Premessa

alpi01Siamo arrivati alla quarta puntata di questa storia incredibile che si svolge tra Italia e Africa, con le navi che arrivano per depositare rifiuti tossici, che industrie, organizzazioni e amministrazioni dei paesi ricchi non vogliono tenere per sé né vogliono pagare lo smaltimento secondo le normative vigenti.
Abbiamo seguito, nelle scorse puntate camion che interravano rifiuti tossici e radioattivi ovunque, in Italia ma anche all’estero, ad esempio nei paesi dell’Est europeo grazie all’intervento di Cosa Nostra. Abbiamo seguito le rotte così strane di quelle navi che improvvisamente si inabissavano: un sacco di navi forse 40 o forse 100 che ancora oggi riempiono i fondali marini lungo le coste della Calabria e della Basilicata, e anche della Sicilia e della Puglia. Abbiamo saputo, grazie alle indagini di molte procure, grazie alle investigazioni fatte eseguire da alcune commissioni parlamentari, che dietro quegli affari c’erano potenti coperture politiche e militari. Secondo il pentito Francesco Fonti i vertici del partito socialista di Bettino Craxi avevano in mano la situazione, che però lasciavano gestire ai Servizi Segreti, usando come manovalanza gli uomini della ‘ndrangheta, specie quella della famiglia di San Luca e del clan Iamonte.
In mezzo a questo andirivieni di rifiuti compaiono anche le armi, altro grande affare italiano. E armi e rifiuti tossici viaggiano spesso assieme su quelle navi della cooperazione che dovrebbero essere cariche solo di cibo e vestiti per le popolazioni più povere e disgraziate del pianeta.
Nella nostra storia manca un anello importante, che è forse quello che più ha suscitato clamore e sdegno nel paese, o meglio in una piccola parte del paese che sapeva di essere vivo. Gli altri erano troppo impegnati a seguire le gag di Drive In e la pubblicità nascosta di Berlusconi nelle sue televisioni.
L’anello che manca riguarda una giornalista del TG3, Ilaria Alpi, e il suo operatore, Miran Hrovatin, morti ammazzati il 20 marzo 1994 a Mogadiscio, in Somalia. Oggi voglio raccontare la loro storia.
Ilaria Alpi e Miran Hrovatin erano in Somalia da alcuni giorni per un servizio, che la stessa Ilaria aveva definito molto interessante, proprio quella mattina al suo redattore a Roma, ma non aveva voluto dire niente di più, tanto, tra pochi giorni, sarebbe stata nuovamente a casa.
Perché Ilaria e Miran hanno un ruolo speciale, nel lungo elenco dei troppi giornalisti morti ammazzati durante gli anni roventi della prima repubblica? In fondo è un omicidio come tanti altri, altri di cui non si è mai trovato il colpevole, figurarsi i mandanti. Ilaria e Miran sono l’emblema di questa situazione, sono rappresentativi di questo stato. Lo sono stati prima di quel 20 marzo del 1994 e lo sono stati dopo, quando una commissione parlamentare, presieduta in modo ignobile dall’avvocato Carlo Taormina, ha cercato in ogni modo di buttare acqua sul fuoco, di nascondere la polvere sotto il tappeto, creando un mare di sabbia per seppellire quello che molti, quasi tutti, si ostinano a considerare un altro omicidio di stato.
Leggendo i documenti, ascoltando le deposizioni, guardando le immagini e i filmati ti cresce una rabbia dentro perché ti specchi nella tua impotenza. Dunque raccontarvi questa storia senza farsi coinvolgere sarà davvero molto, molto difficile.
In queste prime puntate vi ho raccontato le storie di quegli anni sui traffici dei rifiuti tossici e delle armi. I pentiti di ‘ndranhgeta e camorra ci mostrano un mondo cinico e brutale il cui unico scopo è fare soldi. Il business gira attorno  allo smaltimento illegale di residui pericolosi delle lavorazioni italiane ed internazionali, seppellendo materiali tossici e radioattivi nelle grotte dell’Aspromonte o sotto i letti dei fiumi lucani, oppure affondando le navi dei veleni con tutto il loro carico in punti che con ogni probabilità rimarranno tombe inespugnabili data la profondità dei fondali; o, infine, esportando intere navi verso paesi poco attenti alla salute dei propri cittadini e molto più all’incasso di percentuali; soprattutto paesi africani, come la Somalia.
Ho sottolineato che un simile traffico, che coinvolge non solo aziende del Nord Italia, ma anche istituzioni nazionali ed estere, non può sfuggire ai controlli a meno che non goda di potentissime protezioni. Le relazioni che abbiamo analizzato fanno intervenire il sottobosco italiano di quegli anni, dalle logge massoniche ai servizi segreti, dai politici corrotti ai faccendieri in un intreccio di legami a doppio filo con mafia, camorra e ‘ndrangheta.
Su questo indagava Ilaria Alpi.
Vedremo, percorrendo quello che è accaduto dopo il marzo del 1994, che molti hanno cercato con forza di mettersi di traverso alla ricerca della verità mentre altri non hanno mollato mai. Non l’hanno fatto i colleghi e gli amici di RAI3, qualche magistrato più coscienzioso e coraggioso di altri e soprattutto i suoi genitori, Luciana e Giorgio, che hanno speso tutte le loro energie per non far morire la speranza di sapere cosa davvero è successo a Mogadiscio più di vent’anni fa. Il padre Giorgio se ne è andato nell’estate del 2010. Se ne è andato senza sapere la verità. La mamma è una roccia. A lei va l’affetto di tutti quelli che non vogliono dimenticare, perché Ilaria e Miran sono un simbolo e un simbolo non muore mai.
Voglio però anticipare la conclusione di ogni discorso, una conclusione amara, anzi amarissima. L’estate scorsa, all’inizio di luglio, Luciana Alpi ha presentato alla stampa un libro su Ilaria, dal titolo estremamente significativo: “Esecuzione con depistaggio di stato”, che riassume perfettamente quello che è successo e che vi racconterò tra poco.
La Procura di Roma ha appena chiuso la vicenda con una richiesta di archiviazione perché risulta impossibile risalire al movente e agli autori. Ve la leggo testualmente per capire di cosa si tratta: “La Procura di Roma è assolutamente consapevole di quanto sia deludente il fatto che oltre 20 anni di indagini, di processi e accertamenti della Commissione parlamentare di inchiesta non abbiano consentito di fare alcun modo luce sui responsabili della morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. E tuttavia ritiene che debba essere richiesta l’archiviazione del procedimento sia perché da un punto di vista formale, sono già scaduti i termini delle indagini per il reato di omicidio sia – e soprattutto – perché non vi è stata alcuna nuova ed ulteriore indagine che appaia idonea a conseguire risultati positivi né in relazione al delitto più grave né in ordine agli altri ipotizzati”.
Nel testo inoltre viene sottolineato come abbia avuto rilievo anche la situazione politica – di allora e di oggi – della Somalia. Condizioni negative che hanno determinato e determinano tuttora la sostanziale impossibilità di raggiungere un risultato positivo. Infine, si sottolinea “la totale inaffidabilità delle dichiarazioni rese in qualunque veste processuale, da cittadini somali anche se trasferiti all’estero”.
Insomma la verità non può uscire, perché troppe imponenti coperture hanno impedito un’indagine adeguata e perché i testimoni sentiti sono stati poco affidabili e l’unico responsabile condannato a 26 anni è ritenuto (probabilmente a ragione) semplicemente un capro espiatorio.
Ma è certo il caso di cominciare dall’inizio, perché la vicenda è lunga e contorta, come del resto abbiamo già visto nelle storie che vi ho raccontato fin qui. Facciamo un bel respiro e poi cominciamo.

