pepeÉ un contadino di 89 anni, vive nella sua piccola fattoria al Cerro, nella periferia di Montevideo. Coltiva fiori, soprattutto crisantemi, che vende al mercato o alle fiorerie della zona. Non si separa mai da Lucìa, sua moglie e da Amelia, la sua cagnetta che ha perso una zampa. É stato per cinque anni presidente dell’Uruguay e, prima, guerrigliero e rinchiuso in carcere per 15 anni, 11 dei quali passati in condizioni disumane. É un uomo saggio, pieno di esperienze, ma anche di sogni, un uomo che, nonostante l’età, non teme di parlare di futuro e di utopia.
É Josè Alberto Mujica Cordano, per tutti semplicemente Pepe Mujica. Questa è la sua storia.
La sua salute, in queste ultime settimane è peggiorata, ma quando scrivo questo pezzo è vivo e vegeto e io spero rimanga tale ancora a lungo.

Il giovane Pepe

Pepe nasce nel 1935 in un Uruguay invidiato da tutti, la “Svizzera del Sudamerica” come veniva chiamato. Un piccolo paese, con pochi abitanti (oggi sono tre milioni e mezzo, il 40% dei quali vive a Montevideo). Un paradiso non solo per la bellezza della natura, ma per avere una democrazia stabile, condizioni sociali e politiche che anticipano i tempi.
Funziona tutto a meraviglia nella prima metà del ventesimo secolo, poi le cose cambiano, cambia tutto, e cambia in peggio.
Ci torneremo su questo aspetto, ma stavamo parlando del piccolo Pepe: orfano del padre Demetrio di origini basche, dagli otto anni, trova nella madre, Lucy Cordano, un formidabile punto d’appoggio. Una donna straordinaria, tenace e caparbia. Suo padre, il nonno Antonio, è un contadino, arrivato dalla Liguria, un uomo semplice che ama la terra e i suoi prodotti. E questo suo amore la trasmette alla figlia e al genero, che comprano un vigneto di due ettari, proprio su quella piccola altura alla periferia di Montevideo, al paso de la Arena, nel Cerro. La famiglia di Pepe dunque mette le proprie radici in quel quartiere e vive di coltivazioni: l’uva e il vino certo, ma poi, alla morte di Demetrio, Lucy coltiva l’orto e soprattutto fiori, in particolare crisantemi, così ricercati da quelle parti.
Pepe comincia presto ad innamorarsi di quei lavori. É il nonno Antonio ad insegnargli ogni cosa e lui passa intere giornate libere ad imparare, ad eseguire, a diventare un esperto contadino. La morte del padre lo costringe a dare una mano fin da bambino. C’è poi un altro personaggio molto influente sulla crescita di Pepe, uno zio materno, Angelito. Lui segue con passione la politica, è uno sfegatato sostenitore di Peron. Da lui Pepe impara la necessità di leggere e legge moltissimo, di ragionare sulle cose, di avere uno spirito critico. É po zio a portarlo davanti ad un negozio di televisori ed è qui che il piccolo Pepe vede la sua prima trasmissione. C’è un comizio di Peron … un caso? Forse no, è lo zio ad averlo portato là al momento giusto. Ma Peron e il peronismo non faranno per lui, come vedremo più avanti.
Le possibilità economiche non sono granché, ma Pepe cresce studiando, anche oltre le possibilità della mamma, che si impunta perché termini il liceo. In cambio Pepe l’aiuta nella coltivazione dei fiori. La mattina parte per la scuola con i suoi mazzi, li lascia nelle fiorerie della zona e, al ritorno passa a ritirare l’incasso. Nei giorni liberi va al mercato del Cerro, il quartiere di Montevideo dove vive, un quartiere povero, isolato dal resto della città, abitato dai discendenti di immigrati provenienti da ogni parte del mondo. Sono i suoi vicini e lo saranno per tutta la vita, lo sono anche oggi. É un quartiere in cui la gente si incontra, si trova, si aiuta, si conoscono tutti, per strada puoi fermarti a parlare con chiunque. Ci passa spesso, a piedi, anche il presidente della nazione, Josè Battle, che ferma il ragazzino e gli compra dei garofani rossi, a dimostrare come nel paese non ci sia distanza tra le autorità e il popolo. Il presidente fa parte del Partito Colorado, il partito rosso, di indirizzo socialista, vicino alle classi lavoratrici e propenso a far intervenire lo stato con sussidi statali nell’industria e nell’agricoltura.

Contatto con la classe operaia

C’è anche un bar, al Cerro, dove si radunano gli operai della zona. Si ritrovano a discutere dei loro problemi che sono prevalentemente sindacali, a volte politici. Anche Pepe, ogni tanto, ci passa, e ascolta. Impara un sacco di cose nuove, parole che non aveva ancora sentito, come socialismo, rivendicazioni salariali, sciopero, tutti concetti che entrano nel suo bagaglio e che riaffioreranno presto. Il suo indirizzo socialista nasce da qui. Poi però succede qualcosa che sembra modificare l’indirizzo della sua avventura politica. Come molti ragazzi di quel periodo, legge soprattutto testi maledetti, ad esempio Bakunin, e diventa anarchico. É un innamoramento di breve durata (farò prima o poi una puntata sugli anarchici, questi sconosciuti) quando è ancora un ragazzino. Poi, a 14 anni, una scelta strana, ma decisiva per la sua vita. Mamma Lucy conosce Enrique Erro, è un frequentatore della famiglia Cordano e fa il politico. Appartiene al Partido Blanco, il partito bianco, o partido National, distante dal socialismo e ancora di più dall’anarchismo. Il Partido National, come dice il nome stesso, è l’altra faccia del peronismo, quella conservatrice. L’occasione, per Pepe, è di quelle che non si possono lasciar perdere. Entra a far parte del partito di Erro, come suo segretario. E qui scopre un mondo nuovo, straordinario e inimmaginabile fino a poco prima. Lo mandano in giro per il mondo. Arriva a Mosca, dove tocca con mano l’assurda burocrazia statalista sovietica. Basta questo per capire che non sarà mai comunista. Va anche in Cina e arriva a Cuba negli anni della rivoluzione di Fidel Castro. Qui incontra il Che, Ernesto Guevara e capisce che per ottenere il potere non sempre può bastare la diplomazia. a volte serve qualcosa di più concreto, come avvenuto con la rivoluzione a Cuba. Anche Pepe, come molti di noi in quegli anni, viene catturato, affascinato, resta semplicemente rapito dal Comandante.
Siamo negli anni ’50 e le condizioni cambiano presto in Uruguay. Il governo si sposta verso destra e il clima diventa più cupo. Si apre sempre più la forbice tra i privilegi dei ricchi e le esigenze dei poveri. In queste condizioni lo scontro di classe diventa inevitabile.
Nel 1961 Che Guevara arriva a Montevideo, parla con gli studenti, li incita a non aver paura ad esprimere le proprie opinioni a lottare per i propri desideri. All’uscita qualcuno gli spara, senza ferirlo. Al suo fianco c’è un professore: viene colpito e muore. La reazione degli studenti è forte e innesca una controffensiva della polizia. Vengono arrestati studenti e attivisti, pescando nel mucchio, senza alcuna distinzione. Si formano bande naziste, che seminano il terrore nell’università e nelle scuole. I militari cominciano a prendere sempre più potere. Temere un colpo di stato in questa situazione non è un’idea così peregrina.

