Eccoci arrivati all’ultima puntata sulla deforestazione in questa miniserie. Nella prima abbiamo cercato di capire quanto gli incendi, quasi sempre prodotti dall’uomo, incidano sulla deforestazione. Nella seconda invece ci siamo occupati di studiare il fenomeno del cosiddetto illegal logging, vale a dire il commercio illegale di legname, soprattutto quello di pregio, il teak e il palissandro, in varie regioni del mondo. Abbiamo visto che questa pratica truffaldina, sempre coperta da controllori e quasi sempre dalle amministrazioni pubbliche, è diffusa in ogni parte del globo, dalle regioni africane a quelle asiatiche, e anche in Europa, segnatamente nei Carpazi, in Romania.
Oggi il discorso si allarga, perché vogliamo studiare il fenomeno più diffuso di tutti legato alla deforestazione. Ci chiediamo infatti cosa succede alle zone boschive devastate dalle ruspe e dalle motoseghe. A cosa servono i terreni liberati dagli alberi?
La risposta non è univoca. Significa che ci sono diverse destinazioni d’uso e cambiano non solo in base alle richieste del mercato, ma anche delle zone della terra dove il clima è differente in quanto a temperatura, umidità, piovosità e così via.
Quello che possiamo fare dunque è andare in cerca di esempi per capire come la società in cui viviamo ha indotto al disboscamento per favorire un consumo che è ormai l’unica religione universale. Una brevissima pausa e cominciamo.
Quello che diremo in questa parte della puntata può essere replicata in altre parti del mondo, ma, per evitare discorsi lunghi e complicati, ci limitiamo a cercare di capire cosa avviene in Brasile.
In premessa va anche detto che la politica di Brasilia è recentemente cambiata, passando da una presidenza che con l’ambiente aveva un rapporto di sfruttamento, come quella di Bolsonaro, ad un’altra, quella di Lula, che, almeno in teoria e nelle dichiarazioni, dovrebbe essere conservativa e un pochino più vicina all’ambiente in generale, compresa quindi la tutela della foresta amazzonica. Purtroppo ci tocca segnalare per l’ennesima volta (a costo di diventare noiosi) che le nuove politiche parlano sempre ed ancora di riduzione della deforestazione, il che, come detto e ridetto nelle scorse puntate sul tema, significa solo che l’abbattimento di alberi continua ancora, magari ad un ritmo più lento, aggiungendo nuovi danni ai vecchi.
Non c’è dubbio che la principale motivazione della deforestazione amazzonica ha un nome ben preciso: carne. Con questo intendiamo tutta la filiera nelle sue varie forme, perché i terreni servono per pascolare il bestiame, per coltivare la soia con cui si fanno i mangimi per gli allevamenti intensivi e tutto il resto che affianca questo affare.
Avere i dati non è semplice, perché veniamo da un lungo periodo di politica che ha cercato di nascondere il più possibile i danni che le fattorie hanno fatto, ma cerchiamo di fare con quello che abbiamo.
E cominciamo da un fatto molto triste: nell’estate del 2022 un giornalista britannico, Dom Philips, e un attivista brasiliano, Bruno Pereira, sono stati uccisi, probabilmente dal capo di una banda di pescatori di frodo, mentre controllavano lo stato della foresta amazzonica in quella zona. La loro opera a tutela della natura tutta e delle foreste in particolare è stata ripresa dal giornale britannico Guardian, il quale ha pubblicato, nel giugno del 2023, un lungo articolo che riassume una ricerca sulla deforestazione (legale o illegale) finalizzata alla produzione della carne. É un documento recente, ben fatto, ricco di spunti e di dati interessanti e dunque da questo sono partito.
Prima però permettetemi di dare il giusto risalto al fatto che l’elezione di Lula a presidente, ha ridotto drasticamente la deforestazione (di circa un terzo nei primi sei mesi). Tuttavia, come detto, è il discorso generale da sottolineare e cioè il fatto che questa pratica in Amazzonia è di vecchissima data ed ha avuto un incremento sensibile sotto la presidenza Bolsonaro (2019-2023). Negli anni tra il 2017 e il 2022, 800 milioni di alberi (1,7 milioni di ettari) sono stati sacrificati alla filiera della carne. Il fatto è avvenuto nelle vicinanze degli stabilimenti di tre dei maggiori esportatori di carne, Jbs, Marfrig e Minerva. In realtà i dati potrebbero essere più grandi, dal momento che queste aziende hanno strutture anche in altre zone della foresta. Le tecniche di rilevamento sono quelle classiche: uso di droni, immagini satellitari, spostamento delle mandrie, oltre alle interviste agli addetti che hanno avuto il coraggio di parlare.
La carne brasiliana arriva in ogni parte del mondo, specialmente in Cina.
Lo dico come curiosità, ma anche noi siamo coinvolti in modo a volte paradossale. In Valtellina il prodotto più dichiaratamente locale è la bresaola, prodotto marchiato IGP, che è un attestato di origine, una dichiarazione insomma che il prodotto è di quel luogo. Ebbene, la bresaola valtellinese utilizza le carni degli zebù, che arriva dagli allevamenti brasiliani. Questo non significa che quel bestiame sia responsabile di deforestazione, ma solo che la filiera della carne arriva anche dove i prodotti vengono dichiarati tipici della zona. Ma torniamo in Brasile.
Come se non bastasse, dovremo considerare anche i prodotti che servono per produrre mangimi per il bestiame. In primo piano la soia, che dagli stati del Sud America, viaggia in quantità enorme verso la Cina e l’Europa, compreso il nostro paese. L’Italia consuma ogni anno poco meno di 4 milioni di tonnellate di soia: l’86% (i dati qui sono del 2020) arriva dall’estero, viaggia su enormi navi, che raggiungono i nostri produttori. L’Italia produce mangimi per oltre 15 mila tonnellate.
A guidare il mercato brasiliano della soia non sono ovviamente piccoli produttori locali. Ci pensano le multinazionali, tra le quali un posto di rilievo ha la statunitense Bunge. Sulla loro pagina italiana del sito, leggiamo:
Mettiamo in contatto agricoltori e consumatori per fornire alimenti, mangimi e combustibili essenziali in tutto il mondo.
In Italia siamo uno dei maggiori partner nel settore alimentare. Forniamo mangimi essenziali per gli animali a migliaia di agricoltori locali, nonché oli vegetali ad aziende importanti del settore alimentare italiano.
Inoltre, essendo uno dei maggiori operatori di biodiesel dell’Europa meridionale, abbiamo un ruolo importante da svolgere nell’utilizzare la nostra infrastruttura per contribuire ad alimentare soluzioni di energia rinnovabile.
C’è un'organizzazione giornalistica senza scopo di lucro con sede a Londra, fondata nel 2010 per svolgere indagini di "interesse pubblico". Si chiama “Bureau of Investigative Journalism”. Secondo questo Bureau come viene abbreviato il nome dell’organizzazione, la Bunge si sarebbe fornita anche da diversi fornitori coinvolti nella deforestazione amazzonica. Nonostante la Bunge assicuri che è in primo piano nella lotta alla deforestazione, anche per l’azienda statunitense è difficile stabilire se questo è vero o no, visto che sono circa 9 mila i produttori che le forniscono la soia. Insomma è proprio quello che si diceva prima: a volte riesce impossibile conoscere la provenienza dei prodotti e le modalità con cui vengono realizzati.
I problemi in Amazzonia riguardano anche le popolazioni indigene, che vivono nella foresta pluviale. É, ad esempio, il caso dei Myky, che popolavano la foresta nel Sud della regione del Mato Grosso. Quello che dicono è questo “Prima vivevamo in quell’area, poi sono arrivati i bianchi, hanno preso la nostra terra e la foresta.”
