle merci); o la costruzione di centrali termoelettriche inutili (il pacchetto di produzione di energia italiano da fonti fossili è il doppio di quello che serve) e si potrebbe continuare a lungo.
Si fa dunque fatica, molta fatica, a convincere il nostro vicino che il gas di scisto è una porcheria perché non risolve affatto i problemi del mondo, anzi li acuisce e ne crea di nuovi.
Ci vorrebbe, per convincere gli scettici, un argomento economico, di quelli che dimostrino che tutti questi vantaggi che la Halliburton, La Exxon, la Total sbandierano sono dei falsi miti, delle bugie proprio come tutto l’ambaradan che hanno messo in piedi spacciando per progresso l’indebitamento economico, sociale e soprattutto ambientale che abbiamo subito negli ultimi 60 anni.
Bene, oggi quell’argomento ce l’abbiamo.
A febbraio di quest’anno è uscito negli Stati Uniti uno studio molto robusto di circa 180 pagine, ricchissimo di dati, tabelle, grafici, chiamato “Drill, baby, drill”. Il che significa: “Trivella baby trivella”. E come sottotitolo: “Può il combustibile non convenzionale portarci verso un’era di abbondanza energetica?” L’autore è David Hughes, geologo, il quale ha studiato per 40 anni i problemi delle fonti non convenzionali soprattutto in Canada. Si è occupato anche del picco del petrolio e del gas, diventando come scienziato un punto di riferimento in questi ambiti.
Il documento di cui sto parlando è stato realizzato per il Post Carbon Institute. Si tratta di un’associazione che ha come scopo quello di guidare la transizione verso un mondo più resiliente, equo e sostenibile. Lo fa coinvolgendo aspetti di ogni genere: individuali, delle comunità, della produzione e politici. Il loro sito, in inglese, è www.postcarbon.org, ricchissimo di materiale e di informazioni.
Quanto segue è un riassunto delle parti che riguardano lo shale gas. Tutte le informazioni e le immagini sono di proprietà del Post Carbon Institute.
Si comincia con un’analisi decisamente interessante, ma che qui ci porterebbe troppo lontano, sui consumi pro capite dei combustibili fossili divisi per aree geografiche e per tipo.
Quello che si capisce è che la produzione di fonti primarie fossili negli Stati Uniti è nettamente calata negli anni. Ad esempio il numero di pozzi petroliferi attivi è sceso dal 1970 ad oggi del 30%, con un andamento progressivo che non fa certo sperare in una ripresa miracolosa.
La produzione di gas, al contrario, non ha subito negli ultimi 15 anni variazioni degne di nota; essa è sempre stata insufficiente, costringendo gli States all’importazione, che tuttavia a partire dal 2006 si è progressivamente ridotta.
Un’altra osservazione interessante è la riduzione negli ultimi tempi del gas proveniente dall’oceano (è assai probabile che la disgrazia nel golfo del Messico qualche strascico l’abbia lasciato), che ormai è solo un piccola parte del combustibile proveniente dai pozzi in terraferma.
Quello che stupisce è il fatto che, mentre i pozzi crescono di numero, quasi raddoppiando, la produttività media di ogni singolo pozzo si riduce drasticamente di quasi il 40%. Questo si può tradurre dicendo che per mantenere la produzione attuale è necessario scavare nuovi pozzi in numero sempre maggiore.
Quando si comincia a discutere di shale gas ci imbattiamo nelle previsioni dell’EIA (Energy Information Administration) un reparto del ministero dell’energia statunitense che si occupa delle valutazioni su qualunque cosa abbia a che fare con l’energia. Certo che fare previsioni sullo shale gas non è semplice anche perché è comparso da poco sulla scena in modo importante. Così l’EIA offre diversi scenari possibili dipendenti dal tipo di crescita economica e dal costo del petrolio.
Ma tutte le situazioni portano allo stesso risultato: la crescita nei consumi di metano per gli USA è basata sul gas di scisto!
EIA fornisce anche, a seconda degli scenari, le previsioni di quanto costerà nei prossimi anni il gas. E le valutazioni, anche quelle “peggiori” portano a valori che sono comunque inferiori a quelli sperati e valutati dai produttori di shale gas. E questa non è sicuramente una bella notizia per Halliburton e soci.
