Questa regione si trova a sud della città di Port Harcourt, costruita dagli inglesi come centro di esportazione del carbone all’inizio del secolo scorso. Oggi conta oltre un milione e duecento mila abitanti, ha un centro cittadino ed è circondata da molte bidonville dove il degrado è assoluto. Come mai?
Per capirlo bisogna percorrere molto velocemente la storia recente della Nigeria. La presenza degli europei comincia presto, nel 17° secolo, per esportare, guarda un po’, schiavi destinati alle Americhe. Nel 19° secolo, grazie soprattutto alla Marina Britannica, il commercio di schiavi viene sostituito dal più conveniente trasporto di olio di palma e di carbone. Da allora gli inglesi in Nigeria ci sono sempre stati, facendone una colonia nel 1914, situazione che permane fino alla dichiarazione di indipendenza del 1960. Durante gli anni del secolo scorso la storia nigeriana è una lunga serie di colpi di stato, gestiti dall’esercito, accompagnati dalla promessa, mai mantenuta, di istituire un governo civile democratico. E poi, una serie infinita di morti ammazzati o dallo stesso governo, con processi che definire sommari è solo un eufemismo, o in lotte tra le molte decine di etnie presenti nel territorio o ancora tra aderenti a religioni differenti. Finalmente nel 1999 si arriva a definire un governo democratico, sotto la guida di Olusegun Obasanjo, che deve, tuttavia, fare i conti con un passato, fatto di corruzione, soprusi, limitazione dei diritti civili. E comunque i presidenti, se non sono militari, sono, ex generali, già al potere di giunte che di democratico avevano molto poco.
Certo, negli anni, miglioramenti ci sono stati, sia per i diritti che per la libertà, ma restano in piedi un sacco di problemi legati sia alle lotte cruente tra etnie o religioni diverse, sia quella che investe il delta del Niger, che non è solo ambientale, come vedremo.
La Nigeria ha votato per un nuovo presidente il 23 febbraio 2023. Alla fine, la commissione elettorale ha dichiarato vincitore Bola Tinubu, candidato musulmano, del partito che già era al potere. Anche lui ha un passato ricco di accuse di corruzione e riciclaggio, sebbene non sia mai stato condannato dai tribunali nigeriani, che, secondo molti, non sono poi così indipendenti come si vorrebbe credere. Tinubu ha lavorato per grandi aziende americane, tra le quali anche Exxon-Mobil. É uno degli uomini più ricchi della Nigeria, anche se la fonte della sua ricchezza non è per niente chiara. Si racconta che, durante le elezioni del 2019, un furgone di lingotti d’oro sia stato visto entrare nella sua residenza. Lui, tranquillo, afferma: “I soldi, li tengo dove voglio”. Come in tutte le altre elezioni, le opposizioni hanno rivolto accuse molto pesanti di brogli elettorali, ma alla fine tutto si è risolto in niente.
Qui ci interessa non tanto inseguire le porcherie che i potenti del paese hanno compiuto a livello politico, ma come queste porcherie hanno influito sulla vita delle persone e sull’organizzazione sociale nigeriana. Non solo, ma ci limitiamo ad una zona ben precisa, quel Delta del Niger, così ricco di petrolio eppure così povero.
Di petrolio in Nigeria ce n’è un sacco. È stato fino a poco tempo fa il maggior produttore di greggio dell’Africa, il quinto fornitore degli Stati Uniti, 100 milioni di tonnellate esportate nel 2019.
Recentemente le cose non vanno benissimo, e produzione ed esportazione sono calate ai livelli più bassi degli ultimi 32 anni. “É colpa delle bande armate che assaltano i depositi” dicono governo e imprese. Ma altri sostengono che il motivo è che per questa attività non sono più stati fatti investimenti da un sacco di tempo.
Oltre al petrolio altri prodotti rendono competitiva la Nigeria: oro, olio di palma, cacao. Insomma un paese che ha risorse importanti per far star bene la sua gente. Eppure in Nigeria fare il bene della gente resta un copione degno di una favola Disney.