Il contesto

Adesso siamo pronti a cercare di capire. Voglio farlo citando prima le molte fonti che ho seguito. Dai libri di Riccardo Bocca “Le navi della vergogna” e di Carlo Lucarelli “Navi a perdere”, alle trasmissioni televisive d’epoca firmate ancora da Carlo Lucarelli (Blu notte), da Giovanni Minoli (La storia siamo noi), il filmato illuminante e consigliatissimo di Paul Moreira “Toxic Somalia, sulla pista di Ilaria Alpi” offerto alcuni anni fa da RAI 3 ai suoi telespettatori, il film del 2003, diretto da Ferdinando Orgnani “Ilaria Alpi, il più crudele dei giorni” e poi le relazioni della commissione presieduta dall’avvocato Taormina, quella sul ciclo dei rifiuti presieduta da Paolo Russo e la più recente sugli illeciti legati allo smaltimento dei rifiuti presieduta da Gaetano Pecorella. E ancora l’infinità di articoli disponibili in rete, specialmente quelli prodotti da due riviste: L’Espresso e Famiglia Cristiana.
La quantità di documentazione è spaventosa. Chiunque sia del mestiere una sua piccola indagine l’ha condotta. A tutti loro va il merito del racconto che sta per cominciare, io sono solo il cantastorie che mette la voce, una voce emozionata e triste.
alpi02Questo racconto comincia a Mogadiscio l’11 marzo del 1994. É un venerdì quando i due giornalisti italiani arrivano in Africa con un volo militare. Ufficialmente per seguire il rientro delle truppe italiane dall’Africa. Il clima è terribile: la Somalia è scossa da una guerra civile. La capitale è divisa a metà dalla cosiddetta “linea verde” tra il territorio controllato dal generale Ali Mahdi e quello controllato dal generale Mohammed Farrah Aidid, già collaboratore dell’ex presidente Siad Barre. E proprio con Farrah Aidid, Ilaria vuole parlare. Non è semplice, come si può immaginare. I due si spostano a Balad, poco fuori da Mogadiscio, dove ci sono le truppe di pace italiane, poi vanno nel nord della nazione a Bosaso per intervistare le autorità locali, poi a Garoe, lungo la strada che porta verso Mogadiscio, dove arrivano la mattina del 20.
alpi04Prima del rientro nella capitale c’è una telefonata di Ilaria al caporedattore del TG3, Massimo Loche. É eccitata, perché ha realizzato un servizio molto importante. Deve incontrare di là a poco un collega dell’ANSA e allora trasmetterà tutto in Italia. Di cosa si tratta? Ilaria non lo dice, ma poi si viene a sapere che è riuscita ad intervistare il Sultano di Bosaso sulle navi della Cooperazione. Sono diversi mesi che la giornalista segue questa pista. É tornata da poco dalla ex-Jugoslavia dove ha cercato tracce di quelle navi per capire se davvero trasportano in Africa solo coperte, vestiti e medicinali. Ne ho parlato di sfuggita nelle scorse puntate: la cooperazione è un’attività perfetta per coprire traffici di armi e rifiuti tossici. E Bosaso è il porto a Nord del paese, che si affaccia sul golfo di Aden, poco più giù delle ultime acque del Mar Rosso. Un posto ideale per far arrivare le navi senza dare troppo nell’occhio. Questa città ha, in questa storia, un ruolo fondamentale.
Poco dopo pranzo, i due giornalisti, improvvisamente, partono dal loro albergo, il Sahafi, su un pick-up Toyota. C’è l’autista, Alì Mohamed Abdi, al suo fianco Miran. Dietro è seduta Ilaria con alle spalle, nel cassone, un uomo della scorta. Superano la linea verde ed entrano nella zona controllata da Ali Mahdi; a questo punto le informazioni si fanno frammentarie e le versioni si moltiplicano.
Dove vanno Ilaria e Miran quando abbandonano l’auto? Quanto stanno via? Entrano nell’albergo Amman per cercare il collega inglese dell’ANSA?
Come mai non sanno che tutti i corrispondenti se ne sono andati in Kenia perché qualcuno ha ventilato l’ipotesi di un rapimento? O sono entrati nell’ambasciata italiana che si trova a pochi passi dall’albergo? O sono andati a casa di Giancarlo Marocchino, uomo potente in Somalia oltre che informatore dei servizi segreti italiani? Chi li ha chiamati là? Perché?
Quante domande … tutte con la stessa risposta: non si sa.
Quello che si sa è che, quando escono per tornare in auto, una Land Rover blu con sette uomini a bordo li aspetta. Improvvisamente affianca il pick-up. L’autista tenta una fuga in retromarcia, che però non riesce. Quindi, capita l’antifona, fugge assieme all’uomo di scorta. Nella Toyota adesso ci sono solo Ilaria e Miran e il massacro può cominciare.  Scendono in sei dalla Land Rover. Miran è colpito alla tempia, Ilaria alla nuca. Muoiono là, sulla strada di Mogadiscio. Con un colpo solo, a bruciapelo. Una esecuzione in piena regola: dall’auto non viene portato via nulla, non c’è una sparatoria, nessun proiettile vagante … in quella strada sale una puzza incredibile di assassinio su commissione.
Chi ha mandato e pagato quegli assassini? Non si saprà mai.La notizia arriva in Italia creando prima incredulità, poi sdegno e orrore. Ma il massacro è appena cominciato, perché quando succede una tragedia simile, dopo il pianto e il dolore si chiede giustizia. Che oggi, a oltre vent’anni di distanza non è arrivata. E ancora risuonano le domande che tutti si fanno.
Chi è stato? Chi li ha mandati quei sette? Perché?

