magliana

Introduzione

Oggi ci occupiamo di avvenimenti, molti avvenimenti, che hanno coinvolto un sacco di gente durante gli anni della prima repubblica, diciamo dalla metà degli anni 70 fino a …
In realtà alcuni dei personaggi di cui parliamo sono ancora oggi citati nella cronaca, nella cronaca nera, quindi una data di scadenza proprio non esiste. E tuttavia le vicende che maggiormente ci interessano fanno parte di quel grandissimo casino degli anni che finiscono verso la fine del secolo scorso.
Di cosa parliamo? E quali sono i personaggi di cui ho detto? Oggi vi racconto la storia di un gran numero di delinquenti. Questa volta però non è solo un modo di dire, come quando, per fare un esempio, parliamo di qualche politico birichino. Anche se qualcuno di loro entra nel nostro racconto. Si tratta di delinquenti veri, di banditi, tra i più crudeli ed efferati che gli anni dal 1975 in poi abbiano conosciuto. Oggi voglio raccontarvi le vicende legate ad una banda criminale romana, nata in un quartiere degradato, la Magliana. L’argomento di oggi è la banda della Magliana.
É una storia molto complicata, una storia di banditi e di morti ammazzati, una storia di intrecci tra diverse importanti organizzazioni criminali, una matassa ingrovigliata negli anni più bui della prima repubblica.
Anche se alcune vicende si snodano altrove, il nostro set è localizzato a Roma, in uno dei quartieri più degradati da scelte politiche insensate e da una speculazione edilizia selvaggia: il quartiere della Magliana.
Forse qualcuno ha letto il libro di Giancarlo De Cataldo o ha visto lo sceneggiato televisivo “Romanzo criminale” che se ne è ricavato. Racconta la storia, sicuramente condita con un bel po’ di pathos, di una banda che a questo quartiere fa riferimento, la banda della Magliana. I vari “Dandi”, “Freddo”, “Libanese”, sono, come si dice oggi, i nickname, insomma i soprannomi falsificati, di personaggi veri, che incontreremo nel nostro racconto. In premessa è meglio sapere che dal 1977 in poi, durante gli anni di piombo, non c’è stato evento importante nel nostro paese in cui questa banda, in un modo o nell’altro, non sia entrata. Parliamo del rapimento Moro, dell’omicidio Pecorelli, delle losche vicende dello IOR di Marcinkus, delle avventure di Sindona e Calvi, del rapimento di Emanuela Orlandi e si potrebbe continuare.
Un avvertimento: ci sono molti personaggi e quindi molti nomi in questa storia.
Bene, possiamo partire.

Gli inizi

Tutto comincia da ‘o professore’, don Raffaele Cutolo, di Ottaviano. É sua l’idea di dare vita ad una organizzazione, la Nuova Camorra Organizzata, che rappresenti tutta e sola la malavita di Napoli. In una delle varie detenzioni, incontra Nicolino Selis, nato in Sardegna, ma residente al Lido di Ostia. L’idea del camorrista gli piace tanto da pensare di riproporla nella capitale: organizzare una banda romana, composta da romani, che domini tutto il malaffare, inglobando i concorrenti o, se non ci stanno, eliminandoli. Nicolino è conosciuto come “er sardo”; quello dei soprannomi, è uno standard per i protagonisti di questa storia e dovremo abituarci.
É il periodo d’oro dei sequestri di persona. La ‘ndrangheta calabrese e l’anonima sarda sono solo i più conosciuti autori di questi delitti. A Roma agiscono “i marsigliesi”, fino a che, nel 1976, non vengono arrestati o costretti alla fuga.
Il 16 maggio 1977, all’ora di cena, nel quartiere Bufalotta a Roma Nord, il gioielliere 29-enne Roberto Giansanti viene rapito. Gli assalitori, tutti ragazzotti poco più che ventenni, si accaniscono con la vittima picchiandola e insultandola, mostrando così di essere alle prime armi. A guidare il gruppo c’è Maurizio Abbatino, detto Crispino. Lui è cresciuto alla Magliana, così come i suoi compari di quella sera. Il rapimento andrà abbastanza bene, nel senso che il prigioniero, dopo 53 giorni di sequestro, tornerà a casa sua. I delinquenti sono un po’ meno contenti, dovendosi accontentare di 350 milioni dei 5 miliardi chiesti in partenza. Ma, dietro Abbatino, la mente organizzatrice del piano è un’altra. Si tratta di Franco Giuseppucci, detto er fornaretto, per il suo lavoro di panettiere e poi er negro per il colorito scuro della sua carnagione. Lui è più grande dei ragazzi della Magliana, ha più esperienza e anche più contatti con la malavita locale.
Alcuni mesi dopo gli stessi autori rapiscono il duca Massimiliano Grazioli Lante della Rovere. Nonostante una richiesta di dieci miliardi, alla fine ne arrivano due, che però vanno divisi, perché il gruppo di Abbatino si avvale di un’altra “batteria”, quella di Montespaccato, quartiere periferico di Roma. Questi si occupano della detenzione e della sorveglianza del rapito. Fila tutto liscio, fino alla consegna dei soldi. Ma il duca non torna a casa: ha visto in faccia uno dei suoi carcerieri e così viene ucciso e sepolto, probabilmente, nel salernitano. Il suo corpo non è mai stato ritrovato. Per i rapitori è un salto di qualità: adesso ci sono un sacco di soldi e bisogna preoccuparsi di “ripulirli” e poi di investirli.
La “batteria” è una banda malavitosa composta da pochi elementi, con regole ferree sulla distribuzione del bottino, che va diviso equamente tra tutti, anche coloro che non hanno partecipato al colpo, ad esempio quelli che in quell’occasione sono in carcere. Le loro famiglie vanno sempre sostenute.

