Il giovane Lorenzo
Lorenzo apre gli occhi al mondo il 27 maggio 1923. Capita in una famiglia borghese, che non ha problemi finanziari, possedendo addirittura un feudo a Montespertoli, ma soprattutto in una famiglia di elevata cultura. Il bisnonno è un filologo importante, il nonno è direttore del museo archeologico fiorentino, il padre è chimico, la madre, triestina ed ebrea, ha imparato l’inglese nientemeno che da James Joyce. Lorenzo è il secondo di tre fratelli e in quell’ambiente cresce, acquisendo una cultura vasta e importante. Già da giovanotto parla sei lingue, compresi latino ed ebraico. Eppure, non è uno studente modello e deve soffrire anche qualche bocciatura. Ad ogni modo, si diploma al liceo classico.Nel 1930 la famiglia si trasferisce a Milano, dove, per l’aria che tira contro gli ebrei, i genitori si sposano in chiesa e battezzano i figli. Lorenzo decide di non iscriversi all’Università, ha altre cose in mente: vuole diventare pittore. Così si iscrive a Brera, ma, soprattutto, frequenta lo studio di un artista tedesco, Hans-Joachim Staude dal quale impara un sacco di cose al di là delle tecniche pittoriche, una filosofia che curi i particolari essenziali e punti all’essenziale. Un insegnamento che l’accompagnerà tutta la vita.
Ci sono anche alcuni “amori” nella vita del giovane Lorenzo. In particolare il legame, anche se solo filosofico, con Carla Sborgi, di cui avremo modo di parlare alla fine di questo video.
A Firenze vive solo, con il finanziamento, piuttosto magro, dei genitori. Nel 1943 viene cresimato dall’arcivescovo di Firenze, cardinale Elia Dalla Costa, nome importante per la nostra storia, come vedremo di seguito.
L’illuminazione e il seminario
É in questo periodo che arriva l’illuminazione. Non è chiaro a cosa sia dovuta. Qualcuno dice alle opere sacre trovate nello studio di Staube, qualcuno sostiene invece che abbia letto un messale e l’abbia trovato più affascinante di una commedia di Pirandello. É una scelta particolare, dal momento che tutta la sua giovane vita era avvenuta in una famiglia agnostica e dichiaratamente anticlericale. I genitori non comprendono bene un passo così radicale, ma, alla fine, accettano la sua scelta. Lorenzo ha vissuto i suoi primi anni lontano da liturgie e indottrinamenti religiosi, così passa l’estate a fare una “indigestione di Cristo”, come dice il suo padre spirituale don Raffaele Bensi, che lo seguirà tutta la vita. Legge i vangeli e tutte le scritture per presentarsi in seminario preparato come gli altri: avviene il 9 novembre 1943.Ha davanti 4 anni duri, sia per le ristrettezze dovute al periodo, sia per l’atteggiamento di Lorenzo. É assolutamente obbediente alle regole, ma ha bisogno di chiarezza, di spiegazioni sincere, che non si fermino al dogma, ma entrino in profondità nella questione. Gli sembra che l’intransigenza della chiesa sia esagerata, spesso inutile, che certe regole non abbiano molto senso e che siano oltremodo complicate, se confrontate con la semplicità del vangelo. In seminario si imparano le “Regole” del 1938, tutte imperniate sul concetto di obbedienza. Lorenzo si accorge che qualcosa non funziona, che la Chiesa non è capace di intercettare le nuove esigenze sociali del popolo, come se fosse rimasta ancorata ai principi obsoleti dei decenni precedenti. É un seminarista curioso, ma scomodo e, alla fine, non può che uscire un prete altrettanto scomodo.
La pieve di S. Donato: fare scuola ai poveri
Dopo un breve incarico come “viceparroco” a Montespertoli, viene destinato alla Pieve di S. Donato a Calvisano, a pochi km da Prato. É il cardinale Dalla Costa a volere là quel sacerdote che pianta un sacco di grane con le sue idee. C’è un vecchio parroco, don Daniele Pugi, al quale viene raccomandato di avere pazienza col giovane don Milani.Il luogo dov’è capitato è ricco di povera gente, di operai, quasi tutti comunisti, spesso analfabeti, non in grado di esprimere un’opinione qualsiasi perché manca loro la “parola”. Teniamolo da conto questo termine che tornerà ancora e ancora nella nostra storia. Quanta differenza tra la sua vita agiata e colta e quella di quella povera gente. Si avvicina ai problemi che sono il lavoro, la fame, l’enorme ignoranza, una scuola che emargina e poi c’è la situazione politica. Nel 1948 ci sono le elezioni forse più sanguinose della nostra storia. La contrapposizione tra Comunisti e democristiani viaggia su livelli mai visti. Ci sono frasi che ancora oggi vengono citate: “I comunisti mangiano i bambini” “Nel segreto della cabina dio ti vede, Stalin no”. Dopo la vittoria democristiana, don Milani scrive una lettera a un certo Pipetta, giovane comunista di Calenzano. Quella vittoria la sente come una propria sconfitta e aggiunge: “ora che il ricco t’ha vinto con il mio aiuto mi tocca dirti che hai ragione, mi tocca scendere accanto a te a combattere il ricco”.