Secondo il World poverty clock, che fornisce dati sulla povertà in tempo reale in tutti i paesi, nel 2023 il 32% della popolazione nigeriana, più di 71 milioni di persone, vive in miseria, dovendosi accontentare di 1,9 dollari al giorno, valore che sale al 53% nelle aree rurali, con zone, in cui la vita è ancora più dura, da sostenere con meno di un dollaro al giorno. Una di queste è il Delta del Niger. Ed è curioso constatare come la zona più povera per gli abitanti, sia anche quella più ricca per lo Stato, quella con la maggior produzione di petrolio, l’80% del totale. A una latitudine simile, questa condizione può ricordarci il destino, drammatico, del Venezuela. Nel 1937, durante il protettorato inglese, la Shell ottiene la concessione dei diritti di esplorazione e produzione esclusiva su tutto il territorio nigeriano. Del resto la legislazione del 1914 prevede che tutte queste attività siano appannaggio solo delle imprese britanniche. Shell, uno dei grandi colossi petroliferi, diventa dunque il padrone incontrastato del greggio del Delta. Questo ruolo dominante, nonostante molti cambiamenti, rimarrà immutato fino ai giorni nostri.
Nel 1946 Shell si unisce a BP (British Petroleum), ma il colpo di grazia arriva da un’ordinanza sui minerali dello stesso anno. Questa conferisce alla Corona Britannica la proprietà e il controllo di tutti i minerali e gli oli minerali presenti nel territorio. Non solo. Chiunque altro si cimenti in queste attività, deve versare un indennizzo a Buckingham Palace. E così, ai locali non resta niente, vengono depredati dei diritti sulle proprie terre. L’arrivo dell’indipendenza potrebbe mitigare questa situazione, invece non succede affatto, anzi…
La legge del 1914 viene sostituita da quella del 1969, che dice esattamente le stesse cose, solo che i benefici invece che arrivare a Londra, arrivano nelle tasche del governo nigeriano. Certo se questo rappresentasse gli interessi del popolo non ci sarebbe niente di male, ma è proprio così?
Gli anni ’70 sono quelli in cui esplode la prima crisi petrolifera (1973) che da noi è ricordata come quella delle famose domeniche a piedi, e non per ovviare all’inquinamento, come accadrà molte volte più avanti negli anni, ma per risparmiare benzina. La Nigeria entra nell’OPEC, l’Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio, e cominciano a nascere corporazioni volute dai Ministeri che si susseguono con nomi diversi, ma con sempre lo stesso scopo: guadagnarci dei soldi. Alla fine vengono stabiliti speciali accordi tra governo e società petrolifere, chiamati Traditional Joint Venture, che sono utilizzati ancora oggi. Per dirla in breve, il controllo pubblico sulle attività petrolifere diminuisce sensibilmente e viene a mancare ogni trasparenza nella gestione degli introiti derivanti dall’attività delle società: costi iniziali, licenze, royalties, tasse sui profitti … molti soldi, moltissimi, che spesso nessuno sa dove vanno a finire.
Proviamo, però, a guardare la storia dalla prospettiva delle popolazioni locali. Il Delta è una zona ricca di terreni fertili, dove l’agricoltura, assieme alla pesca, riesce a sfamare le famiglie. L’esproprio dei terreni è un colpo micidiale per questa gente. Le esplorazioni, la costruzione di oleodotti e di impianti, hanno un impatto sulla terra, che produce meno, per non parlare dell’inquinamento delle falde d’acqua. Molti se ne vanno perché non hanno più di che mantenersi e moltissimi arrivano da ogni angolo per lavorare nelle aziende petrolifere. La società viene disgregata e il malumore cresce di giorno in giorno. La produzione petrolifera, purtroppo, si porta dietro guai ancora peggiori, molto peggiori.
I lavori delle installazioni sono fatti male, anzi malissimo.
