Introduzione

puntata2 00Abbiamo cominciato, due settimane fa, parlando della gestione, se mi passate questo termine, dei rifiuti pericolosi e tossici. Le industrie, ma, come vedremo, anche organizzazioni statali e non solo italiane, quando producono scarti nella loro lavorazione devono seguire percorsi e rispettare normative particolari, specie se quegli scarti rischiano di danneggiare l’ambiente in cui vengono sversati e i cittadini che in quelle zone abitano. Così dagli anni ’60 in poi si è andata affermando una pratica meno dispendiosa. Si contatta un’azienda, per così dire, birichina, che si occupa, zitta zitta, di mettere qua e là i rifiuti. Sotto uno stadio, nel sottosuolo di un’autostrada o del parcheggio di un aeroporto. Quando però la quantità di monnezza è eccessiva, occorre inventarsi qualcosa di più raffinato. Nasce così la tratta di rifiuti Nord-Sud, con destinazione particolare nelle regioni della Campania e della Basilicata. Sulla Basilicata avremo molte cose da dire, ma solo più avanti nella nostra storia. A dirigere il traffico interviene la camorra, poi la ‘ndrangheta, e la mafia siciliana.
Le mille discariche abusive campane, scoperte negli anni, stanno a dimostrare che questo è un vero e proprio sistema. É chiaro che gli effetti devastanti di materie particolarmente pericolose (pensate alla diossina, tanto per non fare nomi), incidono sulla produzione di ortaggi, sul mangime delle capre e delle bufale e quindi di tutti i latticini che vengono poi venduti in ogni angolo del mondo. Un crimine a largo spettro che ha come vittime l’ambiente e tutti i suoi abitanti. Ma frutta una quantità enorme di denaro, molto più, a detta di alcuni pentiti, del traffico della droga, che è tutto dire!

Ma c’è anche di peggio. Oltre a riservare questo trattamento non proprio carino al nostro paese, l’organizzazione criminale investe nella spedizione di rifiuti all’estero, in paesi in cui non è difficile ottenere un permesso o per la facilità di corrompere i governi o per la situazione locale difficile (fame, guerre in corso, guerre civili). Così nascono organizzazioni quasi legali, nel senso che i partecipanti firmano contratti veri e propri, che li obbligano a determinate azioni. In Libano, in SudAmerica, ma anche in alcuni stati dell’Est Europeo, arrivano navi, o file di camion per interrare senza troppi rischi le schifezze delle industrie del ricco occidente.
Abbiamo ricordato la scorsa puntata due di queste “imprese” a testimonianza di tutte le altre, che, secondo Greenpeace, tra il 1988 e il 1994 sarebbero state quasi cento. Leggiamo dal rapporto dell’associazione ambientalista pubblicato nel 2010:
 “Tra 1988 e il 1994 Greenpeace ha reso pubblici 94 casi (o tentativi) di trasporto di rifiuti nocivi verso l’Africa: più di 10 milioni di tonnellate di residui. Alcuni piani prevedevano la costruzione di strutture in loco per lo smaltimento dei rifiuti, inceneritori e discariche. Atri riguardavano rifiuti radioattivi, come il famigerato progetto ODM per il quale erano stati identificati almeno 16 diversi paesi africani. Ma per la maggior parte si trattava di semplici operazioni di scarico rifiuti. I container con i rifiuti venivano spediti seguendo la linea della minima resistenza e del governo più debole, finendo in aree remote come la Guinea equatoriale, il Libano, la Somalia e il Congo. Rifiuti tossici sono stati depositati su spiagge della Nigeria e di Haiti.”
Che ci fossero traffici illeciti di rifiuti tossici tra l’Italia e altri paesi del mondo è dimostrato da diverse vicende che hanno avuto documentazione ufficiale. Tra queste ne ricordo due.
La prima avviene in Libano tra il 1987 e l’88. Ne parla l’allora onorevole Riccardo Sanesi dell’area dei Verdi, il quale, nel 1995, presenta una interrogazione alla camera in cui ricorda che, durante la guerra civile in Libano, la società Jelly Wax aveva pagato la milizia per depositare i rifiuti con una cifra stimata tra i 10 e i 50 milioni di dollari (all’epoca un $ si cambia a 1300 lire e un operaio ha uno stipendio attorno alle 600 mila lire, circa 300 €). Secondo Greenpeace, Jelly Wax scarica 24 mila tonnellate di rifiuti liquidi e solidi altamente tossici. Una parte vengono interrati nelle alture di Kerswam con il concreto rischio di inquinare con il loro contenuto di metilacrilato, etilacrilato, paraffina clorurata e scorie di metalli pesanti, i corsi d'acqua e le falde sotterranee di una regione da cui proviene buona parte dell'approvvigionamento idrico del Libano. Gli altri finiscono direttamente in mare, dove l'acqua corrode i container liberando parte del contenuto, con conseguenze facilmente immaginabili.
Il governo libanese si incazza e intima al governo italiano di riportare a casa quelle schifezze. Al governo italiano tocca abbozzare, scusarsi e riprendersi il materiale. Viane inviata una nave per questo: è la Jolly Rosso, di cui comincerò stasera a raccontare la strana storia. Riporta a casa però solo 6'000 tonnellate di rifiuti, un quarto del totale.
Ma la madre di tutte queste imprese avviene in Marocco, nel Sahara occidentale: il progetto Urano si eleva su tutti gli altri, per l’audacia, ma anche per le dimensioni dell’affare. Sono coinvolti personaggi chiave della nostra storia, i cui profili abbiamo delineato la volta scorsa.