I dubbi

Certo, col mestiere che fanno e i luoghi che frequentano, con la situazione in Somalia, con il fatto che bastano pochi dollari per far uccidere chiunque, si potrebbe pensare ad un semplice incidente sul lavoro. Chi fa quel lavoro e lo fa con la voglia di andare fino in fondo, sempre e comunque, costi quel che costi, una eventualità simile deve metterla in conto. Ma questo è un assassinio strano, ecco che ritorna ancora e ancora questo aggettivo, un assassinio che non ha niente a che fare con banditi di strada o esaltati estremisti. Perché ci sono troppe cose che non tornano, non tornano affatto.
Cose strane, appunto. Dopo un assassinio, uno come questo per di più, tutto viene fatto per cercare di scoprire cos’è successo davvero. Invece succede tutt’altro.
Subito dopo la sparatoria arrivano sul posto alcuni giornalisti che non hanno ancora lasciato la Somalia. C’è Gabriella Simoni di Spazio Aperto e Giovanni Porzio di Panorama e poi due troupe televisive: la statunitense ABC, e quella svizzera, che riprendono tutto.
alpi06A scoprire i cadaveri e gestire la situazione è Giancarlo Marocchino. É il primo ad essere arrivato sul posto. Lui abita a due passi. Chiede istruzioni alle poche autorità militari italiane ancora presenti a Mogadiscio. La zona è pericolosa e non arriverà nessuno, gli dicono. Fa rimuovere dai suoi uomini i corpi dal pickup, li carica sulla sua auto e va verso il porto vecchio della città, dov’è ancorato l’incrociatore Garibaldi. Il pickup li segue.
E qui nasce il primo dubbio. Perché spostarli dalla Toyota, se questa è perfettamente funzionante? La posizione dei corpi, l’analisi dell’auto avrebbero potuto fornire indicazioni a chiunque avesse indagato. Ma di indagini nemmeno l’ombra: non ci sono rilievi, fotografie, sequestri, niente di niente.
Un elicottero della Garibaldi porta i cadaveri a bordo per essere esaminati da un medico che stila il certificato di morte e quindi lo stesso elicottero li trasporta all’aeroporto. Vengono presi in consegna da una ditta privata che fa servizio per le basi statunitensi. Qui i due corpi sono visionati da un altro medico e fotografati per documentare le modalità della morte. Il tutto viene messo in una busta e riconsegnato assieme ai corpi. La mattina dopo un aereo dell’aeronautica militare trasporta le bare a Roma, dove arrivano la notte seguente, alle 2 del mattino del 22 marzo. Il giorno dopo è prevista la sepoltura.
Perché tutta questa fretta? Perché nessuno si preoccupa di capire come sono andate le cose? Nemmeno a Mogadiscio? Ecco cosa ne pensa Mariangela Gritta Grainer, all’epoca membro della commissione di inchiesta sulla cooperazione. E in Italia? Succede lo stesso. L’unico magistrato che si vede è al funerale quando l’impiegato del cimitero pretende un riconoscimento ufficiale del corpo di Ilaria prima di chiudere la bara.
Nessuna indagine, nessuna autopsia; sembra che di quella morte non importi niente a nessuna delle autorità. Sono i genitori di Ilaria a sporgere una denuncia contro ignoti e solo allora il magistrato è costretto ad aprire un fascicolo di indagine.
Che fine hanno fatto nel frattempo le loro cose? Sono rimaste nelle due camere d’albergo, in disordine, come capita a chi è appena tornato e riparte improvvisamente. Ci sono i vestiti, gli strumenti di lavoro, gli appunti presi mano a mano da Ilaria, una vera e propria mania quella della giornalista romana: non c’è immagine o filmato in cui non abbia una penna in mano. Ci sono le cassette di Miran, un altro che cura in modo ossessivo il proprio lavoro. Ogni sera le cassette vengono catalogate, scrivendo sulle custodie tutti i riferimenti possibili, date, luoghi, personaggi, per trovare in un lampo quello di cui si ha bisogno.
Nelle due stanze entrano due giornalisti, due colleghi, Gabriella Simoni e Giovanni Porzio a radunare tutto questo, a impacchettarlo in valigie e borsoni. Con loro gli operatori della televisione svizzera, che filmano tutto: è tutto documentato per filo e per segno.
I blocchi di appunti di Ilaria sono cinque, più l’agenda con numeri di telefono e frequenze radio-televisive, più i foglietti sparsi che Ilaria aveva con sé quando è stata uccisa.
Le cassette di Miran sono più di 20; è il reporter Francesco Chiesa della televisione svizzera a prenderle e metterle in una borsa blu. I numeri qui sono fondamentali: dobbiamo memorizzarli e tenerli a mente: cinque blocchi e venti cassette.
Tutto il materiale giornalistico viene infilato in uno zaino e consegnato al comandante dell’aereo che partirà per l’Italia. Gli effetti personali invece vengono messi in una busta sigillata, consegnati al presidente e direttore generale della RAI arrivati nel frattempo in Somalia.
Ci sono anche i rapporti dei medici della base americana sullo stato del corpo di Ilaria dopo l’uccisione e il certificato di morte stilato dal medico della nave Garibaldi.
Viene tutto inventariato, sigillato e spedito a Luxor, in Egitto, per poi proseguire verso Roma. Ma già in Egitto le cose cominciano ad essere strane. I bagagli sono confusi, i sigilli a volte non ci sono più o sono rotti. A Roma poi non ci sono formalità, nessuna indagine, nemmeno un controllo. Le borse vengono aperte e il materiale distribuito un po’ ai funzionari RAI, un po’ alle famiglie.
E qui continuano i misteri perché manca un sacco di roba.
alpi07I blocchi di Ilaria sono solo due, quelli in cui c’è il materiale meno importante. Quello che resta è pochissimo rispetto al lavoro che la giornalista aveva documentato.
Le cassette di Miran sono appena cinque: ne mancano 15, una quantità enorme di riprese.
Mancano i documenti contenuti nella busta sigillata: manca il rapporto delle autorità americane, mancano le fotografie dei cadaveri e manca il certificato di morte.
Dove sono finite le cassette? Quando se ne sono perse le tracce? Chi le ha fatte sparire e perché?
Sono domande semplici ma che hanno risposte molto complicate e spesso non hanno nessuna risposta.
Già, perché anche capire come Ilaria e Miran sono morti è complicato. Le versioni che vengono fornite nei mesi seguenti sono molte e difficilmente coincidono. Anche l’autista, Abdi, depone durante l’inchiesta, ma la sua versione è differente da quella di altri testimoni, come l’uomo di scorta, o la signora che ha visto tutto dall’altra parte della strada. Quanti uomini sono scesi dalla Land Rover? In quanti hanno sparato? Come hanno sparato? Raffiche di mitra o solo due colpi alla testa?
Il modo in cui il commando ha eliminato Miran e Ilaria fa tutta la differenza del mondo, come quella che esiste tra una morte avvenuta per caso nel corso di una sparatoria e quella invece che sembra essere un’esecuzione a freddo, premeditata, voluta.
La giornalista Gabriella Simoni ricorda bene quello che ha visto dentro la Toyota quel 20 marzo: Un’esecuzione dice la Simoni, una tecnica da mafiosi, aggiunge Carmine Fiore, il comandante del contingente italiano in Somalia. Per loro non c’è nessun dubbio: Ilaria e Miran non sono morti per caso.

