anarch É il 1896: a S. Giovanni, frazione del paesino savonese di Stella nasce Alessandro Giuseppe Antonio Pertini, per tutti, semplicemente Sandro. Nasce in una famiglia che non ha problemi economici. Suo padre è un piccolo possidente terriero. Di 13 fratelli, sopravvivono all’età adulta in cinque. L’unica femmina, Marion, è destinataria di numerose lettere raccolte in “Mia cara Marion”, libro che racconta gli anni più duri della vita di Sandro.
Ripercorrere la storia di Sandro Pertini significa rivivere la storia d’Italia del Novecento fino agli albori della caduta della prima repubblica, un periodo lungo, ricco di eventi che hanno stravolto il mondo, a molti dei quali lui ha partecipato da protagonista.
Dopo il ginnasio, viene chiamato alle armi. C’è una guerra da fare e lui, pacifista e contrario all’intervento, si trova, giovanissimo sottotenente, a guidare una compagnia di alpini mitraglieri. Per tutta la vita si batterà per la pace, ma ci sono casi in cui occorre mettere da parte gli ideali e darsi da fare altrimenti. Accade sul fronte dell’Isonzo nella prima guerra mondiale e quasi trent’anni dopo durante la Resistenza. É un uomo pieno di coraggio, merita due medaglie al valor militare. La prima, d’argento, assegnata nel 1917, gli verrà consegnata molti anni più tardi, al termine della sua avventura politica. A proposito del coraggio, un giorno hanno chiesto a Giuseppe Saragat di definire Pertini. Lui ha risposto con una sola parola: “Eroe”.
Dopo la guerra si laurea a Modena in Giurisprudenza e a Firenze in Scienze politiche. É socialista, frutto degli insegnamenti del suo professore di filosofia, discepolo di Filippo Turati, fondatore del Partito dei Lavoratori. Le informazioni sulla sua adesione non sono chiarissime. Quello che sappiamo per certo è che Sandro si iscrive al neonato Partito Socialista Unitario (PSU) di Turati, Treves e Giacomo Matteotti, subito dopo la barbara uccisione di quest’ultimo ad opera dei fascisti.
Il suo antifascismo è viscerale e impulsivo. Pertini è, fin da subito, uomo dalle decisioni rapide, a volte precipitose, ma sempre chiare, risolute e guidate dai suoi ideali. Non nasconde i suoi sentimenti antifascisti e per questo viene più volte picchiato, lo studio dove lavora distrutto, mandato in ospedale con un braccio rotto. Cose di normale amministrazione durante quegli anni Venti. Poi, pubblica un opuscolo dal titolo “Sotto il barbaro dominio fascista” e per questo viene arrestato e condannato a 8 mesi di carcere. É schedato e ritenuto “un avversario irriducibile dell'attuale Regime”. Dopo il fallito attentato di un ragazzino anarchico, Anteo Zamboni, contro Mussolini, la dittatura inasprisce le proprie leggi e i socialisti “pericolosi” vengono condannati a cinque anni di confino. Si rifugia a Milano da Carlo Rosselli. Racconterà Pertini: “ … dovevamo fare in modo che Filippo Turati, che consideravamo la persona più autorevole dell'antifascismo, potesse recarsi all'estero e da lì condurre la lotta, accusando davanti al mondo intero la dittatura fascista.”
Partono da Savona con un motoscafo verso la Corsica e di là a Parigi. Con Turati c’è Sandro. Ferruccio Parri e Carlo Rosselli tornano a Milano, per organizzare la lotta dall’interno.
A Parigi Pertini lava i taxi, fa l’imbianchino, poi si trasferisce a Nizza, dove fa il manovale. Ricorderà spesso, nei suoi discorsi, questo periodo che gli ha insegnato, lui borghese, cosa sia la fatica, la povertà e, spesso, la fame.