Il progetto Urano

Dunque il progetto Urano. Ripercorriamo in breve la vicenda. Giuseppe Sebri è incaricato di preparare il terreno nei luoghi di destinazione, ma è anche il pentito che spiffererà ogni cosa qualche anno più tardi. Tra gli altri protagonisti ci sono Nickolas Bizzio, un miliardario e faccendiere e Luciano Spada, che vedrà solo l’inizio di questa avventura, ma che era quello che teneva stretti rapporti con chi comandava politicamente in Italia all’epoca: i socialisti di Craxi, Martelli e De Michelis.
C’era anche Guido Garelli, messo a dirigere l’ATS, una specie di organizzazione che metteva i timbri ai permessi di scaricare i rifiuti. Garelli era uomo di secondo piano, un prestanome, un pupazzo, secondo la definizione di Giampiero Sebri.
puntata2 01E poi gli stati interessati: il Marocco e il fronte del Polisario, che aveva le sue truppe dislocate un un pezzo di Sahara, dove c’era una grande depressione, da riempire, appunto coi i rifiuti portati dall’Italia. Fronte e Marocco sono in guerra da dieci anni ed è quindi facile immaginare che non si possano proprio vedere, ma evidentemente l’affare serviva ad entrambi. Soldi? Chissa? Lo vedremo.
Va detto, a scanso di equivoci, che, almeno all’inizio, i rifiuti erano arrivati nel nostro paese dagli Stati Uniti.
Dopo varie avventure e ritardi, finalmente questo progetto parte. Ha un nome in codice: si chiama Progetto Urano e dagli interessati è visto come un’occasione per guadagnare un sacco di soldi.
Dovete avere pazienza perché queste storie hanno mille sfaccettature e non è sempre semplice proporle tutte contemporaneamente. Siamo in un periodo storico particolarmente caldo: è quello in cui si mescolano la politica craxiana, la massoneria deviata di Licio Gelli e della P2, le brigate rosse e la mafia, la banda della Magliana e gli interessi dei faccendieri, in un intreccio incredibile che ancora oggi presenta un sacco di aspetti misteriosi e di crimini irrisolti.
Per questo scopriremo solo andando avanti nel racconto cosa è accaduto anche “dietro le quinte”. Per ora ci servono tre parole chiave: rifiuti, armi, cooperazione.
Tre termini indissolubilmente legati. Le navi della cooperazione erano usate non solo per portare vestiti e cibo nei paesi poveri, come vedremo nel corso di queste trasmissioni.
Dunque, la nave del progetto Urano fa rotta per il Marocco. Arriva a destinazione e comincia a scaricare. E qui ecco il primo clamoroso colpo di scena. Come in tutti i buoni romanzi thriller, quando la soluzione è a portata di mano e la storia sta per terminare, succede qualcosa che butta tutte le carte per aria.
Dalla nave scendono fusti, contenitori pieni di rifiuti, ma poi, ecco comparire delle armi. Sono tante armi e sono destinate al Fronte del Polisario. E’ la moneta versata a chi in quel momento controlla la zona dove i rifiuti dovranno essere interrati. Credo sia chiaro che ai marocchini tutto questo non può far piacere, anzi si incazzano di brutto.  Ma come: noi ti permettiamo di fare i comodi tuoi sulla nostra terra e tu rendi i nostri nemici più potenti riempiendoli di mitragliatrici, fucili e quant’altro? E così salta tutto. Il più grande progetto sui rifiuti tossici concepito fino ad allora, il progetto Urano, salta perché i nostri faccendieri hanno voluto fare i furbi e guadagnare più del necessario. Probabilmente, senza quelle armi, non ci sarebbe stato l’OK da parte del Fronte del Polisario e quindi comunque l’affare sarebbe saltato. Questa insomma è la storia che scopre forse per la prima volta in modo molto chiaro come rifiuti ed armi siano soliti viaggiare assieme e rappresentino solo due aspetti diversi dello stesso affare. Quando racconterò la storia di Ilaria Alpi, tutto sarà ancora più evidente.
Siamo a metà degli anni ’80. Garelli viene arrestato in Italia, Spada fugge all’estero per un certo periodo, mentre i suoi uffici vengono perquisite dagli inquirenti.
E la nave? Che fine fa la nave carica di bidoni che doveva finire nel Sahara? Bisogna organizzare una nuova spedizione e mandarla in un posto più sicuro, dove non si facciano troppe domande e soprattutto non si pretendano troppe risposte. Viene scelta la Somalia.
puntata2 03Uno dice: “perché mai la Somalia? Che vantaggio ha quel paese rispetto agli altri?”
Ha un vantaggio enorme; là esiste già una organizzazione funzionante, con tutto quello che serve: agganci politici, uomini fidati, strutture e mezzi e un uomo fidatissimo di Luciano Spada a dirigere il tutto. Si chiama Giancarlo Marocchino. Anche questo è un nome importante, di quelli da tenere a mente, perché entra ed esce dalle scene di continuo e noi ne parleremo più e più volte.
Per capire che Marocchino non è uno qualsiasi, basta ricordare alcune delle frasi riportate nelle interrogazioni di Giampietro Sebri. Nel 1987 (o forse nel 88, Sebri non ricorda con precisione) a Milano Marocchino incontra Luciano Spada, per confidargli che c’è un generale da sistemare con qualche milionata e bisogna farlo di persona perché gli uomini dei servizi segreti sono inaffidabili ed esosi. Eccoli che tornano, i servizi segreti, sempre presenti nelle fasi strategiche.
Sebri incontra ancora Marocchino nel 1993. In quell’occasione c’è anche un colonnello dell’Esercito italiano. Il pentito non dice di chi si tratta, perché nel frattempo è diventato un pezzo grosso dei Servizi e fare il suo nome potrebbe rendergli la vita difficile. Marocchino è appena stato espulso dalla Somalia per traffico d’armi, ma è notevolmente arrabbiato per altri motivi. Per i soldi che non arrivano e se la prende in particolare con Pillitteri, che non avrebbe rispettato i patti e spartito il denaro come previsto.
Sei mesi dopo c’è ancora un altro incontro. Marocchino non c’è, ma c’è l’uomo dei servizi segreti che, a sentire Sebri, avrebbe detto “Chi sgarra, paga. L’importante è che ciascuno faccia bene il proprio lavoro. Abbiamo sistemato anche quella giornalista comunista". Ilaria Alpi e l’operatore Miran Hrovatin sono appena stati assassinati a Mogadiscio.