Enrico De Pedis e le armi

Ed ecco entrare in scena un nuovo importante personaggio, Enrico De Pedis, detto Renatino. Lui è in carcere durante il sequestro e così affida le sue armi al carissimo amico Giuseppucci. Er negro le nasconde in una roulotte, assieme a quelle di altri delinquenti. Un borsone pieno di armi viene invece tenuto nel cofano di un maggiolone. Lasciata incustodita, un certo “Paperino” si porta via l’automobile con tutto il carico. Quando vede cosa c’è dentro non ci pensa due volte: vende le armi a Emilio Castelletti, uno degli uomini di Abbatino. Costui, saputo che la roba è di De Pedis, non impiega neanche un secondo a restituirla. É così che nasce il legame tra quelli della Magliana e il trasteverino Enrico De Pedis, che porta con sé anche la “batteria” dei testaccini, dal quartiere Testaccio.
La banda comincia a formarsi, arrivano altri adepti, come Marcello Colafigli, Marcellone, un pupillo di Giuseppucci.

L’ippodromo e la camorra

La prima azione comune è progettata all’ippodromo Tordivalle. C’è un tizio, che gestisce le scommesse sulle corse truccate. Lo chiamano Franchino er Criminale. Nicolino Selis se l’era trovato a Regina Coeli e aveva un bel po’ di “screzi” da fargli pagare. Ma non è solo questo. Franchino ha il monopolio sulle scommesse e questo non va affatto bene a don Raffaele Cutolo, il cui uomo più fidato, Vincenzo Casillo è “disturbato” dalla presenza all’ippodromo di Franchino. Così Selis chiama la batteria di Crispino per farlo fuori. Non ci sono problemi per i banditi della Magliana, anche se la maggior parte di loro non ha la più pallida idea del perché sta sparando a quell’uomo. Il rapporto tra quella che sta ormai diventando la banda della Magliana e i camorristi cutoliani diventa sempre più forte. Del resto a Cutolo erano stati presentati Abbatino e Giuseppucci, con i quali aveva raggiunto un accordo di “collaborazione”. La banda romana, ad esempio, fa rottamare una BMW sporca di sangue, andando a prenderla a Ottaviano, dentro la quale lo stesso “professore” aveva ucciso due persone. In compenso la collaborazione con la camorra, legata tra l’altro anche alla ‘ndrangheta calabrese, consente un approvvigionamento consistente di cocaina da spacciare sul mercato romano. Ci sono, poi i soldi del rapimento Grazioli: cosa ne fanno?
Sono soldi sporchi da riciclare e ci vuole qualcuno che lo sappia fare per bene. A questo pensa Danilo Abbruciati, “er camaleonte”. Lui è un testaccino ed entra nella banda appena uscito di galera, nel 1979, assieme alla sua amante Fabiola Moretti, una donna importante del gruppo, amica d’infanzia di Enrico De Pedis. Abbruciati contatta a Milano Salvatore Mirabella: il denaro viene riciclato alla perfezione. Torna indietro l’intera somma in franchi svizzeri, a parte il 12% di commissione. Mirabella non è una figura di secondo piano, è un importante mafioso catanese, del clan di Nitto Santapaola. Ecco dunque che il cerchio di conoscenze si allarga, anche se del legame tra la banda e Cosa Nostra parleremo più avanti.
Intanto in Campania scoppia una guerra tra i cutoliani e la Nuova Famiglia. In quattro anni ci saranno quasi mille morti. La Nuova famiglia (la Fratellanza Napoletana, come viene chiamata dai camorristi) vincerà, salvo poi dover cedere il passo ai Casalesi. Ma alla banda della Magliana non importa chi comanda. Quello che conta è che i canali rimangano aperti e la droga continui ad arrivare per poter essere spacciata a Roma.

Le perizie di Semerari e i NAR

Come sempre avviene, anche in questa guerra si dà la caccia ai traditori. Tra questi c’è un illustre psichiatra, criminologo e criminale, Aldo Semerari, che verrà trovato morto ammazzato con la testa dentro un secchio. Una questione di soldi e di uno sgarro – si dice - ai potenti capi della camorra. Semerari è un neonazista, che organizza incontri per spingere alla rivolta contro lo stato, per fare attentati, creare disordine. Un uomo ambiguo, misterioso, forse legato ai servizi segreti, forse coinvolto in fatti eclatanti come la strage di Bologna, il rapimento di Ciro Cirillo, l’omicidio Pecorelli e così via. A noi però interessa qui il suo rapporto con la banda della Magliana. Ha bisogno di soldi per sovvenzionare le sue fantasiose imprese. Chi meglio degli uomini che gestiscono praticamente tutto il traffico della droga a Roma?  Ma Giuseppucci e soci non sono tagliati per la politica. Nonostante er negro tenga in bella vista un busto di Mussolini a casa propria, a lui importano due cose sopra tutto: fare soldi e non finire in carcere. Semerari però può tornare utile: fornirà, a pagamento, spesso con forniture di cocaina, false perizie sulla sanità mentale dei delinquenti arrestati, per alleviare o annullare le loro pene o per far trasferire i condannati dal carcere ad una clinica, da dove la fuga è molto più semplice. Verso la fine del 1978, Abbatino e Giuseppucci finiscono in carcere per alcuni mesi e pensano bene di affidare un “borsone” pieno di armi a Semerari, il quale le consegna ad un suo collaboratore, Paolo Aleandri. Quando la detenzione finisce, la banda reclama le armi, che però non ci sono più. La questione viene risolta rapidamente: Aleandri viene rapito, tenuto dieci giorni prigioniero in una villa fuori Roma. É sufficiente perché il borsone torni ai proprietari. Non ci sono dentro le loro armi, ma due mitra Mab modificati e due bombe ananas. Giuseppucci giudica il cambio favorevole e tutto finisce là. A restituire il borsone è Massimo Carminati, dei NAR, i Nuclei Armati Rivoluzionari, il gruppo di Giusva Fioravanti e Francesca Mambro. E i legami si allargano: questa volta con i gruppi armati neofascisti. Carminati diventerà un membro della Magliana, protagonista fino ai giorni nostri.
Carminati recentemente ricorda che lui in quel periodo “faceva politica”, il che significa rapinare banche per sostenere la lotta armata, mentre giudica “cialtroni” quelli della Magliana, ad eccezione di Giuseppucci, che conosceva e ammirava da molto tempo. Tra lui e la banda ci sono scambi di favori: riciclaggio di denaro da parte di er negro, assassinii su commissione da parte di Carminati.