E mano a mano che il suo sacerdozio procede, la sua visione diventa sempre più nitida. É chiaro che lo stare dalla parte dei ricchi conviene, ma non c’è dubbio che in quel modo non si segue il vangelo. Non sopporta, Lorenzo, che a nessuno sembra importare niente dei problemi, delle insoddisfazioni della povera gente e di quell’abisso culturale, un’arma letale per mantenere i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre poveri. Se l’ignoranza è alla base di tutto questo, occorre intervenire su di essa. Se i poveri non capiscono e non conoscono il significato delle parole meno comuni, come possono progredire, tentare una conquista sociale qualsiasi?
A Calvisano c’è una scuola elementare, dove Lorenzo fa catechismo. Lo fa alla sua maniera, trasformando i principi del vangelo in considerazioni sulla società del luogo. Ma questo non gli basta. Si prende quei ragazzi che non sono troppo carenti nelle nozioni di base e apre una scuola operaia che ai benpensanti di quei tempi fa venire la pelle d’oca. La sua avventura viene raccontata nel suo libro “Esperienze pastorali”, che uscirà solo nel 1958, ma che contiene le riflessioni maturate da Calenzano in poi.
Una missione non semplice: sembra una lotta continua a conquistarsi il favore dei ragazzi: le attività comuniste da un lato e quelle scolastiche della chiesa dall’altro. C’è, nel testo, una lunga disamina dei motivi di questa battaglia e si incentra sulla “ricreazione” o se preferite sull’aspetto ludico delle attività. Non riesce a capire, don Milani, come facciano, nei poveri, a prevalere sulla cultura. E se la prende con i suoi colleghi sacerdoti che usano gli stessi mezzi dei comunisti per accaparrare i giovani, elencando i bar gestiti in zona dai preti e i “veleni” che essi somministrano.
Comunista? No di certo, eppure …
Lorenzo non usa mai mezzi termini, va dritto al punto, a volte con un linguaggio mutuato dai suoi vicini, contadini, operai, che non si tirano indietro di fronte a qualche parola forte che scivola via. Ma sono i concetti che possono terrorizzare. Ecco uno stralcio: Bisogna restituire “la terra a chi ha il coraggio di coltivarla, le case coloniche a chi ha il coraggio di starci, il bestiame a chi ha il coraggio di pulirgli ogni giorno la stalla, i boschi a chi ha il coraggio di vivere in montagna”. Bisognerebbe buttare queste cose ai piedi dei contadini e chiedere loro di perdonarci, conclude.Sono concetti terribilmente forti ed impegnativi. É un periodo in cui non ci sono mezze misure: o stai di qua o di là e il dualismo cattolico – comunista si affaccia continuamente. Da che parte sta don Milani? Chi parla di ridistribuire le ricchezze? I democristiani? O i comunisti? Ma Lorenzo allontana ogni ombra da sé quando sostiene che un eventuale avvento del PCI al governo sarebbe una disgrazia per la libertà. Nonostante tutte le critiche e la sua immersione tra i poveri cristi, come li chiama in quello stesso periodo Danilo Dolci, la sua lealtà verso la chiesa è assoluta. “Non mi ribellerò mai alla Chiesa perché ho bisogno più volte la settimana del perdono dei miei peccati e non saprei da chi andarlo a cercare quando avessi lasciato la Chiesa” scriverà qualche anno più tardi a padre Reginaldo Santilli, domenicano.
Nel 1951 ci sono di nuovo le elezioni e la Chiesa è a disposizione della DC. Don Milani, come tutti i parroci, è costretto a fare campagna elettorale per il partito scudocrociato, ma suggerisce ai fedeli di scegliere, tra i candidati, quelli che sembrano essere più vicini ai poveri. Apriti cielo! Il cardinale Dalla Costa va su tutte le furie: così, dice, si favoriscono i candidati delle correnti di sinistra della DC. Così viene mandato in ferie in Germania fino alla fine delle elezioni.