Così comincia, siamo negli anni ’50, quella enorme jattura che è lo sversamento del petrolio nei campi circostanti. Forse uno può pensare che non possiamo fissarci a 70 anni fa. Ma le perdite di greggio sono continuate durante tutti i 70 anni, e ancora oggi rappresentano uno dei guai più grossi del Delta del Niger. Amnesty International ha fatto dei conti. Nel periodo tra il 1971 e il 2011 in Europa le “perdite” sono state circa dieci all’anno. Nel Delta del Niger nel 2015 sono state 656 e relative agli impianti di un’unica azienda: Agip Nigeria. Questa enorme differenza indica standard di sicurezza ben diversi nei due continenti e, in ultima analisi, il totale menefreghismo per la sopravvivenza delle popolazioni.
Questo andazzo è del resto evidente in altre parti dell’Africa, dove al colonialismo con gli eserciti si è sostituito un colonialismo aziendale, forse meno letale, ma sicuramente più subdolo e cinico. Il “Guardian” ha parlato di “razzismo economico”, che ha spinto molte aziende petrolifere, ma non solo, a sfruttare il continente senza alcuno scrupolo riguardo all’inquinamento. Esempi ce ne sono tanti: l’invio della cosiddetta “benzina sporca”, contenente concentrazioni di solfuro migliaia di volte superiori a quanto consentito in Europa, ha portato nelle città un’aria irrespirabile: 20 mila morti in Ghana nel 2013 per l’inquinamento dell’aria non sono certo pochi. Per non parlare dei fiumi: in Lesotho e Tanzania alcuni fiumi si sono trovati dipinti di blu: è il colore usato da diversi marchi della moda a basso prezzo per tingere i blue jeans, scaricando i residui nei corsi d’acqua, approfittando della mancanza di leggi e di controlli. Il dossier relativo a questo inquinamento è stato pubblicato, nell’agosto 2021, dall’organizzazione scozzese Water Witness International. Ci sono di mezzo marchi che già sono finiti sotto accusa per il loro greenwashing, come H&C, Zara, Calvin Klein, Levi’s e altri ancora. Nei pressi di un’industria tessile, situata lungo il fiume Msimbazi, che scorre nei pressi di Dar es Salaam in Tanzania, è stato riscontrato un valore di Ph pari a 12, equivalente a quello della candeggina. Secondo voi quell’acqua si può usare?
Ma torniamo nel Delta del Niger e occupiamoci di una regione particolare, Ogoniland, la terra degli Ogoni. Si tratta di una minoranza di circa mezzo milione di individui, divisi in varie tribù. Raccontare la loro storia è significativo di quello che tutte le altre popolazioni del Delta del Niger hanno dovuto subire. Al governo, che non ha mai avuto Ogoni tra le sue fila, di queste minoranze non è mai importato nulla. É importato invece moltissimo l’accordo con le compagnie e gli incassi che da queste poteva ricevere.
Ogoniland è stata invasa dal petrolio, ma non nel senso commerciale, letteralmente. Nei campi sono finiti molte centinaia di milioni di litri di greggio, con le conseguenze che è facile immaginare. Il paesaggio è allucinante, i fiumi sono marrone, ma non il marrone del fango, è il colore del petrolio combinato all’acqua. Tra le case ci sono fogne a cielo aperto e discariche. I ragazzi ci giocano, raccogliendo la palla infangata dei liquami più schifosi. Si potrà dire che è una situazione come ce ne sono altre in Africa, e non solo in Africa ma qui è diverso, perché siamo in un territorio così ricco della materia prima più commercializzata al mondo, che una tale enorme contraddizione sembra perfino impossibile. Se poi chiedete agli Ogoni dove è finito tutto quel denaro, vi guardano stupiti: loro proprio non lo sanno. Ci ha provato, nel 2003, la Commissione per i crimini economici e finanziari, arrivando a stimare che in 40 anni, dal 1960 al 2000, 400 miliardi di dollari sono finiti nelle tasche dei governanti nigeriani. É tanto? É poco? Beh, è la stessa cifra che, nello stesso periodo, è stata data in aiuti all’intera Africa, dagli stati stranieri. Sotto inchiesta sono finiti tutti: governo centrale e periferico e questo non poteva non scatenare una reazione da parte dei cittadini truffati.