Inchieste, autopsie e commissioni parlamentari

La morte dei due giornalisti ha in Italia un’eco enorme. Ne parlano tutti, perché è evidente che c’è qualcosa che non quadra. Anche perché il delitto avviene in un periodo, quello di Mani pulite, in cui perfino i cittadini meno informati cominciano a sospettare che la gestione dello stato non sia così limpida come credevano.
I giornalisti presenti a Mogadiscio nel 1994 non hanno dubbi sulle modalità dell’omicidio. Ma la loro opinione ha poca importanza. Contano le indagini, quelle ufficiali, che stentano a partire. alpi05
La prima questione, l’ho già detto, è stabilire come i due sono morti. Miran viene portato a Trieste, dove vive la sua famiglia, e viene fatta l’autopsia. Un solo colpo alla tempia è il risultato del medico legale.
Per Ilaria occorre aspettare il funerale. Il sostituto procuratore De Gasperis la fa esaminare dal medico di fiducia della procura di Roma, Giulio Sacchetti. Risultato: un solo colpo nella zona laterale posteriore sinistra della testa, sparato da distanza ravvicinata con un’arma corta, insomma una pistola. Il proiettile è calibro 9. Dei kalashnikov e delle sventagliate di proiettili nessuna traccia.
L’esame però è solo esterno, non si fa alcuna autopsia, perché al magistrato sembra che la situazione sia chiarissima così. Ma negli anni seguenti ci saranno decine di perizie che daranno versioni differenti e contrastanti. Qualcuno alla commissione bicamerale dirà che si è trattato di un proiettile di kalashnikov, vagante. Dunque si torna al problema se Ilaria e Miran siano stati assassinati apposta o se siano semplicemente stati sfortunati a trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato.
Nel 1996 cambia il magistrato, Giuseppe Pititto, che fa riesumare il corpo. C’è una nuova perizia balistica e un’autopsia. Risultato: il colpo sarebbe stato sparato da lontano. Otto anni dopo, nel marzo 2004, Carlo Taormina, presidente della commissione parlamentare che si occupa della morte dei due giornalisti, fa nuovamente riesumare il corpo e ordina nuovi esami. Risultato: colpo di kalashnikov sparato da lontano.
E poi c’è la macchina, il pikup Toyota su cui viaggiavano Ilaria e Miran. Che fine ha fatto? L’avevamo lasciata a Mogadiscio quel 20 marzo del 94. Si sono fatti rilievi su di essa? É stata sequestrata per farla avere alla polizia scientifica?
alpi08La risposta è no. Di quell’auto non si sa niente fino a che Taormina non la fa cercare, 11 anni dopo. La trova Giancarlo Marocchino, sempre lui in mezzo ad ogni avvenimento che riguardi la Somalia. La compra per conto dello Stato italiano e la fa arrivare a Roma a disposizione della commissione d’indagine. Gli esperti di balistica arrivano alla conclusione che ad uccidere i due giornalisti sia stato un unico proiettile che avrebbe attraversato il cranio di Miran, attraversato il sedile ed essere infine finito nella testa di Ilaria. Spiegazione contorta di un evento tragico, quasi incredibile ma sfortunato.
Questo non basta alla Procura di Roma, che vuole saperne di più su uno dei crimini più chiacchierati di quegli anni; vuole vedere l’auto e affidarla ai propri esperti. Il presidente Taormina nega l’autorizzazione. La procura si rivolge alla Corte Costituzionale, la quale da ragione alla Procura. É il magistrato Franco Ionta a seguire l’inchiesta. Tra le altre cose, ordina una analisi accurata delle tracce di sangue. Viene eseguita l’analisi del DNA, che porta ad una sorpresa sconcertante.
Quel sangue non è quello di Ilaria Alpi!
Non solo. Guardando i filmati del 1994 e confrontando quell’auto con quella attualmente a Roma, gli esperti di parte civile si convincono che i due veicoli sono diversi. L’auto in mano alla commissione non è quella in cui Ilaria e Miran sono stati uccisi. E allora? Perché Marocchino consegna un’automobile che non è quella richiesta? Non lo sapeva o lo ha fatto apposta?
Come si vede, in questa vicenda su molti fatti ci sono un sacco di spiegazioni che non vanno d’accordo tra loro, spesso sono opposte, ancora più spesso semplicemente non ci sono.
Sulla modalità della morte, sull’auto, sulle autopsie, ma la domanda fondamentale rimane una: perché? Perché Ilaria e Miran sono stati uccisi?
Per rispondere a questa domanda occorre farne un’altra: perché sono andati laggiù? A cercare cosa? E perché hanno passato sei giorni a Bosaso, quando bastavano poche ore per l’intervista che avevano in programma?
Si capisce qualcosa solo allargando il campo all’attività giornalistica di Ilaria di quel periodo. Da due anni lei andava e veniva dalla Somalia per capire una cosa, che si troverà scritta su uno dei blocchi rimasti: “1400 miliardi di lire. Dov’è finita questa impressionante mole di denaro?” Ilaria si riferisce ai meccanismi della cooperazione italiana.
Ma qui dobbiamo fare un piccolo passo indietro.