Secondo i dati brasiliani, ci sono 142 terreni privati in territorio Myky. Le controversie e le denunce cozzano contro la legge voluta da Jair Bolsonaro sulle popolazioni indigene, che, di fatto, favorisce le aziende perché “le popolazioni sono indigene solo se lo dice il presidente”. Questa frase non è mia, ma del progetto indipendente “One earth”, un progetto indipendente di informazione sulle cause e le conseguenze della perdita di equilibrio del pianeta. Molto interessante per chi voglia saperne di più.
Anche in questo caso sono saltati fuori grossi nomi della produzione, come la Marfrig.
Per capire chi è lsa Marfrig ecco una breve descrizione tratta da Wikipedia: è la seconda più grande azienda di trasformazione alimentare brasiliana, dopo JBS. L'azienda ha sede a San Paolo, con basi operative in 22 paesi, esporta in oltre 100 paesi, ed è il secondo produttore di carne bovina al mondo.
Dunque la Marfrig è coinvolta nell’indagine, per aver ricevuto bestiame proveniente dai territori Myky. L’azienda di fronte alle accuse non ha replicato, appellandosi proprio alla citata legge di Bolsonaro.
É triste doverlo sottolineare, ma l’Italia è il principale importatore di carni brasiliane in Europa. Come sempre prevalgono i soldi, fanculo alle foreste e alle popolazioni indigene.
Probabilmente il discorso deforestazione-carne potrebbe venire allargato ad altri temi e ad altri paesi, ma quello che si è voluto sottolineare qui è il modo con il quale le foreste servono ai capitalismi del mondo semplicemente per fare denaro, passando sopra tutte le esigenze importanti e vere delle popolazioni, dalla questione climatica a quella della sopravvivenza delle popolazioni autoctone. Deve quindi servire come esempio o, se preferite, come stimolo per approfondimenti personali.
Vi presento un’altra organizzazione britannica che si occupa della tutela legale dell’ambiente ed è considerata la più efficace organizzazione ambientalista del mondo. Si chiama ClientEarth, ha sede a Londra, ma uffici sparsi un po’ in ogni parte del pianeta. Bene, il 4 maggio 2023, negli USA, ClientEarth, sporge denuncia contro la multinazionale statunitense Cargill, uno dei colossi alimentari, che si fornisce di soia anche in Amazzonia e nel Cerrado, una delle savane brasiliane con la più ricca biodiversità al mondo.
Cargill, probabilmente la più grande società a conduzione familiare, opera nel commercio di cereali e semi oleosi, nella produzione di ingredienti alimentari, nella produzione di mangimi, di cacao e prodotti derivati e di carni.
Cargill si presenta nel suo sito come uno dei paladini in grado di far prosperare il mondo. Promette, tra l’altro, di porre fine a tutta la deforestazione entro il 2030 e di essere libera da quella dell’Amazzonia e del Cerrado entro il 2025. Per farlo utilizza un imponente sistema di monitoraggio. Ed è proprio su questo sistema che è incentrata l’accusa di ClientEarth, che, al contrario sostiene che Cargill viola il codice internazionale di condotta responsabile delle aziende. Di mezzo, oltre alle foreste, ci vanno anche le popolazioni di quelle terre, i cui diritti verrebbero calpestati dalla produzione di soia.
Anche se non è chiarissima la responsabilità dell’azienda in tutte le accuse che le sono state rivolte, c’è però da sottolineare che il suo recente passato è pieno di iniziative contro i suoi metodi e le sue iniziative. Nel 2020 ci sono varie accuse da Greenpeace, Nel 2021 la corte suprema degli Stati Uniti, nel processo contro Cargill e Nestlè, assolve le aziende da accuse terribili, come lo sfruttamento minorile in Costa d’Avorio e l’obbligo agli addetti di usare sostanze tossiche. Ma l’assoluzione è per insufficienza di prove, lasciando quindi dubbi sul comportamento delle due aziende.
Il quotidiano Guardian, sempre molto attento alle questioni ambientali, nel 2020 ha rivelato che i polli forniti da Cargill a note catene come Lidl, McDonalds, Nandos’s, Tesco, Asda, che sarebbero stati allevati con mangimi prodotti da soia arrivata da zone deforestate. Chiaramente ClientEarth spera che le accuse non restino solo una macchia sulla multinazionale, perché è dal comportamento di questi grandi marchi, come Nestlè, Unilever e altri, che passa inevitabilmente la lotta contro la deforestazione del pianeta.
Questo inciso per far capire che, da un lato, molte malefatte passano lisce, ma, dall’altro, che ci sono molte organizzazioni che vigilano sui comportamenti anche di gruppi importanti a livello mondiale. E capita spesso che comportamenti truffaldini e pericolosi per l’ambiente finiscano sotto la lente d’ingrandimento di tribunali o, molto più spesso di pubblicazioni attente e serie come il Guardian.
Chiuso l’inciso, passiamo ad altro.
Parliamo dunque della soia. Probabilmente noi non sappiamo nemmeno quanta ne arriva sulla nostra tavola, anche se non in forma visibile, ma come materia prima per prodotti, come i mangimi per animali, che troviamo dentro la bistecca. Cominciamo a dare i numeri, che ricaviamo da numerose indagini sia di organizzazioni che controllano i flussi di soia nel mondo, sia che controllano la deforestazione legata alla produzione di questo cereale.
In Italia vengono utilizzate ogni anno quasi 4 milioni di tonnellate di farina di soia. Meno del 20% sono di origine nazionale, tutto il resto (l’80%) è importato, principalmente da Argentina, Brasile, Stati Uniti e Paraguay. La destinazione principale è la produzione di pollame che consuma il 40% del mangime prodotto anche con la soia. Il restante 60% se lo dividono in parti uguali gli allevamenti di bovini e suini. La società che più di altre rifornisce di soia il nostro paese è la già citata Bunge, che predica bene, ma sui cui fornitori pesano accuse pesanti di deforestazione. Ad esempio nel Cerrado, la stagione 2019 è ricordata comne quella degli incendi con 64 mila roghi (e 90 mila in Amazzonia) e non è andato meglio l’anno seguente con 100 mila roghi in Amazzonia e 62 mila nel Cerrado. Ed è proprio in quelle zone, quelle degli incendi intendo che viene coltivata parte della soia che una quantità sterminata di fornitori fa arrivare all’azienda statunitense. Dunque sospettare è quanto mai lecito.
C’è poi da dire che avere dati sicuri è un’impresa quasi impossibile. Fermandoci al 2021, ci sono valori che stridono tra quelli forniti dal governo e dall’agenzia spaziale brasiliana INPE da una parte e quelli di Imazon, organizzazione brasiliana senza scopo di lucro che si dedica alla conservazione della foresta pluviale amazzonica dall’altra. Curiosamente i dati di INPE e Imazon fino ad 2018 coincidevano, poi, improvvisamente le differenze sono diventate sensibili, quasi che l’agenzia spaziale brasiliana tutelasse gli interessi dei ricchi produttori di carne e di soia e, di conseguenza quelli del governo allora in carica. Ricordo che Jair Bolsonaro diventa presidente il 1° gennaio 2019. Ed è ben noto il fatto che Bolsonaro, nell’agosto del 2019, licenziò in tronco il direttore di INPE perché forniva dati che nuocevano ai produttori, il che dice tutto.