I fratelli Perfetti e la morte di Giuseppucci

Giuseppucci è uno scommettitore incallito, e gli capita di perdere cifre anche consistenti. Un giorno perde 30 milioni che deve alla famiglia Proietti, un’accozzaglia di fratelli uniti, oltre che dal sangue, anche dal fatto di essere tutti delinquenti. Non è un problema, lui ha sempre onorato i suoi debiti, ma passa un solo giorno e Fernando Proietti si presenta al bar Fermi, intimandogli di pagare il conto. Er negro non la prende molto bene e manda i Proietti a quel paese, confidando anche sul suo ruolo di capo della banda della Magliana, la banda più temuta in città. Un paio di settimane dopo in piazza San Cosimato a Trastevere, subisce un agguato. Un proiettile di pistola lo colpisce al torace. É un uomo di straordinaria forza: continua a guidare fino al vicino ospedale Regina Margherita, dove muore poco dopo. I suoi compari non impiegano molto a capire chi è stato e decidono che tutti i Proietti devono finire sottoterra, poco importa se di mezzo ci vanno anche mogli, figli e gente che non c’entra niente. La banda della Magliana ha occhi e orecchi dappertutto, ha traditori dei concorrenti disposti a raccontare ogni cosa. É l’unica – come confesserà Abbatino – ad uccidere senza alcun problema nella capitale. Ci vorranno quasi due anni prima che la vendetta sia compiuta. Il corpo crivellato di colpi di Fernando Proietti viene trovato il 30 giugno 1982. Nella faida finiscono parenti ed estranei, semplicemente perché la banda della Magliana non può farsi vedere debole.
La morte di Giuseppucci fa passare la gestione della banda a Maurizio Abbatino, Crispino, anche se parlare di capi è fuorviante, dal momento che le decisioni vengono sempre condivise. L’unico vero capo è stato Franco Giuseppucci.
Adesso la banda si sente davvero al centro del mondo: nessuno osa contraddire i suoi affiliati. Chi spaccia droga a Roma o lo fa per conto della banda o viene inesorabilmente eliminato. I rapporti con la camorra e i gruppi neo fascisti estendono il loro potere, ma non è finita qui, anzi il bello (si fa per dire!) deve ancora venire.

E arriva Cosa Nostra

Facciamo un piccolo passo indietro fino al 1972. É l’anno in cui un siciliano di Palermo arriva a Roma. Tutti lo conoscono come “Mario”. Il suo cognome cambia come le case che abita. Sembra abbia qualcosa (qualcosa di grosso) da nascondere.
Elegante, educato, ricco, “Mario” di cognome fa Calò, di nome Giuseppe, i suoi amici lo chiamano Pippo, Pippo Calò. Uomo della mafia palermitana, importante esponente della commissione (o della cupola se preferite), mentre è libero in attesa di giudizio, si stabilisce a Roma. Verrà arrestato nel 1985. Un mafioso spietato, Calò, quello che ordina l’uccisione dei familiari del suo braccio destro, Tommaso Buscetta, quando questi fugge in Brasile, durante la seconda guerra di mafia. La commissione lo vuole a Roma. É il periodo in cui Cosa Nostra comincia a investire i molti miliardi che entrano dal narcotraffico in affari “puliti” (se mi passate l’espressione). Ha quindi bisogno di riciclare, di ripulire quel denaro: Pippo Calò ha questo preciso incarico.
Il contatto ufficiale con la banda della Magliana avviene per il tramite di Danilo Abbruciati, che diventerà il suo braccio destro, tenendo a volte la banda all’oscuro delle manovre concordate con Calò. Anche se questo non va molto a genio a Giuseppucci, l’apertura di un nuovo ricchissimo canale di rifornimento di droga dalla Sicilia convince tutti. Calò appartiene alla mafia capeggiata da Bontate e Inzerillo, che finiranno molto male, nella guerra contro i corleonesi di Totò Riina. Ma Pippo salta subito dall’altra parte della barricata. La banda della Magliana se ne accorge subito, perché non c’è nessun rallentamento di fornitura di cocaina dalla Sicilia e tale fornitura continua a passare per Pippo Calò.
Anche in questo caso, il prezzo da pagare consiste in azioni violente di cui Cosa Nostra non vuole occuparsi. Succede, ad esempio, con Domenico Balducci “er cravattaro”. É uno strozzino che ha fatto uno sgarro a Calò e pertanto va eliminato. Ci pensano Danilo Abbruciati ed Enrico De Pedis. Ma i vantaggi diventano consistenti, quando, grazie a faccendieri come Flavio Carboni, i soldi della Magliana finiscono nella speculazione edilizia sulla costa Nord Orientale della Sardegna. La banda comincia a farsi impresa e cerca persone geniali in campo finanziario. Uno di questi è Enrico Nicoletti, abilissimo nel farli girare, moltiplicare e trasformare in qualcos’altro. L’ultima condanna per il “cassiere della banda” è del 2012 a sei anni e mezzo. Quando muore a 84 anni, il magistrato Otello Lupacchini, che ha indagato a lungo sulla Banda della Magliana, dirà “Era il collettore di più mondi criminali, con collegamenti indubbi con la politica e la pubblica amministrazione.”
I banditi romani diventano ricchi e si godono la vita, alla grande, molto alla grande: immobili. attività, macchine lussuose, cocaina a non finire e tutte le donne che vogliono.