Non è uomo capace di stare fuori dalla mischia, mentre in Italia il regime diventa ogni giorno più forte. Così rientra in patria e si dedica a riorganizzare il partito socialista. Gira l’Italia in lungo e in largo, finché un giorno, a Pisa, un fascista di Savona, là per una partita di calcio, lo riconosce e lo denuncia a un gruppo di camicie nere. Lui ha un documento svizzero falsificato e lo esibisce. I fascisti non ci cascano per niente e offrono a Sandro un confronto con sua madre. Pertini si rende conto che non può fare questo alla mamma, quindi cede e si dichiara per quello che è. Con i precedenti che ha, finisce dritto al tribunale speciale. Racconterà di quello che ha visto là dentro: i comunisti, ascoltando la sentenza, intonano l’Internazionale. Lui, unico socialista di fronte ai giudici, non vuole essere da meno e quando gli comminano quasi 11 anni di carcere, grida “Viva il socialismo, abbasso il fascismo”. A noi sembra oggi una sciocchezza, ma a quel tempo era un atto di ribellione forte. Comincia così il suo peregrinare per carceri e luoghi di confino. É dapprima a Santo Stefano, un isolotto nell’arcipelago delle Ponziane, in una vecchia prigione, costruita dai Borboni secondo la logica del Panepticon. Il carcere è duro, Pertini si ammala di tubercolosi e viene trasferito nel carcere di Turi, vicino a Bari. Si rallegra dello spostamento, con stupore dei carcerieri, perché non è che vada in villeggiatura, ma laggiù è detenuto Antonio Gramsci, che Sandro conosce per le sue opere e che non vede l’ora di farlo di persona. Qui i due diventano amici e stanno assieme fino al successivo trasferimento di Pertini sull’isola di Pianosa, un carcere-sanatorio per gli ammalati di tubercolosi. La sua salute però non migliora e la madre, preoccupatissima, prende l’iniziativa di scrivere una domanda di grazia a Mussolini. Quando Sandro lo viene a sapere va su tutte le furie, usa epiteti poco gentili anche con la mamma, che peraltro adora. Scrive ai responsabili della grazia rifiutandola e alla madre dicendo, in sostanza: Cosa ti è venuto in mente di fare? La mia fede socialista e il mio antifascismo non possono scendere a compromessi coi fascisti. In un ambiente carcerario molto solerte ad infliggere bastonate ai politici, Pertini ha uno scontro grave con una guardia e rimedia altri 10 mesi di carcere. Nel 1935 viene mandato a Ponza, al confino. Qui possiamo raccogliere spunti dai racconti che ne farà, nelle mille interviste, come quella ad Enzo Biagi. La stragrande maggioranza dei confinati è comunista, come del resto i carcerati che aveva incontrato prima. Ci sono varie mense, alle quali si accede con una piccola spesa della diaria che spetta loro. Le più accreditate sono quelle comuniste, ottimamente organizzate. Lui, unico socialista presente, mangia con i compagni di Giustizia e Libertà. C’è anche un gruppetto di anarchici di Livorno, che con i comunisti sono come cani e gatti. Anche loro hanno una mensa e ogni tanto comprano il pesce dai pescatori dell’isola e preparano il caciucco (la zuppa di pesce), “una bontà”, ricorda Sandro. Finisce di scontare la sua pena nel 1940, ma, per il regime, è un elemento troppo pericoloso, per cui gli vengono aggiunti altri 5 anni di confino, da passare a Ventotene, dove viene raggiunto, assieme ai suoi compagni di sventura, dalla notizia delle dimissioni di Mussolini e dalla nomina di Badoglio a capo dell’esecutivo. É il 25 luglio 1943.
La liberazione avviene il 13 agosto, ma Badoglio vuole tenere comunisti e anarchici ancora al confino. Pertini, assieme ad altri compagni, farà il diavolo a quattro, finché tutti i confinati possono lasciare l’isola. Quello che succede agli anarchici è raccontato in un altro video.
A Roma viene fondato il CLN (Comitato di Liberazione Nazionale) e Pertini assume la guida dell’organizzazione militare. I nazisti sono ancora presenti nel centro Italia e la lotta deve proseguire. Nasce anche il Partito Socialista di Unità Proletaria (PSIUP) che nomina Pietro Nenni suo segretario.
Ci sono riunioni clandestine continue e, al termine di una di queste, Pertini, Saragat e altri cinque compagni vengono fermati. C’è anche Nenni, che se la cava con un documento falso. Pertini ha con sé una borsa piena di materiali compromettenti. Riesce a passarla a Filippo Lupis, che se ne va. Negare non serve, se uno di loro, molto spaventato, spiffera tutto. Vengono arrestati e mandati a Regina Coeli. Qui comincia una storia incredibile che è un vero e proprio romanzo thriller. Finiscono nel 3° braccio, quello tedesco, condannati a morte “per via amministrativa”, il che significa senza alcun processo. Il comandante nazista può decidere in ogni momento di fucilarli. É quello che succede a molti dei carcerati in quel periodo. Lui e Saragat li vedono uscire la mattina e non rientrare più. Pietro Nenni è preoccupatissimo, non tanto per Pertini, che tanto al carcere è abituato da tempo, quanto per Saragat, ritenuto la vera eminenza grigia del socialismo e che di reclusione non ha proprio esperienza. All’interno del carcere ci sono antifascisti, come la guardia Ugo Gala, e il medico Alfredo Monaco e sua moglie Marcella, che assieme a Lupis hanno un ruolo decisivo in questa vicenda. Riescono a spostarli nel 7° braccio, quello italiano, da dove tentare una fuga è meno complicato. Nel frattempo, Giuliano Vassalli e Massimo Giannini si procurano dei moduli di scarcerazione autentici. Pertini si impunta: o si esce tutti o nessuno. La fuga si complica: evadere in sette è certamente più difficile. La scoperta della fuga significherebbe fucilazione immediata. Marcella trova i dati necessari per compilare i moduli e copia perfettamente la firma dell’ufficiale tedesco del tribunale militare. Il direttore del carcere ha bisogno di una conferma dalla questura. É Lupis a fornire la voce di un severo e intransigente finto questore, che esorta a far uscire i sette immediatamente. Nessuno si accorge di niente, ma quando la fuga viene scoperta, comincia una caccia ai responsabili da parte dei nazisti, che, alla fine, si devono arrendere di fronte all’evidenza: sono stati davvero bravi, anzi bravissimi.