Pentiti e inquirenti

Le ultime sono affermazioni di una gravità estrema. Significa che ad ammazzare Ilaria Alpi sono stati i servizi segreti per non far trapelare notizie che potrebbero danneggiare, in qualche modo, il governo italiano.
Dobbiamo credere a Sebri? Oppure no? Sta di fatto che per queste affermazioni, Sebri si becca una condanna a tre anni di reclusione per calunnia aggravate.
Ripeto: credere a Sebri? o al tribunale che l’ha giudicato? La scelta è davvero molto difficile.
Vedete dunque come le varie vicende si intersecano e si sovrappongono.
No! Non parlerò adesso di Ilaria Alpi, perché quella vicenda è talmente grossa da meritare una storia tutta sua. Lo faremo, altro che, se lo faremo!
Quello che possiamo dire, arrivati a questo punto e capito come andavano le cose, è che i carichi diretti in Somalia sono numerosi e seguono rotte ben precise. Vanno là dove le amministrazioni o i signori della Guerra riescono a garantire un tranquillo scarico e interramento, intascando così la moneta o il carico di armi pattuito.
La “protezione” sul campo a questi trasporti è garantita dalla ‘ndrangheta calabrese, mentre cosa nostra (in particolare il clan Iamonte) si occupa dei viaggi verso l’Est europeo. I “picciotti” forniscono anche tutto il lavoro sporco, che qualcuno deve pur fare.
Nel 1997, dice Sebri, la meta più frequente per i rifiuti tossici è però il Mozambico.
puntata2 06Da noi nessuno dei 60 milioni di cittadini sa nulla e continua a discutere sull’aria fritta, sulle battute dei politici, sulla questione se il PSI sia più a sinistra del PCI e su altre stronzate del genere. Lo tsunami di “Mani pulite” è ancora lontano e i delinquenti sono liberi di fare tutto ciò che vogliono, o quasi.
Del resto nessuno sembra voler fare nulla, nemmeno nel caso di un doppio assassinio come quello di Mogadiscio. Le indagini si aprono e si chiudono con la rapidità del vento; la politica non fa niente per cercare la verità e chi è rimasto coinvolto, come i parenti delle vittime, vive in un incubo doppio. Che schifo!
Tutta la lunghissima deposizione di Sebri è in rete e ricalca questo racconto che è il riassunto dell’intervista rilasciata a suo tempo a Famiglia Cristiana.
Si potrà obiettare che è solo una voce e che tutto quanto raccontato potrebbe essere falso. É vero: può essere. Però con il passare degli anni si accumulano i risultati delle varie inchieste;
  • degli inquirenti
  • dei giornali (ad esempio de L’Espresso)
  • delle associazioni ambientaliste (come Greenpeace e Legambiente)
  • di alcune commissioni parlamentari (come quella sul ciclo dei rifiuti diretta dal Verde Massimo Scalia)
e ogni volta ci sono tasselli nuovi che si aggiungono al mosaico e sembrano combaciare con quello che abbiamo appena raccontato. Non è impossibile, ma mi sembra difficile pensare che Sebri si sia inventato tutto.
Prima di passare al nostro paese ascoltiamo un altro pezzetto di TG3 sempre del 16 settembre.

Vedremo, alla fine di tutto, cosa hanno raccolto i servizi segreti sulle questioni che sto raccontandovi. Credo valga la pena avere pazienza, perché la desecretazione dei documenti, diciamo così “scomodi”, coinvolge tutti i rami di queste storie e quindi meritano di essere analizzati nel loro insieme … e allora ne ascolterete delle belle! 

