dolciDanilo Dolci è stato un uomo straordinario. I siciliani, specie quelli della provincia di Palermo, lo conoscono bene. Ci sono vie e scuole intitolate a lui. Per la maggior parte degli altri è un nome che non dice molto, eppure la sua opera ha provocato in quelle terre una vera e propria rivoluzione. Parlarne oggi, a cento anni dalla sua nascita, è quindi quantomeno doveroso. Danilo nasce il 28 giugno 1924 in mezzo alle doline del Carso, in Friuli, da dove si sposta, per il lavoro del padre, in Lombardia. Antifascista, viene arrestato dai repubblichini, ma riesce a fuggire e a rifugiarsi presso dei pastori in un piccolo borgo dell’appennino abruzzese. É il suo approccio con un altro mondo, un altro modo di essere, una società che la povertà sa benissimo cosa sia. Ma, la sera, con quella gente, in osteria, si trova a parlare di poesia. Dopo la guerra, studia architettura, prima a Roma, poi a Milano. Per racimolare un po’ di soldi insegna in un corso serale e ha tra i suoi allievi Franco Alasia, che sarà sempre al suo fianco in mille battaglie. Partecipa a concorsi di poesia, finendo per gareggiare con nomi come Pasolini, Turoldo, Zanzotto e non è l’ultimo tra i poeti conosciuti.
Non arriva alla laurea. Preferisce l’esperienza di Nomadelfia, la comunità di don Zeno Saltini, dove i valori sono l’essere tutti eguali, avere tutti gli stessi diritti, l’obbligo della comunità di assistere i bisognosi, valori che resteranno ben impressi nell’animo di Danilo. Ma non è quello che vuole, così, nel 1952, poco prima che i celerini di Scelba chiudano Nomadelfia, parte per la Sicilia e si ferma nella zona tra Palermo e Trapani, a Partinico e Trappeto, zone povere, anzi poverissime in quel periodo. Trappeto è un piccolo paese sulla costa, Partinico è una cittadina di circa 30 mila abitanti. Qui comincia l’avventura di Danilo Dolci, un’avventura così densa di avvenimenti cruciali, come accade a chi ha le intenzioni, le idee e la voglia di cambiare davvero le cose. La Resistenza deve proseguire, dice Danilo, ma questa volta senza sparare. C’è una voragine da riempire, una voragine lasciata dal regime fascista e dalla guerra.
Danilo ha trent’anni e si rende subito conto della drammaticità della situazione. Non perde tempo in chiacchiere, non c’è tempo. La vita di contadini, pastori e pescatori è grama, piena di problemi, senza soluzioni in vista, senza la possibilità di sperare nell’arrivo dell’amministrazione né locale né centrale. Un posto, insomma, dove si muore di fame. Solitamente questa espressione è solo un modo di dire, esagerato, per rinforzare il concetto. A Trappeto invece accade davvero. Si muore anche di stenti, di malnutrizione, di mancanza di lavoro. Benedetto Barretta, un bambino, muore semplicemente perché non ha da mangiare. Quell’anno sono 14 i bambini che fanno la stessa fine a Trappeto. Dolci inizia immediatamente uno sciopero della fame, uno dei tanti della sua vita. Alla fine le autorità intervengono, promettono la costruzione di un impianto fognario. Per la gente, Danilo diventa il “Gandhi italiano”, appellativo che lo accomuna ad un altro importante esponente del movimento non-violento, Aldo Capitini, con il quale stabilisce un dialogo fitto, intenso, durato fino alla scomparsa del filosofo perugino nel 1968.
Tra il dire e il fare … ecco questo adagio mal si adatta a Danilo. É il fare che mette davanti ad ogni cosa; lo sciopero della fame è semplicemente un atto legato alla sensibilità che ognuno dovrebbe possedere: come si fa a non averla quando si vede morire un bambino di stenti? Di chi la responsabilità se non di un’amministrazione dello stato inefficiente e spesso del tutto assente?
Le sue dichiarazioni sono chiare e precise, come quando pubblica un documento in cui si dichiara obiettore di coscienza, come si direbbe oggi, e invita gli altri a seguire il suo esempio. É la base della non-violenza, un modo di vedere la vita che era stata impersonata dal Mahatma Gandhi, scomparso qualche anno prima.