Paulo Moutinho, direttore dell’Istituto di ricerca ambientale dell’Amazzonia, chiarisce bene la situazione,
“Fino ad oggi dietro a incendi e deforestazione c’erano allevatori e agricoltori, che pulivano i terreni dalla foresta per estendere i propri pascoli e le coltivazioni. Oggi lo scenario è cambiato, protagonista dell’accaparramento delle terre è il crimine organizzato. Invadono i territori, prendono la terra, la incendiano e deforestano, ci mettono dei pascoli e poi si siedono ad aspettare che arrivi qualcuno a comprarla”.
“Eppure – continua Moutinho - una legge per la protezione almeno parziale delle foreste esiste. In Brasile ci sono 60 milioni di ettari di foresta che si trovano su terreni pubblici dove non c’è nessun tipo di protezione. Qui si concentra buona parte della deforestazione. “Già dal 2006 il parlamento ha approvato una legge per dare una destinazione a queste terre, come riserve naturali o aree protette, per evitare che vengano considerate terra di nessuno e vengano convertite in pascoli o agricoltura. Bisognerebbe solo applicare la legge”.
Ora c’è Lula e vedremo se il vecchio presidente avrà le palle per prendere in mano la situazione a vantaggio della natura.
L’ultima questione da affrontare è dove finisce la soia: qual è il mercato maggiore? Un articolo interessante di One Earth racconta la situazione di Sorriso, cittadina di circa 10 mila abitanti nel mezzo della savana Cerrado. Ma, attorno alla città di savana non c’è nemmeno l’ombra. Ci sono invece 600 mila ettari di campi coltivati a soia, un’area più grande dell’intera Liguria. I dati di cui dispongo sono del 2020 e probabilmente sono ridotti rispetto agli anni successivi per i noti motivi legati alla pandemia. Dunque da Sorriso partono ogni anno 2,2 milioni di tonnellate di soia, un vero e proprio record. Ma la cosa più curiosa è che la maggior parte (oltre il 60%) affronta un lunghissimo viaggio per arrivare in Cina. La crescita è di questi ultimi anni con cifre enormi rispetto addirittura al consumo interno Brasiliano, per non parlare dell’Unione Europea, rispetto alla quale il Brasile incassa dalla Cina 10 volte di più.
Il motivo di un mercato così ricco e cresciuto è abbastanza semplice. In Cina è aumentata di moltissimo la richiesta di carne, soprattutto di polli, che, come abbiamo visto costituiscono la filiera che consuma più soia di tutti.
Ma la crescita di consumo di carne nei piatti cinesi è universale, con aumenti enormi dal 2010 al 2020, ben superiori al 50%.
L’atteggiamento della Cina nei confronti degli effetti nefasti della deforestazione e in generale della ricerca di materie prime nel mondo e in Brasile in particolare, è quanto mai controversa, come l’intera politica ambientale di XI Jinpig. Questo aspetto però ci porterebbe molto lontano dal tema che stiamo affrontando e meriterebbe una discussione a parte.
Ovviamente non c’è solo la Cina. Gli esiti della pandemia e i giochini del mercato internazionale hanno prodotto aumenti strabilianti del prezzo di molte materie prime, che sono diventate troppo care per competere con mercati sicuramente meno affidabili ma più a portata come quelli argentini e brasiliani.
Concludo con l’osservazione di Nature Climate Change a proposito della resilienza della foresta amazzonica, pubblicato nel marzo 2022.
“I ritmi di deforestazione e i cambiamenti climatici stanno spingendo l’Amazzonia verso un punto di non ritorno, con l’aumento della stagione secca e il ridursi delle piogge. Superata questa soglia, la foresta è destinata a trasformarsi in una grande savana, rilasciando enormi quantità di gas serra in atmosfera.”
Pensate un po’: l’unico polmone che oggi assorbe più CO2 di quanta ne produca, diventerà, anch’essa, un nemico mortale della sopravvivenza umana. Alla faccia dei polli, nel senso del cibo, ma anche degli esseri umani che si credono più furbi di tutti … poveri illusi.
In Africa facciamo riferimento a questo stato, ma altri due, il Ghana e il Camerun, sono nelle stesse identiche condizioni, anche se con cifre meno impressionanti.
Potrà sembrare a qualcuno che dovremmo occuparci di cose più serie e non del cacao, ma questo prodotto è un asset importante del mercato internazionale, se sposta 130 miliardi di dollari l’anno. Dai dati dell’agosto 2023, veniamo a sapere che il valore delle azioni legate al cacao durante tutto il 2023 è più che raddoppiato. Insomma viviamo in un mondo di golosi, che sono la causa principale di tutto quello che succede alle foreste, sradicate per coltivare cacao.
In Costa d’Avorio poi è uno dei punti di forza dell’economia se occupa il 20% del PIL. Ovviamente, come detto tante volte, questo significa solo che in complesso arrivano molti soldi, ma certo non vengono distribuiti equamente tra la popolazione, che invece con una media di due dollari al giorno e in larga percentuale è sotto i limiti si sopravvivenza. Tra l’altro, nelle piantagioni lavorano molti bambini e lo sfruttamento minorile è un altro brutto problema accanto alla deforestazione.
I dati sono impietosi. Tra il 2010 e il 2020, le coltivazioni di cacao hanno sostituito 25 mila km quadrati di foresta, un’estensione grande come tutto il Piemonte o la Sicilia, le più grandi regioni italiane. I dati emergono da una ricerca dell’università belga di Louvain dell’inizio 2023. Sostituire foreste anche primarie con coltivazioni agricole è diffuso nel mondo, come vedremo anche più avanti, ma in questo caso la situazione è davvero grave. Infatti se l’approvvigionamento di cacao è responsabile del 60% della deforestazione in Costa d’Avorio, quasi la metà di questa avviene in modo del tutto illegale. Questo significa che oltre la metà del cacao che arriva sui mercati di tutto il mondo non si sa da dove provenga e quali nefandezze sono state commesse per coltivarlo. É evidente che questo va contro le leggi previste dall’Unione Europea. La logica conseguenza sarebbe dunque che da noi di cacao dalla Costa d’Avorio non ne arri vi per niente. Ma la realtà è molto diversa: l’UE importa il 60% del cacao ivoriano. C’è da sperare che con le nuove misure restrittive questo finisca anche per imporre allo stato africano un controllo più puntuale sulla propria produzione.
Abbiamo già visto, riguardo la deforestazione, come molti stati si nascondano dietro frasi ad effetto, adesioni a convenzioni che poi non rispettano. É avvenuto anche per i grandi produttori di cacao: la Costa d’Avorio, il Ghana, la Colombia assieme a 35 grandi aziende produttrici di cioccolato, hanno aderito nel 2017 alla iniziativa Cacao e Foreste, impegnandosi a “porre fine alla deforestazione e ripristinare le aree forestali, evitando ulteriori conversioni di terreni forestali per la produzione di cacao”. E come sempre, tra il dire e il fare, in tema ambientale, ci sono molti mari da attraversare. Questa iniziativa fa acqua da tutte le parti e i responsabili maggiori sono proprio le strutture statali che non sono in grado di tracciare il prodotto, così che “Le aziende non sanno da dove proviene il cacao e sono quindi incapaci di valutare se la sua produzione è legata a questioni di sostenibilità, tra cui la deforestazione o il lavoro minorile.” Come si legge nel documento belga.
É anche chiaro che le multinazionali, nonostante le dichiarazioni ambientaliste, non fanno molto per capire da dove arrivano i prodotti (il discorso si potrebbe allargare anche al caffè) e che danni sono stati commessi per averli. Sotto la lente di ingrandimento è finita, ad esempio (ma non è l’unica) la Cargill uno dei più grandi trasformatori di cacao al mondo.