5 Cooperazione

Dunque per capire quello che sta succedendo occorre avere una visione più generale.
alpi09Siamo negli anni ’90, quando in Italia non si parla d’altro che delle inchieste sulla politica corrotta, sui conti bancari all’estero, sulle deviazioni del finanziamento dei partiti, sul ruolo di Craxi e del suo partito e così via.
Tra le inchieste c’è anche quella sulla cooperazione internazionale, gestita dal FAI, Fondo Aiuti Italiani, diretto da Francesco Forte, sottosegretario agli esteri nei governi Craxi a metà anni ’80.
Le intenzioni sono ottime: l’Africa sta passando un momento di grande difficoltà e ogni aiuto è importante. L’Italia si occupa della Somalia solo che a volte i molti soldi stanziati finiscono in modo strano: si perdono per strada, o servono a progetti faraonici del tutto inutili come grandi strade nel deserto che nessuno percorre (una di queste parte proprio da Bosaso), forniture di flotte di pescherecci al governo locale, che poi finiscono in mano ai privati. E poi c’è il sospetto che quei denari servano a sostenere traffici illeciti di armi e rifiuti tossici, a sostenere dunque l’impresa del crimine. Possibile? Craxi nega tutto, ma ci sono in piedi in quel periodo 41 inchieste della corte dei conti, dal 1994 anche una commissione parlamentare d’inchiesta e le indagini delle varie procure.
Ascoltiamo la voce di Ilaria Alpi in un servizio del 29 dicembre 1992: Ilaria a Bosaso ha un appuntamento importante, un’intervista con Abdullah Bogor Muse, il sultano di Bosaso. Lui sa tutto sulle navi, sulla cooperazione e su tutto il resto. L’intervista di Ilaria dura quasi tre ore: lo dichiara lo stesso Bogor al pubblico ministero Pititto. Ma quando si cercano le immagini nelle cassette di Miran si trovano appena 20 minuti, con tagli evidenti. E cosa dice il sultano davanti ai magistrati italiani? Le domande di Ilaria hanno uno scopo preciso. Vuole sapere se quelle famose navi, che dovevano trasportare vestiario e medicine, non erano in realtà cariche di armi e di rifiuti tossici. C’è un uomo, tale Omar Mugne Said, che si sarebbe impossessato delle navi fornite dall’Italia per farne un uso privato, probabilmente illegale. Sono queste le navi che Ilaria sospetta essere usate per gli scopi criminali. Ecco cosa risponde al riguardo Bogor. Ma il sultano non dice tutto, o almeno non lo dice in quello che è rimasto nelle cassette di Miran; ha paura e non si fida, nonostante il nuovo corso che l’Italia sta vivendo con Mani Pulite. Non fa nomi, ma si capisce che la verità è vicina, anzi vicinissima. alpi10Cosa si sapeva o cosa si è venuti a sapere su questo argomento? Perché, più di vent’anni dopo, la domanda è sempre la stessa, solo che i 1400 miliardi di Ilaria sono una stima per difetto e pare proprio che di soldi in ballo ce ne siano parecchi di più. Segreti di stato, bocche cucite, gente che sa tutto e nel frattempo è morta: niente di nuovo insomma nei segreti italiani. Chi prova ad aprire inchieste in quel periodo si trova di fronte ad un muro di gomma. Capita alla procura di Milano (pubblico ministero Gemma Gualdi nel 1994) e anche alla commissione d’inchiesta sulla cooperazione l’anno dopo, i cui lavori sono bloccati dalla caduta del governo Berlusconi per la defezione della Lega Nord dalla maggioranza che aveva vinto le elezioni. Ma se si leggono i verbali di quella commissione si trovano le parole durissime della corte dei conti che giudica gli interventi della nostra cooperazione “inutili”. Eppure, scrive la commissione, per il governo Craxi del 1984 “la Soma­lia ha rap­pre­sen­tato il prin­ci­pale desti­na­ta­rio dei finan­zia­menti della coo­pe­ra­zione ita­liana”.
Tra le indagini c’è quella della procura di Asti, che parte da Giancarlo Marocchino, sospettato di essere l’uomo forte dell’organizzazione che porta armi e rifiuti tossici in Somalia. Torneremo a parlare di Asti e della sua procura tra poco. Quello che possiamo dire fin qui è che, alla luce di questi fatti, assume ancora maggiore rilevanza la nota sul blocco di Ilaria: “1400 miliardi di lire. Dov’è finita questa impressionante mole di denaro?”. )