Le armi di Danilo Dolci non sono tante e soprattutto non sono quelle che potrebbero servire per sovvertire una situazione drammatica, ben oltre quello che la parola “miseria” può lasciare intendere. Non ha agganci politici, non usa sistemi violenti, può solo contare sulla gente, contadini, pastori, operai, pescatori, senza una cultura nel senso classico del termine, spesso non parlano e non capiscono l’italiano. Scrive un primo libro dal titolo oltremodo significativo: “Fate presto (e bene) perché si muore”.
I molti libri che Danilo scrive, nel corso della sua vita, hanno tutti un elemento comune: sono di una semplicità e chiarezza assoluta. Spesso il testo non è altro che il resoconto di quello che è accaduto, le storie delle famiglie, le riunioni fatte con la gente del posto, a volte riporta dialoghi in siciliano, chiedendo pazienza al lettore e invitandolo a cercare di capire. I concetti, come noi siamo abituati a dire, escono non da ragionamenti logici e complicati, ma da esempi di vita vissuta, dal contatto con il vecchio che raccoglie i fiori di gelsomino per adornare le foto della moglie, dal pescatore che racconta delle reti che ritira vuote. La soluzione ad ogni questione arriva dal basso, ammesso e non concesso che il basso sia la gente del posto.
Già, “il fare”, eccolo di nuovo questo verbo così caro a Danilo e così poco utilizzato dal potere. Perché, nonostante gli inviti e le promesse, a Trappeto, le strade sono sterrate, manca un sistema fognario, c’è disoccupazione e ci sono banditi e le due cose vanno di pari passo. Questo termine, “banditi” è un doppio riferimento. Da un lato al fenomeno del banditismo, che Dolci lega, ancora una volta, alla miseria endemica nell’isola e, dall’altro, come participio del verbo bandire. La popolazione, quella povera, bandita da ogni diritto, anche i più elementari, quelli, ad esempio, sanciti dalla costituzione. Su questo punto torneremo tra poco.
Le idee vanno bene, ma bisogna intervenire in qualche modo. Compra un pezzo di terra, vi fa costruire una casa che può ospitare una quarantina di bambini e poi un asilo. Gli operai sono tutti volontari, tutti della zona. Sono arrivati là perché intuiscono cosa sta per succedere. É l’inizio di un percorso che porterà cambiamenti non da poco. Nasce così, il “Borgo di dio”, con il “Centro”, che un po’ alla volta, diventa il cuore di ogni attività dolciana. Serve alla gente, a tutta la gente. Qui ci si raduna per promuovere iniziative, organizzare convegni, discutere dei problemi contingenti, ma anche di questioni di più ampio respiro: di arte, di economia, di urbanistica, di rispetto del territorio e di chi ci vive. Il fine ultimo è proporre uno sviluppo di quella società che sia inclusivo dei poveri, dei disoccupati, dei “poveri cristi”. E arriveranno da ogni parte del mondo esperti, scienziati, intellettuali, dai nomi altisonanti ed importantissimi, tutti quelli che hanno capito il senso dell’idea visionaria di Danilo Dolci.
Siamo in Sicilia, difficile non pensare alla mafia e alla sua pretesa di controllare il territorio, di essere l’unica ad avere in mano le redini del potere economico. Quanto l’amministrazione sia legata a Cosa Nostra, è dimostrato da un episodio che Danilo racconta, nel 1963, alla commissione antimafia.
Un giorno, si reca in un paese vicino a Trappeto e si trova di fronte ad uno spettacolo allucinante. La gente vive in case fatte di paglia, una situazione incredibile in Europa. Vuole che tutti sappiano e comincia a documentare la situazione. Il giorno dopo viene convocato dal suo avvocato che gli racconta della visita avuta dal mafioso di turno, il quale intima che quelle visite devono finire. Dolci non solo torna, ma lo fa con assistenti sociali e giornalisti, pensando di trovare la mafia a fermarlo. Invece ci sono i carabinieri che gli intimano di andarsene, inventando la scusa che si tratta di una zona militare off limits.