Questo stato di cose si porta dietro altri problemi. Alcuni più generali come la perdita di biodiversità e la distruzione di interi habitat, di cui abbiamo già parlato anche in altre puntate di NSSI. E poi la diffusione di questo sistema distruttivo ivoriano in altre parti del mondo: L’Amazzonia peruviana, il bacino del Congo e le foreste del Sud est asiatico sono il nuovo “Eldorado” per le multinazionali del cioccolato.
E poi arriviamo alle questioni sociali. La deforestazione, la monocoltura e la logica del profitto hanno come conseguenza lo sfruttamento della manodopera. I contadini sono pagati pochissimo; in Costa d’Avorio e Ghana guadagnano un dollaro al giorno e, come già detto, per abbassare i costi ecco arrivare anche i bambini nelle piantagioni.
L’assurdo è che mentre i paesi africani forniscono oggi il 75% del cacao, ricevono in cambio solo il 6% dei profitti delle industrie cioccolatiere. C’è un tentativo, da parte di Ghana e Costa d’Avorio, di creare un cartello sul tipo dell’OCSE (gli esportatori di petrolio), coinvolgendo anche altri paesi come l’Indonesia, l’Equador e in Africa la Nigeria e il Camerun. Messe assieme queste nazioni forniscono quasi tutto il cacao mondiale (85%) e potrebbero fare la voce grossa sul mercato. Ma questa è solo una mossa economica che non avrebbe molta importanza sulla salvaguardia delle foreste.
Pensiamo solo un attimo alle conseguenze della legge europea sulle limitazioni alle importazioni di prodotti causa di deforestazione. Legge entrata ormai in vigore dal 1° gennaio 2025. Quello che dovrebbe accadere … uso il condizionale perché quando si tratta di soldi non si sa mai come vanno a finire le cose … quello che dovrebbe accadere è che le scorte di caffè e cacao non immesse sul mercato entro il 31 dicembre prossimo dovrebbero essere distrutte. Infatti, secondo Europe Today, nei magazzini sparsi per l’Unione Europea ci sono 350 mila tonnellate di caffè e cacao.
In allarme non sono solo le aziende coltivatrici, ma anche chi trasforma i semi in cioccolata. Forse, dicono, le uova di Pasqua 2025 saranno senza cioccolata.
Pasqua 2025 è lontana, la deforestazione è cosa attualissima e penalizza tutti noi. Non resta che aspettare se questa legge europea farà riflettere società e stati di mettere ordine alla produzione, rendendola sostenibile.
Una di queste isole è la terra dove Emilio Salgari ha fatto vivere Sandokan e la sua perla di Labuan, Tremal Naik, Yanez e tutte le tigri di Mompracem. Il Borneo ha un’estensione di circa due volte e mezzo l’Italia ed è divisa tra Malaysa (la parte settentrionale) e l’Indonesia. Quest’ultima parte è chiamata Kalimantan e si estende per circa 530 mila km quadrati, più del 70% dell’intera isola.
La storia di questo luogo è interessante. Sembra sia stata scoperta dai reduci della flotta di Magellano nel 1521. Qui trovano la vera “isola del tesoro”: ricche riserve di miniere, oro, diamanti, manganese. E piantagioni di caucciù, caffè, riso e tabacco. Tutto in mano ad un solo uomo: il ricchissimo Sultano del Brunei, che allora la possedeva interamente. Ma la ricchezza più importante e, per certi versi, clamorosa di quest’isola è altrove: è dentro quelle foreste, è nella natura dell’isola, un paradiso della biodiversità: si contano quindicimila specie di piante da fiore, tremila di alberi, duecento specie di mammiferi terrestri e quattrocento di uccelli. E ancora oggi, ogni anno, se ne scoprono di nuove.
Un regalo della natura da conservare con cura, quasi con gelosia, ma un regalo che non produce profitto se si escludono i turisti che fino a qualche tempo fa arrivavano per provare il brivido di una camminata nella giungla, stando attenti agli scorpioni letali per terra, a quelle strane liane che se ti mordono muori in pochi istanti, alle sanguisughe negli stagni e agli animali predatori che possono attaccarti.
200 mila km quadrati di foresta primaria, quella che chiamiamo foresta vergine, mai toccata da attività umane, lasciata intatta come natura l’ha creata e come poi si è sviluppata.
Ebbene, è triste dirlo, ma quella foresta non è più vergine.
La storia dell’Indonesia nel dopoguerra, cioè dopo la dominazione olandese di quelle terre, non è certo un esempio di nazione guidata da uomini saggi e giusti. Colpi di stato, guerre civili con molte centinaia di migliaia di morti, esecuzioni sommarie e, soprattutto, corruzione, hanno accompagnato il regime di Suharto, durato 32 anni. Questi fatti probabilmente hanno inculcato nella nazione la convinzione che tutte quelle nefandezze potevano essere compiute.
É inutile aggiungere, perché lo abbiamo già fatto in abbondanza, che quelle foreste sono anche un polmone di ricambio della CO2 decisamente importante vista la vastità della foresta e l’antichità di quegli alberi, che hanno per così tanto tempo accumulato anidride carbonica e rilasciato ossigeno. Questo significa che distruggendo quegli alberi si fa un danno molto grande dal punto di vista dei cambiamenti climatici, molto più grave che se si tagliasse il pero che avete in giardino.
Certo potrebbe essere sostituito, ma non tutti gli alberi hanno lo stesso potere ripulente l’atmosfera (passatemi questo termine impreciso). Sostituire un baobab con una palma non porta il bilancio in pareggio, per niente.
E adesso vediamo cosa è accaduto alle foreste del Borneo negli ultimi decenni.
Cominciamo con il dire che lo stato confinante con l’Indonesia non è certo una verginella, anzi. Anche nella parte malese le cose sono andate malissimo. Tra l’altro è proprio là che esiste la provincia di Sarawak, a proposito delle leggendarie gesta della tigre di Mompracem. E da là cominciamo la nostra analisi.
La prima domanda che viene in mente è questa: come diavolo si fa a sapere quanti alberi sono stati abbattuti e quale impatto sull’effetto serra e sulla biodiversità ha provocato? In effetti è facile convincersi che andare a contare gli alberi uno ad uno in un territorio così vasto e inospitale per l’uomo non è il massimo. Si usano visioni dall’alto, sia da aerei di ricognizione che, soprattutto, da satelliti. Le immagini che si ricavano sono estremamente nitide e chiariscono perfettamente la situazione.
I primi studi sullo stato forestale del Borneo malese sono cominciati nel 2009. Li hanno condotti scienziati delle università di Papua Nuova Guinea e della Carnegie Institution for Science, un’organizzazione di Washington che sostiene la ricerca scientifica ed è anche quella che ha messo a disposizione i propri satelliti.
Il risultato viene presentato nel 2013, con dati impressionanti. La costruzione di strade e cantieri nella giungla è penetrata fin nel cuore del Borneo malese, riducendo la verginità di quelle foreste in misura inaccettabile. Non si tratta soltanto di tagliare alberi, ma anche di disturbare (per usare un eufemismo) un ecosistema che si mantiene da secoli, di rovinare un equilibrio conquistato con pazienza in millenni di evoluzione.
E poi dipende anche dal tipo di piante che vengono abbattute. Lo studio del 2013 sottolinea che quelle abbattute, con diametro superiore ai 45 cm, sono pronte per essere nuovamente abbattute dopo 25-30 anni. Ma questa non è certo una consolazione, come scrivono gli estensori del rapporto, i quali dicono:
“Questa forma di disboscamento danneggia in maniera considerevole il suolo, i corsi d’acqua e la struttura della foresta nonché gli alberi residui, con un progressivo degrado della biomassa nel corso dei diversi cicli di raccolta. I bulldozer, poi, impattano circa il 30-40% delle aree deforestate e danneggiano dal 40 al 70% degli alberi residui. La produzione iniziale di legname non può, dunque, essere effettuata su cicli multipli: 25-30 anni rappresentano un periodo di tempo troppo breve per la rigenerazione delle riserve di legname.