Anche l’Italia è un immondezzaio

puntata2 05Provate adesso a mettervi nei panni di questi loschi faccendieri. Non è decisamente comodo fare quello che fanno. Recuperare i rifiuti, imbastire una spedizione in un paese lontano, dove occorre predisporre un’organizzazione che si occupi di tutto in loco. Bisogna individuare il posto, controllare che non ci siano conflitti su di esso, avere il beneplacito delle amministrazioni locali, controllare che gli organi di polizia e di indagine chiudano tutti e due gli occhi e così via. Dovrà pur esserci un modo più semplice per far sparire i rifiuti … o no?
Del resto, se vogliamo in quattro e quattr’otto ripulire un terrazzo dalle foglie morte non facciamo altro che buttarle di sotto. Ecco il sistema! Prendiamo le navi contenenti i rifiuti e le inabissiamo, avendo cura di trovare fondali sufficientemente profondi. In questo modo eventuali ricerche saranno molto più complicate e quasi sempre tecnicamente impossibili.
Prima di continuare ricordo a chi mi sta ascoltando che facciamo il punto della situazione senza aver ancora letto le pagine desecretate, usando quindi le informazioni che mano a mano sono emese dalle indagine e delle deposizioni dei testimoni.
Le domande che ci facciamo sono sempre le stesse: dove? quando? e soprattutto chi?
Per il dove non c’è che l’imbarazzo della scelta. Le acque del Mediterraneo vanno benissimo in molte zone, specie al largo delle regioni meridionali italiane, Calabria in testa.
Quante navi sono scomprase? A sentire le stime basate su indagini, testimonianze, ma soprattutto sulla sparizione misteriosa delle navi dovrebbero essere almeno una quarantina negli anni ’80 e ’90. Alla fine i conti ci diranno che sono state molte di più.
La storia è sempre la stessa. C’è una nave ancorata in un qualche porto italiano con un carico ben definito, un equipaggio e un comandante. Le carte sono tutte in regola: destinazione, percorso, soste e così vie. Si parte, quasi sempre con un mare che sembra una distesa d’olio. Durante il tragitto va tutto bene, nessun segnale d’allarme, nessun SOS, ma le navi a destinazione non ci arrivano mai: spariscono. Qualcuno parla di navi fantasma, qualcun altro di navi a perdere. Sta di fatto che di quelle imbarcazioni nessuno sa più nulla, a volte nemmeno del loro equipaggio.
I vantaggi, rispetto ad andare in Libano o in Venezuela, sono enormi: nessun paese straniero che si lamenti e, ciliegina sulla torta, un’assicurazione da riscuotere per la perdita disgraziata della nave.
Qualche esempio. Nell’inverno 1985 la motonave Nicos I è ancorata nel porto di La Spezia. Evidentemente le autorità subodorano qualcosa, oppure c’è una soffiata. Sta di fatto che il comandante viene fermato e il carico, dopo essere stato controllato, viene sequestrato. Il che significa, ragionando terra terra, che di sicuro non si trattava di qualche tonnellata di arance.
Bene, dite voi: giustizia è fatta!
Nemmeno per sogno. Passa poco tempo e la Nicos I parte lo stesso, non si sa perché, non si sa come, ma parte. Destinazione Togo.
Adesso fidatevi di me, oppure aprite un atlante o google maps sull’Africa. Lo vedete il Togo? É laggiù a sinistra tra il Benin e il Ghana, dove la costa occidentale del continente nero fa un’ansa a formare il golfo di Guinea. La Nicos I dunque deve puntare verso la Spagna, doppiare Gibilterra e scendere verso Sud per un bel pezzo. Invece va a Sud Est a Cipro, poi in Libano, poi in Grecia e poi non si sa: la nave sparisce nel nulla.
Un bel rompicapo!
Un anno dopo, nell’Ottobre 1986, da Carrara parte la nave italiana Mikigan (proprio così non come lo stato americano ai confini con il Canada). Secondo i documenti trasporta notevoli quantità di granulato di marmo, una sostanza usata anche per schermare la radioattività. Naufraga di fronte alle coste calabresi, in condizioni stranissime, le stesse che coinvolgeranno la prossima nave di cui vi parlerò, che è anche quella che dà il via alle indagini su questo strano fenomeno.
É il settembre 1987 quando la Rigel naufraga a 30 km da Capo Spartivento, che è il punto più a Sud della Calabria. Ci sono 18 uomini a bordo e non c’è neanche un’onda grande così. Nessun segnale di pericolo, nessuna chiamata di soccorso. “Casualmente” (questo casualmente dovete leggerlo tra molto virgolette) mentre la Rigel affonda, passa di là un’altra nave che carica i 18 uomini e li porta in Tunisia. Da quel momento di loro nessuno sa più nulla.
Insomma potrebbe sembrare un fatto come gli altri che stiamo raccontando, ma una grande differenza c’è: ed è la compagnia con cui la nave è assicurata. Infatti si tratta dei Lloyds di Londra, un gigante nel settore, che non ci sta a farsi prendere per i fondelli. In effetti la storia non regge nemmeno un po’, soprattutto perché di tempo per accorgersi che l’acqua entrava ce n’era stato parecchio e un SOS sarebbe dovuto partire. Così l’assicurazione britannica si rivolge alla procura di La Spezia, dove la società armatrice della nave ha la sua sede.
Legambiente, che, come altre grandi associazioni ambientaliste, segue con preoccupazione queste vicende denuncia il fatto pubblicamente di modo che la magistratura sia indotta ad intervenire. E così si arriva al processo, il primo e unico nella vicenda delle navi colate a picco. Nei tre gradi di giudizio si accerta quanto segue:
  • che la nave era stata affondata apposta
  • che il carico realmente presente non era quello dichiarato alla partenza
ma di dove fossero finiti carico ed equipaggio non emerge nulla: scomparsi, svaniti, volatilizzati.
Se ne occupa anche la commissione parlamentare sui rifiuti. E’ l’unico caso, dei 40 probabili, di cui è stata ricostruita in tribunale una parte di verità. L’armatore e le ditte che hanno effettuato il carico vengono condannate.
Altre navi misteriosi costellano la storia di quel periodo. Tra le tante altre possiamo ricordare la Four Star, inabissata nello Ionio meridionale nel 1988; la Anni finita nell’alto Adriatico nel 1989; la Marco Polo nel canale di Sicilia nel 1993, la Korabi Durres finita dalle parti di Reggio Calabria nel 1994, la Koraline dalle parti di Ustica nel 1995.
Tra queste curiosa è la vicenda della Korabi Durres, nave che parte il 1 marzo 1994 dal porto di Durazzo in Albania, diretta in Italia. Cerca approdo a Crotone e poi a Palermo, ma entrambe le capitanerie di porto lo impediscono perché la nave emette percentuali di radioattività troppo elevate e quindi pericolose. Il 9 marzo riparte da Palermo e il giorno dopo scompare vicino a Reggio Calabria. Che nel mare calabrese ci siano scorie radioattive a questo punto non è più solo un’illazione.
Ma, tra tutte le storie che possiamo raccontare sulle navi dei veleni, una è veramente speciale, come quella della Rigel, perché la sua vicenda ha fatto la storia delle indagini sulle navi dei veleni, perché è costata morti, e ha dato la stura alla comprensione di questi traffici loschi. É la Rosso, la vecchia Jolly Rosso; vi avevo avvertito di non dimenticare questo nome. Ne parleremo dopo una breve pausa.