Crisi economica, repressione politica, rivendicazioni

Il governo uruguayano svolta verso destra, le tensioni sociali si fanno sempre più forti e l’esercito interviene con durezza.
Cos’è successo? Perché la Svizzera del Sudamerica si è trasformata in un normalissimo stato dell’America Latina? Come sempre avviene in questi casi, la base di tutto è l’economia. Prima della guerra, la seconda mondiale, le risorse enormi (rispetto alla scarsa popolazione) consentivano un’esportazione di generi alimentari che permetteva ricchezza e benessere per il paese. Nel dopoguerra le cose cambiano. La domanda cala, soprattutto dall’Europa, i posti di lavoro calano di conseguenza. C’è un forte pensionamento e una crescita molto forte di dipendenti pubblici che servono a mantenere in vita tutta l’organizzazione dello stato sociale. L’Uruguay dunque entra in una crisi economica che sembra irreversibile. E, siccome al male non c’è mai fine, ecco una serie di alluvioni, che mettono in ginocchio il paese. Così, verso il 1960, il governo è costretto a chiedere aiuto al Fondo Monetario Internazionale. Sappiamo cosa significa. Quando la banca entra in gioco c’è sempre da aspettarsi qualche brutta sorpresa. In questo caso, il risvolto negativo è un aumento delle tasse, tagli alla spesa pubblica, quindi al welfare che aveva fatto dell’Uruguay un gioiello, liberalizzazione dell’economia e conseguente aumento della disuguaglianza tra i pochi ricchi e i molti poveri. Questo non può che innescare manifestazioni sindacali, proteste di studenti e lavoratori, che diventano sempre più aspre. Il governo non sa rispondere che con la forza: arresti, repressioni, misure speciali. Non siamo ancora alla dittatura, ma non ne siamo poi così distanti. La situazione è particolarmente grave nelle aree interne della nazione, a Ovest e Nord, verso i confini con Argentina e Brasile. Lassù, come ad esempio a Paysandù, si coltiva la canna da zucchero in vasti latifondi. Sono le zone di grande produzione agricola, quelle da dove l’Uruguay ha tratto buona parte della propria ricchezza nei decenni precedenti.  I lavoratori della canna da zucchero, i cañeros, sono trattati malissimo: turni di lavoro infiniti, paga da fame, che arriva se e quando pare al padrone. É proprio questa situazione, quella di Paysandù, che viene presa a cuore dal partito socialista e in particolare da un suo membro, un avvocato, Raul Sendic, un nome di cui occorre ricordarsi, come lo ricordano molti uruguayani.
Si traferisce dalla capitale a Paysandù, come consulente legale di quei lavoratori cañeros. Nel 1962 organizza una marcia di 650 km da Artigas, nell’estremo nord del paese, fino a Montevideo per rivendicare diritti e salario per i suoi tutelati. “Por la tierra y con Sendic” gridano i cañeros. É un fatto eclatante, mai visto prima. Pepe, a 27 anni, ha la conferma a quello che aveva imparato durante i suoi viaggi. Capisce che non c’è solo la via politica, diplomatica per cambiare le cose, ce n’è un’altra e la storia di Cuba è là a dimostrarlo.

MLN-T – I tupamaros

Gli insegnamenti del Che gli tornano in mente. Per sovvertire un regime autoritario, non potendolo fare per via democratica, bisogna prima di tutto organizzare la guerriglia, da scatenare nelle aree rurali e la rivoluzione del popolo. Obiettivo: abbattere l’imperialismo, rappresentato dal colosso statunitense, dalle sue imprese, multinazionali, banche e affini.
Sendic è un mito sindacale, ma capisce che non è con le manifestazioni pacifiche che ci si può contrapporre al potere di un governo, che diventa ogni giorno più autoritario. Così raduna gli amici fidati, un piccolo gruppo e, nel gennaio 1963, costituisce il MLN-T, il Movimiento de Liberación Nacional – Tupamaros. L’Uruguay però non è Cuba, le condizioni, anche logistiche, sono completamente diverse. La maggior parte della popolazione vive nella capitale, non ci sono foreste o aree rurali dove poter iniziare una lotta contro il potere. I Tupamaros vanno organizzati diversamente, devono essere qualcosa di completamente atipico e nuovo nel panorama dei ribelli rivoluzionari. e così sarà, almeno all’inizio della loro attività.
Non vogliono violenze, tantomeno uccisioni. Si definiscono “politici con le armi”. E sono diversi da tutti i gruppi rivoluzionari dell’America Latina: niente guerriglia nelle campagne o nelle foreste. Le loro foreste sono le vie di Montevideo, i vicoli, le condutture fognarie che conoscono alla perfezione. Sono organizzati in colonne indipendenti, ciascuna autonoma così, nel caso di cattura, le altre possono continuare la lotta. Nel Movimiento de Liberación Nacional c’è di tutto: comunisti, socialisti, cristiani progressisti, anarchici, filocinesi. Anche Pepe Mujica ne fa subito parte, ma vive a casa e continua la sua attività normale, Si occupa di reperire le cosiddette “case sicure” dove nascondere i tupamaros e, eventualmente, le loro armi.
La prima disputa tra i Tupamaros è il metodo da usare. Qualcuno vuole diventare un gruppo armato, per combattere il potere, usando sistemi violenti, rapimenti, omicidi. Ma la maggior parte si rende conto che il movimento è destinato a fallire se non riesce a conquistare un forte sostegno popolare. Servono pertanto azioni eclatanti sì, ma dirette a favore del popolo, quello più povero. Insomma bisogna che la gente sia dalla parte del movimento. Sembra che questi tupamaros siano più dei propagandisti che dei guerriglieri. Sendic è per questa scelta, che viene adottata ma che, come vedremo, non potrà durare a lungo.
La prima azione serve a recuperare armi ed è qualcosa di tragicomico. Un gruppetto guidato da Raul Sendic e Eleuterio Huidobro, ruba i fucili da un armadio di un poligono di tiro. Sono del tutto inutilizzabili perché alcuni pezzi sono stati consegnati alla polizia per sicurezza, ma loro non lo sanno. Rientrano con un vecchio camioncino, che ad un certo punto esce di strada e si rovescia. Devono entrare in un luogo pubblico per chiamare un amico che venga a recuperare le armi. Lasciano per strada un sacco di indizi: la polizia ci mette due giorni ad arrestarli e recuperare la refurtiva. Sendic riesce a fuggire e qui inizia la sua latitanza.
Se i nomi sono importanti, è necessario citare, oltre a Eleuterio Huidobro, anche Mauricio Rosencof, scrittore e giornalista. Grazie a loro, ad un libro che verrà scritto molti anni più tardi e di cui parleremo, conosciamo buona parte di questa storia.
Prendiamoci una breve ausa prima di continuare.

I Robin Hood della guerriglia

Cosa fanno dunque i Tupamaros per convincere il popolo, specie quello più povero a sostenerlo? Il sostegno significa proteggere le case sicure, i rifugi, a volte gli appartenenti al Movimiento. I colpi dei guerriglieri sono tutti a “sfondo sociale”. Assaltano supermercati e camion, per poi distribuire la merce nei “cantegril”, le favelas di Montevideo. Rapinano banche o imprese private per dare i soldi agli ospedali o alle scuole delle zone povere della città. La vigilia di natale 1963 fanno arrivare in una zona poverissima diversi camion di una ditta distributrice. I guidatori, accolti da una pistola improbabile, quando sanno di cosa si tratta, aiutano i tupamaros a scaricare la merce: cibo, vestiti e regali di natale, che vengono consegnati agli abitanti del cantegril. Un giornalista del Time li definisce “Robin Hood della guerriglia”.
A volte le rapine vanno male. Succede a Pepe, che viene arrestato. Si dichiara criminale comune, salvando in questo modo il movimento. Resta in carcere 8 mesi.
Il paese vive di corruzione, ad ogni livello, politico, economico. Contro questa il Movimento organizza vere e proprie imprese: rapinano uffici o case di importanti manager o politici, dove trovano documenti compromettenti e li rendono pubblici. Famoso in questo senso l’attacco alla Monty, una finanziaria che controlla i conti in nero del Banco de Credito. Il colpo riesce grazie al fatto che alla Monty lavora Lucìa Topolansky, che diventa guerrigliera e, dopo molto tempo, la sposa di Pepe Mujica, ma è ancora presto per raccontare questa storia.
Il furto al casinò Royal di Punta del Este, famoso luogo di villeggiatura nel sud-est del paese, frutta 220 mila dollari, grazie al fatto che Zabelza, uno dei capi tupamaros, è nipote del direttore.