Di conseguenza, le foreste subiscono danni enormi. Le foreste della regione, infatti, sono state classificate per il 44% come “degradate” o “severamente degradate,” mentre un altro 28% è stato convertito in piantagioni o si trova in una fase di rigenerazione successiva all’abbattimento.”
Insomma un vero disastro.
La cosa curiosa è che le strade del disboscamento nelle regioni malesi del Borneo finiscono di colpo al confine con il Brunei. La differenza tra le due foreste è incredibile, perché nel Brunei esse risultano praticamente intatte. Il motivo è abbastanza semplice. L’economia del piccolo stato è sostenuta principalmente dal petrolio offshore, sul gas e sui servizi ad essi associati. E quindi non hanno bisogno né di legname, né di ulteriori territori per sviluppare la propria agricoltura.
É ovvio che della situazione malese e di quella indonesiana, che vedremo tra poco, sono preoccupati tutti gli stati che sono chiamati a ridurre le emissioni di CO2 in base ai vari accordi internazionali: quelli di Parigi del 2015, il Green Deal Europeo e quelli dei singoli stati. La deforestazione è una delle cause principali dell’aumento della quantità impressionante di anidride carbonica presente in atmosfera, non esserne consapevoli è un delitto assai grave.
L’Indonesia è stata letteralmente invasa negli ultimi anni da incendi mastodontici. “Beh – dice uno – è successo anche altrove, anche da noi.” Certo, ma le dimensioni e la durata di quelli indonesiani sono davvero un’altra cosa.
Cominciamo con le notizie più dure. Come sempre, ci affidiamo alle informazioni ufficiali, essendo piuttosto refrattari a fare dietrologia o a inventarci notizie inesistenti. Dunque nel 2016 esce un rapporto di una ricerca condotta dalle Università di Harvard e Columbia, rispettivamente di Cambridge nel Massacchussets e di New York. Viene pubblicato su una prestigiosa rivista scientifica, l’Environmental Research Letters (Pubblicazioni di ricerche ambientali). Il dato più clamoroso è questo: gli incendi boschivi del 2015, legati alla deforestazione nel sud-est asiatico hanno causato più di centomila morti. Si è trattato di roghi titanici, appiccati di proposito dalle multinazionali dell’olio di palma e poi sfuggiti di mano. Il fumo prodotto riesce a coinvolgere perfino i paesi confinanti, Malesia e Singapore, ci sono mezzo milioni di casi di infezione alle vie respiratorie, circa 50 milioni di persone esposte a fumi tossici 24 ore al giorno per settimane. Le conseguenze, per così dire, civili, sono annullamento dei voli, chiusura delle scuole e di altre attività. Insomma un vero disastro sociale.
Lo studio statunitense calcola 90 mila morti in Indonesia, 6 mila in Malesia e 2200 a Singapore. Non è la prima volta che una simile disgrazia avviene. Era accaduto già nel 2006, ma questa volta gli effetti sono tre volte peggiori.
Altri dati clamorosi: le emissioni giornaliere prodotte dai roghi superano quelle medie giornaliere degli Stati Uniti, mentre i livelli di inquinanti emessi in atmosfera toccano un valore di un indice standard pari a 3'000, mentre la soglia di pericolo è 300.
Le torbiere (cioè il sottosuolo delle foreste) su cui gli incendi si sviluppano contengono molto materiale organico combustibile e rilasciano in atmosfera grandi quantità di polveri sottili (soprattutto PM 2,5) che sono la principale causa di morte delle persone colpite.
C’è un ultimo avvertimento da parte dei ricercatori: abbiamo indagato – dicono - solo tra gli adulti. Probabilmente, considerando anche i bambini i numeri così terribili, potrebbero essere anche più grandi.
Il governo indonesiano ha giudicato questo report semplicemente “privo di senso” ed ha stimato che i morti sarebbero stati appena 24.
Questo negli anni passati. E oggi?
Fino al 2018 venivano dati in concessione alle multinazionali terreni vastissimi per piantare le palme da olio, quell’olio di palma, che la stragrande produzione alimentare usa nei propri prodotti (di questo parleremo poi). Sono ovvie due cose. La prima che per poter sfruttare quei terreni è necessario togliere di mezzo la foresta che vi sta sopra e la seconda che l’apporto in quanto a rimozione di CO2 da parte delle piante crolla vertiginosamente. C’è poi tutta la questione degli habitat distrutti, della sopravvivenza di molte specie, della biodiversità e così via.
Nel 2018 il governo di Jakarta, sotto l’insistenza di associazioni ambientaliste e anche di qualche esponente politico, ha dovuto varare una moratoria per la concessione di terreni per la produzione dell’olio di palma.
La storia dell’atteggiamento politico di Jakarta nei confronti di questo problema è significativa. Dunque ricapitoliamo: Nel 2018 viene varata la moratoria: niente concessioni, dopo le tante, troppe già concesse ad aziende provate. La scadenza nel 2021 presupponeva un rinnovo o quanto meno che ci fosse un’analisi della situazione. Ma il governo non si è praticamente mosso, rimandando la decisione continuamente.
Intanto in Europa passava la legge sul divieto di importazione di merci prodotte grazie a deforestazione. Ma questo fatto non ha fermato proprio nulla per due motivi principali.
Il primo che l’olio di palma che arriva da noi è una minima parte di quello esportato dall’Indonesia, i cui mercati più ricchi sono la Cina, l’India, il Pakistan e la Malesia. Non è difficile pensare, e questo è il secondo aspetto, come sia possibile aggirare le leggi internazionali. Se l’olio di palma illegale viene mandato in Cina e qui lavorato da un’azienda che ha un buon rapporto con l’UE, ecco che quell’olio arriva da noi con tutti i crismi della legalità e della sostenibilità. Ancora una volta, come abbiamo già visto per il legname prezioso, il nodo della questione è la tracciabilità, sapere cioè la provenienza delle materie prime e come sono state ottenute. É ovvio che le responsabilità sono delle aziende, ma le coperture politiche e amministrative non mancano mai. Ed infine c’è un terzo motivo di preoccupazione. Le banche (anche quelle europee) non si tirano certo indietro se c’è da finanziare un’attività economicamente vantaggiosa. Quella dell’olio di palma lo è, parecchio e non credo si debba aggiungere altro.
Ora però veniamo alle notizie più recenti. Non solo la moratoria è stata nuovamente imposta, ma adesso non è più provvisoria, ma definitiva. Nessuna parte di foresta può più diventare una coltivazione di palma da olio. Il governo indonesiano in questi due anni ha avviato una mappatura imponente delle coltivazioni di palma da olio, varando una disposizione che gli appezzamenti di quelle illegali siano restituite alla foresta. In altre parole le coltivazioni di palma illegali dovranno tornare ad essere foreste. Il risultato è davvero pregevole fino a che non si guardano i numeri. Si parla di restituire alla natura circa 200 mila ettari, un’area sicuramente importante, ma ridicolmente piccola rispetto all’estensione delle coltivazioni di palma ricavate deforestando. Questa è di oltre 2 milioni e mezzo di ettari, quasi la metà dell’area indonesiana destinata alla produzione di olio di palma. Per completezza possiamo anche aggiungere che, complessivamente dal 2000 al 2022 lo stato asiatico ha perso qualcosa come 30 milioni di ettari di foreste, un valore assurdo, più del 30% del totale, presente all’inizio di questo millennio.