La scuola di don Milani a Barbiana
La scuola di don Milani è qualcosa di mai visto. Non ci sono aule, né cattedra, non ci sono registri, non ci sono bocciature. Ai suoi alunni fa lezione usando le pagine dei giornali, i dizionari, libri di storia uno per tutti, per imparare “la parola”, capire i concetti, saper distinguere e criticare.Il 6 dicembre 1954 viene nominato priore di S. Angelo di Barbiana, un minuscolo paesino nel Mugello. Ma minuscolo davvero, tanto che ricorda la poesia del Palazzeschi, Rio Bo (tre casettine dai tetti aguzzi, un verde praticello …). Qualcuno, al suo arrivo racconta di averlo visto inginocchiarsi in chiesa e piangere. Un paesino in cui non c’è nulla, ma proprio nulla. Poche case sparse qua e là, pochi abitanti (forse un centinaio, forse meno), senza strade, luce, acqua. telefono … anche la posta arriva solo se si elargisce una mancia al postino. Un disastro. E qui, sono sicuri in Curia, don Milani può dire quello che vuole, tanto nessuno può ascoltarlo. Ma le cose non vanno così, non vanno così per niente. Barbiana diventerà presto un nome conosciuto in ogni parte d’Italia e non solo, perché … beh, qui comincia davvero la storia più interessante di don Lorenzo Milani.
La situazione del cattolicesimo e della politica comincia a mostrare qualche crepa. A Firenze, ad esempio, nel 1955 nasce la comunità dell’Isolotto di don Enzo Mazzi. Nella chiesa si tengono sia discussioni e incontri sulle scritture, che assemblee che esaminano i problemi sociali della comunità. Tanto per dirne una, la messa, all’epoca rigorosamente in latino, viene tradotta in italiano da alcuni laici che prendono posto a fianco dell’altare. Il sacerdote si pone di fronte ai fedeli, anticipando così decisioni che saranno adottate in seguito dalla liturgia ufficiale. Anche nella Democrazia Cristiana, che rappresenta una larghissima percentuale di cattolici, crescono le correnti di sinistra che porteranno al centro-sinistra e, molto più avanti, all’idea di compromesso storico.
Barbiana, dunque, regno di una abissale arretratezza culturale e sociale, è l’habitat ideale per mettere in pratica le idee e la filosofia di don Milani. E nasce la “scuola di Barbiana”, di cui lui è semplicemente “il maestro”. Già, la scuola, il grimaldello contro l’oppressione del ricco sul povero, dell’istruito sull’analfabeta. Lo aveva capito anche Danilo Dolci a Partinico e Trappeto, per i suoi poveri cristi. Ma quale scuola? Quella con le aule ricavate da vecchi edifici militari o religiosi? Quella che ancora obbedisce alla vecchia riforma Gentile, la più fascista delle riforme, secondo Mussolini?
Basare l’apprendimento sulle nozioni? No! Don Milani punta per i suoi allievi sulla crescita sociale, sulla presa di coscienza dei propri doveri e dei propri diritti di cittadino. É una sfida che lancia alla società dell’epoca che deve aver guardato con molto stupore a quel che succedeva a Barbiana. 30, a volte 40, ragazzi in una grande stanza che studiano tutto il giorno. I più grandi aiutano i più piccoli, soprattutto quelli che hanno difficoltà. Soprattutto quelli che arrivano da altri paesi vicini, perché 40 ragazzi a Bibiana non ci sono. Sono studenti bocciati, ritenuti asini o peggio cretini dalla scuola pubblica. Vengono qui per recuperare non solo un’istruzione, ma il senso della solidarietà e della vita. Nessuno viene lasciato indietro. Se succede, si raddoppiano gli sforzi per recuperarlo. Non ci sono ragazze nella scuola di don Milani. Solo i maschi devono pensare a studiare per prepararsi al lavoro. Le femmine no, a meno di qualche caso di necessità. Possiamo storcere il naso per questa scelta, ma vale la pena ricordare che le donne votano in Italia solo dal 1946. E, anche oggi, non è che la tanto decantata parità, sia conquistata. Eccola, dunque, la scuola di Barbiana, che vuole colmare, per usare le parole di Lorenzo, “l’abisso di differenza” tra poveri e ricchi, una scuola classista, decisamente politica nel senso più ampio del termine, che non ha a che fare né coi partiti, né coi preti. Non ci sono crocifissi appesi dove si insegna: la scuola dev’essere aconfessionale. Ma per il prete fiorentino è un passaggio cruciale verso l’evangelizzazione, che interpretiamo qui come lo sforzo di modificare la società per renderla adeguata alle esigenze evangeliche. Nonostante le critiche ripetute e severe della Curia, mai don Milani è uscito dall’ortodossia, anche se spesso ne ha esplorato i confini.