Giancarlo Marocchino

Chi è Giancarlo Marocchino? E quale ruolo ha avuto nell’omicidio dei due giornalisti? A detta di Carlo Taormina, Marocchino è una spia; lavora per i servizi segreti italiani. Ma è anche un imprenditore che si occupa di ogni cosa avvenga in Somalia in quel periodo. Dispone di contatti importanti e di un vero e proprio esercito. Alcune centinaia di uomini armati, ben pagati e per questo fedelissimi.
Come abbiamo visto è il primo ad arrivare sul luogo del delitto, rimuove i corpi e li porta alla Garibaldi. Agisce senza tentennamenti, come se fosse perfettamente chiaro tutto quello che c’è da fare. Non proprio il comportamento tipico di un uomo d’affari.
C’è un rapporto del colonnello della polizia investigativa somala Ali Jirow Sharmarke che accusa, seppure indirettamente, Marocchino di aver organizzato l’agguato. Ecco le sue parole rivolte al magistrato che l’interrogava: «Appena Ilaria arrivò in albergo ricevette una telefonata di Marocchino ... Disse all’autista che doveva andare subito via perché Marocchino la stava aspettando. La giornalista e il fotografo, accompagnati solo da un autista e da un guardiano, andarono a casa di Marocchino dove rimasero per circa un’ora». Parole riferite dai suoi uomini. Poi aggiunge: «Andai con otto uomini a casa del Marocchino perché volevo interrogarlo, ma lui mi impedì di farlo», perché «intorno alla sua casa vi era un centinaio di uomini armati». Questa deposizione verrà confermata anche a Giuseppe Pititto. Marocchino negherà ogni cosa, sostenendo che in Somalia in quel periodo bastavano pochi dollari per diventare delatori di qualsiasi cosa.
Prima di allora, nel 1993, il comando statunitense arresta ed espelle Marocchino dalla Somalia per traffico d’armi e altre attività illecite. La procura di Roma apre un’inchiesta, che viene però archiviata in tutta fretta. Poco dopo arriva una richiesta diretta dell’ambasciatore italiano a Mogadiscio, Mario Scialoja, che rivuole Marocchino a Mogadiscio.
Ma le inchieste non si fermano, non da sole almeno. Ci sono numerose intercettazioni e poi le parole dei collaboratori di giustizia, in primis Francesco Fonti che attribuirà a Marocchino e ai servizi segreti attività illecite nel campo della vendita illegale di armi e del traffico di rifiuti pericolosi e radioattivi. É la procura di Asti ad incriminarlo sulla base delle intercettazioni fornite da Roma, Brescia e Torre Annunziata. Ma anche in questo caso le accuse cadono e l’inchiesta viene archiviata.
C’è un altro episodio curioso che avviene pochi giorni prima di quel 20 marzo. C’è una cena a casa Marocchino per festeggiare il suo compleanno. Ci sono anche molti giornalisti, tra i quali Carmen LaSorella del TG2. Ad un certo punto Marocchino si assenta e quando torna comunica che i clan in guerra hanno deciso di rapire e uccidere dei giornalisti e invita tutti a lasciare il paese. Un aereo decollerà qualche giorno dopo per il Kenia. Per questo il contatto ANSA, che Ilaria cercava a Mogadiscio il 20 marzo, non trova.
Non voglio qui entrare nel merito di tutte le indagini che hanno riguardato questo personaggio. Quello che appare è che egli sappia molto più di quello che ha detto e che il suo ruolo nel trasporto di rifiuti tossici e soprattutto radioattivi in Somalia non sia stato per niente secondario.
Nel 1998 Luciano Tarditi, pubblico ministero di Asti, interroga Ezio Scaglione, “console onorario della Somalia” a cui il presidente ad interim Ali Mahdi affida nel 1996 la creazione di un impianto di stoccaggio dei rifiuti. Dagli atti risulta che Scaglione dica: «Si potevano smaltire rifiuti radioattivi e preciso che Giancarlo Marocchino, in una delle varie conversazioni telefoniche che io ebbi con lui personalmente, mi parlò della costruzione di un porto nella zona a nord di Mogadiscio, in località El-Ma’an, sostenendo di poter stivare nella banchina rifiuti radioattivi, annegandoli nel cemento».
Torneremo su questo punto un poco più avanti.
alpi11Non solo il porto. Anche la strada Bosaso – Garoe, finanziata dalla cooperazione italiana, è in realtà un cimitero di rifiuti tossici. Lo dicono tutti: gli abitanti della zona, i pentiti, i marinai che lavorano sulle navi, tutte le persone informate dei fatti. I giornalisti di Famiglia Cristiana guidati da Luciano Scalettari vanno tre volte in Somalia a percorre quel tratto di quasi 500 km di asfalto. E tornano con un sacco di testimonianze. Pescatori che dicono che bidoni sono stati trovati in fondo al mare da altri pescatori, poi morti di malattia. Medici (tra cui uno italiano) che confermano un aumento di tumori e di malformazioni dei neonati nella zona, del tutto anomalo rispetto al resto del paese, camionisti che ricordano di aver trasportato e scaricato dei fusti nelle cave lungo la strada in costruzione. Si fanno portare sul posto, segnano la posizione GPS, ma certo non possono scavare per controllare. Potrà farlo la magistratura o qualche organismo internazionale. Ma un conto sono i racconti e altro i fatti. Quei bidoni ci sono davvero? Basterebbe andare là e scavare.
C’è un’altra commissione d’inchiesta, questa volta sullo smaltimento illecito dei rifiuti, presieduta dall’on. Paolo Russo di Forza Italia. É un medico e vuole vederci chiaro. Chiede di acquisire tutto, nastri, filmati, documenti e posizioni GPS. Ma l’autorizzazione non arriva perché, così gli dicono, le condizioni politiche e militari in Somalia sono molto difficili. Ascoltiamo il ricordo di Paolo Russo e subito dopo il commento di Luciano Scalettari di Famiglia Cristiana. 

Giorgio Comerio

C’è un altro nome che compare nelle indagini e nelle inchieste sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, quello di Giorgio Comerio.
alpi12Lo abbiamo già incontrato, parlando delle navi dei veleni e della tragica fine del capitano Natale De Grazia. Abbiamo anche visto che oggi i servizi ritengono sia un uomo forte della fornitura di materiale radioattivo perfino del dittatore Kim della Corea del Nord. Ma a noi qui interessano i suoi legami con le vicende somale.
Dobbiamo risalire ai fatti che riguardano la Jolly Rosso, quella nave dei veleni che, per qualche strano motivo, invece di affondare come tutte le altre, finisce spiaggiata sul litorale calabrese. In quella nave si trovano dei documenti interessanti. Alcuni di questi sono appunto di Giorgio Comerio, ingegnere, esperto di navi con specializzazione nello smaltimento dei rifiuti radioattivi.
Giorgio Comerio ha avuto un sacco di accuse, inchieste giudiziarie, inchieste giornalistiche a questo riguardo. A noi non interessano, non in questo momento almeno.
Ricorderete che ho parlato dell’avventura ODM, gestita da Comerio su invito dell’OCSE, per riempire siluri di materiale radioattivo e spedirli dentro i fondali marini, lasciando tutta quella schifezza là, in fondo al mare.
Quello che ci interessa, in questo momento, è che l’ingegnere apre una sede a Lugano dell’O.D.M. e dichiara di aver trovato 12 milioni di dollari per smaltire scorie radioattive in due paesi non specificati.
É tutto abbastanza strano, eccolo di nuovo l’aggettivo. I numeri di telefono dell’azienda sono intestati ad un privato (Arcasio Camponovo) e la società non è mai stata registrata in Svizzera. É un intreccio di società più o meno reali che si occupano di questo ampio spettro di affari sporchi legati ai rifiuti tossici e radioattivi. Successivamente due altre società vengono affiliate alla ODM: una è tedesca di Brema, l’altra è la Atimex Snc di Asti.
Ecco come entra in gioco la procura di Asti, che comincia ad indagare ed effettuare intercettazioni telefoniche, comprese quelle a carico di Marocchino.
C’è una perquisizione nella casa di Comerio, dove, tra le altre cose, si rinviene il certificato di morte di Ilaria Alpi. Quello che, dopo l’invio del corpo dall’Africa in Italia era scomparso assieme a tutto il resto del materiale, i blocchi, le cassette di Miran, le rubriche telefoniche, le foto dei corpi e quant’altro.
Sono i magistrati calabresi a recuperare i documenti, come ho ricordato nella puntata sulla morte di Natale De Grazia. Ma, quando occorre tirarli fuori per depositarli presso le commissioni d’inchiesta e i tribunali, quei documenti non si trovano più, nemmeno il certificato di morte di Ilaria.
É chiaro che a questo punto, se si trattasse di un romanzo di spionaggio, ci aspetteremo una serie di colpi di scena con i buoni che sconfiggono i cattivi. Ma questo non è un romanzo. Si va avanti a dichiarazioni e controdichiarazioni. Giorgio Comerio ha un sito nel quale sono contenute tutte le sue verità. Verità che ovviamente negano ogni addebito su qualsiasi tema: le navi, i rifiuti, le armi, i documenti, Ilaria Alpi.
E a poco serve l’accusa circostanziata del pentito Francesco Fonti, che come boss della ‘ndrangheta aveva lungamente partecipato a quelle attività criminali. Le sue indicazioni sono precise. É stato proprio il traffico di rifiuti radioattivi e di armi il motivo per cui sono stati pagati i sicari somali che hanno giustiziato Ilaria e Miran.