Le donne della banda

Tra le donne della banda, due sono particolarmente importanti. La già citata Fabiola Moretti è compagna d’infanzia di Enrico De Pedis, Renatino, ne è strettissima amica e confidente. Amante di due dei capi storici della banda, prima Danilo Abbruciati e poi Antonio Mancini, conosce molti dei risvolti misteriosi della storia della banda. Attualmente è in carcere, dove deve scontare una lunga condanna per spaccio di droga e altri reati. I suoi racconti – che riferiamo per dovere di cronaca - sono storie straordinarie e legano la banda, in particolare Renatino, a vari attori politici del momento. É lei ad accompagnare il giudice Claudio Vitalone agli incontri con De Pedis, per stabilire come intervenire sulle condanne degli affiliati alla banda. Del resto Vitalone entra ed esce da un sacco di casi spinosi di quegli anni, non ultimo quello sull’uccisione di Mino Pecorelli.
Poi c’è Sabrina Minardi, all’epoca amante di Renatino. Lei racconterà, tra l’altro, dei rapporti molto amichevoli con la famiglia dell’onorevole Giulio Andreotti. La stessa Sabrina era stata due volte a casa del divo Giulio e aveva notato che, nonostante De Pedis fosse ricercato, la pattuglia di polizia sulla soglia dell’abitazione di Andreotti non aveva fatto una piega. Insomma la Magliana i suoi bravi agganci li ha, per non parlare poi di avvocati e giudici in grado di pilotare le sentenze. Tra questi c’è il giudice Carnevale, detto “ammazzasentenze”, molto gradito alla mafia ma non solo. Verrà processato e prosciolto, ma che fosse corrotto, anzi corrottissimo, Fabiola Moretti ne è certissima.

Depositi di armi

Le attività più cruente della banda fanno sorgere un altro problema: quello delle armi, che vanno cambiate e sistemate dopo i colpi più importanti. E devono essere custodite in posti sicuri. All’inizio vengono tenute in vari borsoni, affidati a persone incensurate. Ma se questi venissero arrestati non si può garantire sulla loro omertà. Bisogna dunque cambiare.
Verso la fine di novembre 1981 arriva una soffiata alla polizia, che organizza un blitz nei locali del Ministero della Sanità. C’è un custode, tale Biagio Alesse, che abita all’ottavo piano. Sul terrazzo, dentro una casupola, saltano fuori un fucile a pompa e una carabina. Ma il colpo grosso avviene scendendo le scale fino nei sotterranei. I poliziotti sono allibiti: hanno di fronte una vera santabarbara con armi di ogni tipo, bombe, esplosivi, oggetti per il mascheramento, micce e quant’altro. Alesse vuota il sacco, nonostante le minacce ricevute in carcere. Una volta uscito però, la banda lo convoca e un po’ con le buone, offrendogli 5 milioni, e un po’ con le cattive, lo convince a ritrattare tutto e a sostenere che i soli ad avergli consegnato le armi sono stati Giuseppucci e Colafigli, il primo morto e sepolto, il secondo già in carcere per l’omicidio Proietti.
La banda riceve aiuti anche da elementi delle forze dell’ordine. É il caso dell’ispettore di polizia Walter Chilelli, che, come ricorda Claudio Sicilia, il Vesuviano, figura di spicco della banda, fornisce armi ai banditi, armi sottratte alla stessa polizia. Chilelli sarà uno dei tanti imputati del processo alla banda. Poi ci sono le false perizie.
I casi di false perizie psichiatriche sono un capitolo a parte. Ad esempio Marcello Colafigli, ritenuto totale infermo di mente, racconterà di aver pagato quella perizia 150 milioni e di aver fatto assolvere ben 85 persone allo stesso modo.
Dunque la banda della Magliana ha agganci ovunque, storie come queste ce ne sono un’infinità. Si ha la sensazione che questi banditi riescano sempre a farla franca o a subire il minore dei mali, che siano praticamente intoccabili.