Lorenzo non molla un centimetro. Arriva perfino allo sciopero della fame per indurre i genitori ritrosi a mandare i loro figli da lui. Quella di Barbiana è una scuola all’avanguardia; si studiano le lingue straniere: l’inglese, il francese, il tedesco e persino l’arabo. Si organizzano viaggi di studio e lavoro all’estero. Egli spesso tiene lezioni di recitazione per far superare le timidezze dei più introversi e costruisce una piccola piscina per aiutare i montanari ad affrontare la paura dell’acqua.
Nella scuola di Don Milani si studia dodici ore al giorno, 365 giorni all’anno.
L’insegnamento religioso non ha nulla di ortodosso; si legge il Vangelo, ma senza mai il tentativo di indottrinare i ragazzi. Qual è il senso di questa incredibile realtà lo troviamo scritto in “Lettera ad una professoressa” di cui avremo modo di parlare più avanti.
Serve di più …
Tuttavia la scuola di Barbiana non è sufficiente per tentare di dare una spinta ad una società che proprio non gli piace e così, comincia a pubblicare testi, lettere, considerazioni. Lo fa sulle riviste che accolgono i suoi scritti, come “Vita cristiana” o “Adesso”, un quindicinale fondato nel 1949 da don Primo Mazzolari in Romagna, per rappresentare l’insofferenza cristiana verso una società ritenuta ingiusta nei confronti dei più deboli e fa proprie rivendicazioni che, alla religione bacchettona del tempo, fanno venire l’orticaria. La lettera del 1949, firmata “Un prete fiorentino” se la prende con l’industriale che non dà un posto di lavoro a Franco solo perché è comunista. Anche lui gli aveva detto che essere comunista non va bene, ma Franco deve pur mangiare e aggiunge “Franco mi vergogno del pane che mangio. É un mondo ingiusto, lo so. Quando tu sarai più grande e io più buono lo cambieremo insieme. Per ora perdonami, non ho da darti altro che una parola vecchia.”“Lettera ad un predicatore”, su “Vita Cristiana” nel 1952, si oppone alla rigida applicazione del decreto papale di scomunica dei comunisti, voluto da Pio XII nel 1949.
“Esperienze pastorali”
Ma anche questo non basta. Arriviamo al 1956: le “Esperienze pastorali”, cominciate a Calvisano sono pronte per essere pubblicate. Di mezzo tuttavia c’è il cardinale Dalla Costa, che deve dare il nulla osta ecclesiastico, e don Milani teme, a ragione, che non sarà così semplice convincerlo. Così usa uno stratagemma. Consegna il libro a don Bensi, perché lo dia al sindaco di Firenze, Giorgio La Pira. Lui dovrebbe aggiungere una lettera di accompagnamento e mandarlo al vescovo di Camerino Giuseppe D’Avack. Costui, ricevuta la copia, ne scrive una lunga prefazione e aggiunge una lettera per l’arcivescovo di Firenze, in cui raccomanda la pubblicazione. Elia Dalla Costa, vecchio e malato, si fida del revisore, padre Santilli, che annota semplicemente sulla copertina “Per me va bene”. Così Esperienze pastorali vede la luce. É come una bomba che esplode tra la folla.Una prima parte è sulle “ricreazioni” e sui pericoli ad esse connesse, ma la seconda parte è davvero un pugno nello stomaco. É un’indagine sociologica, sviluppata ascoltando contadini, disoccupati, tessitori, operai, casalinghe, muratori. La conclusione è triste, perché si trova a dover ammettere che “... una religione così non vale quanto la piega dei pantaloni”.