Cominciamo dall’inizio: cos’è questo olio di palma?
È un grasso che si ricava dalle drupe, che sono i frutti di alcuni tipi di pama e assomigliano a delle grosse olive di color rosso – marrone. Dei tre tipi di palma che lo producono, la più diffusa è la palma africana, la quale, a dispetto, del nome, trova la sua maggior diffusione proprio in Malesia e Indonesia e nelle zone tropicali delle Americhe. Poi tutto procede come per il comune olio di oliva. Si spremono le drupe e si ottiene l’olio, che poi può essere raffinato attraverso passaggi successivi.
Nella seconda metà del XX secolo c’è un boom di richieste per l’uso commerciale di questo prodotto. I motivi sono diversi. Intanto l’olio di palma ha caratteristiche simili al burro, unico grasso vegetale. Poi può sostituire le margarine, molto osteggiate dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. E ancora: costa molto meno di altri grassi, si conserva molto meglio del burro, per il suo gusto insapore può essere utilizzato senza che alteri il sapore dei cibi in cui è presente. Anche l’industria cosmetica ne fa un grandissimo uso.
E così, nonostante l’olio di palma non sia un prodotto della nostra tradizione, ha presto spopolato anche da noi.
Alla domanda “fa male alla salute” io non posso, ovviamente rispondere, ma solo riportare quello che viene scritto. Anche qui è un vero casino, perché a fronte di chi dice che fa malissimo c’è un altro che sostiene che non è vero e che, anzi, fa bene alla salute.
Cercando di raccogliere le informazioni qua e là mi sembra di aver capito che:
Nell’olio di palma c’è un acido che fa crescere il colesterolo e sottopone a rischi cardiovascolari. Ma, d’altra parte, contiene anche altre sostanze che svolgono importante azione antiossidante. In ultima analisi la maggior parte degli specialisti in materia è propensa a dire che questo prodotto non è così dannoso per la salute come lo si dipinge. È chiaro che i rischi derivano dagli eccessi, ma questo vale per ogni grasso, dal burro all’olio allo strutto al lardo e così via. Sono gli eccessi, di ogni tipo, da evitare. I grassi saturi non dovrebbero mai superare al massimo il 10% sulle calorie del nostro fabbisogno quotidiano.
Anche la notizia che l’olio di palma sia cancerogeno è falsa o, quanto meno, non esiste alcuna evidenza scientifica che ne dimostri la cancerogenicità.
E, comunque, avere la possibilità di scelta tra prodotti con e senza l’olio di palma, che, ribadiamo, come tutti i grassi, bene non fa, è in ogni caso una garanzia è un vantaggio.
Dunque tranquilli: la vostra salute non viene messa in pericolo dall’olio di palma più del sugo grasso fatto con burro o margarina.
Ma, dal punto di vista della sostenibilità, le cose sono assai diverse. Abbiamo già visto come l’abbattimento di aree immense di foreste pluviali per realizzare piantagioni di palma significhi immettere una quantità enorme di gas serra in atmosfera. Ma c’è di più.
Il motivo per cui le multinazionali si sono rivolte a questo tipo di coltura risiede nel fatto che, contrariamente ad altre piante, non c’è bisogno di molta manutenzione, di molta acqua, di pesticidi, di fertilizzanti. Purtroppo però la pianta di palma esaurisce rapidamente e completamente il terreno e le sue proprietà nutritive, per cui si devono attuare interventi di recupero o di ripristino che sono molto costosi e per nulla convenienti per i coltivatori. E così, dopo un ciclo di circa 20-25 anni quel terreno deve essere abbandonato e c’è bisogno di un’altra area, che, come visto, si ricava da un ulteriore abbattimento di foresta pluviale.
È allora possibile produrre olio di palma in modo sostenibile? Forse sì, ma non con il sistema attualmente utilizzato. Con molto ritardo si è formato un organo di controllo, il Roundtable in Sustainable Palm Oil, che tradotto significa Tavola rotonda per un olio di palma sostenibile. Uno strumento che, seppur ancora giovane, veglia sulla produzione secondo modalità etiche dell’olio di palma e combatte i fenomeni che per lungo tempo si sono protratti a discapito di una produzione etica.
Ci sono studi che cercano vie diverse per produrre questo alimento. Recentemente la ricerca si è orientata verso alcune alghe che sarebbero in grado di produrre qualcosa di simile all’olio di palma. Ma la strada è appena cominciata e sarà, probabilmente, lunga e piena di conflitti con il mondo dell’imprenditoria al quale poco importa dell’ambiente se questo incide sui suoi profitti.
Oggi il discorso si allarga, perché vogliamo studiare il fenomeno più diffuso di tutti legato alla deforestazione. Ci chiediamo infatti cosa succede alle zone boschive devastate dalle ruspe e dalle motoseghe. A cosa servono i terreni liberati dagli alberi?
La risposta non è univoca. Significa che ci sono diverse destinazioni d’uso e cambiano non solo in base alle richieste del mercato, ma anche delle zone della terra dove il clima è differente in quanto a temperatura, umidità, piovosità e così via.
Quello che possiamo fare dunque è andare in cerca di esempi per capire come la società in cui viviamo ha indotto al disboscamento per favorire un consumo che è ormai l’unica religione universale. Una brevissima pausa e cominciamo.
Amazzonia: la filiera della carne
Scegliere da dove cominciare non è così difficile. Credo che a chiunque si chieda quale sia l’area simbolo della deforestazione, risponda l’Amazzonia. La foresta pluviale più grande del mondo si estende in diversi stati dell’America Latina, ma la maggior parte di essa, circa il 60%, copre le regioni brasiliane. É quindi chiaro che le scelte economiche e politiche di quel grande paese siano più legate di altre alla deforestazione amazzonica.Quello che diremo in questa parte della puntata può essere replicata in altre parti del mondo, ma, per evitare discorsi lunghi e complicati, ci limitiamo a cercare di capire cosa avviene in Brasile.
In premessa va anche detto che la politica di Brasilia è recentemente cambiata, passando da una presidenza che con l’ambiente aveva un rapporto di sfruttamento, come quella di Bolsonaro, ad un’altra, quella di Lula, che, almeno in teoria e nelle dichiarazioni, dovrebbe essere conservativa e un pochino più vicina all’ambiente in generale, compresa quindi la tutela della foresta amazzonica. Purtroppo ci tocca segnalare per l’ennesima volta (a costo di diventare noiosi) che le nuove politiche parlano sempre ed ancora di riduzione della deforestazione, il che, come detto e ridetto nelle scorse puntate sul tema, significa solo che l’abbattimento di alberi continua ancora, magari ad un ritmo più lento, aggiungendo nuovi danni ai vecchi.
Non c’è dubbio che la principale motivazione della deforestazione amazzonica ha un nome ben preciso: carne. Con questo intendiamo tutta la filiera nelle sue varie forme, perché i terreni servono per pascolare il bestiame, per coltivare la soia con cui si fanno i mangimi per gli allevamenti intensivi e tutto il resto che affianca questo affare.
Avere i dati non è semplice, perché veniamo da un lungo periodo di politica che ha cercato di nascondere il più possibile i danni che le fattorie hanno fatto, ma cerchiamo di fare con quello che abbiamo.