La Jolly Rosso

L’abbiamo già incontrata nella prima puntata di questa trasmissione, quando il governo italiano è costretto a riportarsi a casa le schifezze che qualcuno aveva abbandonato in Libano. Si tratta di quella che allora si chiamava Jolly Rosso e che ora è ribattezzata semplicemente in “Rosso”. Perché questa nave è speciale? É una storia lunga anche questa la racconteremo tra oggi e la prissima volta.
Anche la Rosso deve fare la stessa fine di tutte le altre navi che ho citato finora, ma qualcosa non funziona, tanto da dover innescare in tutta fretta un clamoroso piapuntata2 07no di riserva. Anziché affondare nelle acque complici dei nostri mari, la Rosso si sposta ancora, mentre i 16 uomini dell’equipaggio e il comandante vengono tratti in salvo dagli elicotteri della marina militare. Si muove qualche ora, la Rosso, finché si arena su una spiaggia, vicino ad Amantea, bel comune del cosentino fondato dai bizantini ed arricchito dagli arabi. É il 14 novembre 1990.
Ora dobbiamo fare una piccola deviazione dalla nostra storia. Lasciamo per un po’ la Rosso là sulla spiaggia, ma vi torneremo presto, perché è uno dei capisaldi del nostro racconto.
Facciamo mente locale e immergiamoci in quei primi anni ’90. Sapete tutti cosa sta succedendo da noi, con la questione di Mani Pulite, il terremoto, la fine della prima repubblica e dei partiti storici, poi rinati con le stesse idee e gli stessi difetti, ma nomi differenti. Ma questa è un’altra storia.
Sono anni in cui né privati, né stati, anche importanti, si fanno scrupolo di usare il mare come una pattumiera, buttandovi dentro di tutto, soprattutto rifiuti pericolosi. Nel 1993 il governo russo, presieduto da Bors Eltsin, dichiara con tutta tranquillità di aver scaricato direttamente nel mar Artico ingenti quantità di rifiuti radioattivi liquidi e di aver seppellito nel mar di Kara (che bagna le coste settentrionali della Siberia) e nel Mar del Giappone (nell’estremo Est della Russia), nientemeno che 18 reattori nucleari. Così, semplicemente, come se avesse detto che si era mangiato una caramella di sua nipote.
I paesi importanti, compreso il nostro, avevano già emanato leggi riguardo i rifiuti tossici, solo che in molti casi (come in quello italiano) le norme erano state “adeguate” per lasciar spazio a vari tipi di interpretazioni, più libere. Insomma vale il solito detto: fatta la legge, trovato l’inganno.
Ad esempio, in Italia, non si parla di rifiuti bensì di “prodotti”. Così c’è modo di rigirarsi tra le pieghe delle normative. Nonostante questo, servono connivenze importanti, di alto livello, per portare a termine misfatti come quelli che ho descritto finora.
Ed è proprio dalla Rosso che partono tutte le inchieste sulle navi fantasma. Inchieste che coinvolgono procure sparse ovunque: Reggio Calabria, Paola, Catanzaro, Roma, Matera, La Spezia, Padova e Asti.
Qualcuno capisce troppo, come il capitano Natale De Grazia, che muore in modo stranissimo e non ancora accertato durante un trasferimento dalla sua Reggio Calabria verso La Spezia. Ma questa storia la racconterò nei particolari un’altra volta, perché De Grazia merita di essere ricordatocome si deve ad un eroe, di quelli veri, non di quelli dei telefilm americani.
E improvvisamente occorre sapere, entrare nei particolari. Chi effettua i carichi? Chi trasporta le navi sul luogo dell’inabissamento? Chi caccia i soldi? Chi sono i delinquenti e soprattutto, chi sono i mandanti?
La documentazione sui fatti è sicuramente merito degli inquirenti, ma non possiamo dimenticare tre elementi attivi nella nostra storia.
Da un lato le grandi associazioni ambientaliste, che non si sono mai fermate. Legambiente (alla quale va dato gran parte del merito di queste inchieste) costituisce nel 2007 un “Comitato per la verità sulle Navi dei Veleni”, chiedendo di finanziare una campagna di recupero delle navi affondate lungo le coste italiane. Assieme a Legambiente hanno parte attiva WWF e Greenpeace, oltre alla direzione investigativa antimafia.
Per chi volesse approfondire la questione, Legambiente ha un sito molto bello e completo dedicato all’argomento: www.Legambiente.eu
E poi ci sono alcuni giornalisti, credo si possa dire senza offesa, più coraggiosi che curiosi, come Riccardo Bocca dell’Espresso, la cui indagine sullo spiaggiamento della Rosso, è davvero inquietante.
Infine i pentiti e, in questo caso, un pentito particolare, che racconta, dalla sua storia di boss della ‘ndrangheta tutto quello che avveniva. Si chiama Francesco Fonti, è morto nel 2012, non prima di aver vuotato ripetutamente il sacco, con un memoriale che ripercorre gli intrecci tra industriali, mafiosi e politici.