Un colpevole?

Nessun colpevole dunque?
No, il processo riconosce un colpevole, ma anche questa è una storia strana.
Nel 1996 l’ambasciatore italiano a Mogadiscio, Giuseppe Cassini, trova un testimone: Ahmed Ali Raje. Lui sa i nomi dei sette occupanti la Land Rover blu. Ma quando il testimone arriva a Roma di nomi ne esce solo uno: Hashi Omar Hassan. Lui, Hassan, si trova a Roma, perché è un testimone di quella brutta storia delle violenze da parte delle forze armate italiane contro cittadini somali. Viene condannato in primo grado. Poi va all’estero, ma torna per l’appello. Ecco un’altra stranezza: sa che rischia l’ergastolo: perché mai dovrebbe tornare? Chi gli consiglia di farlo?
Ancora una volta i misteri si mescolano ad altri misteri. Mentre Hashi viene condannato a 26 anni di carcere, il termine “capro espiatorio” diventa sempre più insistente. Anche perché la testimonianza che lo inchioda, quella di Ali Raje, è stata raccolta a Mogadiscio da Cassini, verbalizzata dalla Digos e da Ionta a Roma nel 1997. Poi di Raje non si sa più nulla. Sparisce, non partecipa alle sedute del processo, non compare mai in aula.
Mentre Hashi sconta la sua pena e continua a professarsi innocente, nel 2002 il colpo di scena. Raje racconta infatti di essere stato pagato per raccontare il falso, accusando una persona a caso e sostenendo che l’omicidio era stato puramente casuale, un errore.
La Digos di Udine aveva svolto le indagini, fatto venire in Italia e interrogato l’autista del pikup e la guardia del corpo ed era arrivata a conclusioni completamente diverse, quelle adombrate oggi in questa trasmissione, quelle da sempre sostenute dalla famiglia Alpi. I due giornalisti sono morti per tutelare il segreto attorno al traffico di armi e rifiuti tossici. Ma l’allora procuratore capo Vecchione toglie la delega alle indagini alla Digos di Udine, per passarle al pubblico ministero Ionta. Nel 2011 viene istituito un procedimento contro Ali Raje per calunnia che potrebbe riaprire tutto il discorso. Qualche anno fa è stato sentito il generale Adriano Santini, direttore dell’AISE (i servizi segreti italiani). A sentire i presenti non ha fornito nessun elemento nuovo rispetto a quanto già in possesso della commissione Taormina. Eppure i giudici hanno preteso che l’interrogatorio avvenisse a porte chiuse. Perché?
Ancora misteri.
Nel dicembre 2014, una svolta. Laura Boldrini, presidente della Camera, avvia il procedimento per desecretare i documenti sulle vicende di quegli anni: sulle navi dei veleni, sugli interramenti dei rifiuti tossici nel nostro paese, sulle spedizioni di scorie all’estero, anche in Somalia, anche a Bosaso.
Parleremo di questi documenti in una prossima puntata.
Spero non penserete che questa azione sia nata motuproprio all’interno dei nostri parlamentari. È stata Greenpeace, con il forte sostegno del quotidiano Il Manifesto, a richiedere la de-secretazione degli atti, fornendo un elenco di quelli che proprio non possono più rimanere dentro un cassetto.
Ascoltiamo un brano musicale e poi vedremo un altro episodio di questa storia, un episodio che fa venire il voltastomaco: le conclusioni della commissione Taormina sulla morte dei due giornalisti a Mogadiscio. 

Le conclusioni della Commissione Taormina

Già: strano, misterioso, occulto, depistato sono gli aggettivi che ricorrono in questi racconti. Dei quali però sembra non avvedersene il presidente della commissione, Carlo Taormina, che firma una conclusione quanto meno sconcertante.
alpi13Non c’è niente di strano in Somalia. Anzi ci sono tanti giornalisti (immagino si riferisca a quelli dell’Espresso e di Famiglia Cristiana in primo luogo), che cercano di trarre profitto dalla diffusione di notizie sui rifiuti e le armi. Pensate un po’: si parla di notizie inventate ad arte per fare carriera, sulla pelle dei colleghi e delle popolazioni locali. Una bella visione quella di Taormina. Vengono addirittura effettuate perquisizioni nelle case di alcuni di questi giornalisti, come Maurizio Torrealta, allora al TG3. Siccome sono cose difficili da credere ascoltiamo prima Carlo Taormina sulle conclusioni della commissione e poi il giornalista perquisito. E dunque perché mai i due giornalisti sono stati uccisi a Mogadiscio secondo l’avvocato Taormina? Per caso. É toccato a loro, poteva toccare a qualcun altro. Le indagini, le armi, i rifiuti, i servizi segreti, i misteri dei documenti scomparsi non contano nulla e non c’entrano niente. I due erano là in vacanza, sono stati sfortunati. Al massimo si può pensare ad un rapimento di due giornalisti italiani, ma non loro in particolare, sarebbero andati bene due qualsiasi. Insomma un tentativo di sequestro finito male.
É facile immaginare la reazione dei colleghi, di chi aveva speso energie e denaro per indagare, di fronte a questa ignobile farsa.
Vorrei ricordare, è solo cronaca, che nello stesso tempo Taormina faceva parte della commissione Telekom Serbia, in cui esponenti della sinistra italiana (Prodi, Dini, Fassino) venivano accusati da un presunto Dossier di Ugo Marini. Nel 2003, a seguito di una indagine del quotidiano Repubblica, Taormina ammise che si era inventato tutto ed era “il puparo di questa vicenda”. Si dimise da parlamentare e finì a commentare il calcio al processo di Biscardi. Ma che bella persona! Nel 2016 aderisce al Movimento 5 stelle. Grillo, ma che cazzo di gente tiri dentro?
La commissione d’inchiesta, tuttavia, ha anche un vicepresidente. Si tratta di Raffaello De Brasi, dell’Ulivo, che assieme ai parlamentari di opposizione della commissione non votano le conclusioni di Taormina e presentano una propria contro-conclusione, che è facile trovare nei documenti della camera della 14^ legislatura. Ascoltiamolo. Le conclusioni di Taormina fanno gridare talmente tanto allo scandalo che Gianni Barbacetto, attuale giornalista de Il Fatto Quotidiano e collaboratore delle trasmissioni televisive più interessanti dal punto di vista investigativo, come Blu Notte di Carlo Lucarelli  e Anno Zero di Michele Santoro, sul settimanale Diario, esce con un articolo intitolato «Taormina connection» in cui fa un bilancio tutt’alstorie/tro che lusinghiero delle attività condotte su questo caso. Una connection che si nutre di elementi quanto meno discutibili perché, per citarne una, il presidente della commissione è stato anche l’avvocato del generale Carmine Fiore, il comandante del contingente italiano che querelò per diffamazione Luciana Alpi, la madre di Ilaria, poi assolta per aver detto che l’ufficiale era un bugiardo quando affermava che i corpi dei giornalisti erano stati recuperati dai militari. 