A Pando, i primi morti

L’8 ottobre 1969 cade il secondo anniversario della morte di Che Guevara e i Tupamaros vogliono ricordarlo con un’azione degna del suo nome. A 30 km dalla capitale, verso Nord-Est, c’è il paese di Pando, 15 mila abitanti. La mattina vi arriva un lungo corteo funebre. Automobili e furgoni accompagnano il feretro, ma non c’è nessun morto. Sono i guerriglieri che entrano in paese senza destare sospetti, passando davanti ad una postazione di militari lungo la strada. É un trucco: il paese viene praticamente invaso e per venti minuti i punti nevralgici della città sono in mano ai Tupamaros: l’ufficio postale, il municipio, la stazione radio. É un atto puramente dimostrativo, che vuol far sapere al popolo che, se vogliono, imprese di questo tipo sono in grado di portarle a termine. Non tutto, però, fila liscio. Al ritorno quel drappello di soldati è stato avvertito. C’è una sparatoria, muoiono in tre, più un civile che non c’entrava niente. É un fatto decisivo. L’Uruguay è un paese in cui la sacralità della vita viene prima di ogni altra cosa. Le azioni vanno bene, ma i morti no e il mito dei Robin Hood subisce un brutto colpo. Nonostante questo le fila del MLN clandestino si ingrossano sempre più. All’inizio degli anni ’70 si calcola siano circa 2 mila. Le colonne si moltiplicano, qualcuno crede di poter fare come gli pare. Coordinare le azioni diventa sempre più complicato e il rischio di cadere nelle mani della polizia sempre più alto.
La drammatica situazione sia economica che politica, fa crescere l’appeal del Movimiento nei confronti del pubblico, mai così alto. Secondo un’indagine Gallup del 1970, quasi metà della popolazione li considera un partito politico come gli altri, un quarto pensa siano criminali, il resto non si esprime.
L’impresa di Pando ha scosso il governo: non si può pensare che uffici postali, banche, centri di comunicazione possano di colpo cadere nelle mani dei banditi. Il Presidente della Repubblica, Pacheco Areco, vara una legge con misure immediate di sicurezza, inasprisce la reazione e arriva a proibire che si pronunci la parola “tupamaro” in pubblico. I giornalisti cominciano a chiamarli “innominati”. Diventa routine l’uso della tortura nelle carceri, si moltiplicano attentati e assassinii di politici e militanti di sinistra da parte degli “squadroni della morte” che imperversano in città. Ma c’è una reazione alla reazione di Pacheco: le fila dei tupamaros si ingrossano ancora. L’Uruguay è spaccato in due.

Cattura e ferimento di Pepe

Un giorno, in un bar del centro, entrano alcuni uomini, ben vestiti, troppo bene per quel posto. SI siedono in un angolo. É una riunione, presieduta da Pepe Mujica. Un poliziotto presente per caso nel bar, subodora qualcosa e chiama le guardie. Arrivano e, secondo le indicazioni, non aspettano chiarimenti e si mettono a sparare. Pepe viene colpito, cade a terra, non è così grave, ma il poliziotto che gli ha sparato lo raggiunge e gli scaruca addosso tutti i colpi rimasti nella sua pistola.
Sembra morto, le speranze di salvarlo sono praticamente nulle. All’interno dell’ospedale militare, dove viene portato, il Movimiento ha suoi uomini, anche tra i medici, che compiono un mezzo miracolo e gli salvano la vita. Viene trasferito alla prigione di Punta Carreras. Le ferite, una molto seria, non impediscono alle guardie di torturarlo.
Ormai il fronte è rotto. I Robin Hood non ci sono più. I prossimi colpi sono più duri, decisamente più vicini alla guerriglia vera e propria che alle azioni dimostrative fatte finora.

Nelle carceri del popolo: Dan Mitrione

Dunque i Tupamaros decidono che è arrivata l’ora di essere più concreti. Del resto la vita non è semplice per loro. La polizia ha intensificato notevolmente i rastrellamenti, gli squadroni della morte scorrazzano senza controllo e le coperture in città cominciano a diventare sempre meno sicure. C’è anche da tener conto che i guerriglieri sono un numero molto consistente e i leader, come Sendic o Mujica, hanno qualche difficoltà a tenere unita la truppa su una linea precisa. Ci sono spinte, all’interno del Movimiento, per inasprire la lotta, altre per trattare.
Alla fine si decide un’azione dura, sullo stile, per restare a casa nostra, delle Brigate Rosse. Vengono rapiti due personaggi. Uno è il console brasiliano Aloysio Gomide. É un passo deciso perché coinvolge un paese alleato dell’Uruguay, tra l’altro in piena dittatura militare. C’è anche da aggiungere che i regimi autoritari sud americani nel progetto Condor, in cui si erano unite le forze per combattere i movimenti di ispirazione comunista, un progetto che aveva visto la presenza certo non da spettatore del governo e dell’intelligence degli Stati Uniti.
Assieme al console viene rapito un cittadino americano, certo Dan Mitrione, di cui nessuno, in Uruguay sa nulla. Il suo ruolo è quello di consulente per le comunicazioni. Ma i Tupamaros, lo abbiamo già sottolineato, hanno orecchie e occhi dappertutto. A loro suona strano che quel tizio abbia il proprio ufficio presso il comando della polizia di Montevideo. Cosa c’entra la polizia con le comunicazioni? Infatti Dan Mitrione è un agente della CIA, mandato in Sudamerica per addestrare le polizie locali. La sua specialità è la tortura, di cui insegna le tecniche più aggiornate e studiate nella patria della libertà e della democrazia. Di lui si raccontano storie decisamente crude, come l’aver preso per strada vittime su cui mostrare queste tecniche, prima in Brasile e poi in Uruguay. La sua presenza a Montevideo poi ha anche a che fare con le tecniche di una controguerriglia molto particolare e, come già detto, unica nel suo genere, perché sviluppata in città e non tra boschi e foreste.
I due, ma è Mitrione il vero obiettivo, vengono chiusi in prigioni del popolo, dove cominciano gli interrogatori. Lui nega ogni cosa, poi però salta fuori una guardia che aveva partecipato alle sue lezioni in Brasile, prima che l’agente statunitense si trasferisse in Uruguay. Alla fine, Mitrione cede e confessa ogni cosa, sperando di avere così salva la vita. In fondo a casa c’è sua moglie e i suoi quattro figli. La sentenza dei Tupamaros è invece di morte, ma lasciano uno spiraglio e lo indirizzano direttamente al presidente Pacheco. La vita di Mitrione vale 160 vite dei guerriglieri imprigionati, che devono essere liberati. Viene fissati l’ultimatum al 10 agosto 1970. La diffusione della notizia delle torture e dell’intromissione degli Stati Uniti in Uruguay, scuote la popolazione che comincia a lamentarsi in modo sempre più fermo. Pacheco sta per cedere e concedere la libertà ai 160 Tupamaros, come richiesto. Poi però succede qualcosa che cambia le carte in tavola. In un blitz viene arrestato un gruppo di Tupamaros. Tra loro c’è Raul Sendic, il vero capo del Movimiento. Il governo torna ad avere il coltello dalla parte del manico. Che fare adesso di Mitrione? Si discute, non molto, perché sono tutti d’accordo nell’eseguire la sentenza. Il corpo di Dan Mitrione viene lasciato in un’auto nel centro di Montevideo.
Gli Stati Uniti, ovviamente, ne fanno un eroe della pace e della convivenza. Il regista Costa Gavras realizza un film su questo episodio, “L’Amerikano”, che racconta la vicenda con grande precisione. Una brutta storia, perché perdono tutti. Mitrione perde la vita, gli Usa e il governo uruguayano perdono la faccia, il movimento una parte dell’appoggio popolare. É così. In Uruguay il senso della vita va oltre i discorsi sul potere e sulla democrazia. Il console brasiliano viene liberato. A lui non è stato fatto assolutamente nulla.
L’influenza degli Stati Uniti in tutti i golpe sudamericani non è certo un segreto. Oltre al viscerale sostegno ai governi dichiaratamente di destra, difendono interessi economici delle loro multinazionali. Anche in Uruguay succede lo stesso, anche se in modo meno visibile di altri casi. Dan Mitrione è un risultato di questa politica.
Questo episodio rappresenta una svolta anche nella politica del MLN. Da ora diventa un vero gruppo armato. Ad agosto 1971, un anno dopo il ferimento di Pepe, nel bar La Via, dove era stato sorpreso, i tupamaros eseguono la loro vendetta. Ammazzano un poliziotto di nessun conto, quello che aveva individuato Pepe, tale Josè Leandro Villalba. Il clima è esasperato perché ad azione corrisponde reazione e la reazione del governo significa tortura, tortura e ancora tortura.