Danilo Dolci diventa un simbolo nella zona, le persone lo seguono, per il suo modo di fare, per i contatti strettissimi che riesce a creare mettendosi, lui, sempre all’altezza di chi ha di fronte. Lui, poeta, vuole soprattutto imparare. Lo fa anche dai pescatori, che, in una delle riunioni pongono un problema gravissimo: quello della pesca di frodo. Il guaio maggiore è che con le reti a strascico tirano su tutto, anche i pesci appena nati vicino alla riva, pesci che non potranno crescere e diventare cibo per le famiglie del posto. Così, siamo nel 1956, mille e più persone cominciano tutte assieme uno sciopero della fame. Lo fanno sulla spiaggia di San Cataldo, pochi km a Nord di Trappeto. É un’azione dirompente, l’autorità interviene: non è consentito fare un simile sciopero pubblicamente, dicono. A cosa potrebbe mai servire uno sciopero di cui nessuno sa niente?
Nei suoi libri, spesso si incontrano episodi di persone disperate perché non si riesce a trovare uno straccio di lavoro, neanche provvisorio o part-time, come si dice oggi. Il libro “Banditi a Partinico” riporta molti casi, lo fa con lo stile del racconto, del racconto dei protagonisti, come questo:
«Sette anni me maritu così [con una gamba amputata]; nessuno che ci ha aiutato. Io ci sono andata dal padrone di mio marito e gli ho detto: – Questo è un caso grave, siamo proprio sul lastrico, due bambini... – Io ci dissi: – Io l’ammazzo se non provvede –, e lui, democratico-cristiano, mi ha detto: – Signora, chi ha più polvere spara».
Banditi a Partinico” è un manifesto della povertà della gente, del menefreghismo dell’amministrazione dello stato e dell’arroganza impunita dei potenti. Un libro che ti colpisce al cuore, come un macigno.
Danilo inventa una nuova manifestazione, una provocazione forte, uno “sciopero all’incontrario”. Centinaia di disoccupati vanno a lavorare: sistemano una strada di campagna, una trazzera, messa proprio male per l’incuria dell’amministrazione. La polizia non trova di meglio che caricare i dimostranti e arrestare gli organizzatori. Danilo Dolci finisce all’Ucciardone per occupazione di suolo pubblico e resistenza alle forze dell’ordine. Questa volta la cosa non passa sotto silenzio. Molti giornali, anche stranieri, riportano la notizia in prima pagina, ci sono interrogazioni parlamentari al Senato e alla Camera, si chiedono sanzioni contro i funzionari di polizia responsabili dell’attacco. Questo fatto è enormemente più importante della vicenda in sé. Dolci risponde alle accuse citando l’articolo 4 della Costituzione, che garantisce il lavoro ai cittadini e quindi quell’azione autoritaria non è contro i disoccupati o gli organizzatori, ma contro la Costituzione stessa. Tutto questo, come sempre in modo estremamente semplice e chiaro, è descritto da Dolci nel libro, uscito quello stesso anno “Processo all’articolo 4”, titolo che evidentemente sottintende che lo Stato ha trascinato in aula non gli uomini, ma la legge più importante dello stato, alla quale è tenuto ad obbedire. Ci sono le storie, le richieste, i messaggi inviati alle autorità, fino al presidente della Repubblica, come questo:
Solo qui in Partinico, su venticinquemila abitanti, siamo in più di settemila con le mani in mano per sei mesi all’anno; e settemila bambini e giovanetti non sono in grado di apprendere quanto assolutamente dovrebbero. Non vogliamo essere lazzaroni, non vogliamo arrangiarci da banditi: vogliamo collaborare esattamente alla vita, vogliamo il bene di tutti: e nessuno ci dica che questo è un reato. (seguono circa settecento firme)”.
Il processo, comunque, si fa. Il clamore della vicenda giudiziaria è amplificato dalla presenza in aula di testimoni come Carlo Levi ed Elio Vittorini. L’arringa per la difesa la tiene un padre della Costituzione, Piero Calamandrei. Il suo intervento è un inno alla giustizia, quella vera, all’uguaglianza dei cittadini, alla difesa della Costituzione. (link) Le azioni di Dolci richiamano l’attenzione di uno stuolo di intellettuali di primissimo piano. Per avere un’idea del livello, basta citare Bertrand Russell, Jean Paul Sartre, Lucio Lombardo Radice, Ignazio Silone. E arrivano molti giovani, attratti dall’idea di redenzione di una terra maltrattata e offesa, arrivano a Partinico, a Trappeto, semplicemente per dare una mano. “Processo all’articolo 4”, è la cronaca di quanto successo e assume una importanza notevole se pensiamo quanto fosse in salita la strada per affermare la democrazia in Italia nel dopoguerra. Ma anche per riflettere sull’importanza del ruolo dei “ribelli”, come è stato Danilo Dolci, che, nell’occasione, viene condannato a 50 giorni di carcere, poi scarcerato perché gli sono riconosciuti “moventi di particolare valore morale”.