E cominciamo da un fatto molto triste: nell’estate del 2022 un giornalista britannico, Dom Philips, e un attivista brasiliano, Bruno Pereira, sono stati uccisi, probabilmente dal capo di una banda di pescatori di frodo, mentre controllavano lo stato della foresta amazzonica in quella zona. La loro opera a tutela della natura tutta e delle foreste in particolare è stata ripresa dal giornale britannico Guardian, il quale ha pubblicato, nel giugno del 2023, un lungo articolo che riassume una ricerca sulla deforestazione (legale o illegale) finalizzata alla produzione della carne. É un documento recente, ben fatto, ricco di spunti e di dati interessanti e dunque da questo sono partito.
Prima però permettetemi di dare il giusto risalto al fatto che l’elezione di Lula a presidente, ha ridotto drasticamente la deforestazione (di circa un terzo nei primi sei mesi). Tuttavia, come detto, è il discorso generale da sottolineare e cioè il fatto che questa pratica in Amazzonia è di vecchissima data ed ha avuto un incremento sensibile sotto la presidenza Bolsonaro (2019-2023). Negli anni tra il 2017 e il 2022, 800 milioni di alberi (1,7 milioni di ettari) sono stati sacrificati alla filiera della carne. Il fatto è avvenuto nelle vicinanze degli stabilimenti di tre dei maggiori esportatori di carne, Jbs, Marfrig e Minerva. In realtà i dati potrebbero essere più grandi, dal momento che queste aziende hanno strutture anche in altre zone della foresta. Le tecniche di rilevamento sono quelle classiche: uso di droni, immagini satellitari, spostamento delle mandrie, oltre alle interviste agli addetti che hanno avuto il coraggio di parlare.
La carne brasiliana arriva in ogni parte del mondo, specialmente in Cina.
Lo dico come curiosità, ma anche noi siamo coinvolti in modo a volte paradossale. In Valtellina il prodotto più dichiaratamente locale è la bresaola, prodotto marchiato IGP, che è un attestato di origine, una dichiarazione insomma che il prodotto è di quel luogo. Ebbene, la bresaola valtellinese utilizza le carni degli zebù, che arriva dagli allevamenti brasiliani. Questo non significa che quel bestiame sia responsabile di deforestazione, ma solo che la filiera della carne arriva anche dove i prodotti vengono dichiarati tipici della zona. Ma torniamo in Brasile.
Il trucco
Ed eccoci dunque in Brasile per capire come avviene che la produzione di carne e l’allevamento del bestiame siano legati alla deforestazione. La tecnica truffaldina è simile a quella vista per il legname in Romania. Il bestiame “illegale”, cioè allevato grazie alla deforestazione, viene spostato in fattorie pulite e mescolato a quello regolare. Così riesce difficile, a volte impossibile, capirne la provenienza. Sotto accusa sono finiti, tra i molti altri, grandi marchi europei, come Nestlè e la tedesca Tönnies, che forniva importanti catene di supermercati come Lidl e Aldi. Queste società hanno dichiarato di aver smesso di vendere carne bovina brasiliana rispettivamente nel 2021 e nel 2022.Come se non bastasse, dovremo considerare anche i prodotti che servono per produrre mangimi per il bestiame. In primo piano la soia, che dagli stati del Sud America, viaggia in quantità enorme verso la Cina e l’Europa, compreso il nostro paese. L’Italia consuma ogni anno poco meno di 4 milioni di tonnellate di soia: l’86% (i dati qui sono del 2020) arriva dall’estero, viaggia su enormi navi, che raggiungono i nostri produttori. L’Italia produce mangimi per oltre 15 mila tonnellate.
A guidare il mercato brasiliano della soia non sono ovviamente piccoli produttori locali. Ci pensano le multinazionali, tra le quali un posto di rilievo ha la statunitense Bunge. Sulla loro pagina italiana del sito, leggiamo:
Mettiamo in contatto agricoltori e consumatori per fornire alimenti, mangimi e combustibili essenziali in tutto il mondo.
In Italia siamo uno dei maggiori partner nel settore alimentare. Forniamo mangimi essenziali per gli animali a migliaia di agricoltori locali, nonché oli vegetali ad aziende importanti del settore alimentare italiano.
Inoltre, essendo uno dei maggiori operatori di biodiesel dell’Europa meridionale, abbiamo un ruolo importante da svolgere nell’utilizzare la nostra infrastruttura per contribuire ad alimentare soluzioni di energia rinnovabile.
C’è un'organizzazione giornalistica senza scopo di lucro con sede a Londra, fondata nel 2010 per svolgere indagini di "interesse pubblico". Si chiama “Bureau of Investigative Journalism”. Secondo questo Bureau come viene abbreviato il nome dell’organizzazione, la Bunge si sarebbe fornita anche da diversi fornitori coinvolti nella deforestazione amazzonica. Nonostante la Bunge assicuri che è in primo piano nella lotta alla deforestazione, anche per l’azienda statunitense è difficile stabilire se questo è vero o no, visto che sono circa 9 mila i produttori che le forniscono la soia. Insomma è proprio quello che si diceva prima: a volte riesce impossibile conoscere la provenienza dei prodotti e le modalità con cui vengono realizzati.
I problemi in Amazzonia riguardano anche le popolazioni indigene, che vivono nella foresta pluviale. É, ad esempio, il caso dei Myky, che popolavano la foresta nel Sud della regione del Mato Grosso. Quello che dicono è questo “Prima vivevamo in quell’area, poi sono arrivati i bianchi, hanno preso la nostra terra e la foresta.”
Secondo i dati brasiliani, ci sono 142 terreni privati in territorio Myky. Le controversie e le denunce cozzano contro la legge voluta da Jair Bolsonaro sulle popolazioni indigene, che, di fatto, favorisce le aziende perché “le popolazioni sono indigene solo se lo dice il presidente”. Questa frase non è mia, ma del progetto indipendente “One earth”, un progetto indipendente di informazione sulle cause e le conseguenze della perdita di equilibrio del pianeta. Molto interessante per chi voglia saperne di più.
Anche in questo caso sono saltati fuori grossi nomi della produzione, come la Marfrig.
Per capire chi è lsa Marfrig ecco una breve descrizione tratta da Wikipedia: è la seconda più grande azienda di trasformazione alimentare brasiliana, dopo JBS. L'azienda ha sede a San Paolo, con basi operative in 22 paesi, esporta in oltre 100 paesi, ed è il secondo produttore di carne bovina al mondo.
Dunque la Marfrig è coinvolta nell’indagine, per aver ricevuto bestiame proveniente dai territori Myky. L’azienda di fronte alle accuse non ha replicato, appellandosi proprio alla citata legge di Bolsonaro.
É triste doverlo sottolineare, ma l’Italia è il principale importatore di carni brasiliane in Europa. Come sempre prevalgono i soldi, fanculo alle foreste e alle popolazioni indigene.
… e non è solo cibo …
L’industria della carne entra in gioco anche con i biocombustibili. C’è una nuova recente norma che prevede un aumento della percentuale obbligatoria di biodiesel nel diesel entro il 2026, e l’innalzamento al 30% della quota di etanolo nella benzina. Va bene, in fondo si tratta di carburante verde. Ma questo viene prodotto anche grazie ai grassi di scarto della produzione di carne e ad oli vegetali come quelli di palma e di ricino. Tutte produzioni che hanno responsabilità nella deforestazione amazzonica. Ma si cade nel solito vecchio refrain: questi aumenti hanno già messo in fibrillazione l’industria degli oli, che, secondo il quotidiano finanziario “O Valor Economico” investirà 1,3 miliardi di dollari nel 2024, sei volte di più di quanto investito l’anno precedente.Probabilmente il discorso deforestazione-carne potrebbe venire allargato ad altri temi e ad altri paesi, ma quello che si è voluto sottolineare qui è il modo con il quale le foreste servono ai capitalismi del mondo semplicemente per fare denaro, passando sopra tutte le esigenze importanti e vere delle popolazioni, dalla questione climatica a quella della sopravvivenza delle popolazioni autoctone. Deve quindi servire come esempio o, se preferite, come stimolo per approfondimenti personali.