Il Frente Amplio

 A novembre ci sono le elezioni. Viene fondato, da Juan Pablo Terra un partito nuovo, il Frente Amplio, che raccoglie varie formazioni di centro sinistra, ma anche dissidenti provenienti dai partiti tradizionali, i blancos e i colorados. Enrique Erro raduna i suoi nella formazione Patria Grande e partecipa alla coalizione. Vi entrano anche i tupamaros con il benestare dei capi in carcere, come Mujica, Sendic, Huidobro e quelli ancora liberi come Rosencof. Nasce una costola legale dei tupamaros, il Movimiento 26 de Marzo. In carcere i tupamaros non se la passano poi così male. Sono organizzati, distribuiscono il cibo che arriva dai parenti tra tutti i detenuti, costituiscono una biblioteca con oltre 800 libri, Sendic e i più istruiti mettono su dei corsi per insegnare a leggere e scrivere, una specie di repubblica indipendente all’interno della prigione. La maggior parte delle guardie sta dalla loro parte. Ma l’idea fissa è sempre la stessa: come fare ad evadere.

La grande fuga

Il carcere di Punta Carretas negli anni ’70 è ridotto piuttosto male, ma è stato una specie di gioiello nei primi decenni del secolo. Ed ha alle spalle una storia davvero incredibile. Nel 1931 Miguel Roscigna e tre suoi compagni anarchici, condannati all’ergastolo, riescono a scavare un tunnel che li porta in libertà. Li aiuta un complice esterno, chiamato “el ingeniero” che di ingegnere non ha proprio nulla. I tupamaros invece di ingegneri ne hanno due, uno dentro e uno fuori dal carcere. Dunque si può tentare la stessa strada. Sendic decide che si evade solo se si riesce a portare fuori tutti i tupamaros rinchiusi e alcuni detenuti comuni, utili al progetto, perché le loro celle sono al pian terreno, mentre i “politici” sono al secondo o terzo piano. La realizzazione del tunnel è un’avventura pazzesca, per come l’organizzazione incredibile è messa in atto e per come le diverse difficoltà incontrate vengono superate. Il tunnel deve partire dalla cella 73, la più vicina al muro di cinta, quella del detenuto comune Ariòn Salazar. Per raggiungerla occorre aprire una infinità di passaggi nei muri divisori e nei pavimenti delle altre celle, rendendo il carcere più simile ad un Groviera che ad un’austera struttura invalicabile. Il 6 settembre evadono in 111, 104 sono tupamaros. Fuori li aspettano i loro compagni, guidati da Lucìa Topolansky, che distribuisce a ciascuno soldi, armi e la destinazione dove nascondersi. Un’impresa straordinaria, degna di un film, che fa sorridere molti cittadini, ricordando l’epoca dei Robin Hood: nessuna violenza, di nessun genere. Sorride molto meno il presidente Pacheco per quella che è una insolente beffa nei confronti dello stato e della polizia. Così il 9 settembre emette un decreto, con il quale mette nelle mani dell’esercito la lotta anti-sovversiva. É facile capire che questo comporta un inasprimento dei metodi usati e la tolleranza delle azioni degli “squadroni della morte”, più attivi che mai.

Gli arresti e i calabozos

Si arriva alle elezioni. Il Frente Amplio non va oltre il 18%. Vincono ancora i Colorados e il paese viene affidato a Juan Maria Bordaberry, proprietario terriero, cattolico, integralista. La lotta ai guerriglieri diventa una guerra. Ci sono morti ammazzati da una parte e dall’altra. I tupamaros cercano di riorganizzarsi, lo fa Pepe Mujica assieme a Lucìa, con cui nasce un’intensa storia d’amore. Ma ormai è troppo tardi, un marinaio riconosce per strada Raul Sendic, lo segue e indica il suo rifugio ai militari, che irrompono sparando. Sendic è ferito gravemente, ma sopravvive. Anche Pepe e Lucìa vengono arrestati. Mujica era stato nuovamente in carcere, ma era riuscito a fuggire per la seconda volta, assieme ad un certo Amodio Peréz, uno duro, militarista del movimento, che aveva ordinato l’uccisione di un povero peone, perché aveva visto un guerrigliero uscire da un rifugio segreto. Ma il “duro” Peréz, secondo la versione più comune, una volta arrestato, spiffera tutto: nomi, rifugi segreti, depositi delle armi. Tutto quanto. Il MLN-T come organizzazione guerrigliera chiude qui.
Il presidente Bordaberry invoca un cambio nella gestione del paese, affidandosi alle forze armate. Il 27 giugno 1973 scioglie il parlamento: comincia la dittatura. Una dittatura dura, con tutte le caratteristiche tipiche del regime: schedatura dei cittadini, scioglimento dei partiti di sinistra, azzeramento dei sindacati, abolizione di libertà individuali, roghi di libri ritenuti scomodi, rapimenti e uccisioni, compreso il fenomeno dei desaparecidos. Quest’ultimo non raggiunge il livello di quello perpetrato dalla giunta di Videla in Argentina. Alla fine si tratta di poco meno di 200 persone, ma l’Uruguay ha anche molti meno abitanti dello stato confinante. E poi è il metodo che conta e che fa rabbrividire. I detenuti politici sono una quantità enorme, sottoposti ad ogni sorta di vessazione e di tortura. Ma, tra questi, ce ne sono nove particolari, i capi dei Tupamaros. Vengono divisi in tre gruppi di tre. Noi seguiremo le vicende di uno di questi gruppi. La sorte degli altri è identica. Dunque il nostro terzetto è composto da Pepe Mujica, Mauricio Rosencof ed Eleuterio Huidobro. Come detto. è grazie a questi ultimi due che abbiamo notizie dettagliatissime sulle vicende dei prigionieri speciali. Scrivono un libro: “Memorie del Calabozo”, pubblicato in Italia nel 2009, una cronaca spietata dei giorni passati in carcere, un documento prezioso per capire come sono andate le cose. Da questo testo è stato ricavato un film, “Una notte di 12 anni”, diretto dal regista uruguayano Álvaro Brechner e uscito nel 2018, un film da vedere assolutamente, perché a volte il nostro racconto, necessariamente riassunto, non rende l’idea di cosa è successo davvero in quei buchi, angusti, umidi, completamente vuoti, chiamati, appunto, calabozo.
La domanda che viene subito in mente è: perché non ucciderli subito, tagliando così la testa al movimento anche per il futuro? Ma la giunta militare che, nel 1976 estromette dai giochi anche Bordaberry, ha altri piani: sono prigionieri speciali, utili per evitare ulteriori azioni o la ripresa della guerriglia.
José Mujica, Mauricio Rosencof, Eleuterio Fernández Huidobro, Adolfo Wasem, Julio Marenales, Henry Engler, Jorge Manera, Jorge Zabalza e Raúl Sendic sono “ostaggi” del regime. Ad ogni atto violento contro la dittatura, uno di questi verrà ammazzato. Rehenes è il termine spagnolo per ostaggi, ma in Uruguay, se parli di rehenes, ti riferisci solo a quei nove uomini. Il loro destino è racchiuso nella frase di uno dei loro carcerieri: “Non abbiamo potuto uccidervi allora, ma qui vi faremo impazzire” e gli strumenti per arrivare a tanto ci sono tutti. Le celle, i calabozo, sono ricavati nelle caserme. I rehenes vengono spostati continuamente da una parte all’altra del paese, ogni sei mesi circa, in modo da evitare che entrino in qualche tipo di empatia con le guardie. In alcuni casi le dimensioni sono assurde: due metri per uno e venticinque. Provate a disegnarla sul vostro pavimento: non ci stà niente, e dentro non c’è niente, solo il carcerato. C’è la tortura, soprattutto bastonate e scosse elettriche, date senza alcun motivo, ogni volta che vengono fatti uscire dalla cella. Il che succede una volta al giorno per andare in bagno. Fuori dalla cella sono sempre incatenati e incappucciati così che non possano vedere niente di niente se non i luridi muri del calabozo. Gli danno un bicchiere di acqua al giorno, un piatto di polenta, spesso mischiata a insetti di vario genere. Più che la fame si fa sentire la sete. Arrivano a servirsi della propria urina, che lasciano raffreddare perché si depositino i sali. La poca luce arriva dall’alto. Caldo asfissiante d’estate, freddo intenso d’inverno e niente per coprirsi. Ma la tortura più grande, quella che può farti impazzire, è la solitudine, il silenzio, l’impossibilità di comunicare, di vedere il cielo, le stelle … per anni, molti anni. C’è da diventare matti … e non è un modo di dire.
Oltre ai nove uomini ci sono anche undici rehenas, un gruppo di donne guerrigliere, che restano nei calobozo meno a lungo degli uomini, “solo” (si fa per dire) tre anni. Subiscono un trattamento analogo, fatto di torture, privazioni, solitudine e delle rotazioni da una caserma all’altra. Una di loro, Maria Elena Curbelo scrive: “Il rehen è un morto vivente e i suoi carcerieri si propongono in questo modo di ucciderlo lentamente. Questa è la peggior tortura mai vista …”. Ma dimostrano di essere vive: Yessie Macchi, dà alla luce una bimba, Paloma. Non rivelerà mai, nonostante le torture, quale guardia, mossa a compassione, abbia consentito l’incontro con il padre di Paloma. Secondo molti è questo evento a decidere di riportare le rehenas in un carcere normale. Purtroppo di loro non si è saputo quasi niente, fino alla liberazione. Nel 2012 viene pubblicato “Las rehenas” di Marina Ruiz e Rafael Sanseverino, doveroso, anche se tardivo, omaggio alle eroine femminili del movimiento.
Ma torniamo a Pepe, Huidobro e Rosencof.  