In Unione Sovietica, in quegli anni, si attribuisce un premio per la pace, il premio Lenin, una sorta di contraltare del Nobel. Nel 1956 viene assegnato a Danilo Dolci. Arriva, col premio, un assegno. Dolci non è comunista, lo dichiara più volte, ma quei soldi sono una manna per le sue attività. Li usa per la sua gente. Nasce a Partinico il “Centro Studi e Iniziative per la Piena Occupazione”. É uno straordinario strumento di sviluppo per l’intera Sicilia Occidentale. Si svolgono convegni ai quali partecipano importanti esperti di varie discipline, oltre ad intellettuali e politici. Diventa un punto di riferimento irrinunciabile.
Al ministro dell’interno, Fernando Tambroni, evidentemente, questa cosa dà fastidio e ritira il passaporto a Dolci, perché – a suo dire – avrebbe parlato male dell’Italia nei suoi viaggi all’estero. La decisione scatena una nuova ondata di proteste.
Se volessimo condensare l’idea che Dolci ha dello sviluppo di una società, useremmo questa affermazione: “Un cambiamento non avviene senza forze nuove, ma queste non nascono e non crescono se la gente non si sveglia a riconoscere i propri interessi e i propri bisogni”.
Insomma è inutile calare dall’alto progetti e proposte se non sono condivisi dalla gente, che senta proprie le esigenze alle quali quelle proposte si riferiscono. E applica ad ogni cosa questa visione, che ricorda le lezioni di Socrate ai suoi discepoli. La applica in molti suoi libri, dove a parlare, proporre, intervenire è la sua gente, i pescatori, i contadini, i pastori, i ragazzini e le loro mamme, quelli insomma che lui stesso definisce i “poveri cristi”. La applica nelle riunioni in cui i protagonisti sono sempre loro. Lui non è un guru, non si atteggia a quello che sa o a messia, piuttosto cerca di stimolare tutti, dai bambini agli adulti, ad esprimere i propri pensieri.
Ed è così che nasce un altro importante progetto. Un contadino, durante una discussione sull’arretratezza economica della regione, parla del fiume Jato e di come sarebbe bello avere un bacino d’acqua da usare d’estate. Si convocano esperti, i quali giudicano fattibile la costruzione di una diga. Poca cosa? In realtà è una rivoluzione non solo economica, ma sociale. Danilo scrive, parla, strepita: quei due-tre miliardi di lire che ogni anno vanno sciupati a mare, non usufruendo delle acque del fiume Jato. Ci vogliono finanziamenti, statali. Il 7 settembre 1962 Danilo comincia un altro sciopero della fame, che durerà nove giorni. Il concorrente più pericoloso è la mafia, che controlla i pochi impianti esistenti. Non è “cosa buona” l’invaso sullo Jato: gli introiti di Cosa Nostra e la possibilità di ricatto diminuirebbero pesantemente. Dolci riesce a mobilitare migliaia di cittadini che richiedono l’opera, per cui, alla fine, anche la mafia si arrende, probabilmente pensando a qualche altro sistema per intervenire nell’affare. E cede anche lo stato. La Cassa per il Mezzogiorno stanzia i soldi. Sappiamo bene quanti pochi denari di quelli della Cassa sono davvero arrivati a destinazione. Quindi questi vengono controllati dalla gente del posto.