A Roma si aspetta l’arrivo delle truppe alleate. Il CLN capisce che la liberazione della capitale non è cosa loro. Sembra anche che i nazisti abbiano chiesto al Vaticano di concordare con il CLN una specie di armistizio per consentire loro di fuggire, senza dover devastare la città. Già c’erano state da poco due stragi, quella di via Rasella e quella delle Fosse Ardeatine, per cui il “suggerimento” viene accettato. Il 4 giugno 1944, con un giorno di anticipo sul previsto (si doveva arrivare il giorno prima del D-day in Normandia) le truppe del generale Clark invadono le strade romane, piene di gente festante. Il Nord però è ancora in mano ai tedeschi, ai quali si aggiungono gli aderenti allo stato fantoccio della Repubblica Sociale Italiana. Bisogna cacciare gli ultimi residui del nazifascismo. Lo fanno gli eserciti alleati, ma vuole esserci anche il partito socialista. Pietro Nenni manda Pertini a Milano: bisogna rivitalizzare un PSIUP stanco che ha bisogno di un capo deciso e capace. Serve anche una guida militare che renda attiva la resistenza contro i nazisti. Pertini parte da Roma verso Milano. Il viaggio diventa un’altra avventura. In aereo raggiunge Lione, di là arriva ai piedi del monte Bianco. Sale fino al rifugio Torino sul colle del Gigante, dove passa la notte. Il giorno dopo, alcuni partigiani italiani lo guidano a valle. É in questa occasione che comincia a fumare la pipa. Una guida francese gliela regala, un inglese gli offre il tabacco.
Pertini fa quello che Nenni gli ha chiesto. Nascono le “brigate Matteotti”, socialiste, che affiancano quelle comuniste e cattoliche. Incrementa la propaganda socialista con nuove riviste, dedicate a operai e contadini. Fa rientrare dall’estero alcuni importanti personaggi socialisti. É dedito solo ed unicamente al partito e alla resistenza.
In questo periodo, come capo del braccio armato dei socialisti, prende decisioni dure, a volte troppo dure, ma è una guerra e come tale viene gestita. É assai probabile che i molti anni di carcere e una giovinezza che se ne è volata via, abbiano indurito non poco l’animo di Pertini.
Il finanziamento delle attività arriva dai compagni, ma anche da imprenditori, come Mattei o Rizzoli. A Pertini questo non piace perché sono “nemici della classe operaia”. É in questo contesto che incontra Carla Voltolina, staffetta partigiana, di 25 anni più giovane, con la quale inizia una storia d’amore che durerà tutta la vita. É lui a dirigere l’insurrezione milanese contro i nazisti con Sereni (PCI) e Valiani (Azione). É lui alla radio ad incitare i lavoratori allo sciopero generale. “Mettete i tedeschi di fronte al dilemma: arrendersi o perire”. La festa del 25 aprile è grande, ma arriva la notizia della morte del fratello Eugenio, ucciso nel campo di concentramento di Flossenbürg. Suo è il primo comizio nella Milano liberata. La Resistenza resterà, in Pertini, il momento più alto della sua esistenza, quello che indirizzerà ogni sua azione futura. Certo, non è la Resistenza che ha liberato l’Italia dal nazi-fascismo, ma ha dato un contributo e, soprattutto, ha creato una coscienza collettiva e una memoria di importanza assoluta.
Il suo legame personale è fortissimo con Pietro Nenni e Giuseppe Saragat, anche se le loro idee politiche divergono fin dall’inizio. In particolare sul rapporto con gli altri partiti. Se la resistenza ha visto fianco a fianco liberali, cattolici, monarchici, anarchici, socialisti e comunisti, un progetto politico deve avere le idee chiare sulla propria collocazione. É in particolare il rapporto con i comunisti che divide. Nenni vuole l’unione, Pertini non si fida e vuole un partito autonomo, mentre Saragat è decisamente anti comunista. Il PSIUP va piuttosto bene nelle elezioni per la formazione dell’Assemblea Costituente, superando il 20%, ma nelle successive amministrative il calo è sensibile. Si arriva così al congresso di Firenze, dove si respira una pesante aria di scissione. La proposta di Nenni prevale di poco su quella di Pertini. Saragat, che ottiene solo il 12% dei voti, sbatte la porta e se ne va. La scissione ufficiale e la nascita del partito socialdemocratico (con nomi che cambiano, ma il principio è questo) avviene l’anno dopo, a palazzo Barberini, nonostante un ultimo disperato, ma inutile, tentativo di Sandro Pertini di tenere unito il partito. La sua più grande preoccupazione e il suo cruccio in quegli anni è l’unità dei socialisti. Per questo non vuole cariche di partito e se ne va a fare il direttore de “L’Avanti!”, organo si stampa del PSIUP/PSI.