Critica e autocritica, difetti ed errori, ma anche soluzioni, molte delle quali anticipano lo spirito del Concilio Vaticano secondo, che comincerà qualche anno più tardi. Molte riviste elogiano l’opera di don Milani, ma si tratta di riviste di parte, poco diffuse, come il già citato “Adesso” di don Mazzolari. Le critiche arrivano da voci più importanti. Per fare un esempio il critico letterario Carlo Bo intitola il suo commento “Morte della parrocchia”. Spesso si parla del libro con sfottò e prese in giro. Ma chi non prende per niente alla leggera la pubblicazione è la congrega dei Gesuiti. Padre Alessandro Perego su La Civiltà Cattolica lo stronca senza mezzi termini, mentre una nota dell’Osservatore Romano ne spiega i motivi. Ed è curioso notare che questi motivi sono più politici che religiosi, riguardano l’opportunità, più che la sostanza. Si legge infatti che il ritiro è giustificato dalle "severe critiche della migliore stampa cattolica" e dai consensi "accordati da certa stampa comunista". Dichiara inoltre l’estraneità dell’autorità diocesana alla pubblicazione. Una cosa davvero sorprendente con di mezzo l’approvazione di due vescovi e di un revisore ecclesiastico.
C’è un’altra espressione strana nella comunicazione. Esiste “la necessità che i figli della chiesa e soprattutto i sacerdoti non si lascino sedurre da ardite e pericolose novità”, che non è un bell’attestato di fiducia nei preti.
Dunque “Esperienze pastorali” viene ritirato e se ne proibisce ogni nuova edizione e traduzione. Ma il Sant’Uffizio ha fatto i conti senza l’oste. É noto che non è mai utile fare di un nemico un martire e lo stesso avviene per lo scritto di don Milani. Il giorno dopo la sentenza, un articolo su L’Unità, organo ufficiale del Partito Comunista Italiano, provoca un terremoto. Lo scrive un caro e vecchio amico di don Milani, Luca Pavolini. Anche questo articolo, come tutti i testi citati in questo video andrebbero letti da cima a fondo. Pavolini accusa la curia di aver montato un caso enorme per un libro, mentre non ha fatto nulla contro i frati e le congregazioni che hanno perduto un mare di denaro nella truffa Giuffrè, esplosa l’anno precedente, nella quale i frati minori (e molti altri religiosi) avevano fatto debiti con banche e privati, debiti mai restituiti.
Don Milani accetta la sentenza, lo fa a malincuore, accusando il Sant’Uffizio di averlo “umiliato”, termine nel quale c’è tutta la delusione di Lorenzo per non essere riuscito a far capire alla chiesa quanto sbagliati siano i suoi metodi.
Cambia il cardinale, non il risultato
Siamo alla fine degli anni ’50 e la salute di Lorenzo ha dei seri problemi. Dopo un attacco di tubercolosi, nel 1960 gli viene diagnosticato un linfoma di Hodgkin, malattia incurabile, una condanna a morte. Ma la malattia non lo ferma affatto. Mentre continua la sua opera nella scuola, attacca il cardinale di Firenze, Ermenegildo Florit, subentrato dal 1961 a Dalla Costa, per aver esonerato dal seminario don Bruno Borghi, altra figura eclatante nella storia della chiesa di quel periodo: prete-operaio, sindacalista, amico della Comunità dell’Isolotto, contadino, cooperante in Nicaragua e militante a fianco dei disabili, dei poveri, dei detenuti. Lo fa, come sempre, con azioni dirompenti. Scrive a tutti i parroci della zona, invitandoli a segnalare il fatto al cardinale e a chiedere un confronto pubblico. A quanto pare nessuno dei sacerdoti interpellati segue il suo esempio e Florit, seccato, gli manda una lettera, invitando i due accusati (Milani e Borghi) a cambiare diocesi se non si trovano bene. É curiosa questa presa di posizione piuttosto blanda. Qualcuno sostiene che sia per il fatto che il papa, sia Giovanni 23 che Paolo VI, guardi con occhio benevolo a don Milani e anzi, quest’ultimo non manca di mandare denaro alla parrocchia di Barbiana.“Lettera ai cappellani militari”
Nel 1965 c’è, a Firenze, un raduno di cappellani militari in congedo. A detta di don Milani sono solo una minoranza di quelli presenti in regione, 20 su 120. Alla fine del convegno scrivono un commento finale, che si chiude così: I cappellani “…Considerano un insulto alla Patria e ai suoi caduti la cosiddetta ‘obiezione di coscienza’ che, estranea al comandamento cristiano dell'amore, è espressione di viltà».Il 12 febbraio 1965 il giornale di Firenze “La Nazione” pubblica questo scritto.