Dentro le storie più oscure

Abbiamo detto che la banda della Magliana partecipa a numerosi eventi clamorosi della storia di quegli anni.
Il 27 aprile 1982, il ragioniere Roberto Rosone esce di casa e si avvia a piedi verso il suo posto di lavoro. É un direttore di banca, di una banca famosa, il Banco Ambrosiano. Il suo superiore è Roberto Calvi, le cui vicende sono raccontate in altri articoli di questo sito. Il “banchiere di Dio” è già nei guai fino al collo, per debiti contratti con la mafia di Pippo Calò, per le losche vicende con lo IOR di Marcinkus, e finirà suicidato appena due mesi più tardi sotto il ponte dei frati neri a Londra.
Rosone è un uomo importante dell’Ambrosiano: ci è entrato da ragazzo e ha fatto tutta la gavetta, fino a diventare direttore generale. Nessuno come lui conosce i risvolti delle operazioni della banca, quelle lecite e quelle meno lecite, ed è preoccupato di alcune iniziative che non gli sembrano per niente pulite. Sta per arrivare al suo ufficio quando un uomo, lunga barba, cappotto cammello, estrae una 7,65 e spara. L’arma si inceppa. Riprova e il proiettile si conficca nel gluteo di Rosone. A quel punto ci si aspetta il colpo di grazia, ma l’uomo col cappotto cammello se ne va, raggiunge il complice che lo aspetta in moto e parte. Nel frattempo escono l’autista di Rosone e una guardia giurata che spara verso la moto. In risposta partono dei colpi che feriscono l’autista all’addome. Uno dei quattro colpi sparati dalla guardia colpisce alla nuca l’uomo sulla moto, che stramazza a terra, morto.
Quell’uomo è Danilo Abbruciati, della banda della Magliana, ma, come abbiamo visto, uomo di fiducia di Pippo Calò. Era in libertà vigilata. Il suo complice, Bruno Nieddu, sarà condannato a 10 anni di carcere. La mafia, a cui Calvi deve un sacco di soldi che non sa dove prendere, si avvale dunque della banda per mandare un segnale forte al “banchiere di dio”.
E poi c’è l’affare Aldo Moro, ancora oggi avvolto in una nebbia fittissima e misteriosa. Anche qui la banda della Magliana è presente. É noto il fatto che, all’inizio della prigionia, i vertici della DC si sono rivolti a cani e porci nel tentativo di liberare Aldo Moro dal covo delle Brigate Rosse. Vengono interessate la ‘ndrangheta, tramite il faccendiere Flavio Carboni e Cosa Nostra tramite i deputati democristiani a Palermo. Il boss Stefano Bontate si rivolge a Pippo Calò, che tergiversa non poco. Il pentito Marino Mannoia riferisce la frase usata da questi verso Bontate: “Stefano, ma ancora non l’hai capito! Uomini di primo piano del suo partito non lo vogliono libero.
E anche la banda della Magliana viene interpellata. Maurizio Abbatino racconta di un incontro avvenuto sul greto del Tevere tra Giuseppucci, Nicolino Selis e un politico importante della DC, probabilmente Flaminio Piccoli. Il tema è sempre l’intervento possibile della banda nel tentativo di liberare Moro o quanto meno di sapere dove è segregato. Selis, che sostiene di sapere dove si trova il politico democristiano, è in quel periodo il “capo zona” di Raffaele Cutolo nella capitale. E “o’ professore” conferma questa versione. É il suo braccio destro, Casillo, a fargli capire chiaramente che la politica non vuole intromissioni in questo affare da parte della camorra e di nessun altro.
Un altro clamoroso delitto avviene qualche mese più tardi, quello del giornalista Mino Pecorelli. Non si sa per quale motivo, perché di motivi ce ne sono tanti. Con ogni probabilità entrano in gioco Andreotti e i suoi tirapiedi, come Franco Evangelisti. Forse c’entrano degli assegni, legati allo scandalo Italcasse (vedi in questo sito), passati sottobanco di cui Pecorelli è riuscito ad avere le matrici. Più probabilmente Pecorelli è venuto in possesso dei famosi memoriali di Moro e sta per pubblicarli. Sta di fatto che a uccidere il giornalista sono, ancora una volta, elementi della banda della Magliana. Precisamente Massimo Carminati. Le vicende che ruotano attorno al giornalista molisano sono quanto mai intricate, ma i racconti dei pentiti indicano, proprio in questi termini, movente, mandante ed esecutore. A chiedere ad Abbruciati di far fuori Mino Pecorelli è Pippo Calò, “perché il giornalista aveva fatto troppe indagini e stava ricattando un personaggio politico.” Parole di Franco Giuseppucci, riferite da Maurizio Abbatino. La pistola e munizioni particolari, identiche a quelle usate per l’omicidio, vengono poi ritrovate nel caveau del Ministero della Sanità, al quale avevano accesso, senza controlli, solo i capi e Massimo Carminati.
Questi esempi servono a capire quanto capillari fossero i contatti e gli interessi della banda della Magliana. Potremmo aggiungere la vicenda di Emanuela Orlandi, la cui morte viene attribuita da qualche pentito, ad esempio Sabrina Minardi, ad Enrico De Pedis, ma di questo c’è un breve approfondimento alla fine dell’articolo.
In ogni caso. la morte di Danilo Abbruciati suona la sveglia agli altri della banda. Sia per il suo legame con Pippo Calò, ma soprattutto perché non sapevano nulla degli affari che conduceva di nascosto, contravvenendo alla regola base della spartizione dei profitti. Queste considerazioni danno la stura ad una situazione insostenibile per la banda della Magliana. Dall’essere tutti una sola famiglia si passa a incomprensioni, sospetti, invidie, che portano lentamente al disfacimento del sodalizio malavitoso.

Vendette e pentiti

Si comincia nel 1981, quando Nicolino Selis, in manicomio, può usufruire di una libera uscita. Anche lui ha perso la stima e l’amicizia dei suoi compari. Troppe cose non vanno per il verso giusto. Lui, probabilmente per l’amicizia e la protezione di Raffaele Cutolo, si sente al di sopra degli altri. Del resto non era stato proprio lui ad avere l’idea di formare la banda della Magliana? Ma non è solo l’atteggiamento da capo ad indispettire gli altri. Anche Selis contravviene alla regola dell’equa distribuzione dei profitti. I sospetti vengono alla fine confermati da una lettera che Selis scrive a Edoardo Toscano, che considera un suo sottoposto. Ci sono tre chili di eroina da mettere sul mercato, ma di questi, due devono rimanere in tasca a Nicolino. Nel messaggio ci sono anche frasi irriguardose e offensive nei confronti di Toscano, il quale mostra la lettera ad Abbatino. La condanna a morte è solo la logica conseguenza di tutto questo. Viene così preparata la trappola, invitando Selis nella villa di un comune conoscente, Libero Mancone, dove Abbatino lo uccide con un colpo alla tempia. Anche gli altri sparano al cadavere, compreso Toscano, perché la sentenza dev’essere del gruppo. Poi arrivano anche De Pedis e Danilo Abbruciati. Il cadavere viene sepolto in una fossa lungo il Tevere, ad Acilia. Non sarà più ritrovato: troppi cambiamenti e costruzioni negli anni seguenti. La mattanza non si ferma qui, perché chiunque sia in combutta con Selis viene raggiunto dalla vendetta della Magliana. É solo l’inizio: da quel momento ci sono più morti della banda che estranei. Quasi sempre per motivi di droga: spartizioni egoiste, pagamenti non effettuati, o cose del genere.
Poi, siamo nel 1983, ecco il primo pentito. Si chiama Fulvio Lucioli, er Sorcio. Le sue confessioni scatenano una serie di arresti, che mandano a gambe all’aria tutta l’organizzazione della banda. Giuseppucci, Abbruciati e Selis sono morti. Rimane Enrico De Pedis a fare da referente ai Testaccini. Il suo comportamento nei confronti di quelli della Magliana, Abbatino in testa, è dispotico, divide il bottino un po’ come gli pare, favorendo ad esempio la sua amica Fabiola, rispetto alle altre donne della banda. Si atteggia a grande capo, grazie alla sua straordinaria abilità nel moltiplicare il denaro che entra e anche alle numerose e importanti conoscenze acquisite. A De Pedis, in pratica, sono davvero in pochissimi a poter dire di no. L’impero che Renatino sta costruendo ha un nome ed un cognome: Giuseppe De Tomasi, er Ciccione. É anche quello che telefona alla famiglia dopo il rapimento di Emanuela Orlandi, ma questa, come detto, è un’altra storia.
É lui che trasforma i soldi in palazzi, attività commerciali, discoteche famosissime, diventando praticamente il padrone della Roma by night. I suoi legami sono molteplici, con Cosa Nostra, con Licio Gelli e ovviamente con De Pedis.  Quando si telefonano, la polizia li ascolta, ma non riesce mai ad intercettare dettagli importanti: i dettagli si fanno a voce, di persona, mai al telefono.