Il partito torna ad essere PSI nel 1947, quando si allea con il PCI nel “Fronte Democratico Popolare” in vista delle elezioni politiche del 1948, quelle in cui la propaganda elettorale diventa una questione di vita o di morte da parte della DC, che paventa l’arrivo dei cosacchi sovietici a conquistare le nostre chiese.
Sandro Pertini è ovunque, con comizi sempre di fuoco. Gli capita di parlare in piazze deserte e allora grida che sa che stanno ascoltando dalle finestre, perché il parroco non vuole che scendano in piazza. Un giorno, mentre è infervorato a parlare a nessuno, si avvicina una guardia che gli dice: “guardi che è inutile, qui nessuno va a votare!” “E perché mai?” ribadisce Pertini. Erano in Francia, avendo superato senza accorgersene il confine.
Quella del ’48 è un’elezione che segna per decenni il destino politico dell’Italia. La Democrazia Cristiana sfiora il 50% e ottiene in parlamento una larga maggioranza assoluta. Il Fronte si attesta sul 30%, i socialdemocratici di Saragat al 7%. Il punto di riferimento internazionale delle sinistre è Josip Stalin, il liberatore dai nazisti, figura carismatica anche per i socialisti, che, sulla spinta di Rodolfo Morandi, acquisiscono molte delle caratteristiche del PCI: niente correnti, centralismo democratico, assunzione dell’ideologia leninista. Pertini non è d’accordo, ma deve abbozzare per non creare fratture interne. Si rifugia a Genova a dirigere il locale “Lavoro Nuovo”. Non rientra nel partito come dirigente, segue la linea ufficiale, ma non le manda a dire per certe scelte di Nenni che non condivide per niente, come il fatto che da un lato riceva il premio Stalin per la pace dall’URSS e dall’altro cerchi accordi con la DC di De Gasperi.
Rientra nei ranghi solo nel 1953. C’è da battere la proposta democristiana, la cosiddetta “legge truffa” (tutto il potere a chi supera il 50% dei voti). La DC va vicina alla maggioranza assoluta dei voti, ma non la supera. Il PSI ha un risultato buono, cresce del 3%, ma è lontano dieci punti dai comunisti di Togliatti. Pertini viene eletto deputato.
Sono anni di grandi cambiamenti: nel 1956, Kruscev svela i segreti su Stalin e avviene l’invasione sovietica in Ungheria. Nenni restituisce il premio Stalin, devolve in beneficenza i 14 milioni del premio e tronca i rapporti con Mosca.
Nel 1960 ecco una nuova svolta. Il presidente della repubblica Gronchi affida l’incarico di formare il governo a Fernando Tambroni. Forse l’idea è quella di un primo tentativo di centro sinistra, per cui serve l’appoggio dei socialisti. Nenni è titubante, Pertini decisamente contrario e, alla fine, il PSI non ci sta. Nasce così il monocolore democristiano sostenuto dai voti missini. Non solo, l’MSI, vuole tenere il proprio congresso a Genova, città medaglia d’oro della resistenza. L’incarico di dirigere il congresso viene dato ad un ex repubblichino, Carlo Emanuele Basile, sul quale gravano pesanti accuse di aver fatto internare, nei campi di concentramento nazisti, parecchi cittadini, tra cui il fratello di Sandro, Eugenio Pertini. Basile, condannato a morte dai partigiani, se la cava grazie all’amnistia voluta da Togliatti. Pertini non può accettare questo affronto e tiene un comizio davanti a 50 mila persone in cui usa parole durissime. I missini vorrebbero smarcarsi da tutto questo, ma la DC insiste. Ci sono violente manifestazioni contro la polizia. Si spara e ci sono dei morti. A Reggio Emilia cinque operai comunisti vengono abbattuti dalla polizia. Il popolo insorge, Tambroni si dimette. Per i giovani amici che seguono questo articolo è indispensabile capire che il modo di pensare di allora sul fascismo era diverso, molto diverso, da quello attuale. Molti italiani avevano perso parenti, amici, conoscenti durante il ventennio, e non potevano perdonare.
I cambiamenti politici vanno sempre giustificati, a volte in modo bizzarro. Così, il successivo governo Fanfani poggia sull’artificio linguistico delle “convergenze parallele”: apertura a sinistra sì, ma ciascuno per la sua strada. Al PSI il programma va bene, ma alcune cose non sono gradite, come l’aver messo Andreotti alla difesa. Per questo invece di votare a favore, i socialisti si astengono.