Dalla Cunski alla Rosso

Ricordate? Eravamo partiti dal TG3 che annunciava il ritrovamento della Cunski laggiù negli abissi delle coste calabresi. E da là ripartiamo per raccontare una storia che ha dell’incredibile, quella della Rosso, in cui si intrecciano tutti i protagonisti della vicenda: mafiosi, faccendieri, politici, servizi segreti, pentiti, giornalisti, militari, spartendosi i ruoli di buoni e di cattivi.
Lo dico una volta ancora: gran parte del racconto è basato sulle dichiarazioni di un collaboratore di giustizia, che possono essere vere oppure no. Quello che a me interessa è raccontare la storia così come è emersa. La verità non mi compete, a dire il vero dubito ci sia qualcuno a cui essa competa davvero. E allora cominciamo proprio dai fatti immediatamente seguenti il ritrovamento della Cunski.
Ho detto la volta scorsa che l’annuncio del ritrovamento è esploso come una vera e propria bomba, anche se da molto tempo i sospetti che laggiù ci fossero navi inabissate erano abbondanti tra le procure, le associazioni e, insomma, chiunque volesse davvero intendere.
In particolare la procura di Paola avrebbe voluto da tempo andare a curiosare là in fondo al mare per vedere quante navi vi erano deposte e cosa contenevano, ma i mezzi a disposizione sono molto scarsi, praticamente inesistenti per una simile opera. Certo, se la questione avesse avuto altra importanza per chi stava lassù in alto (si badi bene, molto in alto) non ci sarebbero stati problemi. Del resto il governo, negli anni ha imposto tasse e balzelli per questioni molto meno importanti di quel terrificante aumento di tumori nella regione e per quei livelli di radioattività del tutto anomali lungo le coste. In questo caso non è stato fatto un bel niente.
Solo dopo anni, la Regione Calabria presta alla procura di Paola un robot in grado di immergersi fino a 500 metri di profondità e filmare quello che incontra. Ed ecco, all’improvviso, apparire una delle navi fantasma, una di quelle presumibili 40 imbarcazioni sparite nel nulla; la Cunski. I rilievi della procura parlano di rifiuti tossici, forse radioattivi. Qualcuno sostiene di aver visto due teschi che guardano attraverso gli oblò. Vero? Falso? Che importa? La notizia fa il giro di televisioni e giornali, perfino qualche politico si spende con parole di fuoco “Quella nave va recuperata!” tuona Walter Veltroni.
Ma di quella nave nessuno sa niente. Si spulciano le indagini degli ultimi 20 anni e niente: la Cunski non esiste. Saltano fuori, invece, alcuni appunti del capitano Natale De Grazia, in cui fa riferimento a navi scomparse, rifiuti tossici e radioattivi e, pensate un po’, tutti questi elementi messi nella stessa frase!
De Grazia, come già detto, sicuramente sapeva troppo e per questo andava eliminato.
Coperture, segreti, indagini monche, morti misteriose degli inquirenti. Il quadro è completo. Resta solo una domanda ancora senza risposta: chi è stato?
É una domanda semplice, con risposte terribilmente complesse, a volte senza risposte. Già chi è stato?
É una domanda che va divisa in tre pezzi: chi sono stati gli esecutori? chi sono quelli che hanno coperto o insabbiato l’affare? e, soprattutto, chi sono i mandanti?
Le sole risposte che abbiamo, per ora (ricordate, parleremo solo alla fine dei documenti desecretati per dare più suspense alla nostra storia) risiedono nelle deposizioni dei cosiddetti collaboratori di giustizia.
Qui occorre, ancora una volta mettere in guardia chi ascolta. Intanto nessuno sa il motivo per cui un delinquente (alcuni sono assassini inveterati) improvvisamente si mette a disposizione della giustizia. Lo fa perché un rimorso gli attanaglia la gola oppure per convenienza, contando su una riduzione della pena, se non addirittura sulla libertà?
Certo le dichiarazioni sono fatte sotto giuramento, ma dubito che chi non ha battuto ciglio nello sciogliere qualche persona nell’acido si faccia scrupolo di giurare il falso.
Voglio però fare quattro osservazioni prima di cominciare.
Prima: non si capisce perché si debba dare retta a chi difende qualche politico invischiato in cose brutte (forse qualcuno ricorda i processi a Dell’Utri o a Andreotti) e rifiutare invece quelle accusatorie. Insomma, se vanno bene le prime devono andar bene anche le altre. Non voglio dare alle deposizioni un valore assoluto, le prendiamo per quello che sono.
Seconda: Ci sono troppe coincidenze. Noi che abbiamo studiato fisica non crediamo mai alle coincidenze; siamo addirittura convinti che non esistano. Ascoltate un po’. Il pentito di cui parlerò tra poco consegna la sua deposizione nelle mani del sostituto procuratore nazionale antimafia Enzo Macrì, uomo di grande coraggio. Sono 49 pagine, in cui racconta la storia delle navi dei veleni, dei rifiuti, delle coperture e tutto il resto. Ma, per adesso, ci interessa la data in cui questo avviene: è il 2003. Nel memoriale sono indicate con estrema precisione i luoghi dove le navi sono state affondate. C’è anche quello della Cunski, che coincide esattamente con quello dove il robot della Regione Calabria la vede sei anni più tardi. Coincidenze? Difficile da credere!
Terza: le dichiarazioni contenute nel memoriale sono terribilmente scomode e non coinvolgono solo traffici illeciti di rifiuti e di armi, ma omicidi, come quello di Ilaria Alpi. Motivo di più per dar loro credito.
Quarta: è la sola testimonianza importante che abbiamo e dunque, almeno per ora, ci deve bastare.