La morte di De Pedis, il “presidente”

De Pedis si sente “il presidente della malavita” e fa e disfa come gli pare. La faida non può che finire con un bagno di sangue. Il primo a cadere è Edoardo Toscano, che vuole uccidere Renatino, il quale lo precede. Ma è solo questione di tempo: il 2 febbraio 1990, De Pedis esce di casa poco dopo le 10. Ha un appuntamento verso mezzogiorno con un delinquente di Tor Marancia, Angelo Angelotti. Dopo l’incontro questi lo abbraccia e De Pedis parte con il suo motorino. Non è un gesto affettuoso, è un segnale. Una moto di grossa cilindrata parte a tutta velocità. Un uomo con “uno sguardo di ghiaccio, occhi di colore chiaro, robusto e stempiato” come dirà un magistrato che assiste per caso alla scena, spara un solo colpo. Il proiettile colpisce Renatino alla schiena, trapassa l’aorta e perfora un polmone. Il motorino continua la sua corsa fino a sbattere contro un’auto in sosta. Il “presidente della malavita” muore così, ammazzato da due killer che neppure sanno che faccia abbia. Ad organizzare l’esecuzione sono Marcello Colafigli, Marcellone e Vittorio Carnovale, il Coniglio, entrambi della Magliana. Tra tutti i “si dice” anche quello che i servizi segreti fossero al corrente dell’agguato a De Pedis, ma non siano intervenuti, per togliere di mezzo un bandito diventato troppo potente e in grado di ricattare troppo persone.
De Pedis si era sposato con Carla Di Giovanni nella basilica di Sant’Apollinare. Il bandito aveva indicato alla moglie una cripta dicendole che alla sua morte gli sarebbe piaciuto essere seppellito là. Forse una battuta, ma il rettore della chiesa, Piero Vergari, prende sul serio le parole di quello che era diventato suo amico in carcere, dove il prete prestava opera di volontariato. Il nulla osta viene dal cardinale Poletti, a seguito di una lettera di Vergari in cui si esaltano le innumerevoli buone azioni compiute da De Pedis per la comunità e, in particolare, per la basilica. La sepoltura avviene senza clamore e con un assegno per la chiesa, staccato dalla vedova, di 37 milioni. Solo nel 1997 il Messaggero rende pubblica questa vicenda, facendo partire un’indagine della DIA, la Direzione Investigativa Antimafia, che vuole aprire la tomba anche per vedere se, accanto al cadavere di De Pedis, non sia seppellito qualcun altro, magari una ragazzina di 15 anni. Ma non si trova nulla del genere. Nel 2012 il corpo di Renatino viene cremato e le ceneri spostate in un cimitero normale.

Tribunali, pentiti e condanne

Il resto di questa storia si svolge nelle aule dei tribunali. I pentiti si moltiplicano. Comincia Claudio Sicilia, che racconta ogni cosa, insistendo sulla corruzione presente nel palazzo di giustizia.  Ci sono 91 arresti tra uomini della banda, fiancheggiatori e colletti bianchi, metà dei quali tuttavia verranno scarcerati dal tribunale della libertà, a causa del passato da criminale del testimone. Sicilia verrà ucciso da ignoti nel 1991. Come sostiene Maurizio Abbatino, semplicemente perché “infame”. Ed è proprio Abbatino, il Crispino di Magliana, l’altro pentito che consentirà alla polizia uno dei più grandi blitz di quegli anni, l’operazione Colosseo, eseguita da 600 agenti che porta all’arresto di decine di malviventi. Il pentimento di Crispino è legato all’uccisione di suo fratello, seviziato in modo selvaggio nel tentativo di scoprire dove lui si trovava. Contrariamente a Sicilia, lui viene ascoltato e creduto. Le sue affermazioni vengono poi ulteriormente confermate da altri pentiti della banda, tra i quali Vittorio Carnovale, Antonio Mancini e Fabiola Moretti.
Si arriva così al 1995, quando scatta il maxiprocesso alla banda della Magliana: fioccano gli ergastoli e lunghi periodi di detenzione. Nel 2000 la Cassazione sentenzia che la banda della Magliana è solo un’organizzazione criminale ma non ha lo “stampo mafioso”.
Finisce qui? No, perché, come sostiene il pentito Antonio Mancini nel 2010 “Roma è ancora in mano alla banda della Magliana. Adesso non spara più ma fa affari importanti. […] Io mi chiedo che fine abbiano fatto tutti i soldi, i palazzi, centro commerciali, night club e le attività in mano ai personaggi legati alla banda? Qualcuno è riuscito a sequestrarli? Assistiamo a dei sequestri a tutte le associazioni criminali, alla Mafia, alla ‘Ndrangheta e alla Camorra ma non alla banda della Magliana. Come mai?
Già … come mai?