I tempi però sono maturi per l’ingresso nell’area di governo. Accade nel primo governo Moro, 1963, quando cinque socialisti diventano ministri e Nenni vicepresidente. 38 parlamentari PSI non votano la fiducia, escono dal partito e fondano il PSIUP, orientato a mantenere stretti rapporti con il PCI. Anche in questo caso gli sforzi di Pertini di tenere unito il partito cadono nel vuoto. Comincia qui la sua carriera di rappresentante delle istituzioni, è vicepresidente della Camera dei Deputati. Passa qualche anno e Giuseppe Saragat viene eletto Presidente della Repubblica. Pertini diventa Presidente della Camera. Sembra tutto bellissimo, c’è una riunificazione dei socialisti nel PSU, che, tuttavia, non durerà molto, a causa di un non soddisfacente risultato nelle elezioni. Sembra che il non riuscire a restare uniti sia nell’animo, quasi nel DNA, dei socialisti.
Il 1968 è un anno terribile e non per le rivendicazioni giovanili. La stroncatura sovietica della primavera di Praga porta grande preoccupazione anche tra i partiti di sinistra, specie nel PSI. Le acque si agitano, il pericolo di scissioni è sempre presente. Nel 1970 il timore della nascita di correnti nel partito, porta Pertini a rassegnare le dimissioni da Presidente della Camera. Vengono respinte in blocco. Anche l’MSI vota contro: riconosce nel lavoro dell’ex partigiano una imparzialità rara.
La presidenza alla Camera di Pertini è davvero particolare. Gestisce i dibattiti seguendo in modo rigoroso, quasi spietato, i regolamenti e le consuetudini. Non ammette prevaricazioni, ma ha anche gesti davvero fuori dalle abitudini di tutte le gestioni precedenti. I dibattiti sono accesi, i temi scottanti: si parla di divorzio, di aborto, di statuto dei lavoratori, di regole referendarie. Un periodaccio: comincia e si sviluppa la strategia della tensione, si susseguono stragi, affiorano scandali e complotti e viene a galla una gestione corrotta del potere a moltissimi livelli. Nelle discussioni sui referendum i pochi deputati radicali danno vita all’ostruzionismo. Lo conducono parlando per molte ore, durante le quali le regole della Camera consentono solo l’assunzione di liquidi, ma niente zuccheri. Una sera, mentre Emma Bonino vacilla dopo molte ore di discorso, Pertini si avvicina e le porge una cioccolata. É fatto così il Presidente, tutto istinto. Al diavolo le regole stupide. Apre le porte ai ragazzi. Capisce bene che vanno istruiti, gli va raccontata la storia che non conoscono e che loro, invece, i politici navigati, hanno vissuto direttamente. Spiega i modi, i motivi, le conseguenze delle loro gesta e delle loro scelte. Non si sa quanti ne siano passati in quegli 8 anni a Montecitorio, forse 45, forse 55 mila … lo stesso Pertini usa a volte un valore a volte un altro. Ma sono tanti, tantissimi. E ripete come un mantra quello che gli sta più a cuore: i due totem sono la libertà e la giustizia sociale: l’una non può esistere senza l’altra. Per esse vale la pena lottare, costi quello che costi.
C’è un episodio che rende Pertini particolarmente vicino ai cittadini. Nel 1974 rifiuta di firmare il decreto di aumento dello stipendio dei deputati. Ecco come racconterà l’episodio in una famosa intervista a Nantas Salvalaggio: “Non mi meraviglia niente. So che il mio modo di fare può essere irritante. Per esempio, poco tempo fa mi sono rifiutato di firmare il decreto di aumento di indennità ai deputati. Ma come, dico io, in un momento grave come questo, quando il padre di famiglia torna a casa con la paga decurtata dall'inflazione ... voi date quest'esempio d'insensibilità? Io deploro l'iniziativa, ho detto. Ma ho subito aggiunto che, entro un'ora, potevano eleggere un altro presidente della Camera. Siete seicentoquaranta. Ne trovate subito seicentocinquanta che accettano di venire al mio posto. Ma io, con queste mani, non firmo.”
Alle elezioni del 1976, il PCI di Enrico Berlinguer ha un risultato elettorale esaltante. Al suo posto viene nominato Presidente della camera Pietro Ingrao. Pertini ha 80 anni, sarebbe ora di andare in pensione, ma la sua avventura non termina qui, anzi, il bello deve ancora venire. Sarà proprio Ingrao, due anni più tardi, a leggere i risultati dell’elezione del presidente della Repubblica. E qui è come se cominciasse un’altra storia, una nuova affascinante avventura.