Abbiamo già visto come le pagine dei giornali siano materiale didattico nella scuola di don Milani e quell’articolo non fa eccezione. La risposta del priore non si fa attendere. Oggi noi possiamo leggerla in un libro bellissimo, “L’obbedienza non è più una virtù”, che contiene anche altre pagine di cui parleremo tra poco. Don Milani attacca direttamente gli estensori di quelle frasi. Come potete, dice, insultare persone che invece noi ammiriamo e usare parole, come “viltà” che sono più grandi di voi? L’obiezione di coscienza non esisteva in quel periodo. Chi si dichiarava obiettore veniva processato e incarcerato. Negli anni ’60 cominciano le prime proposte di legge socialiste, affiancate dalla mobilitazione e dalle azioni del partito radicale di Marco Pannella. All’epoca di don Milani ci sono decine di giovani in carcere per questo motivo. Dunque l’obiezione di coscienza è un reato.
La “Lettera ai cappellani militari” di don Milani, facilmente reperibile in rete, si snoda attraverso una serie di considerazioni che tornano sempre al punto di partenza, la differenza tra ricchi e poveri. Il concetto di Patria, agitato come bandiera, è incomprensibile. “Se voi avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall'altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri. E se voi avete il diritto, senza essere richiamati dalla Curia, di insegnare che italiani e stranieri possono lecitamente anzi eroicamente squartarsi a vicenda, allora io reclamo il diritto di dire che anche i poveri possono e debbono combattere i ricchi. E almeno nella scelta dei mezzi sono migliore di voi: le armi che voi approvate sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, far orfani e vedove. Le uniche armi che approvo io sono nobili e incruente: lo sciopero e il voto”.
E richiama poi la Costituzione, gli articoli 11 e 52, che parlano sempre di difendere il proprio paese, mai di offendere o invadere quello degli altri. E riporta tutte le guerre in cui l’Italia ha partecipato nell’ultimo secolo, mostrando che tutte, nessuna esclusa (se non quella dei partigiani) sono state “offese” e mai “difese”. Dunque, conclude Lorenzo: “ […] chi difese più la Patria e l'onore della Patria: quelli che obiettarono o quelli che obbedendo resero odiosa la nostra Patria a tutto il mondo civile?” . Sul ruolo dei cappellani militari chiede cosa mai abbiano insegnato ai soldati. “Ad obbedire ciecamente senza badare a che tipo di azione erano destinati? E se l’ordine era quello di bombardare civili, fare rappresaglie su un villaggio inerme, partecipare ad esecuzioni sommarie di partigiani, usare armi atomiche o batteriologiche, utilizzare la tortura, o provvedere alla repressione cruenta di manifestazioni popolari?”
Questa lettera viene diffusa con tremila volantini, ma viene ripresa anche dal settimanale comunista Rinascita, il cui vice direttore è, ancora una volta, Luca Pavolini. Diventa così di dominio pubblico e il cardinale Florit ammonisce don Milani di smetterla con questo classismo, perché i suoi scritti sono poi manipolati dalla stampa comunista. Paolo VI ci va più leggero e raccomanda a don Bensi, di non mandare quegli scritti proprio a Rinascita. La risposta è che arrivano là perché la stampa cattolica si rifiuta di pubblicarle.
Un gruppo di ex combattenti sporge denuncia. Lorenzo Milani e Luca Pavolini sono accusati di un grave reato: apologia di diserzione e mandati sotto processo. Don Milani accetta tutte le decisioni senza mai intervenire. Rifiuta la scelta di un avvocato, ma le cose non vanno male perché quello che gli viene assegnato d’ufficio è un grande penalista, Adolfo Gatto, amico di Pannunzio, uno dei fondatori del movimento radicale. Lorenzo sta male e non può partecipare al processo, che si tiene a Roma, sede di Rinascita. Nonostante la proibizione di pubblicare i suoi scritti, senza la supervisione diretta del cardinale Florit, scrive una “Lettera ai giudici”, come memoria di difesa, da presentare alla prima udienza. Una copia arriva anche all’arcivescovo di Firenze, che la legge, non obietta nulla e spedisce anzi 100 mila lire a Barbiana. Oggi quella lettera è la seconda parte del già citato libro “L’obbedienza non è più una virtù”. Ripresenta tutte le considerazioni già esposte nella lettera ai cappellani. Ci vogliono tre ore di camera di consiglio e poi il tribunale non riscontra alcun reato in quella pubblicazione e manda assolti sia Lorenzo che Luca Pavolini. Ma la storia non finisce qui, perché il pubblico ministero si appella e nel secondo processo i due vengono condannati: Pavolini a 5 mesi di carcere e successivamente amnistiato. Lorenzo, ritenuto colpevole, non c’è più, è morto nel frattempo.