Comunicare e … la mente di Pepe

Un giorno c’è aria di grande festa in caserma, forse è Natale. Huidobro picchetta sul muro una serie di battiti: sei, cinque, dieci, nove, tre, nove, quattro, uno, quattro. Sono le posizioni delle lettere nell’alfabeto: “Felicidad” … auguri. Dopo un po’ la risposta, altri picchettii sulla parete. É Rosencof che risponde dall’altra parte. Nei trasferimenti in cui i due sono con le celle adiacenti, questo sistema permette loro di comunicare. Può sembrare una magra consolazione, ma nella situazione in cui si trovano è un dono immenso.
Mujica invece è più isolato, lui parla coi ragni, con gli insetti, recupera delle piccole raganelle e le alleva. Ad un certo punto è convinto che le formiche gli parlino e sente voci provenire da chissà dove. Pepe non sta bene. Le ferite riportate a suo tempo e non curate perfettamente, con l’aggiunta delle torture, si fanno sentire. Ha seri problemi ai reni, dovrebbe bere due litri d’acqua al giorno, non un bicchiere e dovrebbe urinare spesso, non una volta al giorno. Sua madre Lucy è una donna testarda oltre ogni limite. Lo cerca ogni volta che lo trasferiscono, porta il mate da bere e il dulce de leche, un dolce al caramello, entrambi prodotti tipici dell’America Latina. Sa benissimo che viene tutto requisito, ma li porta lo stesso. Vuole far avere un pitale a suo figlio, di modo che possa urinare quando ne ha bisogno. Tanto insiste che le viene concesso e si presenta ad una visita con questo vaso rosa, con sopra disegnate delle paperelle celesti. Ma i militari non lo consegnano. Un giorno c’è una festa in caserma. I soldati hanno fatto venire delle donne, forse le loro compagne, sicuramente ragazze a cui tengono molto. Mujica fa il diavolo a quattro, urla che si piscia addosso, e siccome non la smette mai, alla fine il pitale arriva in cella. In quei durissimi anni è il dono più prezioso.
I viaggi da una caserma all’altra per entrare in un nuovo calabozo, sono tutti uguali. Cappuccio sulla testa, mani legate, impossibilità di parlare, dentro il cassone di un camion. Ci sono pochi momenti memorabili. Uno avviene alla fine del 1978. Durante un trasferimento, un ufficiale, improvvisamente, ordina di togliere loro i cappucci. Si possono rivedere, invecchiati, dimagriti, Pepe è sdentato. Si sorridono, non possono parlarsi, ammiccano e guardano la campagna che scorre loro a fianco. Dopo tanti anni chiusi in un buco maleodorante, a loro sembra di attraversare le vallate del paradiso. Dovranno passare altri tre anni perché possano rivedersi senza cappuccio e questa volta anche parlarsi.

Che succede là fuori?

Intanto, là fuori, le cose sono cambiate. La dittatura è un dato di fatto, il caos politico è finito, di democrazia non si parla più, i rehenes non si sa se siano vivi o morti e molti li hanno dimenticati. I militari sono tranquilli, confidano nella anestetizzazione del popolo, e tentano una carta che pensano essere vincente. Organizzano un referendum per consolidare il regime militare attraverso una modifica della costituzione. La scelta è tra il SI e il NO, sono sicuri di vincere. Nella caserma di Melo, dove i nostri tre tupamaros si trovano, c’è un gran trambusto. Le guardie e i loro superiori stanno organizzando una festa. Alla sera la radio a tutto volume decreta la vittoria dei NO con il 57% dei voti. Mujica, Rosencof e Huidobro capiscono che si tratta di una questione importante, ma non sanno se il NO è, per la dittatura, una vittoria o una sconfitta. Quando però la festa non comincia nemmeno e cala il silenzio, capiscono. Stanno cambiando le cose. In realtà ci vogliono ancora diversi anni di carcere durissimo prima che migliorino. Lo fanno anche grazie ad un articolo pubblicato su El Pais, scritto da Mario Benedetti, poeta e scrittore molto amato in Uruguay. É lui a tirare fuori di nuovo la questione dei rehenes. Racconta tutto, anche che due di loro sono in condizioni psicologiche terribili: Josè Alberto Mujica che continua a sentire le voci e Henry Engler, oggi stimato neuroscienziato, che si crede il Messia e ha già tentato il suicidio. Le condizioni di Pepe sono così preoccupanti che si decide di portarlo all’ospedale militare per una visita psichiatrica. Per Mujica è la svolta. La dottoressa che lo visita capisce tutto, ma non può certo tirarlo fuori dal carcere. Riesce tuttavia a convincere i responsabili a lasciarlo leggere. Comincia con fisica e chimica, un ripasso degli sudi liceali, poi si ferma sulle tecniche dell’allevamento e della zootecnia. Quando uscirà, sarà un esperto nel settore. E la sua mente migliora.
Le difficoltà della dittatura sono aggravate da una crisi economia nel 1982. Gli industriali, che badano assai più agli affari che alla politica, tolgono loro il sostegno. Costretta, la giunta riammette i partiti di centrodestra, ma anche in essi prevale la posizione contraria alla dittatura. Dopo un breve e infruttuoso tentativo di trovare un accordo, i militari fanno quello che sanno fare meglio: terrore, arresti, violenze. É troppo anche per un paese profondamente addormentato e sotto anestesia come l’Uruguay di quegli anni. Il 27 novembre 1983 mezzo milione di persone (si badi bene, vuol dire un sesto di tutta la popolazione uruguayana) partecipa ad una grandiosa manifestazione, durante la quale si vedono sul palco anche alcuni politici di sinistra. La figlia di Rosencof porta in carcere la notizia, che rende i nostri rehenes particolarmente felici. Ed è allora che una guardia dice loro: “Tenete duro. So io perché ve lo dico. Forza, manca poco. Tenete duro”.
Tre partiti si accordano per arrivare a elezioni libere: Colorado, Frente Amplio e Union Civica. Il National non partecipa perché il loro leader è ancora tenuto in carcere. Il giorno fatidico arriva il 25 novembre. Vincono i Colorados con Julio Maria Sanguinetti, che diventa presidente. Il Frente Amplio non se la cava male: supera il 20% dei voti.
I tempi sono maturi per trasferire anche i rehenes in un carcere normale. Tornano a Carretas. A loro sembra di stare allo Sheraton, hanno un’ora d’aria, anche se ancora non possono comunicare. Poi, nel settembre 1984 li mettono in celle a due e consentono loro di godere degli stessi diritti degli altri detenuti. Arriva anche una delegazione della Croce Rossa. C’era stata anche negli anni dei calabozo, ma i militari avevano truccato le carte, trasformando i luridi buchi di detenzione in celle normali per un solo giorno. Questa volta le cose cambiano davvero per Pepe. Dal giorno dopo, l’ora d’aria è dedicata a coltivare ortaggi e fiori in un piccolo pezzo di terra dentro il carcere. Torna a fare il contadino … la vita è di nuovo bella. Il pitale non serve più. Da bravo fiorista ci coltiva delle calendule.