Sono anni complicati: l’Italia è in preda ad una crisi terribile, economica e sociale. Le BR imperversano, il terrorismo nero si oppone a quello rosso, un’ondata di assassinii ha terrorizzato il paese. Al culmine di questo marasma, c’è il rapimento e l’uccisione del presidente della DC, Aldo Moro e della sua scorta. Il 15 giugno 1978, il presidente Giovanni Leone si presenta in Televisione, per comunicare agli italiani le sue dimissioni. Viene punito, ingiustamente, per lo scandalo Lockheed. Quello che però conta è che, adesso, per rappresentare il paese serve un uomo onesto, fermo, dai principi democratici indissolubili. Sandro Pertini queste qualità le ha. É uno dei candidati alla presidenza, all’inizio solo di bandiera. Nonostante gli intrighi di palazzo, e visto che non si riesce a trovare un accordo su altri nomi e, sotto la spinta del partito di Berlinguer, al sedicesimo scrutinio ecco i risultati: viene eletto con una maggioranza mai vista, 832 voti su 995, l’84%. Ci sono, è vero, delle preoccupazioni. Anzitutto l’età: ha 82 anni e una salute che nel passato ha avuto qualche intoppo. Durante i sette anni al Quirinale non avrà nemmeno un raffreddore. La moglie, Carla, non la prende benissimo. Aspettava la fine del mandato di presidente della camera per trasferirsi a Nizza a godere gli anni della pensione. Secondo alcuni amici della coppia, se la prende al punto che se ne va in Francia per due mesi, anche se questa notizia fatica a trovare conferme. Anche il fresco segretario del suo partito, Bettino Craxi, avrebbe preferito un altro nome, quello meno ingombrante di Vassalli ad esempio. La DC temeva di avere in Pertini un presidente troppo di sinistra, ma la sua presidenza alla camera poteva tranquillizzare per l’indiscussa imparzialità e professionalità mostrate nella gestione dell’aula.
Nel discorso di insediamento colpiscono alcuni passaggi, come l’omaggio riservato a Moro, il quale avrebbe avuto quel posto se non fosse stato barbaramente assassinato. I richiami alla libertà e alla giustizia sociale sono ormai immancabili, come il riferimento ai suoi ispiratori da Matteotti a Gramsci. L’elenco dei casi critici riguarda praticamente ogni aspetto sociale, dal lavoro alla casa, alla scuola, all’autonomia delle regioni, alla lotta al terrorismo… Ed infine la pace: “L'Italia, a mio avviso, deve essere nel mondo portatrice di pace: si svuotino gli arsenali di guerra, sorgente di morte, si colmino i granai, sorgente di vita per milioni di creature umane che lottano contro la fame. Il nostro popolo generoso si è sempre sentito fratello a tutti i popoli della terra. Questa la strada, la strada della pace che noi dobbiamo seguire”.
Ci sono prese di posizione curiose, come quella di Licio Gelli, che manda una circolare suggerendo di votare Pertini, forse ritenuto più malleabile di altri per l’età avanzata. É Giulio Andreotti a raccontare questo episodio, essendo stato uno dei destinatari della missiva. Lotta Continua festeggia l’elezione con una foto diversa da tutti gli altri: è scattata durante i funerali di un ragazzo, Walter Rossi, ucciso mentre volantinava per Lotta Continua. In mezzo alla folla c’è Sandro Pertini, presente in forma privata. Avrà purtroppo altre occasioni simili e non guarderà in faccia il colore politico delle vittime. Comincia la sua avventura al Quirinale fermandosi a baciare la bandiera: non lo aveva fatto nessuno, lo faranno tutti dopo di lui. Lo farà con tutte le bandiere degli stati che visiterà, un segno di omaggio molto apprezzato. Non vive al Quirinale, ci lavora soltanto: entra alle 9 se ne va alle 20, come un impiegato, anzi, come dice lui stesso, come il primo impiegato dello stato. Torna a casa, nella sua piccola mansarda di 35 metri quadrati in piazza Trevi, dove lo aspetta Carla, che entrerà in Quirinale pochissime volte. Accompagnerà il marito nei suoi viaggi all’estero solo una volta, in Cina. Una scelta sorprendente, ma le sorprese, con Pertini Presidente, sono all’ordine del giorno.
Durante i sette anni del suo mandato cambiano 10 governi, con 6 premier, ma quello che viene ricordato è il primo incarico (portato a buon fine) assegnato ad un laico (cioè non della DC), Giovanni Spadolini. La scelta cade sul partito che ha sempre sostenuto la Democrazia Cristiana e il partito più piccolo, così da dare “meno fastidio”. Resterà in carica un anno e mezzo, per cedere il passo a Fanfani ed infine ad un lungo periodo di tre anni di governo Craxi.
Non che a Pertini piacesse particolarmente il segretario del suo partito, ma il Presidente si attiene al suo principio di attenuare i contrasti, e di invitare alla collaborazione.
Accanto al Presidente c’è la figura del segretario generale, Antonio Maccanico, in quel momento iscritto al PRI, ma proveniente dal Partito d’Azione e finito poi nell’Ulivo ed infine nel PD, fedelissimo di Pertini e aiuto inestimabile in molte circostanze. E di aiuto, Pertini, ne ha davvero bisogno perché in quei sette anni succede di tutto.