Il cantiere si apre nel 1963: l’irrigazione dei campi comincia nell’estate del 1971. Lo spirito di Dolci, della condivisione e del controllo dal basso, entra perfino nei sindacati. Ci sono 500 operai al lavoro: sono loro a stabilire ogni cosa. Se lavorare o scioperare, se mandare via gente sospetta, che vuole infilarsi nei meandri dei subappalti. La gestione è affidata ad un consorzio di contadini. Pagando una quota modesta, ognuno può avere, estate e inverno, tutta l’acqua che vuole. Nel periodo del cantiere non si registrano incidenti e nemmeno uccisioni dovute a corruzioni, mazzette, tangenti, cosa che invece si registra in tutte le altre dighe successive: da 1 a 14 morti per cantiere.
Quest’opera, che raccoglie 72 milioni di metri cubi d’acqua, non solo irriga 9 mila ettari di colture, ma è un monumento alla democrazia, alla gestione condivisa e, ovviamente, un segnale forte di opposizione alla mafia.
L’impatto con la mafia è inevitabile. Siamo abituati all’esempio di personaggi che agiscono e pagano da soli in questa lotta. Dolci cerca di costruire una coscienza antimafiosa nei suoi contadini. É così che, nel 1965, dopo un’audizione alla Commissione Antimafia, convoca una conferenza stampa e fa i nomi. Le sue accuse sono supportate da centinaia di firme della gente del posto, corredate da informazioni, fatti accaduti, rilievi precisi. Alla faccia dell’omertà e della paura. Queste testimonianze sono raccolte nel libro “Chi gioca solo”. Il tema è, come sarà sempre in caso di mafia, la connivenza della politica con Cosa Nostra. Tra i nomi fatti, il sottosegretario Calogero Volpe, il ministro Bernardo Mattarella (padre dell’attuale presidente della Repubblica) ed altri notabili della DC. La risposta dei due politici è una denuncia per calunnia che, dopo dieci anni di un processo molto tormentato, arriva a condannare Dolci e il suo collaboratore Alasia a due anni, non scontati per un indulto in atto in quel momento. La sentenza della Cassazione (1), che elogia Mattarella per la sua azione antimafia, è durissima nei confronti di Dolci, che viene tacciato di essere un millantatore, un bugiardo e di aver agito, durante quella conferenza stampa, per “interessate strumentalizzazioni”. Lo diciamo tra parentesi, ma Calogero Volpe è stato effettivamente un mafioso e ci sono troppi esempi di connivenza negli anni successivi per non avere il sospetto che le denunce di Dolci fossero centrate.
Ma torniamo alla diga. La vita della zona cambia radicalmente. Si diversificano le colture, le famiglie cominciano ad avere introiti tali da permettersi qualche sfizio, il frigorifero in casa, qualche automobile, arriva il boom economico con dieci anni di ritardo. Nascono numerose cooperative agricole, creando posti di lavoro, un po’ di ricchezza anche per i poveri cristi. Un’opera fondamentale, dunque, che sembrava impossibile. Ma Danilo non la pensa così: “Non mi domando se è facile o difficile, ma se è necessario o no. E quando una cosa è necessaria, magari occorreranno molta fatica e molto tempo, ma sarà realizzata. Così come realizzammo la diga di Jato, per la semplicissima ragione che la gente di qui voleva l’acqua.”
La diga crea un indotto che si vede chiaramente: nuovi negozi vengono aperti, ci sono industrie collaterali, conserve, impianti di conservazione … è questo lo sviluppo voluto da Danilo Dolci?
La riflessione si sposta proprio in questo campo: che tipo di sviluppo vogliamo per la nostra terra? Abbiamo la possibilità di scegliere? Ad esempio di non volere qui delle industrie inquinanti?