“Lettera ad una professoressa …”
Lorenzo Milani si aggrava, è ricoverato in ospedale un mese prima della sentenza di primo grado del processo. Orami non ci sono speranze, si attende solo la fine. Ma c’è ancora tempo per un’altra polemica, un altro scritto che porta scompiglio non solo nella chiesa, ma nella società tutta e il nuovo terremoto ha come terreno di scontro l’insegnamento e la scuola. É probabilmente il lavoro più importante e impattante perché si rivolge a tutta la società, le famiglie, l’organizzazione dello stato e della chiesa. Il casus belli, se così possiamo chiamarlo, è la bocciatura di alcuni suoi studenti, presentatisi alla scuola pubblica, come privatisti, agli esami di licenza magistrale. Probabilmente il fatto in sè è solo una scusa per riprendere tutte le osservazioni fatte in tema di insegnamento, istruzione, scolarità, obbligo scolastico, in virtù della nuova riforma (quella della media unica) entrata in vigore appena tre anni prima, nel 1962. Nasce così uno dei testi più importanti, seguiti e denigrati di don Milani. ma non è da solo a scriverlo. Lo fa assieme a 8 suoi ragazzi: per questo, il modo di esprimersi è di una chiarezza assoluta. Anzi, la prima stesura viene fatta leggere ad un contadino che segna le parole che non capisce, così da poterle cambiare. I ragazzi bocciati sono rappresentati da Gianni, figlio di contadini, nemmeno un libro in casa, dove si parla solo dialetto, dove l’unica cosa che conta è arrivare al giorno dopo avendo mangiato qualcosa. Le accuse che i ragazzi rivolgono al sistema, per il tramite della professoressa, sono queste: la scuola pubblica è di classe; i piani di lavoro sono poco produttivi e vecchi; quello che si insegna a scuola ha poco a che fare con la maturazione di cittadini consapevoli e critici; la scuola è lontana dalla vita reale; l’uso del voto non rappresenta adeguatamente gli studenti. É come dire che la riforma del 1962 ha sbagliato tutto, ma proprio tutto.E, come spesso accade, don Milani parte dalla Costituzione, che, all’articolo 34, recita:
“La scuola è aperta a tutti. I capaci ed i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. E qui c’è una incongruenza con quanto afferma l’articolo 3, secondo cui “tutti i cittadini sono uguali senza distinzione di lingua”. Che significa “lingua”? Vale solo per le minoranze slovene, austriache o francesi sul nostro territorio? O bisogna anche tenere conto del linguaggio, della “parola” così differente in casa di Pierino, figlio di un medico e, appunto di Gianni? Gianni a casa parla dialetto, avrà enormi difficoltà in più e nessuno se ne occupa, trattandolo esattamente come tutti gli altri, Pierini compresi. É come, dicono i ragazzi di Barbiana, un ospedale che “…cura i sani e respinge i malati”. Insomma, la professoressa “protestava che non aveva mai cercato e mai avuto notizie sulle famiglie dei ragazzi: - Se un compito è da quattro io gli do quattro -. E non capiva, poveretta, che era proprio di questo che era accusata. Perché non c’è nulla che sia ingiusto quanto far le parti eguali fra disuguali”.
Anche sul presunto obbligo c’è molto da dire. La riforma del 1962, che aumenta l’obbligo alla scuola media, non riesce affatto a debellare la dispersione scolastica, che sarà massiccia negli anni seguenti, ma si protrarrà di molto, anche in seguito. Ed è evidente a tutti chi procede e chi si ferma. Se davvero la scuola è per tutti, lo è solo nelle dichiarazioni, nelle norme, non nei fatti. Lettera ad una professoressa lo esprime chiaramente, quando dice: “…In seconda elementare Pierino era con tutti. In quinta è già in un gruppo più limitato. Su 100 persone che incontra per strada 40 gli son già ‘inferiori’. Dopo la licenza media gli ‘inferiori’ salgono a 90 su 100. Di loro e dei loro problemi non si sa più nulla.”
Alcune critiche sono attualissime, ad esempio quelle dell’insegnamento delle lingue straniere. Si insegna la grammatica. A Barbiana i ragazzi sono in grado di sostenere discorsi, visto anche che viaggiano all’estero nel periodo estivo, se e quando le finanze della scuola lo consentono. E, però, si promuove se sai la grammatica, non se parli la lingua. E la storia? Imparare tutta la storia antica e non sapere nulla della storia contemporanea ha senso?