Bisogna tenere presente che qui la parola povertà significa proprio povertà, grande povertà, al limite della sopravvivenza, spesso al di sotto. É arrivata un sacco di gente con il miraggio del lavoro nelle aziende petrolifere. Ne è arrivata troppa e così si sono formate baraccopoli senza acqua potabile, senza luce, senza servizi igienici. Ogni pioggia trasforma questi posti in acquitrini maleodoranti. E la conseguenza sulla salute delle persone è facile da immaginare. Ci sono poi situazioni paradossali come l’improvvisa mancanza di benzina ai distributori, che crea code e intasamenti in città come Port Harbour. Il motivo è che quasi tutto il greggio viene esportato, perché mancano raffinerie sufficienti, alcune sono di qualità scadente o funzionano saltuariamente.
D’altra parte tutto è stato indirizzato verso questo obiettivo. I colonizzatori inglesi hanno costruito una ferrovia che si muove lungo la costa, per raggiungere i porti dove caricare le navi per il trasporto del petrolio. Delle necessità della popolazione non fregava niente a nessuno.
La situazione non può che sfociare in malcontento sempre più acceso. Quello che dicono i capi villaggio è che andare contro le multinazionali serve a poco, perché il governo è il partner petrolifero di ogni compagnia che operi sul territorio. Lo diventa attraverso l’Nnoc (National Nigerian Oil Company). Schierarsi contro le compagnie significa schierarsi contro il governo e non è solo una questione di burocrazia, perché gli argomenti usati sono molto più spicci e brutali. Chi ha provato ad alzare la voce è il MOSOP.
Il MOSOP è il Movimento per la sopravvivenza del popolo Ogoni. Raccontano, quelli del MOSOP, delle perdite di petrolio, delle tubature vecchie, corrose, piene di crepe, che perdono da chissà quanti anni. É vero che ci sono stati anche atti vandalici, ma resta il fatto che quelle tubature sono vecchie e perdono da decenni.
É all’inizio degli anni ’90 che cominciano le manifestazioni pacifiche nell’Ogoniland. Tirando in ballo multinazionali importanti come Shell, l’interesse per questa lotta coinvolge gli studenti di molte università europee, che manifestano anch’essi con sit-in, proposta di boicottaggio dei prodotti Shell e così via. É questo che fa arrivare le notizie sul Delta ai giornali internazionali.
I cittadini, ingenui o speranzosi, si rivolgono al governo perché tuteli le loro vite. La risposta è l’arrivo dell’esercito, comprese le squadre più spietate e fioccano i morti, tanti morti, a centinaia, tra i quali un personaggio molto conosciuto, Ken Saro-Wiwa, scrittore, poeta, fondatore del MOSOP, candidato per il Nobel per la pace. Una brutta faccenda. Nel 1993, 300 mila Ogoni invadono le strade sotto le insegne del MOSOP. Anche se si tratta di una riunione pacifica, il governo capisce che non c’è da scherzare e reagisce con brutalità. Nasce allora una costola più dura, più decisa a difendere anche con la violenza i propri diritti, il Consiglio giovanile nazionale del popolo Ogoni (Nycop). Poi il dramma. Quattro presunti oppositori del MOSOP vengono uccisi, forse da teste calde degli Ogoni, forse dalla stessa polizia. Il 21 maggio 1994, Saro-Wiwa è pronto a salire sul palco di una manifestazione locale nel Delta. Viene arrestato, assieme ad altri suoi collaboratori con l’accusa di aver istigato quegli omicidi. Vengono condannati a morte dopo un processo che ha destato proteste da parte di tutte le organizzazioni per i diritti umani. Il 10 novembre 1995 Saro-Wiwa viene impiccato assieme ad altri otto attivisti del MOSOP. Prima di morire aveva detto: “Ci arresteranno e giustizieranno. E tutto per la Shell”. La reazione internazionale a questi fatti così gravi si risolve in poco o niente. La sospensione dal Commonwealth e una serie di sanzioni da parte dei governi occidentali, che non cambiano di una sola virgola la situazione. Nel 2001 Greenpeace pubblica un reportage, secondo il quale i due testimoni che avevano accusato Sara-Wiwa, ammettono di essere stati pagati dalla Shell e dalle autorità nigeriane. La stessa Shell ammette di aver pagato i militari nigeriani perché mettessero fuori causa chi chiedeva giustizia. Niente è stato fatto né in Nigeria né a livello internazionale per fare chiarezza su questa oscenità. In compenso, nel 1996, il Center for Constitutional Rights, fa causa alla Shell per questi fatti. Il processo inizia nel 2009 e l’azienda anglo-olandese patteggia subito accettando di pagare un risarcimento di 15 milioni e mezzo di dollari, come atto di distensione, dichiarando però che si tratta solo di un atto di buona volontà, non sentendosi minimamente colpevole dei fatti.