I “si dice” su Emanuela Orlandi

Prima di passare ai nostri giorni, vorrei riferire quanto si sa sulle dichiarazioni rese da alcuni pentiti della banda della Magliana a proposito del rapimento di Emanuela Orlandi, la vicenda triste e misteriosa della ragazza romana, rapita il 22 giugno 1983 e di cui non si è saputo più niente. Le indagini non hanno portato a nessun risultato, mentre le ipotesi sui motivi del rapimento si sono moltiplicate nel tempo, tirando in ballo praticamente tutto quello che in quegli anni è successo, dalle vicende dello IOR di Marcinkus e di papa Woytila, alle farneticazioni di Alì Agca, ai servizi segreti, alle lotte intestine tra gli ordini più importanti presenti in Vaticano, alla pedofilia e perfino alla tratta delle bianche. Insomma un minestrone pazzesco. Anche le recenti indagini, riaperte, almeno formalmente dal Vaticano, non hanno prodotto risultati. Mentre il fratello di Emanuela insiste a dire che il Vaticano, compreso papa Francesco, sa tutto, non si hanno, a supporto di queste affermazioni prove concrete.
Dunque la verità è che della scomparsa di Emanuela Orlandi non ne sappiamo niente. La domanda allora diventa. Certo qualcuno che sa ci deve essere, o quantomeno ci deve essere stato, se non altro chi l’ha rapita oppure chi ha ordinato di rapirla.
Quello che segue è una possibile verità, ma rimane semplicemente una storia affidata a testimonianze di pentiti, di ex banditi o loro complici, di assassini, truffatori, ladri, spacciatori. Affidarci alla loro testimonianza è un esercizio piuttosto scettico, ma questo è quello che abbiamo e questo è quello che ora vi riferisco.
Di dove sia oggi Emanuela Orlandi ne abbiamo sentite di ogni tipo. Alì Agca sostiene che è viva e tornerà presto a casa; un sedicente ex agente del SISMI telefona in TV per dire che è in un manicomio in Inghilterra sempre sedata. Ma quello che raccontano i pentiti della Banda della Magliana è tutta un’altra storia.
Cominciamo da Sabrina Minardi, all’epoca la donna di Renatino De Pedis, quella che era più intima del capo della banda. Lei racconta che Emanuela è stata rapita dagli uomini di De Pedis e tenuta prigioniera in un sotterraneo. Ma il motivo per cui tutto questo avviene è, ancora una volta, legato ai soldi e al potere. Era stato Marcinkus, il padrone incontrastato dello IOR, a volere quel rapimento, per dare un segnale forte nelle alte sfere, così che non uscissero certi segreti che avevano a che fare con il crack del Banco Ambrosiano, la morte di Calvi e soprattutto con i giochetti finanziari che lo IOR da tempo conduceva a favore di potenti, ricchi, mafiosi e camorristi.
Lo stesso De Pedis, racconta sempre Sabrina, era di casa da Marcinkus. Arrivava con borsoni pieni di soldi da far ripulire. Inoltre lei stessa aveva accompagnato a casa dell’arcivescovo ragazze disponibili, perché il prelato, a suo dire, aveva un debole per le minorenni. Per far capire che razza di intrecci avesse creato De Pedis (e non perché c’entri in qualche modo con la vicenda Orlandi) Sabrina ricorda due visite di De Pedis a casa di Giulio Andreotti, ricevuto con simpatia da parte del politico e di sua moglie. Del resto, Antonio Mancini si chiede come abbia fatto De Pedis a morire incensurato, avendo ammazzato più gente di lui ed eseguito almeno lo stesso numero di rapine ed essendo più volte finito in carcere. Evidentemente era stato abile a costruirsi attorno una trama di amicizie molto importanti.
Lo stesso Mancini, confermando quello che Sabrina aveva detto, racconta:
La Orlandi è opera della Banda della Magliana, di quelli di Testaccio. Io di questo sono sicuro. Le ragioni … per una questione di denaro per recuperare i soldi che la banda – e non solo la banda, ma anche la mafia e altri poteri finanziari – aveva investito su Calvi. Poi c’è stata l’impiccagione di Calvi … perché Calvi terrorizzato aveva cominciato a ricattare il Vaticano … e si era fatto pericoloso e allora uomini collegati al Vaticano dicono … bisogna eliminare Calvi perché ci sta creando dei problemi … e visto che nonostante queste pressioni i soldi non tornavano o quanto meno non tornavano tutti, allora per far vedere che chi aveva investito, cioè De Pedis, non si sarebbe fermato davanti a niente … stabilirono di portare via la ragazzina …”.
Queste sono tutte frasi estratte dal racconto di Mancini, uno che era nei quartieri alti della banda romana.
Altri particolari agghiaccianti vengono rivelati da Sabrina Minardi. Secondo la sua testimonianza, lo stesso Marcinkus era andato a trovare la ragazza, rinchiusa in una villa a Torvajanica e là l’avrebbe violentata. Sabrina racconta di aver sentito urlare Emanuela.
C’era anche lei quando la Orlandi era stata trasferita in quella villa. Doveva fermarsi una sola notte, ma vi rimase due settimane. Secondo lei a uccidere Emanuela e occultarne il cadavere sarebbero stati sempre gli uomini di De Pedis.
La testimonianza di una donna cocainomane non può essere presa per buona senza se e senza ma. Tuttavia nel 2010 gli inquirenti decidono che la superteste è affidabile e così il procuratore Capaldo e il pubblico ministero Maisto, ritengono credibile che Emanuela Orlandi sia stata rapita dalla banda della Magliana per il divertimento sessuale di qualche alto prelato o per impedire a qualcuno di parlare degli affari sporchi della Santa Sede. E quindi andava poi eliminata per non avere in giro una testimone così scomoda di una verità tanto raccapricciante. Del resto una simile storia avrebbe messo la banda romana nella condizione di ricattare il Vaticano, aggiungendo un ulteriore strumento per il recupero dei soldi evaporati dalle operazioni finanziaria dello IOR.
Che sia andata così, lo ripeto fino alla nausea, non lo sappiamo. Fino ad oggi non lo sa nessuno. Chissà se mai si potrà far luce sulla sparizione di una ragazzina, della sua amica Mirella, rapita un mese prima e delle centinaia di ragazze scomparse nel nulla nel nostro paese e delle quali nessuno parla. Che schifo di mondo.