Quello che alla scuola pubblica manca è quello che si ritrova a Barbiana. Un insegnamento partecipativo, incentrato sul fare, sui problemi concreti, sull’attualità, sull’essere padroni della propria realtà. 12 ore al giorno per 365 giorni: niente ricreazioni, ma lavoro nei campi. Fatica commisurata alla drammatica condizione culturale e sociale dei ragazzi.
Ecco perché quell’articolo 32 stona un pochino. Don Milani dice “I capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. Tentiamo invece di educare i ragazzi a più ambizione. Diventare sovrani! Altro che medico o ingegnere.”
Cosa propongono allora i ragazzi di Barbiana? Tre cose: “Non bocciare nella scuola dell’obbligo, a quelli che sembrano cretini offrire la scuola a tempo pieno, agli svogliati basta dargli uno scopo.”
“Lettera ad una professoressa” è un testo fondamentale per capire le intenzioni e i sistemi di Lorenzo Milani. Diventa subito un caso nazionale, letta e censita dai più illustri studiosi del tempo. Anche dagli intellettuali, la maggior parte dei quali storce il naso di fronte a tanta sfrontatezza: mettere sul banco degli imputati lo stato, la sua organizzazione e perfino la Costituzione. Pier Paolo Pasolini invece difende con grande ammirazione l’opera di Lorenzo. Qualche anno più tardi, gli studenti del ’68, prenderanno questo testo come un emblema, ritenendolo, addirittura, maoista. Le critiche, non poche, si incentrano sul fatto che istiga gli studenti a non studiare e avvilisce il ruolo degli insegnanti, cosa che invece accadrà molto più avanti, seguendo sistemi ben lontani dalle idee di Lorenzo … ed oggi è opera compiuta. Tra le dichiarazioni, spesso al limite dell’imbecillità, come quella di pedofilia, ci piace ricordare il commento di Tullio De Mauro, che sottolinea, in un articolo su Repubblica del 1992, come nel 1951 due terzi degli italiani non aveva la licenza elementare e nessuno, tranne don Milani, se ne era occupato. E va tenuto conto che è inutile cercare di trasferire la “Lettera” all’università; è scritta per la scuola dell’obbligo, soprattutto per le elementari. E conclude, De Mauro: “La lotta alla selezione di classe nella scuola […] andava combattuta […] dove venivano e vengono falciati ragazzi e ragazze degli strati più poveri, anche culturalmente, del paese: nelle elementari, in prima media, al primo anno delle medie superiori.” É stato fatto? Non mi risulta, io ho insegnato 40 anni e non ho visto niente di straordinariamente nuovo.
Cosa resta dopo la sua morte
É ingiusto e inesatto pensare che gli ammonimenti e le provocazioni di Lorenzo siano cadute nel vuoto, anche se la scuola di Barbiana si scioglie un anno dopo la morte del priore. La letteratura è piena di testimonianze di maestre e maestri che proprio da questa lettura hanno capito la propria missione e il modo di condurla e portarla a termine. É grazie a questi anonimi insegnanti se, qua e là, la scuola italiana dell’obbligo ha potuto far nascere esperienze eccellenti.La conclusione la lascio, ancora una volta, a don Milani: “Dovevo ben insegnare come il cittadino reagisce all’ingiustizia. Come ha libertà di parola e di stampa. Come il cristiano reagisce anche al sacerdote e perfino al vescovo che erra. Come ognuno deve sentirsi responsabile di tutto. Su una parete della nostra scuola c’è scritto grande “I care”. E il motto intraducibile dei giovani americani migliori. ‘Me ne importa, mi sta a cuore’. E il contrario esatto del motto fascista ‘Me ne frego’.”
Durante gli ultimi giorni della sua vita, all’ospedale di Carreggi, arriva il cardinale Florit, nel tentativo di recuperare un rapporto, logorato nel tempo dalle incomprensioni del cardinale e dalle sue accuse contro il prete fiorentino. Ma è inutile, come scrive lo stesso Florit nel suo diario; si tratta di un dissidio insanabile.
Al suo fianco, Lorenzo chiama Carla Sborgi, che aveva conosciuto in gioventù, per scusarsi se le aveva lasciato intendere la possibilità di una relazione concreta e non solo filosofica tra loro.
Don Milani muore il 26 giugno 1967.
Cinquant’anni dopo si presenta a Bibiana, dove è sepolto Lorenzo, papa Francesco. Prega sulla sua tomba e parla delle amarezze che don Milani ha dovuto sopportare in vita. Ai cronisti dice: “[…] non si tratta di cancellare la storia o di negarla […] la Chiesa riconosce in quella via un modo esemplare di servire il Vangelo, i poveri e la Chiesa stessa".