La mamma di Ilaria

alpi14Voglio chiudere questa vicenda con le parole della mamma di Ilaria Alpi, una donna che ha sempre lottato per sapere la verità, con suo marito finché è rimasto in vita e da sola poi. Ma Luciana non è mai sola, perché la vicenda è quella dell’Italia di quegli anni e non solo e riflette un modo di fare e di comportarsi tipico di una classe dirigente che se ne frega di ogni cosa quando c’è da mettere al sicuro un segreto imbarazzante. Questa è la storia dunque di due persone che cercavano la verità in Somalia e per questo sono state uccise. Con ogni probabilità per coprire traffici immondi gestiti nel retrobottega delle amministrazioni italiane e internazionali.
L’intreccio spaventoso di malavita, servizi segreti, politici, faccendieri, massoni è una matassa che nessuno riesce a dipanare senza provare un senso di schifo.
Ma nei romanzi polizieschi, accanto ai morti ammazzati, agli assassini e ai mandanti, spesso c’è anche un epilogo.
Il nostro esce dalle carte della procura di Asti. Sì, proprio quella che indaga, a seguito dell’affare ODM di Giorgio Comerio, sul traffico di rifiuti tossici.
Greenpeace, assieme alle altre grandi associazioni ambientaliste italiane, ha studiato l’intera vicenda fin dal 1994, nel 2010 scopre nell’archivio della città piemontese alcune fotografie. Il sito di Greenpeace Italia le pubblica nel giugno del 2010. Risalgono al 1997 e mostrano cosa c’è dentro le banchine del porto di El Ma’an vicino a Mogadiscio. Centinaia di container dal contenuto sconosciuto. (vedi articolo di Greenpeace).
Ne parlano i giornali, ad esempio l'Espresso in un articolo del 18 giugno 2010.
alpi15Le immagini sono inserite da Greenpeace in un dossier di 36 pagine che ripercorre tutta la storia dei rifiuti tossici trasportati in Africa o affondati al largo delle coste italiane. un dossier che ripercorre la storia che in queste puntate ho raccontato qui a Radio Cooperativa.
Si parla di Asti, della commissione parlamentare, della Jolly Rosso e si parla anche di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, che non ci sono più, ma solo fisicamente, solo fisicamente.

Epilogo

Dopo 10 anni anche le Nazioni Unite cominciano ad indagare e arrivano, alla fine, alle stesse conclusioni alle quali stava arrivando Ilaria Alpi. Il documento è in rete e non lascia proprio nessun dubbio. Il resoconto può essere riassunto così.
Una rete di malfattori organizza, ben protetta dalle amministrazioni statali, il traffico di armi e rifiuti, utilizzando quelle stesse navi della compagnia Shifco, che il governo italiano ha donato perché il popolo somalo possa pescare e sopravvivere.
I nomi del console onorario Enzo Scaglione, di Giancarlo Marocchino, di Nicolas Bizzio e dello stesso presidente somalo dell’epoca Ali Magdi compaiono nei documenti, nelle intercettazioni, nei resoconti degli agenti infiltrati. E a nulla sono serviti i resoconti dettagliati dei pentiti come Giancarlo Sebri o Francesco Fonti. La chiusura di ogni indagine è in quelle poche parole, glaciali e terribili: “non luogo a procedere”. 
Oggi le coste somale dove i container e i bidoni pieni di sostanze tossiche e radioattive sono stati abbandonati, sono tragicamente morte. Niente pesci, niente pesca, niente possibilità di sopravvivere. I bambini nati con malformazioni gravi sono in aumento, i tumori e le leucemie anche.
Ecco allora che i pescatori fanno l’unica cosa che possono fare: diventano pirati e assaltano le navi che passano al largo e, quando possono, le catturano. Certo, sono dei pirati, ma sicuramente meno grandi e sicuramente meno responsabili di tutte le industrie e le organizzazioni statali che hanno permesso che i veleni di mezzo mondo arrivassero a distruggere le vite di uomini, donne e bambini in una parte del mondo già povera e senza speranza.
La Somalia oggi non offre certo la possibilità di andare a verificare come stanno le cose. Lo scenario è quello fatto di attentati, bombe, una guerra civile senza fine.
Il paese non ha mai conosciuto un reale periodo di pace, dal momento che la sua storia è fatta di colpi di Stato, dittature, guerriglie, scontri tra fazioni e clan. A questa precarietà assoluta dal punto di vista amministrativo, si associa comprensibilmente anche una pessima qualità della vita, dettata da un tasso di mortalità molto alto soprattutto tra anziani e bambini, scarse condizioni igienico-sanitarie ed epidemie. A rendere la situazione ancora più drammatica, come se non lo fosse già abbastanza, ci sono tre anni di siccità che stanno esplodendo sotto forma di carestia.alpi16
I clan dominano la scena per questo le cose che Ilaria Alpi aveva ben chiare nei suoi pensieri, restano là.
A proposito dei pirati somali, al largo delle coste i grandi stati hanno messo le loro navi da guerra per catturarli. Molti sono già stati presi. Ma nei confronti delle grandi aziende e delle organizzazioni che hanno distrutto le coste, il mare e le vite delle persone non è mai strato mosso un dito. Che schifo!