Come si fa a capire tutto questo? Oggi abbiamo ben chiaro che solo la conoscenza, se preferite, la cultura, permette di giudicare e mettersi da una parte o dall’altra. E Dolci lo capisce bene. Bisogna puntare diritto sull’educazione, rafforzando tutto quello che è stato fatto finora, organizzandolo meglio. Non bastano i convegni con i migliori pedagoghi del mondo, serve l’azione, il “fare” (eccolo di nuovo) che deve venire prima di tutto. L’obiettivo è sempre lo stesso: rendere consapevole la gente, di modo che possa riscattarsi dalla condizione di miseria (in senso lato).  Le attività creative sono fondamentali. La didattica non deve “trasmettere”, ma “comunicare”, un verbo che deriva dal latino con il significato di mettere assieme (cum) i doni (munus), quindi di condividere. Dolci pensa che questa didattica, rivoluzionaria per l’epoca, accompagni anche le rivendicazioni sociali e politiche, che favorisca la crescita democratica. Alla base di tutto c’è l’interrogazione, ma non nel senso cui siamo abituati, dell’insegnante che chiede nozioni allo studente. É una interrogazione curiosa, che va al di là della nozione, serve a scoprire quello che non si sa, a regalare ad altri le nostre informazioni, anche quelle dell’alunno al maestro. É, come detto, il metodo socratico, che diventa la didattica maieutica, termine sul quale ci saranno, negli anni, centinaia di convegni e di dibattiti. Ci sono strumenti nuovissimi, che oggi sono usati regolarmente come il “circle-time”. Danilo lo anticipa: mette tutti a sedere in cerchio così che ognuno possa vedere tutti gli altri. Poi se ne esce con una domanda, un tema che possa far nascere un dibattito. Ad esempio “Quali sono le tue sensazioni?” Abituati fin da bambini, sgorgano considerazioni spontanee, emozioni senza filtri, proposte, …. C’è un documentario del 2015, bellissimo, che mostra alcune di queste riunioni. Il figlio più giovane di Danilo, En, ci guida attraverso la storia e le opere del padre. Si intitola come uno dei libri scritti da Dolci: “Il dio delle zecche” ed è visibile su Youtube. (https://www.youtube.com/watch?v=dKWSHRpR_SI )
E poi ci sono le famiglie, che vanno coinvolte per allargare sempre più l’inclusione nel progetto. E ci sono gli edifici, che non possono essere vecchie caserme, o carceri o conventi. Ci vuole una scuola nuova. Progettano e realizzano a Mirto, in periferia di Partinico, in mezzo alla campagna, come i bambini hanno richiesto, il Centro Educativo … Centro non Scuola perché qui la didattica è un’altra cosa. Ci sono le finestre basse, per non perdere mai il contatto con il territorio circostante. Le indicazioni dei bambini e delle loro famiglie, frutto dunque di un dibattito incredibile, sono raccolte in un libro bellissimo, “Chissà se i pesci piangono”. Le strutture sorgono tutte per favorire lo sviluppo dei bambini: una grande sala dove possono esprimere la loro creatività attraverso il gioco e il dibattito, c’è un laghetto, un campo da pallacanestro, un anfiteatro, dove un gruppo organizza attività teatrali, proietta film, organizza concerti. Certo ci sono anche inconvenienti, primo fra tutti la strada che porta da Partinico al Centro. Una strada messa così male che a volte la scuola non può aprire anche per periodi molto lunghi. Ci vorranno 19 anni perché l’amministrazione comunale riesca a completarla. Dolci riesce anche ad avere sovvenzioni statali. Arrivano perché la didattica maieutica e l’esperienza di Mirto corrono sulla bocca di tutti. Ne parlano in corsi universitari, in conferenze con esperti di livello elevatissimo. Gli ispettori mandati dal ministero tornano entusiasti di quello che hanno potuto vedere. Così lo stato decide di pagare le bollette e gli educatori. É vero che a volte i soldi non arrivano, perché, “stranamente”, si fermano a Palermo, ma il sostegno è continuo. Nel 1983 il Centro Educativo di Mirto diventa scuola statale sperimentale.  É una grande vittoria, di cui ancora oggi, con il centro ridotto a macerie, si parla nei convegni, su Facebook, nelle associazioni.
Facciamo adesso un piccolo passo indietro, fino al 1968, quando lungo il fiume Belice un terribile terremoto distrugge i paesi della valle. Una brutta pagina della nostra storia, con informazioni scadenti, soccorsi in ritardo, soldi stanziati e finiti chissà dove, come dirà, dodici anni più tardi, il Presidente Sandro Pertini, in visita ad un’altra sciagura, quella in Irpinia. I morti, rispetto alla violenza del sisma, sono pochi, circa 300 (in Irpinia saranno dieci volte di più). Il motivo? La prima scossa fa crollare tutte le case, poverissime, costruite col tufo. All’arrivo della seconda, più forte scossa, la popolazione sopravvissuta si trova tutta all’aperto.