Il clima creatosi lascia quindi spazio al desiderio di rivincita e di vendetta e si moltiplicano le bande armate che agiscono nel territorio. Cominciano i sabotaggi, che non fanno che aumentare il problema degli sversamenti di petrolio nei campi, e i rapimenti dei funzionari europei delle compagnie petrolifere. Accanto alle bande, si forma il MEND (Movimento per l’Emancipazione del Delta del Niger). Le sue dichiarazioni sono molto forti: si tratta di un gruppo armato e pronto alla lotta, che vuole fuori dalla Nigeria le compagnie petrolifere, il controllo dell’estrazione di greggio nel paese e l’unificazione di tutte le bande armate che si muovono in questa direzione. Mettere piede nel Delta del Niger diventa così sempre di più un azzardo. Tanto per gli stranieri che operano nel settore del petrolio quanto per gli abitanti.
Nel gennaio del 2006 una email spedita dal MEND alle compagnie petrolifere dichiara:
«Deve essere chiaro che il governo nigeriano non può proteggere i vostri dipendenti o le vostre attrezzature. Lasciate le nostre terre finché potete o morirete. Il nostro scopo è distruggere totalmente la capacità del governo nigeriano di esportare petrolio»
Sono loro, il 7 dicembre 2006, a rivendicare il rapimento di quattro operatori dell’AGIP (tre italiani e un libanese), rilasciati incolumi dopo tre mesi, “ufficialmente” senza pagamento di riscatto. La novità del MEND è che ha un programma politico, opera e si muove come un’organizzazione militare, è ben armato e percorre il fiume su e giù attaccando le postazioni e gli impianti petroliferi.
L’ultima grande offensiva dell’esercito nigeriano contro il MEND è del 2009, quando migliaia di persone devono abbandonare i propri villaggi. Sono i più fortunati, perché i morti si stimano in diverse centinaia. A quel punto il governo fa la sua mossa. C’è un’amnistia che vale 60 giorni, durante i quali vengono perdonati quelli che consegnano le armi e promettono di stare buoni. Alcuni gruppi accettano, altri no e le violenze nel Delta continuano.
Non vorrei sembrasse che gli Ogoni costituiscano un caso isolato e particolare delle violenze perpetrate dai governi nigeriani. Possiamo citare ancora il caso del popolo Umuechem, seguendo gli articoli della rivista Human Rights Watch (HWR: https://www.hrw.org/reports/1999/nigeria/Nigew991-08.htm), che fornisce anche un dettagliatissimo resoconto della situazione generale. Umuechem si trova una decina di km a Nord di Port Harcourt, dove la Shell ha costruito una delle sue strutture petrolifere.
Dopo 20 anni di effetti dannosi, dovuti all’estrazione del petrolio, l’azienda non ha ancora realizzato nulla di quanto promesso, in tema di infrastrutture, lavoro, scuole. Così la popolazione, dopo aver tentato con lettere dirette alla Shell, scende in piazza per manifestare il proprio malcontento. Una manifestazione pacifica, si intende. La Shell cosa fa? Si appella al suo contratto con il governo e chiama la polizia mobile. Arriva l’unità più feroce del paese, sparando contro chiunque incontri. Ci sono almeno 80 morti, ammazzati in due ondate successive, con distruzione di case e devastazioni di ogni genere. Sembra un film di guerra. Una commissione giudiziaria d'inchiesta, istituita dal governo, non ha trovato prove di una minaccia da parte degli abitanti del villaggio e ha concluso che la polizia mobile aveva mostrato "uno sconsiderato disprezzo per vite e proprietà", ma nessuno degli assassini viene arrestato.