Il paese deve affrontare una serie di situazioni gravissime. C’è l’abbattimento dell’aereo DC9 a Ustica. Quel giorno, il 27 giugno 1980, oltre ai morti e ai misteri internazionali che sono presto evidenti, rischia di essere la data di una catastrofe politica ed economica. É Maccanico a raccontare della telefonata avuta dal premier Cossiga, che lo informa di una litigata tra i ministri Andreatta (affari speciali) e La Malfa (Bilancio), con minaccia di dimissioni di quest’ultimo. In quel caso il governo sarebbe caduto e, secondo il governatore della Banca d’Italia, Ciampi, la nostra moneta avrebbe corso un grosso rischio. Ci sono febbrili consultazioni, l’arretramento di Andreatta e la soluzione della crisi. Secondo Maccanico, Pertini non ne verrà a sapere nulla.
Il 1980 è anche l’anno in cui esplode in tutta la sua violenza lo scandalo dei petroli, che coinvolge alcuni parlamentari di spicco dei partiti di governo, oltre che i vertici della guardia di finanza.
Ed è, il 1980, anche l’anno della bomba alla stazione di Bologna, che si porta via 85 vite. Pertini arriva nella città emiliana e rimane sconvolto dall’orrendo scenario di morti, feriti, bambini in condizioni drammatiche. Chiede una inchiesta rapida e seria, poi sappiamo come è andata a finire.
Ci si mette anche il terremoto. In Irpinia 300 mila persone perdono la propria casa, 3000 o forse più perdono la vita. La visita del Presidente è, come sempre, immediata. Promette fatti, perché le parole non servono a niente. Sono passati due giorni e lo stato non è ancora presente con mezzi tecnici per trovare i superstiti inghiottiti dalle macerie. É sconvolto anche per questo e ricorda un altro evento simile, 10 anni prima, in Sicilia, nel Belice. Quando rientra a Roma, si presenta davanti alla televisione e parla agli italiani. É un intervento storico, fatto di fuoco e fiamme.
Lancia accuse precise, dirette al governo e al parlamento, che non ha saputo attuare una legge sulla protezione civile, approvata dieci anni prima. Nessuno si è preoccupato di approvare i decreti di applicazione, senza i quali la legge non serve a nulla. E ci mette anche un carico, chiedendo dove siano finiti i soldi stanziati per il Belice, dove la gente vive ancora nelle baracche. Chi ha sottratto quei soldi ai cittadini? É stato individuato? É finito in carcere? Un terremoto, vicino al limite dei suoi poteri di Presidente della Repubblica. Si dimettono due questori, qualcuno si offende, ma il popolo sofferente si sente in perfetta sintonia con la massima carica dello stato.
Nel 1981 c’è il caso del bambino morto in un pozzo a Vermicino. La vicenda assume una risonanza enorme per le riprese TV dei soccorsi: 18 ore di diretta, seguita con spasimo dai telespettatori, che alla fine sono testimoni di una tragedia. Quello che emerge, ancora una volta, è la totale disorganizzazione, l’improvvisazione, il pressapochismo. Anche Pertini vuole essere presente. Non si rende conto che il gesto, di sicura partecipazione umana, è un danno ulteriore al tentativo di salvare il piccolo Alfredo. Lui, la sua scorta, i giornalisti e la televisione non fanno altro che far crescere la confusione, ostacolando i tentativi, già così inefficaci. A volte quella voglia di consolare il suo popolo andrebbe regolata.
Sette anni di presidenza: sono quelli delle Brigate Rosse e degli attentati neofascisti. Sono quelli durante i quali si scoprono le liste della P2 di Licio Gelli, che contengono il fior fiore della politica, dei servizi segreti, dell’esercito, della comunicazione, dell’imprenditoria italiana. Lo scopo, in tutti i casi, è quello di scardinare l’unità nazionale e mettere in crisi la democrazia. Pertini, il vecchio combattente, lo ribadisce ancora e ancora. La repubblica non è caduta dal cielo, è costata anni di lotte, galera, confino e morti. E tocca al popolo, ai lavoratori in primo luogo, continuare a difenderla. É un continuo ribadire i concetti, sempre quelli, della libertà, della giustizia sociale, della lotta al terrorismo e alla corruzione.
É chiamato il presidente più amato dagli italiani: perché? Cos’ha di speciale Sandro Pertini? Molti lo ricordano gioire per la vittoria dell’Italia ai mondiali di calcio nel 1982, comportarsi come un tifoso qualsiasi, quasi seguendo quel coro che negli stadi si sente spesso: “… uno di noi!”.