Dolci non può restare senza fare nulla. Le sue conoscenze sono ormai numerosissime, è in grado di convocare professionisti delle varie discipline, pescando tra quelle più influenti nei vari settori. Così il Centro si mobilita e prepara un piano di intervento, che prevede non solo la ricostruzione, ma lo sviluppo delle zone terremotate, sull’esempio di quanto successo a Partinico e Trappeto. Ci sono due mesi di forti pressioni nei confronti dello stato. Il plastico del piano, le cartine, la documentazione vengono presentate nei comuni colpiti, discussi coi cittadini. Ma non succede niente. “Si marcisce di chiacchiere e di ingiustizie, la Sicilia muore”, commenta Danilo.
Due anni dopo, il 25 marzo del 1970, un’altra iniziativa a sorpresa. L’idea è quella di diffondere un appello per il Belice, un vero e proprio S.O.S., usando una radio. In quel momento, tuttavia, lo stato, tramite la RAI, ha il monopolio sulle trasmissioni via etere. I privati non possono farlo, è proibito.
Ma, dentro il Centro di Partinico, nasce ugualmente la prima radio libera italiana, che si chiama proprio così: Radio Libera o Radio dei poveri cristi. Nel Centro ci sono Franco Alasia e Pino Lombardo, con qualche volontario, tra cui Amico Dolci, il figlio di Danilo, che oggi mantiene viva l’eredità di suo padre.
Alle 19 del 25 marzo 1970 comincia la prima trasmissione di una radio libera in Italia e comincia così:

Ininterrottamente per tutta la notte e il giorno dopo le radioline possono ascoltare i discorsi di Dolci, le sue poesie, i racconti della gente, le speranze, le prospettive, le accuse. Peppe Nobile ha 15 anni e arriva in largo Scalìa, proprio di fronte al Centro, per partecipare ad un’assemblea. Danilo sale sul palco, ha in mano un microfono e una radiolina. Avvicina il microfono alla radio e la trasmissione si propaga per tutta la piazza, tra gli sguardi sorpresi dei molti presenti. É la prima volta che un privato trasmette via radio. Peppe racconta che ad un certo punto si alza, si allontana e scopre uno schieramento di poliziotti che circonda tutto il largo. Un’esagerazione.
Alle 22,30 del 26 marzo polizia, carabinieri e vigili del fuoco irrompono nel Centro, sequestrano il materiale, fermano tutto. Lo stato ci ha messo anni per arrivare ai terremotati, in questo caso ha fatto prestissimo: 27 ore appena!  Danilo e gli altri vengono denunciati per la violazione della legge sulle trasmissioni. Intervengono molte autorità internazionali per evitare strascichi giudiziari, poi un’amnistia sistema ogni cosa. Ignazio Silone scrive un testo accorato, disilluso, accusatorio che si conclude così: “[…] a vegliare a Partinico stanotte è la coscienza dell’Italia, una coscienza che è per così poca parte rappresentata dalla classe dirigente, e che è amaro privilegio dei poveri.”
Quando, nel 1975, viene approvata la legge 103, dando il via definitivo alla radiofonia privata in Italia, i giovani di Partinico riprendono le attrezzature del Centro e nasce Onda Libera. Questa della radio come mezzo di lotta, nel caso di Danilo contro i ritardi nella ricostruzione del Belice, troverà un esempio straordinario non molto lontano da Partinico, a Cinisi, dove Peppino Impastato crea radio AUT, che serve a sbeffeggiare la mafia locale e a rendere edotti i cittadini di quello di marcio che avviene nel comune. Il rapporto tra Danilo Dolci e Peppino inizia nel 1967, durante una marcia per la pace e il lavoro. Impastato ha 19 anni ed è là come corrispondente del suo giornalino dattiloscritto “L’idea”. (vedi immagini ad esempio qui link)
Il Centro Studi diventa presto un centro internazionale in cui confluiscono esperti di ogni genere e da ogni parte del mondo. Nel 1970 alla struttura originaria si aggiunge il Centro per la pianificazione organica. Si riuniscono personaggi famosi, esperti, semplici cittadini, curiosi a discutere di pace, non violenza, crescita economica, ecologia, struttura maieutica reciproca.