La libertà … dopo 12 anni

Ma la liberazione deve aspettare. I militari non lo vogliono fare, aspettano che sia il nuovo parlamento a prendere questa decisione. Dopo l’elezione di Sanguinetti, la Camera impiega due giorni per varare una legge di amnistia generale illimitata, quindi utile sia per i guerriglieri che per i militari. Quattro giorni dopo, il 10 marzo 1985, il primo gruppo di prigionieri politici esce dal carcere. C’è anche Pepe Mujica. Una folla, con bandiere e cartelli li aspetta. Uno di questi dice: “Tupa hermanos, aquì los esperamos”, Fratelli tupamaros, siamo qui ad aspettarvi. Il comandante Facundo esce tenendo in mano un pitale rosa, pieno di calendule arancioni. Lucy, la madre, lo accoglie tra le sue braccia.
E, qui, comincia una nuova storia.

La vita riprende

É il 1985: la vita riprende. Per Pepe riprende assieme a Lucìa Topolansky, che sposerà nel 2005. Anche la sua vita è stata un’avventura, fatta di lotta, guerriglia, clandestinità, carcere … gli stessi anni di Pepe anche se meno impossibili. Cosa fare della propria esistenza dopo un’esperienza così disastrosa? Quali reazioni nei confronti dei torturatori, degli aguzzini, dei militari che hanno devastato la loro vita e umiliato l’intero paese?
Pepe e Lucìa hanno due obiettivi primari, uno pubblico e uno privato. Il primo è quello di recuperare gli anni perduti e riaffermare le proprie idee politiche, quelle alla base del Movimiento de Liberacion Nacional prima maniera, quello di tutela dei deboli, dei disperati. L’altro obiettivo è costruirsi una vita adatta a loro: avere una casa e un pezzo di terra dove tornare a fare i contadini, perché la lezione di nonno Antonio, Pepe non l’ha mai dimenticata. Non è molto semplice per tanti motivi. Le loro vite, quella di Pepe in particolare, sono ferme al 1972. Tutto quello che è accaduto dopo e che i cittadini liberi hanno assorbito piano piano, piovono addosso tutte in un colpo. E di fatti ne sono successi tanti negli anni ’70 e nei primi anni ’80. E poi, servono soldi e così si danno da fare. Lucìa fa la cameriera, Pepe torna all’antico, lavorando con la madre alla coltivazione dei fiori. Vivono in un monolocale, risparmiando tutto quello che è possibile. L’occasione poi arriva e riescono a comprare un terreno di 26 ettari in periferia della città, al Cerro, ancora nel vecchio quartiere. Vi costruiscono una casetta e vi si trasferiscono. La terra è abbastanza anche per altre famiglie che non sanno dove andare. Anche queste costruiscono, lavorano, vivono in comunità. Il carattere di Pepe e di Lucìa è questo: dividere quello che hanno con altri, con quelli che ne hanno bisogno. Ancora oggi è così.

MPP: Movimiento de Partecipacion Popular

La politica invece è cambiata. Il vecchio Movimiento ha due volti distinti: da una parte i marxisti-leninisti che impostano ogni discorso sul ruolo della classe operaia e sulla forza rivoluzionaria dei tupamaros. L’altro, sostenuto da Raul Sendic, vuole invece entrare nell’ambito democratico, far parte del nuovo volto dell’Uruguay, diventare insomma un partito come tutti gli altri. Mujica, sostenuto da Huidobro, propone una terza via, che è una specie di compromesso tra le due posizioni. Del resto, proprio questo è sempre stato il maggior pregio di Pepe: saper conciliare posizioni differenti, unendo il buono dell’una e dell’altra. Alla fine è questa la posizione politica che viene presa. Diventano un partito come gli altri, ma alla base della loro politica rimangono le scelte dei tupamaros, quelli originari, i Robin Hood. E ci si confronta con temi cari alle sinistre uruguayane: la terra, la produzione agricola, l’allevamento del bestiame, l’ambiente, la globalizzazione, il consumismo. Si formano organi direttivi, come il Comitato Centrale, e si chiede di essere ammessi nel Frente Amplio, pur mantenendo una propria linea politica. Nasce così il Movimiento de Partecipacion Popular (MPP). Alle elezioni del 1989 nessun tupamaro si presenta, è troppo presto, si aspetta il turno del 1994. Nel frattempo, Raul Sendic, da tempo ammalato di una grave forma di neuropatia, muore nel 1989 a Parigi. Ai funerali di questo eroe popolare, a Montevideo, partecipa una folla commossa di 50 mila persone.
Alle elezioni del 1994 il risultato del MPP non è un granché: prendono solo un seggio al Senato e due alla camera. Uno di questi è occupato da Josè Alberto Mujica. Ma il Frente Amplio nel suo complesso ha un risultato eccellente: poche migliaia di voti in meno dei Colorados, che vincono la competizione e mandano José Batlle alla presidenza.

In parlamento

Il leader del Frente, Tabaré Vazquéz, diventa sindaco di Montevideo. La presenza di Pepe nel parlamento non passa inosservata. Il suo modo di porsi nei confronti dei colleghi e della stampa è qualcosa di nuovo. Lui parla come il popolo più povero, è impossibile non capire cosa vuol dire. Il politichese non sa cosa sia. La stampa ci va a nozze e scrive articoli e articoli su di lui. Lui si schermisce e dice: “Mi sembra che le cose importanti siano sempre semplici. Quelle che, al contrario, non si possono trasmettere in maniera lineare, alla fine non sono tanto importanti. La questione è rendere accessibile quello che si vuole comunicare. […] Alla fine dei conti i problemi essenziali sono di una semplicità brutale. E sono quasi sempre gli stessi”.
E non è solo una questione di forma: le sue idee circolano e attraggono le simpatie degli elettori. La sua corrente, piano piano, diventa un punto di riferimento all’interno del Frente, fino a diventare dominante. Non sono certo idee comuni nel parlamento uruguayano. Parla di democrazia diretta, della necessità che il popolo partecipi alle decisioni dello stato, preferisce i lavori in Commissione, dove può avere contatti diretti con gli elettori. Ma il parlamento è l’anima della repubblica. Scrive Pepe: “Qualcuno deve pensare al paese. E non credo che gli organi esecutivi siano i più indicati a farlo. La filosofia del paese dovrebbe risiedere nel Parlamento, produrre dibattiti seri, confrontare profondamente le idee, dovrebbe essere l’officina di pensiero del paese. Perché altrimenti che cosa è la democrazia?
Ed emerge il vecchio compito del Movimiento, quello di radunare la gente, di risolvere le dispute, di spingere tutti dalla stessa parte. É Eleuterio Huidobro a portare avanti un’operazione che può sembrare assurda, visto il passato dei rehenes. É quella di conciliare il popolo, compresi i tupamaros, con le forze dell’ordine. Diventano, i tupamaros, garanti dell’ordine pubblico, gestendo, assieme ai militari, la sicurezza in occasioni di importanti visite, quella di Fidel Castro e dei reali di Spagna, ai quali offrono la propria mediazione per arrivare ad un accordo con l’ETA la formazione di guerriglia basca, che lottava per l’indipendenza delle regioni basche.
La presidenza di Batlle non è fortunatissima. Scoppia una grave crisi economica, i poveri aumentano, la società vacilla. É ancora lui, Pepe Mujica, pur all’opposizione, a muoversi con decisione. Incontra le categorie danneggiate, i piccoli imprenditori, sfrutta la sua competenza nel campo dell’allevamento e dell’agricoltura. Riesce in un’impresa che a noi sembra assurda. Mette d’accordo imprenditori e lavoratori, che convocano una manifestazione, durante la quale viene presentato un documento comune per chiedere un cambiamento nella politica economica del governo. La sua azione si fa sentire nelle elezioni del 2004, quando la sua corrente, l’MPP, diventa maggioritaria nel Frente Amplio. Il leader di questo, Tabaré Vazquéz, diventa presidente. Pepe Mujica è nominato ministro dell’Agricoltura e dell’Allevamento.