Tutto finito? Neanche per sogno

Ora, uno potrebbe pensare che tutto sia finito: tra morti, arrestati e pentiti non è che rimanga poi tanto della banda della Magliana. Eppure ci sono degli strascichi, alcuni di poco conto, altri importanti come vedremo tra poco.
Cominciamo con una notizia dell’ultima ora, del 4 giugno 2024. Riguarda Marcello Colafigli, uno dei fondatori della banda, molto vicino a Giuseppucci e De Pedis. Viene arrestato a Roma nel 1990, mentre è insieme ad un esponente dei NAR, Fausto Busato. Ha tre omicidi accertati e così viene condannato all’ergastolo. Gode però di una perizia psichiatrica che lo dichiara infermo di mente con una serie di sindromi e psicosi che lo portano fuori dal carcere. Poi, nel 2021, mentre usufruisce della semilibertà, viene beccato assieme a dei pregiudicati e riportato in cella. Ed ecco la notizia di questi giorni. Il 4 giugno 2024 viene arrestato di nuovo, ma con una nuova accusa. L’anziano capobanda, 70 anni compiuti, ha messo assieme una batteria di ragazzotti che spacciano droga al suo comando. Lui ha un appeal incredibile per i giovani delinquenti, è un mito, proprio per la sua storia nella banda della Magliana. Ed è in questo quartiere, il suo quartiere, dove lo spaccio avviene. Non solo, ma si è incaricato di intrattenere legami tra i luoghi di approvvigionamento, la Spagne e la Colombia, e le sue conoscenze, quelle vecchie, la ‘ndrangheta, la camorra, la mafia foggiana e quelle nuove, rappresentate dalle nuove bande, come quella degli albanesi. Un canto del cigno? Un ritorno alle origini? Chissà?
Passiamo adesso alla cosiddetta primula rossa della banda, Fabiola Moretti, attualmente in carcere per un cumulo di reati, tra i quali lo spaccio di droga. Recentemente è finita dietro le sbarre anche sua figlia Nefertari per lo stesso motivo.
Ma queste sono quisquiglie, sono rimasugli delle operazioni criminali di un tempo o son o il risultato di un modo di vivere che, forse, non consente alternative.

Mafia Capitale: ancora Carminati

C’è dell’altro, di bello grosso e riguarda questa volta Massimo Carminati, appartenenza ai NAR e, come detto fin qui, uno dei capi della banda della Magliana.
Lui è vivo e vegeto. In questo momento non è in carcere, pur essendo stato condannato ad oltre nove anni. Gli ultimi due e mezzo li passa destinato ai servizi sociali e dunque è fuori in libertà vigilata.
Perché Carminati è stato di nuovo arrestato e messo dentro?
La vicenda che lo riguarda prende il nome di “Mafia Capitale” o, per usare la dicitura che gli inquirenti hanno assegnato all’inchiesta “La terra di mezzo”. Questo nome curioso non ha a che fare con quella porzione di mondo fantastico in cui si muovono gli hobbit nel romanzo di Tolkien. É lo stesso Carminati ad usare questa espressione durante una telefonata, intercettata dai carabinieri. Loro sono, dice “er cecato” suo nickname, in metto tra i morti e i vivi, non appaiono, ma decidono. É questa terra di mezzo che gestisce gli affari, a cominciare dagli appalti pubblici.
Quello degli appalti è un affare tipico delle grandi organizzazioni criminali. La stessa mafia, dopo il periodo stragista, si è convertita (il termine è improprio ma qui è’ usato in senso sarcastico) a gestire affari, per così dire puliti … con questo intendo senza ammazzamenti, bombe, stragi eccetera. I molti soldi derivati dai traffici illeciti, droga in primis, vengono usati per garantire appalti miliardari alle proprie aziende o a quelle di amici fidati, che verseranno un corrispettivo a qualche famiglia. É tipico delle associazioni mafiose questo comportamento, che fa leva, sempre, su dipendenti pubblici corrotti o corruttibili. Se volete un esempio non mafioso, posso citare la banda della Turatella, le cui imprese ho raccontato qui a NSSI a proposito del G8 mai realizzato a La Maddalena.
Il 2 dicembre 2014 vengono arrestate 37 persone, delle quali 28 finiscono in carcere e 9 ai domiciliari. Tra questi ci sono nomi importanti come l’ex sindaco Gianni Alemanno. L’accusa è di aver partecipato ad un‘associazione di stampo mafioso che ha fatto affari non meglio specificati con imprenditori, dirigenti di municipalizzate ed esponenti politici. Insomma la solita storia, di cui le cronache italiane sono piene da molto tempo e anche oggi. L’organizzazione è guidata dal direttore della “cooperativa 29 giugno” Salvatore Buzzi e una nostra vecchia conoscenza proprio della banda della Magliana, il terrorista nero, Massimo Carminati. É lui che organizza i contatti, prevede i modi di comunicare, con il resto dell’organizzazione, nella quale figurano pezzi della politica, del mondo istituzionale, finanziario, delle forze dell’ordine e dei servizi segreti … come al solito una bella compagnia.
Poi gli arresti aumentano. Una nuova ondata a giugno riguarda19 persone in carcere, 25 ai domiciliari, altre 21 indagate a piede libero. E si delineano anche le aree di interesse, nelle quali l’intervento truffaldino della banda agisce: la gestione dei migranti, i punti verdi e le piste ciclabili. Il volto istituzionale della banda è Luca Gramazio, esponente del PDL, poi FI, condannato alla fine a 11 anni.
Nel 2017 c’è un’andata di archiviazioni per vari motivi. Escono dalla scena dell’associazione mafiosa Alemanno e un altro centinaio di imputati.
Rimane in piedi il processo contro 46 persone. Cade per tutti l’associazione di stampo mafioso, che è una bella rogna tolta di mezzo. Ma le condanne fioccano: Buzzi 20 anni e Carminati 19, non uno scherzo. Tutte le condanne vengono notevolmente ridotte in sede di appello. Finalmente in via definitiva, sono poco più di 18 anni per Buzzi e 14 anni e mezzo per Carminati, per il quale, come già detto si è aperto da poco la porta del carcere.