Per ben nove volte grandi autorità internazionali sostengono che Dolci meriti il Nobel per la pace. Arrivano a pioggia riconoscimenti internazionali. La laurea Honoris causa dell’Università di Berna (1968), il premio Socrate di Stoccolma (1970), il premio Sonning dall’Università di Copenhagen (1971) “per il suo contributo alla civilizzazione europea”, motivazione forte, molto forte, che fa riflettere sul fatto che l’unico riconoscimento ufficiale italiano è per le sue poesie, un premio letterario dell’Università di Pisa nel 1978.
Dolci non demorde mai e, anche se si impegna nella pubblicazione di libri di poesie, segue e amplifica i concetti alla base di tutta la sua opera. I convegni, i rapporti con istituzioni internazionali come l’Unesco, con i grandi ricercatori italiani da Carlo Rubbia a Rita Levi di Montalcino, la ricerca di uno sviluppo che oggi chiameremmo a misura d’uomo, la spinta verso un’educazione diversa da quella tradizionale, tutta impostata sulla maieutica.
A lui si uniscono, ancora e ancora, esperti, e che esperti: Paulo Freire e Johan Galtung, Ernesto Treccani, Paolo Sylos Labini, Gianni Rodari, Gastone Canziani, Mario Lodi e Aldo Visalberghi. Il nuovo metodo didattico valica i confini nazionali. Nel 1982 la Boston University Library comincia a raccogliere in modo sistematico documentazione riguardante Danilo Dolci (oltre a Martin Luther King): libri, volantini, manoscritti, corrispondenza, fotografie. Gli inviti di organizzazioni e università straniere si moltiplicano. In India, nel 1989, gli viene attribuito il Premio Gandhi. Le conferenze, le spiegazioni del metodo maieutico vengono proposte in centinaia di scuole, università, associazioni.
Prima che la nostra storia arrivi alla fine va ricordata la pubblicazione della prima edizione (oggi giunta alla sesta) del manifesto “Dal trasmettere al comunicare” (2).
Il 26 dicembre 1997, mentre è ricoverato in ospedale, raccoglie a pranzo i suoi fedelissimi. Parlano di tutto, fanno progetti, perché per Danilo Dolci stare fermi è una sconfitta. Ma quei progetti vengono spezzati quattro giorni dopo. Un infarto lo porta via il 30 dicembre di quell’anno.
Cosa resta di Danilo, dopo la sua morte? Non le strutture, come abbiamo visto per il centro educativo di Mirto. Anche la diga non è più gestita dal consorzio di contadini. Resta l’insegnamento che ha lasciato in tutti i campi nei quali si è cimentato, l’esempio, la necessità di essere ribelle quando serve, l’insegnamento maieutico diffuso in ogni parte del mondo e poi la pratica non-violenta, assurta a sistema e proseguita negli anni da altri anche a livello politico. Recentemente si sta cercando di recuperare quello che Danilo ha seminato. Un nuovo Borgo di dio prende il posto di quello vecchio. Associazioni, sindacati, case editrici, moltissime università hanno garantito la loro partecipazione, come testimonia Antimafia 2000. (link)
Il filosofo Erich Fromm scrive: “Se la maggioranza degli individui non fosse così cieca davanti alla vera grandezza, Dolci sarebbe ancora più noto di quello che è. È incoraggiante tuttavia il fatto che sono già molti coloro che lo capiscono: sono le persone per le quali la sua esistenza e il successo della sua opera alimentano la speranza nella sopravvivenza dell’uomo”.

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Fonti:
Danilo Dolci: Banditi a Partinico, Laterza, 1955
Danilo Dolci: Chissà se i pesci piangono. Documentazione di un'esperienza educativa, ed. Mesogea. 2018
Danilo Dolci: Processo all'articolo 4 (La memoria Vol. 866)
Guido Orlando, Salvi Vitale (a cura di): La radio dei poveri cristi, Navarra editore, 2017
Sito web del “Borgo di dio”: https://borgodidio.it/
Sito web nonviolenti: https://www.nonviolenti.org/cms/rubriche/i-volti-della-nonviolenza/danilo-dolci/
Sito web Centro Sviluppo Creativo: https://danilodolci.org/
Labirinto Visivo: Il dio delle zecche, documentario imperdibile, 2014
Intervista Antimafia special a Amico Dolci: https://www.youtube.com/watch?v=e56nafa4ByA
Filmati, articoli, documenti in rete.