Sappiamo bene che, quando si affrontano temi politici, i giudizi sono sempre filtrati dalla propria fede di partito o di ideologia. Sandro Pertini è stato sempre, in ogni suo atteggiamento, un socialista, con tutto quello che questo comporta. É sempre stato tra la gente, senza paura, senza filtri, grazie alla sua storia, al suo passato chiaro, nel bene e nel male. Dirà un giorno: “Ho un brutto carattere, molti difetti, ma anche qualche pregio”. Un Presidente ingombrante, fin troppo per molti osservatori, una specie di “nonno” d’Italia per altri. Un carattere istintivo, passionale, a tratti burbero, un modo di parlare stentoreo, forbito, sempre diretto, così lontano dal politichese al quale gli italiani si erano dovuti abituare. L’atteggiamento di rispetto verso gli avversari. Testimonianze ce ne sono tante: l’amicizia, lui ateo, con papa Woytila, col quale trascorre una giornata storica sull’Adamello e molte altre a Roma. La commozione per la morte di Berlinguer, la cui salma fa portare a Roma sull’aereo presidenziale. Il commento di Giorgio Almirante, col quale certo non poteva avere alcuna affinità politica, dopo il suo discorso di insediamento: “Con le sue parole ci ha costretto ad applaudirlo”. Il rispetto per gli altri stati, ovunque andasse accolto con grande empatia. La visita ai militari in Libano, sconsigliato da tutti per motivi di sicurezza. I giovani, che anche al Quirinale ha voluto ospitare a decine di migliaia, mandando fuori dalla sala i professori, per avere un rapporto diretto con loro, i quali, come dice nel discorso di insediamento: “non hanno bisogno di sermoni, i giovani hanno bisogno di esempi di onestà, di coerenza e di altruismo”.
Ci sono mille esempi di un comportamento assolutamente fuori dagli schemi, fuori dal sistema. I suoi colleghi sono per il quieto vivere, per mantenerlo il sistema. Lui dice: “ … me ne infischio del sistema, se dà ragione ai ladri. Lo scandalo più intollerabile sarebbe quello di soffocare lo scandalo. L'opinione pubblica non lo tollererebbe. Io, neppure. Ho già detto alla mia Carla: tieni pronte le valigie, potrei piantare tutto”. La moglie non usa mai la macchina istituzionale e va a Campo dei Fiori a comprare l’insalata in autobus. Lui paga di tasca sua il caffè che un cameriere porta durante un’intervista. Ne esce l’immagine di un uomo che non può barattare il potere con favori, inciuci o peggio.
Questo suo modo di fare, così lontano da quello tradizionale, ha dato credibilità, in momenti tanto difficili per il paese, alle istituzioni, credibilità che nasce dalla sua storia personale, dal suo prestigio morale, dai suoi comportamenti.
Quando, nel 1985 arriva l’ultimo giorno da presidente, confida a qualcuno che è preoccupato, perché non vede uomini che rappresentino lo stato come lui vorrebbe. Che non sia il caso di essere rieletto? Poi però, a 89 anni, se ne va, a Nizza, a vivere i suoi ultimi anni, assieme alla moglie Carla. Muore a 93 anni, il 24 febbraio 1990, nella sua mansarda nel centro di Roma. Riposa, assieme alla sua compagna di tutta la vita, nel cimitero di Stella, in provincia di Savona.
Chi lo ha conosciuto in vita, serba un ricordo molto speciale di Sandro Pertini. Che lo si ricordi come il miglior presidente o che lo si critichi per il suo carattere e certe sue scelte, il suo passaggio nelle vite degli italiani non è certo avvenuto senza lasciare traccia. Per i giovani, che non hanno avuto questa opportunità, la rete è ricchissima di interviste, interventi, filmati che riportano i suoi pensieri.
Concludiamo con una frase scritta, nel 1963, da Indro Montanelli, certo non una penna di sinistra: “Non è necessario essere socialisti per amare e stimare Sandro Pertini. Qualunque cosa egli dica o faccia, odora di pulizia, di lealtà e di sincerità”.
Un uomo di un altro tempo, come non ce ne sono più, credo che su questo tutti possano essere d’accordo.
 
FONTI:
Salvatore Piccolo, Il presidente più amato dagli italiani …, ed. Studio Piccolo, 2022
A. Tedesco, A. Giacone (a cura di), Anima socialista …, ed. Arcadia, 2020
Rino Di Stefano, Mia cara Marion …, 2^ edizione, di Rino Di Stefano, 2014
Antonio Maccanico, Con Pertini al Quirinale, Il Mulino, 2014
Filmati RAI dalle trasmissioni:
      La storia siamo noi, Correva l’anno, Storia RAI Cultura, Ossi di seppia
Associazione nazionale Sandro Pertini: http://www.pertini.it/
Intervista di Enzo Biagi (varie puntate su Youtube)
Intervista di Nantas Salvalaggio: varie pagine nel web.
Articoli, documentari, interviste, dichiarazioni, video ufficiali a decine reperiti in rete.