Rifiuti e ‘ndrangheta

puntata2 08Per capire un po’ meglio il guazzabuglio di informazioni in cui ci stiamo cacciando, occorre fare un passo indietro per vedere come e quando la malavita organizzata entra nell’affare nave dei veleni. Seguiremo le vicende della ‘ndrangheta che sono quelle su cui si hanno più informazioni, anche perché sono le coste calabresi la destinazione preferita degli inabissamenti.
Sappiamo che la ‘ndrangheta è organizzata per famiglie e per zone di controllo. A San Luca, sulle falde meridionali dell’Aspromonte, comanda Giuseppe Nirta, mammasantissima, cioè capo supremo dell’organizzazione, arrestato nel 2008 e attualmente detenuto.
La sua posizione di boss dei boss, lo mette in contatto a Roma con personaggi importanti dei servizi segreti, della massoneria e della politica, elementi che si mescolano spesso assieme per combinare affari di ogni genere.
Nirta ha un parente, un secondo cugino, che si chiama Francesco Fonti, al quale consente una rapida carriera facendogli fare prima lo sgherro (estorsioni), poi il corriere della droga. É a lui che il boss confida più volte che l’affare dei rifiuti pericolosi avrebbe portato tanti soldi nelle casse della famiglia. E sarà proprio Francesco Fonti a rivelare qualche anno dopo quello che accadeva a questo riguardo.
Secondo le informazioni fornite soprattutto dai pentiti, Nirta avrebbe avuto l’incarico di sistemare i rifiuti direttamente dal ministro della difesa, Lelio Lagorio, socialista. Li avrebbe dovuti interrare in qualche cava dell’Aspromonte o in qualche anfratto in mare.
Il mondo delle mafie è pericoloso e non è che puoi prendere una iniziativa così importante senza avvertire nessuno. Sarebbe uno sgarro e correrebbe sangue a fiumi.
Quindi viene avvertita la Camorra campana e Cosa Nostra in Sicilia. Solo dopo questa cortesia, Nirta riunisce tutte le famiglie della ‘ndrangheta: Natale Iamonte di Melito Porto Salvo, Giuseppe Morabito di Africo, Giuseppino Barbaro di Platì, Domenico Alvaro di Sanipoli e Salvatore Aquino di Gioiosa Marina.
E’ presente anche Francesco Fonti, che diventerà presto il referente di Nirta in questa impresa.
C’è un po’ di confusione per spartire incarichi e proventi. Alla fine si fa alla romana: ognuno per sé senza interferire con gli altri. L’area scelta per gli interramenti è la Basilicata, una regione sfortunata che entrerà spesso come disgraziata vittima nelle storie che racconteremo. Ma qui la scelta è la più logica, dal momento che quella zona non interessa nessuna famiglia per tenervi i sequestrati o i depositi di armi e droga. É, in un certo senso, terra franca e quindi fruibile da parte di tutte le famiglie.
Anche la mafia turca viene avvisata per gli stretti rapporti con la ‘ndrangheta nel traffico di eroina. A San Luca intanto cambia il boss: nell’alleanza con la ‘ndrina Romeo, a Giuseppe Nirta succede Sebastiano Romeo.
‘Ndrina è sinonimo di cosca è, più o meno, quello che la “famiglia” è per Cosa nostra. Di solito comanda su un territorio ben definito e fa riferimento ad un comune calabrese.
Nel 1983 Fonti viene mandato a Roma, dove incontra Paolo De Stefano, potente boss di Reggio Calabria con agganci politici di primo livello. La nazione scelta per esportare i rifiuti è la Somalia. A Fonti si chiede, come prima mossa, di prendere contatti con i vertici del partito socialista.
Ma gli affari non decollano. Fonti si ritrova in Emilia a gestire il traffico di droga della ‘ndrangheta, un incarico evidentemente di minore importanza.
Finché un giorno di tre anni dopo …
Fonti viene richiamato in Calabria da Domenico Musitano. Costui è, in quel momento, a capo della potente ‘ndrina di Platì e chiede a Fonti di avviare la prima operazione di smaltimento di rifiuti pericolosi. Ecco il racconto testuale di Fonti:
“... mi disse che c'erano da far sparire 600 bidoni contenenti rifiuti tossici e radioattivi, chiedendo se io e la mia famiglia potessimo interessarci per le varie fasi di trasporto e collocazione. Prima di tutto gli domandai quanto ci avremmo guadagnato, e chi gli aveva prospettato questo lavoro. Mi spiegò che era stato avvicinato dal dottor Tommaso Candelieri dell'Enea di Rotondella, il quale stoccava in quel periodo rifiuti provenienti da Italia, Svizzera, Francia, Germania e Stati Uniti, e che in quel preciso momento aveva l'esigenza di far sparire questi fusti che erano stati depositati in due capannoni dell'Enea stessa. Quanto ai soldi, avrei intascato 660 milioni per tutte le fasi dell'operazione. Per questo incontrai a Milano, in piazzale Loreto, Giuseppe Romeo, fratello di Sebastiano, il quale scese poi in Calabria per riferire. Dopo una settimana, ritornò a Milano e mi diede il via libera".
Ma le sorprese, quando si parla di mafie, sono all’ordine del giorno. Nel 1986 il boss di Platì viene ammazzato e l’affare si ferma e viene rimandato di qualche mese. Si riparte nel gennaio del 1987.
La nave scelta è la Lynx; le compagnie coinvolte hanno origini svizzere, indonesiane, maltesi e poi c’è l’onnipresente Jelly Wax. Ma su quella nave, 600 bidoni non ci stanno. 100 devono essere smaltiti in altro modo e da qualche altra parte. Così partono 40 camion: 7 arrivano in Basilicata, a Pisticci, dove i bidoni vengono sepolti lungo il fiume Vella. Il resto del carico arriva a Livorno e finisce sulla Lynx.
Ovviamente i documenti sono falsi così come la destinazione del viaggio, indicata in Gibuti (in fondo al Mar Rosso) mentre invece si attracca a Mogadiscio. Qui, con mezzi raccattati sul posto, i bidoni vengono seppelliti alla bene e meglio. Dei 660 milioni concordati, 500 finiscono nelle casse della famiglia di San Luca.
Le attività di Fonti si allargano via via perché in questo mondo dei rifiuti incontra personaggi sempre più potenti che riescono a gestire non solo gli scarti delle industrie, ma anche scorie radioattive e armi, tante armi.
I nomi che escono dalle pagine dei verbali sono spesso noti alla magistratura: come il conte Mirko Martini, Giancarlo Marocchino, Giorgio Comerio, che offrirà a Fonti 75 aerei russi da rivendere. Aerei finiti poi in Liberia, passando da un faccendiere ukraino.
Ed è proprio il sodalizio con Comerio che porta alle navi sparite nei mari calabresi, compresa la Rigel.