Certo, sono solo esempi, ma è il modo in cui la civile Europa, quando in torto marcio, gestisce le controversie in Nigeria, perché, con le sue attività, toglie letteralmente anni di vita alla popolazione locale. Vivere per 60 anni circondati dagli effluvi del greggio, con acqua inquinata, terreni inquinati, aria inquinata, ha fatto dire all’OMS che la prospettiva di vita nel Delta del Niger è di 40 anni, la metà di quella italiana.
Per capire che non si tratta di casi isolati basta dare un’occhiata alla storia più recente del Delta del Niger, che traccio qui molto succintamente per ragioni di tempo.
Nel 1997 la popolazione Ijaw (7 milioni di cittadini) organizza una manifestazione pacifica per la libertà, l’auto-determinazione e l’equilibrio ambientale, che sono poi le richieste di tutti gli altri gruppi. Interviene l’esercito con due navi da guerra e 15 mila uomini, che sparano sulla folla di giovani che stanno ballando per le strade di Yenagoa. Viene imposto il coprifuoco e attuata una repressione feroce, che porta alla morte di decine di persone con una sessantina di “desaparecidos”. É curioso il nome dato a questa missione; “Climate Change” … certo per gli Ijaw il clima cambia davvero.
Nell’aprile del 2022 arriva la notizia dell’esplosione di una raffineria, che è costata la vita ad almeno 100 persone. Si tratta di una raffineria illegale, nascosta nella foresta, come ce ne sono altre in Nigeria. Prendono il greggio dagli oleodotti, attaccandoli con veri e propri atti di guerriglia. Il governo si è detto “stupito” di questa tragedia e ha messo le mani avanti denunciando a destra e manca quei delinquenti che operano in questo modo. In realtà tutti sanno dell’esistenza di queste attività illegali, che sono legate all’estrema miseria in cui vive la gente del posto. In marzo era saltato per aria un oleodotto di ENI, il secondo in poche settimane, con conseguenze assai gravi per le fuoriuscite di greggio nei campi circostanti. I pozzi sono stati prontamente chiusi, con un calo dell’export di 30 mila barili al giorno. ENI ha giustificato questa riduzione con “causa di forza maggiore”. É la stessa “forza maggiore” che impedisce ai contadini di coltivare cibo e ai pescatori di portare qualche pesce in tavola alle loro famiglie.
Uno dice: “Beh, adesso con la transizione ecologica si potrà fare qualcosa.” Già … ma cosa significa transizione? Significa passare dallo stato attuale ad un altro, in cui ci sia meno inquinamento, meno consumo di risorse e più rispetto per la vita delle persone. Si può fare in uno stato in cui i diritti dei cittadini possano essere difesi, in cui esiste la possibilità di avviare nuove attività, nuove mansioni, nuove forme di produzione. Questo, ovviamente, in teoria. Ma, sul Delta del Niger? Come si può pensare a posti di lavoro sostenibili se tutta la sostenibilità possibile è stata distrutta dall’industria del petrolio? Come si può tornare ad un’agricoltura e una pesca ecologiche se le fonti di sostentamento sono state distrutte dalle compagnie petrolifere?
Nel 2015 l’UNEP, programma dell’ONU per l’Ambiente, aveva evidenziato che l’inquinamento causato dalla Shell era tale che ci sarebbero voluti forse trent’anni per risanare completamente l’intera area e riportarla allo stadio iniziale, con una spesa difficile da calcolare, ma comunque eccezionale.