E brutte notizie arrivano anche sulle quantità necessarie a sostenere la società attuale degli Stati Uniti fino al 2040. In sostanza secondo EIA la quantità di combustibile di cui occorre disporre è davvero troppa rispetto a quella disponibile, una quantità che oggi nessuno sa dove si potrà andare a cercare.
Serve infatti l’intera produzione di gas tradizionale attualmente disponibile più quasi altrettanto da fonti che non si sa nemmeno se esistono. Più precisamente si dovrà disporre dell’intera produzione attuale più il 60% di quella potenzialmente presente nei giacimenti, ma che in questo momento non si può dire se si potrà estrarre.
I conti sono presto fatti:
- serve tre volte il gas recuperato dai giacimenti minerali;
- cinque volte quello disponibile oggi dai pozzi offshore;
- il doppio delle riserve certe dell’Alaska;
- il doppio del gas convenzionale da pozzi realizzati in terraferma.
La prospettiva terrificante è quella di creare quasi 80 mila trivellazioni l’anno fino al 2040. E non è tutto, perché questo dato non tiene conto della riduzione della produttività (di cui parleremo tra breve).
In effetti i pozzi saranno sempre meno tradizionali e sempre più orizzontali con l’utilizzo della tecnica del fracking. Secondo l’EIA nei primi anni non ci saranno grossi problemi: nei primi 4 anni (fino al 2016) per incrementare la fornitura del 28% basterà un ritmo di crescita dei pozzi del 4%. Ma poi la quantità estratta calerà inevitabilmente (vedremo meglio più avanti come) e per avere un aumento del 10% di produttività servirà un ritmo di crescita delle trivellazioni di oltre il 70% ogni anno.
Non sempre ci fermiamo a riflettere quando ci viene detto quanto gas o petrolio rimane a disposizione di questa società energivora. Ci accontentiamo dei valori lordi. Ed è un po’ come calcolare il tempo che occorre per raggiungere in automobile un certo paese, semplicemente in base al chilometraggio, senza badare a semafori, ingorghi, code e quant’altro.
In questo modo otteniamo i valori migliori possibili, non calcoliamo quale parte di quei giacimenti ha combustibile di alta qualità, quale parte ha combustibile ad alta concentrazione, quale parte è di facile estrazione, quale parte presenta costi di estrazione abbordabili e quale no.
Se a questo aggiungiamo che i dati forniti al mondo intero provengono da BP (British Petroleum) non è che possiamo avere tutta questa fiducia.
L’immagine a fianco (a piramide) mostra la situazione che mette insieme risorse, spese necessarie per ricavare il gas (sia in termini energetici che finanziari). Più ci muoviamo verso il basso e maggiore è la quantità di combustibile presente, ma diminuisce la sua qualità essendo meno concentrato, più difficile e costoso da estrarre. La prima linea mostra il limite oltre il quale diventa antieconomico operare. E’ sicuramente vero che nuove tecnologie (e tra queste va annoverato il fracking) possono abbassare questa linea permettendo di recuperare combustibile che prima era inaccessibile, ma non si potrà mai superare la seconda barriera che rappresenta la situazione di pareggio energetico, cioè quando l’energia per ottenere il combustibile è uguale a quella che da esso si potrà poi ricavare.
Spesso, quando sentiamo dire che avremo combustibili ancora per 100, 200 o 300 anni, si tratta di boutade che non tengono in nessun conto questo tipo di osservazioni.
In effetti chiunque abbia studiato un po’ di fisica sa che il bilancio energetico ha senso se il lavoro compiuto è inferiore all’energia ricavata. Il concetto di rendimento insomma deve essere ben chiaro. A questo riguardo è anche molto interessante osservare che non tutti i combustibili “costano” allo stesso modo. Ad esempio per ricavare un barile di petrolio tradizionale basta bruciarne un ventiquattresimo, il resto è energia netta disponibile; mentre per ottenere un barile di olio dalle sabbie bituminose bisogna spenderne mezzo. Ogni combustibile dunque è più o meno conveniente anche a seconda dell’energia necessaria per portarlo dai giacimenti sul mercato.