Nel governo

Dunque, nel 2004 Pepe diventa ministro dell’Agricoltura e dell’Allevamento.
Lui sa cosa deve e vuole fare: andare incontro ai problemi del popolo e, da ministro, fa esattamente questo. Sostiene la produzione interna e si accorda con i produttori per tenere basso il prezzo di un taglio di carne, l’asado, così da consentire a tutti di poterne mangiare. Quando i prezzi saliranno, anche il prezzo delle costolette (la falda) verrà concordato.
Messa da parte, perché troppo complessa, la questione della riforma agraria, Mujica crea un fondo, che intitola al compagno di una vita, Raul Sendic. Serve a sostenere le microimprese e le cooperative di contadini e allevatori. I soldi vengono presi … dagli stipendi degli eletti del MPP. Ognuno di essi tiene per sé 1300 euro al mese, il resto entra a far parte di alcune iniziative, compreso il fondo Sendic. Inoltre si comincia a distribuire denaro in prestito a chi inizia un’attività. Lo si fa praticamente senza contratto, sulla parola. La “garanzia” consiste nel fatto che se non rimborsi, il tuo nome viene pubblicato. Trattandosi spesso di piccoli centri dove tutti si conoscono, è un deterrente formidabile. Il risultato è che la restituzione è massiccia: 90% a Montevideo, 100% fuori dalla capitale.
Un’altra questione da risolvere è quella relativa alle atrocità commesse dalla dittatura. É vero che nel 1986 era stata fatta una legge che perdonava tutte le malefatte: quelle dei guerriglieri e quelle dei militari, ma Vazquéz non dimentica alcuni orrori, come quelli dei desaparecidos e avvia indagini al riguardo. Si trovano molti corpi seppelliti qua e là. Viene indetto un referendum per abrogare quella legge dell’86, ma il popolo dice di no: vuole mettere una pietra su quei brutti anni e guardare avanti. Nonostante questo, vengono portati in tribunale alcuni responsabili della dittatura. Tra loro l’ex presidente Bordaberry e il generale Gregorio Alvarèz, l’ultimo dittatore, condannati entrambi per crimini contro l’umanità.

Il presidente più povero del mondo

Si arriva alle elezioni successive. Vazquéz non può ricandidarsi per la legge uruguayana. Nelle primarie del Frente Amplio la spunta Pepe Mujica, che si avvia ad essere il primo presidente tupamaro della storia.
Intanto Lucìa Topolansky, diventata la signora Mujica, ha fatto anche lei il suo percorso politico: deputata dal 2000 al 2005, è da allora una senatrice, ricoprendo dal 2017 al 2020 anche l’incarico di vicepresidente della Repubblica. L’investitura di Pepe è straordinaria. Quando arriva sulla scalinata del Palacio Legislativo, viene accolto da due donne. Una è Ivone Passada, presidente della Camera, l’altra è la senatrice che ha avuto più preferenze nelle elezioni: è sua moglie a dichiararlo Presidente dell’Uruguay. Il picchetto d’onore è composto dalla Guardia del Batallion Florida, lo stesso che nel 1972 aveva arrestato Lucìa e Pepe.
Crediamo che quello che si racconta sul Presidente più povero del mondo sia conosciuto. La sua figura è semplicemente leggendaria, per la sua vita privata, fatta di semplicità, di rinuncia al 90% del suo stipendio, di rinuncia alle dimore presidenziali, che vengono usate solo per accogliere le autorità straniere o i senzatetto nei giorni più freddi. Una parte dei 700 ettari del parco della residenza estiva, viene trasformata in terreni agricoli e data da coltivare ai contadini della zona. Rinuncia all’automobile di lusso. Lo vedono andare in giro, con l’autista seduto al posto del passeggero, sul suo maggiolino celeste, che diventa un simbolo del modo di vivere di Mujica. La sua storia attraversa confini ed oceani. Il giornalista Dino Cappelli su El Mundo ne traccia un quadro che lo rende famoso in tutto il mondo.
Ci penserà Emir Kusturica, nel 2018, con un meraviglioso documentario a raccontare gli anni della presidenza e i seguenti, con interviste a Pepe, al suo amico Rosencof, alla moglie Lucìa e alla gente. Già, perché la gente lo ama per il suo modo di porsi, che è lo stesso di quando andava al mercato del Cerro a vendere fiori.
Ma di lui dobbiamo ricordare le scelte politiche, alcune clamorose, altre che hanno creato dissenso.
Possiamo fissare tre aspetti. Il primo, più clamoroso, riguarda la trasposizione in politica della sua filosofia di vita: accontentarsi del necessario, evitare il superfluo, condividere con gli altri le proprie fortune, le proprie conoscenze. In un mondo basato su un estremo consumismo, le sue parole suonano come una condanna all’intera società per come si è venuta e si sta ancora sviluppando. Ci sono due momenti eclatanti nei suoi rapporti diplomatici. Due discorsi che, come si dice oggi, diventano virali. Il primo durante la Conferenza sullo Sviluppo Sostenibile al G20.  
É il 2012 e Pepe parla dello sviluppo attuale, governato interamente dal mercato, con consumi sempre maggiori di una parte degli umani, mentre l’altra soffre la fame. Veniamo al mondo per essere felici – dice Pepe – ma come possiamo esserlo se, finito un lavoro ne prendiamo un altro, per pagare una quantità di rate: la moto, l’auto, e paga una quota e un’altra e un’altra ancora, mentre la vita ti è passata davanti! E allora uno si fa questa domanda: questo è il destino della vita umana? Queste cose che dico sono molto elementari: lo sviluppo non può essere contrario alla felicità.
Un discorso da ascoltare più e più volte, da imparare a memoria, da trasmettere nelle scuole. Ripete questo suo appello un anno più tardi all’ONU: “La politica – dice - eterna madre degli eventi umani è rimasta impigliata all’economia e al mercato”. 
Ed entrano nei suoi discorsi la tutela dei poveri, dei giovani, della democrazia, dell’ambiente … del futuro. Non siamo abituati a sentire un uomo di potere dire queste cose. Ce le aspettiamo da un militante ambientalista, da un aderente alla teoria della decrescita, da chi crede fermamente nella blue economy. E poi ci sono le sue leggi, molto particolari. Ne parliamo tra pochissimo.

Leggi e diritti civili

Eccoci dunque a parlare delle leggi che vengono approvate sotto la presidenza di Pepe Mujica. Se ci sono dei dubbi sulle sue posizioni economiche, è sui diritti civili che grandi passi in avanti vengono compiuti. A partire dalla legge sull’aborto, che dovrebbe – secondo lui - essere votata solo dalle donne.
In secondo luogo i matrimoni tra omosessuali ed infine quella più controversa, la liberalizzazione della cannabis. Che tuttavia è severamente regolata dallo stato, fornita dalle farmacie in dosi previste, solo a persone iscritte nell’apposito registro, con il divieto di farne pubblicità, di fornirla ai turisti, in modo da non far diventare l’Uruguay un paese di turismo per droga. Pepe difende la sua legge, che vede come una barriera al narcotraffico. E poi, dice Mujica, se tutti i metodi usati finora sono falliti, bisogna pure provarne di nuovi. Anche sui morti da cannabis ha idee chiare, quando afferma: “Abbiamo più morti per il narcotraffico che per la dipendenza: l’anno passato 80 morti per regolamenti di conti e 3, 4 morti per overdose. Quindi che cosa è peggio, la droga o il narcotraffico?”.
Una buona legge, sicuramente, poi i tempi cambiano e oggi la droga dello stato è solo una parte, gli utenti dicono la meno buona, di quella che viene prodotta da privati e organizzazioni criminali.