Qualcuno ha cominciato a rivolgersi ai tribunali internazionali, a Londra, a L’Aia, ma quelli che hanno ottenuto giustizia sono davvero pochissimi. Nella maggior parte dei casi tutto è continuato come prima, con le compagnie che non pagano mai l’enorme debito che hanno accumulato: non solo economico, ma ecologico, sanitario, di sopravvivenza. Raggiungere i responsabili sembra impossibile, perché sono protetti da quello stesso regime repressivo, che viene profumatamente pagato dai responsabili stessi.
Poi però, nel febbraio 2021, succede qualcosa di nuovo. Il tribunale de L’Aia condanna una grande multinazionale del petrolio, la Shell, a rifondere i danni provocati dall’estrazione del petrolio, nelle condizioni descritte fin qui. La causa è stata avviata da 4 contadini del Delta, patrocinati dall’associazione “Friends of the Earth”, amici della terra. Finalmente il 23 dicembre 2022, Shell comunica che verserà 15 milioni di euro alle comunità locali per il disastro ecologico procurato e fornirà un sistema per controllare altre perdite, le quali, secondo l’azienda sono dovute, non a loro, bensì a vandali o sabotatori locali. Anche se non ammette le proprie colpe, e se il risarcimento è ridicolo rispetto al danno provocato, la BBC, in un servizio sul processo, sottolinea che “questo traguardo è come una pietra miliare.”
In questo 2023, la Shell ha comunicato i ricavi del 2022: 40 milioni di dollari, il doppio dell’anno precedente. Certo su questo ha influito il conflitto in Ucraina e tutto quello che gli è andato dietro, ma se vi mettete nei panni dei contadini e dei pescatori del Delta, questa notizia non deve averli resi felici, ma deve averli fatti arrabbiare ancora di più. Così 14 mila nigeriani chiedono giustizia alla corte inglese, per aver avuto la vita rovinata dalla multinazionale. Secondo il Guardian l’abbandono da parte di Shell dello scenario del Delta è un tentativo di sottrarsi alle proprie responsabilità.
Il fatto di usare Shell come esempio massimo della situazione è dovuto alla sua storia, anche se altre compagnie petrolifere non hanno responsabilità minori, compresa l’italiana ENI, a larga partecipazione statale. Molti di voi ricorderanno il caso ENI-Nigeria: tutti assolti. (https://www.ilfoglio.it/giustizia/2022/07/20/news/caso-eni-nigeria-tutti-assolti-se-c-e-un-reato-il-reato-e-l-inchiesta-4243397/) Se c’è un reato, dice il Foglio, il reato è l’inchiesta… eh beh.
La conclusione è che vale la pena distruggere l’ambiente che serve a sostenere le popolazioni locali, se questo serve a sostentare il portafoglio azionario di multinazionali e corporation energetiche. I locali, e non parlo dei politici collusi, quanto di chi vive sulla propria pelle le vicissitudini di questo inferno, si lamentano, dicono: alle multinazionali non gliene frega proprio niente, le autorità internazionali sono immobili. E a noi, che usiamo quel petrolio per andare veloci con le nostre automobili e tenere al caldo le nostre casette, ci frega qualcosa? Che bella storia, vero?
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FONTI:
· Agata Gugliotta - Nigeria, risorse di chi? Petrolio e gas nel delta del Niger – Odoya, 2008
· Voci globali - Delta del Niger, l’alleanza letale tra Stato e compagnie petrolifere – 2022
· Nigrizia: molti articoli sull’argomento - https://www.nigrizia.it/?s=niger
· Ricerche su “Niger Delta” nel sito di “The Guardian” (in Google: Niger delta site:www.theguardian.com)
· Water Witness International - https://waterwitness.org/
· Human Rights Watch – https://www.hrw.org/reports/1999/nigeria/nigeria0199.pdf
· Friends of the Earth - https://www.foei.org/member-groups/nigeria/
· Internazionale: https://www.internazionale.it/reportage/2015/09/14/nigeria-aziende-petrolifere
· Articoli sui siti di Amnesty International, Altreconomia, quotidiani e siti ambientalisti (rinnovabili.it ad es.)