Tenendo presenti queste osservazioni possiamo passare al gas di scisto. Che gli USA abbiano riserve più che abbondanti di questa fonte primaria è chiaro guardando l’immagine a fianco, fornita da EIA nel settembre 2011. La distribuzione è abbastanza uniforme, tanto da aver fatto gridare all’industria che l’autosufficienza sarebbe stata raggiunta ovunque. La realtà è diversa, perché non tutti i giacimenti sono uguali: ce ne sono di migliori, che riescono ad offrire gas di qualità a basso prezzo e altri che sono esattamente l’opposto.
Ma se consideriamo la storia dello shale gas, possiamo osservare che nel 2012 ha raggiunto il 40% della produzione totale di gas degli USA, anche se nel 2012 la produzione si è fermata senza ulteriormente crescere. Questo ha bilanciato comunque il calo nella produzione di combustibile convenzionale.
Se si analizza la produzione di tutti i pozzi, i sei più attivi forniscono l’88% del gas complessivo. Segno che la maggior parte delle trivellazioni sono a rendimento molto basso. E poi ci sono i “tassi di declino” che sono enormi. Nel giro di tre anni o poco più il livello di produzione scende del 90% e nuovi pozzi vanno scavati. Questo si traduce in 42 miliardi $ di investimenti annui per mantenere la produzione attuale, cifra che probabilmente non sarà coperta dalla vendita dei prodotti al prezzo attuale del gas. E, dal momento che in futuro, a meno di scoperte oggi non ipotizzabili di nuove tecniche meno dispendiose di estrazione, la situazione è destinata a peggiorare, questo imporrà un aumento dei prezzi e manderà a gambe all’aria la teoria secondo cui la bilancia energetica Usa sta migliorando di giorno in giorno.
I giacimenti “storici” e più famosi di gas di scisto sono il Barnett in Texas, dove tutta la storia è cominciata e dove è stata elaborata la tecnica del fracking. Un anno fa quasi 15 mila pozzi erano attivi, producendo 6 miliardi scarsi di metri cubi di metano al giorno. Il giacimento di Haynesville tra Texas e Louisiana è oggi il maggior produttore statunitense, mentre il Marcellus, in Pennsylvania, è al terzo posto. Questi ultimi due hanno avuto un boom improvviso negli ultimi anni (dopo il 2007).
Come tuttavia si vede dall’immagine la crescita impetuosa avvenuta dal 2000 in poi si è arrestata nell’ultimo anno in tutti i pozzi presi in considerazione.
E proprio del giacimento campione, Haynesville, osserviamo la curva di decadimento produttivo, che non è diversa da quella degli altri siti. In essa è stata calcolata la produttività media di tutti i pozzi presenti nei 4 anni di attività. I dati appaiono piuttosto chiari: non sono pozzi destinati a produrre per molto tempo, se nell’arco di 3 anni passano da una produzione 100 a meno di 10.
Come detto si tratta di valori medi, perché ad Haynesville ci sono alcuni pozzi che pompano decisamente tanto e, guarda caso, sono quelli che vengono regolarmente citati dalla stampa e nelle pubblicità.
Anche questa immagine è significativa. Se infatti consideriamo solo i pozzi scavati prima del 2011, osserviamo come la loro produttività è calata vistosamente. Per mantenere il livello occorrerebbe perforare 774 nuovi pozzi, con una spesa di circa 7 miliardi € l’anno, al netto di altri costi per le infrastrutture. E siccome la densità dei pozzi è ormai altissima non è che si possa pensare di continuare in questa direzione.
La conclusione di queste osservazioni (‘) è che l’avventura del gas di scisto non ha un futuro molto roseo. Delle due l’una: o si dovrà continuare a scavare pozzi ad un ritmo forsennato o si dovranno sensibilmente alzare i prezzi del gas.
Se a questo aggiungiamo i rischi ambientali e sociali connessi con l’utilizzo del fracking, mi sembra che nessun cittadino statunitense possa essere minimamente contento.
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(‘) fonti:
Mark J. Kaiser and Yunke Yu, 2012, “LOUISIANA HAYNESVILLE SHALE—2: Economic operating envelopes characterized for Haynesville shale,” Oil and Gas Journal, January 9, 2012.
United States Geological Survey, “Variability of Distributions of Well-Scale Estimated Ultimate Recovery for Continuous (Unconventional) Oil and Gas Resources in the United States,” 2012.