I servizi segreti

In una riunione congiunta delle famiglie, Fonti viene a sapere che almeno trenta navi dei rifiuti sono state affondate. Se una simile quantità di sparizioni misteriose non è mai arrivata sulle prime pagine dei media significa solo una cosa. Che c’è una copertura davvero molto potente. E questa copertura non può che arrivare dai politici (segnatamente da esponenti dell’allora PSI che occupano i posti chiave nel governo) e dai servizi segreti.
Come detto sono anni agitati nel nostro paese e i servizi segreti entrano frequentemente nelle chiacchiere della gente. In particolare c’è Stefano Giovannone, uno degli alti gradi del SISMI. All’epoca esistevano due tipi di Servizi, uno civile, il SISDE e uno militare, apopunto il SISMI.
Giovannone entra in molte storie di quegli anni: nell’affare Gladio, in alcune lettere scritte da Aldo Moro durante il sequestro da parte delle BR e soprattutto nella morte dei due giornalisti Gabriella De Palo e Italo Toni, avvenuta in circostanze misteriose e ancora non chiarite in Libano nel 1984. Al riguardo viene incriminato per depistaggio delle indagini ma muore due anni dopo.
Abbiamo già accennato al fatto che Fonti diventa collaboratore di giustizia nel 1994 e che nel 2003 consegna al procuratore nazionale antimafia Enzo Macrì un memoriale di 49 pagine. Nel 2005 rilascia un’intervista all’Espresso in cui racconta tutte le vicende sulle navi a perdere. Nel 2009 si crede di aver individuato una di queste navi, la Cunski, nel luogo indicato da Fonti. Le ricerche non danno alcun esito. Un anno dopo una nuova nave viene scoperta al largo di Lamezia. Del suo contenuto però non si sa nulla.
Francesco Fonti muore nel dicembre 2012. Le sue verità, le sue accuse, vere o false, rimangono in ogni caso una storia emblematica di quell’epoca. 
Tutto qua dunque? Solo aria fritta? Mania di protagonismo di un ex delinquente? O una verità suggerita, che copre altre verità? Non lo sappiamo, ma il racconto non è finito, anzi il mistero più misterioso deve ancora venire.
puntata2 09E ci sono altri colpi di scena, che rendono piccante il nostro racconto. Uno di questi avviene il 13 maggio del 1995.
Facciamo la conoscenza con Rino Martini, all’epoca colonnello della forestale, la cui deposizione alla commissione sul ciclo dei rifiuti presieduta da Gaetano Pecorella è estremamente interessante ed ovviamente disponibile in rete, nel sito della camera dei deputati. Ecco come si presenta Rino Martini.
Credo di aver iniziato l’attività ancora prima che venisse istituito il Nucleo operativo ecologico dei Carabinieri negli anni ‘80. A quell’epoca non c’erano strutture investigative che disponessero di dati sul traffico illecito dei rifiuti, anche perché in quel periodo esisteva solamente la rotta nord-sud con smaltimenti nelle discariche campane, in particolare Di.fra.bi. diPianura e di Montagna Spaccata gestita da altri gruppi campani. Di questo notevole traffico di rifiuti una parte veniva illecitamente smaltita al nord, in impianti autorizzati, ad esempio depuratori piuttosto che inceneritori. Un caso emblematico era stato quello della Petrol Dragon che era riuscita a stoccare in ex depositi petroliferi migliaia di tonnellate che poi sono state oggetto di bonifica da parte delle varie regioni, soprattutto Piemonte e Lombardia. Per riuscire a scardinare questi sistemi è stato necessario parecchio tempo, perché all’epoca non c’era ancora attenzione da parte della politica, né consapevolezza da parte dell’opinione pubblica del vero problema, per cui si erano verificati casi di inquinamento delle falde utilizzate per l’approvvigionamento idropotabile a Casale Monferrato piuttosto che in alcuni siti bergamaschi. Nel 1995, ci imbattiamo in un ex petroliere dello scandalo dei petroli, Ripamonti Elio, che viene fermato a Chiasso. Fra i suoi documenti trasportava anche un progetto per l’affondamento di materiale radioattivo attraverso il sistema ODM. Del sistema ODM, inventato da Giorgio Comerio, avremo ancora modo di parlare, per ora basta sapere che serviva a lanciare nei fondali marini le scorie radioattive delle centrali nucleari.
Bene, il 13 maggio 1995 si presenta agli uomini della forestale, comandati da Martini, una non meglio specificata “fonte confidenziale”. É disponibile a parlare, ma il suo nome deve restare segreto. E salta fuori un nuovo personaggio, un imprenditore di La Spezia, a capo della mega discarica di Pitelli. Si chiama Orazio Duvia.
Apro una parentesi. Questa discarica è stata sequestrata e l’azienda titolare accusata di disastro ambientale. La Sistemi Ambientali Srl, autorizzata a smaltire rifiuti speciali ma non tossici, riusciva a ricevere materiale pericoloso in modo apparentemente regolare attraverso la sistematica falsificazione di bolle e analisi chimiche. Nella discarica sono stati trovati quantità ingenti di rifiuti tossici, tra cui anche diossine e amianto. Nel 2011 il Consiglio Comunale della Spezia approva un ordine del giorno in cui impegna l'amministrazione comunale a predisporre, con la Regione Liguria e la Provincia della Spezia, un progetto di risanamento del sito per restituire alla comunità un territorio fruibile. Il comune chiede 7 milioni di euro per il risarcimento del danno provocato dalla discarica di Pitelli, chiesti 1,5 milioni di euro per il risarcimento, da Legambiente.
Chiusa parentesi.
Il confidente usa un nome d’arte ironico, Pinocchio e spiega i legami di Duvia con quel mondo che ho cercato di descrivere fin qui in cui traffici di rifiuti e di armi si mescolano.
Alla fine della sua lunga deposizione parla di una nave, affondata al largo delle coste ioniche – a capo Spartivento – la Rigel. Un cargo che, secondo “Pinocchio”, era pieno di «materiale nucleare (uranio arricchito)».
Vedete: i nomi ritornano e ritornano, ancora la Rigel, la prima delle navi che ha portato a sapere qualcosa di tutta questa faccenda.
La testimonianza di Pinocchio è fondamentale. È la prima volta che nell’inchiesta allora condotta dalle Procure di Reggio Calabria – con Francesco Neri – e di Matera – con Nicola Maria Pace – appare la pista della nave Rigel. Quel verbale è un vero punto di svolta. Ecco, è qui che interviene la storia del capitano Natale De Grazia. Cosa succede allora? Questo lo sapremo la prossima volta.