Le critiche alla sua politica

Non tutto quello che ha fatto viene incensato e questo è il terzo punto. Sulla politica economica di Mujica e del MPP e del Frente Amplio in generale, vengono avanzate critiche e dubbi. Certo, i risultati non si possono disconoscere. Mettere al primo posto la riduzione della povertà e l’aumento del lavoro non è una questione attaccabile in alcuna maniera. Così, lo stesso Pepe, nelle sue dichiarazioni sia durante la presidenza che dopo, sottolinea che la percentuale di indigenza è scesa fino allo 0,5% e la popolazione che vive sotto la soglia di povertà è scesa al 9%. Risultati esaltanti, anche se lo stesso Presidente si rammarica di non essere stato capace di fare di più, in un paese che produce alimenti per un numero di persone pari a dieci volte i suoi abitanti.
Appartengo a un piccolo paese molto dotato di risorse naturali per vivere. Nel mio paese ci sono poco più di 3 milioni di abitanti. Ma ci sono anche 13 milioni di vacche, delle migliori al mondo. E circa 8 o 10 milioni di meravigliose pecore. Il mio paese è un esportatore di cibo, di latticini, di carne. È una semipianura e quasi il 90 per cento del suo territorio è sfruttabile.
Il problema dunque non è questo, ma è il modo come si è arrivati a tanto.
Ora, è sempre difficile fare un riassunto della bontà di un’azione politica, come quella del Presidente Mujica. Sicuramente lui rimane un mito per tutte le cose che abbiamo raccontato fin qui, per il suo modo di intendere la vita, per le sue battaglie contro il consumismo, contro le violenze perpetrate ai danni dell’ambiente. Ma critiche ci sono e non arrivano solo dai suoi avversari della destra, ma anche da sinistra e perfino da qualche tupamaro. Riportarle qui è doveroso, per una completezza di informazione e per dare a tutti l’opportunità di approfondire.
C’è un articolo della scrittrice Alma Balon, che si apre con una foto del presidente, sulla quale campeggia una grande scritta rossa “Traidor”, traditore. In quell’articolo si sostiene che le sue leggi, da un punto di vista imprenditoriale, sono state “il regalo che la destra uruguayana non si era mai sognata di avere”.
L’apertura all’imprenditoria non solo nazionale, ma anche estera, compresa quella delle multinazionali, ha portato a contraddizioni piuttosto evidenti tra lo stile di vita del presidente e la situazione economica generale. Per fare un esempio, il gettito della tassa che corrisponde alla nostra IRPEF, è basato per larga parte (67%) sul consumo e sul reddito e solo in parte minore sul capitale e sulla ricchezza. E non solo questa apertura ha fatto crescere il consumismo, ma anche l’inquinamento, due punti nodali dei discorsi di Pepe. Si portano ad esempio lo strapotere di aziende legate alle piantagioni estensive di eucalipto, accusate di distruggere la terra; il progetto Aratiri, una mega miniera a cielo aperto per la estrazione di ferro, fortemente inquinante; il caso della UPM-Kymmene Corporation, azienda finlandese di polpa di cellulosa, denunciata dall’Argentina a causa del forte inquinamento del fiume condiviso dai due paesi. E poi, sostiene ad esempio il giornalista Sebastian Bandera, non è che le cose siano andate bene in altri campi: l’aumento del consumismo, un deficit fiscale elevato, un tasso di omicidi elevatissimo (dieci volte quello italiano). Sorprende in particolare che a muovere le critiche al Presidente sia uno dei suoi collaboratori al tempo dei tupamaros, il rehen Jorge Zabalza: “Il ritornello è quello di fare un discorso anticonsumista, critico verso chi usa scarpe di marca e cellulari nuovi, e di lasciare libero il gioco dei capitali finanziari che stanno ricoprendo di plastica l’Uruguay. È una contraddizione, perché se penso che il consumismo sia il male di questo secolo, quello che devo fare è impedire che si finanzi questo consumismo”.

Pepe risponde

La risposta di Pepe a queste accuse è che era giusto “aiutare l’Uruguay ad avere un capitalismo serio perché ci sia più lavoro e quindi più entrate da ripartire”. E ribadisce che i risultati ottenuti sono importanti per la gente: l’incremento del PIL, la diminuzione della povertà e dell’indigenza, la riduzione delle disuguaglianze sociali, l’aumento dei salari, dei servizi pubblici, quelli sanitari in primo luogo, della logistica e delle infrastrutture.
Nel 2013, nel pieno del mandato di Pepe, una giornalista di Al Jazeera documenta con una intervista meravigliosa la sua vita di Presidente contadino e la sua filosofia personale e politica. É un’intervista tutta da seguire ed è disponibile su Youtube in lingua originale con sottotitoli italiani. Improvvisamente chiede: “Lei non ha limitato il capitalismo, o la fame di consumo, qui in Uruguay. È perché non vuole o perché non può?”.
La sua risposta è questa: “Non posso. L’economia non crescerebbe altrimenti, è un problema filosofico. Non posso risolvere questa cosa come governo. Anche io sono prigioniero. […] È vero, c’è uno spreco brutale qui. Ci sono case utilizzate 20 giorni all’anno a Punta del Este, case lussuose mentre altri non hanno nemmeno una baracca dove dormire la notte. È pazzesco, è ingiusto. E io mi oppongo a questo. Ma sono prigioniero di questo mondo e se provassi a imporre alla gente il mio modo di vivere mi ucciderebbero. […] Ma permettetemi la libertà di dire la mia. […] Il mio obiettivo è di lasciare un Uruguay un po’ meno ingiusto, di aiutare i più deboli e creare un nuovo modo di fare politica.”
Un’ultima disputa la portano avanti quelli che hanno sofferto la dittatura. Pochi dei militari che l’hanno gestita sono in un carcere che sembra una casa vacanza, con TV via cavo, internet e tutti i comfort. É questo il perdono del governo? Sembra un premio più che un castigo.
Non è mai semplice giudicare l’opera di un uomo, per eccezionale che sia, senza tenere conto del momento e del contesto in cui vive. Qui c’è l’opera di chi si è speso, anche facendo degli errori, sempre per gli altri, tenendo per sé così poco, rispetto a quello che avrebbe potuto. La sua missione, una volta terminata la fase di rappresentanza politica, è quella di spronare il mondo a rendersi conto di quanto il consumismo sia dannoso e di quanto fragile sia l’ambiente in cui viviamo. Poi si rifugia con la sua cagnetta al Cerro a guidare il trattore per rilassarsi.
L’ultimo giorno del suo mandato, nel 2015, Pepe Mujica si avvicina alla piazza dove passerà le consegne a Tabaré Vazquéz, che torna ad essere Presidente. C’è una folla ad aspettarlo. Su un palco hanno costruito un maggiolino azzurro, simbolo del suo modo di vivere e di essere, ed è proprio con quello che lui arriva. Si rivolge alla sua gente, che lo osanna, per salutarli per l’ultima volta come capo dello Stato. Comincia il suo discorso, come sempre ha fatto, con queste parole: “Amato popolo” … non penso sia solo un modo di dire.

Le fonti essenziali

Libri:
  • Angelucci Nadia e Tarquini Gianni: Il presidente impossibile. Pepe Mujica, da guerrigliero a capo di stato, Nova Delphi, 2014
  • Martinelli Leonardo: Il paese dell’utopia, viaggio nell’Uruguay di Pepe Mujica, Laterza, 2015
  • José Pepe Mujica: La felicità al potere, Castelvecchi, 2018
  • Rosencof Mauricio, Haladobro Eleuterio, Memorie del Calabozo. 13 anni sottoterra, Iacobelli, 2009
Youtube:
  • Discorso di Pepe Mujica alle N.U. sullo sviluppo sostenibile, 2012 – Youtube
  • Discorso di Pepe Mujica all’ONU, 2013,
  • Intervista a Josè Mujica "talk to Al Jazeera" cioè Parla con Al Jazeera
Film:
  • Costa Gavras, L’Amerikano (État de siège), film, 1972
  • Álvaro Brechner, Una notte di 12 anni, film, 2018
  • Emir Kusturica, Una vita suprema, documentario, 2018