Già … le multinazionali
Prima di passare ad altro argomento, lasciatemi fare un breve inciso sulle multinazionali del cibo.Vi presento un’altra organizzazione britannica che si occupa della tutela legale dell’ambiente ed è considerata la più efficace organizzazione ambientalista del mondo. Si chiama ClientEarth, ha sede a Londra, ma uffici sparsi un po’ in ogni parte del pianeta. Bene, il 4 maggio 2023, negli USA, ClientEarth, sporge denuncia contro la multinazionale statunitense Cargill, uno dei colossi alimentari, che si fornisce di soia anche in Amazzonia e nel Cerrado, una delle savane brasiliane con la più ricca biodiversità al mondo.
Cargill, probabilmente la più grande società a conduzione familiare, opera nel commercio di cereali e semi oleosi, nella produzione di ingredienti alimentari, nella produzione di mangimi, di cacao e prodotti derivati e di carni.
Cargill si presenta nel suo sito come uno dei paladini in grado di far prosperare il mondo. Promette, tra l’altro, di porre fine a tutta la deforestazione entro il 2030 e di essere libera da quella dell’Amazzonia e del Cerrado entro il 2025. Per farlo utilizza un imponente sistema di monitoraggio. Ed è proprio su questo sistema che è incentrata l’accusa di ClientEarth, che, al contrario sostiene che Cargill viola il codice internazionale di condotta responsabile delle aziende. Di mezzo, oltre alle foreste, ci vanno anche le popolazioni di quelle terre, i cui diritti verrebbero calpestati dalla produzione di soia.
Anche se non è chiarissima la responsabilità dell’azienda in tutte le accuse che le sono state rivolte, c’è però da sottolineare che il suo recente passato è pieno di iniziative contro i suoi metodi e le sue iniziative. Nel 2020 ci sono varie accuse da Greenpeace, Nel 2021 la corte suprema degli Stati Uniti, nel processo contro Cargill e Nestlè, assolve le aziende da accuse terribili, come lo sfruttamento minorile in Costa d’Avorio e l’obbligo agli addetti di usare sostanze tossiche. Ma l’assoluzione è per insufficienza di prove, lasciando quindi dubbi sul comportamento delle due aziende.
Il quotidiano Guardian, sempre molto attento alle questioni ambientali, nel 2020 ha rivelato che i polli forniti da Cargill a note catene come Lidl, McDonalds, Nandos’s, Tesco, Asda, che sarebbero stati allevati con mangimi prodotti da soia arrivata da zone deforestate. Chiaramente ClientEarth spera che le accuse non restino solo una macchia sulla multinazionale, perché è dal comportamento di questi grandi marchi, come Nestlè, Unilever e altri, che passa inevitabilmente la lotta contro la deforestazione del pianeta.
Questo inciso per far capire che, da un lato, molte malefatte passano lisce, ma, dall’altro, che ci sono molte organizzazioni che vigilano sui comportamenti anche di gruppi importanti a livello mondiale. E capita spesso che comportamenti truffaldini e pericolosi per l’ambiente finiscano sotto la lente d’ingrandimento di tribunali o, molto più spesso di pubblicazioni attente e serie come il Guardian.
Chiuso l’inciso, passiamo ad altro.
La soia
Prima di trasferirci in altri paesi, segnatamente in Africa, vorrei affrontare un tema generale che riguarda la deforestazione, ma non la filiera della carne. Cominceremo con la soia, forse uno dei cereali più commerciati assieme al mais in ogni parte del mondo.Parliamo dunque della soia. Probabilmente noi non sappiamo nemmeno quanta ne arriva sulla nostra tavola, anche se non in forma visibile, ma come materia prima per prodotti, come i mangimi per animali, che troviamo dentro la bistecca. Cominciamo a dare i numeri, che ricaviamo da numerose indagini sia di organizzazioni che controllano i flussi di soia nel mondo, sia che controllano la deforestazione legata alla produzione di questo cereale.
In Italia vengono utilizzate ogni anno quasi 4 milioni di tonnellate di farina di soia. Meno del 20% sono di origine nazionale, tutto il resto (l’80%) è importato, principalmente da Argentina, Brasile, Stati Uniti e Paraguay. La destinazione principale è la produzione di pollame che consuma il 40% del mangime prodotto anche con la soia. Il restante 60% se lo dividono in parti uguali gli allevamenti di bovini e suini. La società che più di altre rifornisce di soia il nostro paese è la già citata Bunge, che predica bene, ma sui cui fornitori pesano accuse pesanti di deforestazione. Ad esempio nel Cerrado, la stagione 2019 è ricordata comne quella degli incendi con 64 mila roghi (e 90 mila in Amazzonia) e non è andato meglio l’anno seguente con 100 mila roghi in Amazzonia e 62 mila nel Cerrado. Ed è proprio in quelle zone, quelle degli incendi intendo che viene coltivata parte della soia che una quantità sterminata di fornitori fa arrivare all’azienda statunitense. Dunque sospettare è quanto mai lecito.
C’è poi da dire che avere dati sicuri è un’impresa quasi impossibile. Fermandoci al 2021, ci sono valori che stridono tra quelli forniti dal governo e dall’agenzia spaziale brasiliana INPE da una parte e quelli di Imazon, organizzazione brasiliana senza scopo di lucro che si dedica alla conservazione della foresta pluviale amazzonica dall’altra. Curiosamente i dati di INPE e Imazon fino ad 2018 coincidevano, poi, improvvisamente le differenze sono diventate sensibili, quasi che l’agenzia spaziale brasiliana tutelasse gli interessi dei ricchi produttori di carne e di soia e, di conseguenza quelli del governo allora in carica. Ricordo che Jair Bolsonaro diventa presidente il 1° gennaio 2019. Ed è ben noto il fatto che Bolsonaro, nell’agosto del 2019, licenziò in tronco il direttore di INPE perché forniva dati che nuocevano ai produttori, il che dice tutto.
Paulo Moutinho, direttore dell’Istituto di ricerca ambientale dell’Amazzonia, chiarisce bene la situazione,
“Fino ad oggi dietro a incendi e deforestazione c’erano allevatori e agricoltori, che pulivano i terreni dalla foresta per estendere i propri pascoli e le coltivazioni. Oggi lo scenario è cambiato, protagonista dell’accaparramento delle terre è il crimine organizzato. Invadono i territori, prendono la terra, la incendiano e deforestano, ci mettono dei pascoli e poi si siedono ad aspettare che arrivi qualcuno a comprarla”.
“Eppure – continua Moutinho - una legge per la protezione almeno parziale delle foreste esiste. In Brasile ci sono 60 milioni di ettari di foresta che si trovano su terreni pubblici dove non c’è nessun tipo di protezione. Qui si concentra buona parte della deforestazione. “Già dal 2006 il parlamento ha approvato una legge per dare una destinazione a queste terre, come riserve naturali o aree protette, per evitare che vengano considerate terra di nessuno e vengano convertite in pascoli o agricoltura. Bisognerebbe solo applicare la legge”.
Ora c’è Lula e vedremo se il vecchio presidente avrà le palle per prendere in mano la situazione a vantaggio della natura.
L’ultima questione da affrontare è dove finisce la soia: qual è il mercato maggiore? Un articolo interessante di One Earth racconta la situazione di Sorriso, cittadina di circa 10 mila abitanti nel mezzo della savana Cerrado. Ma, attorno alla città di savana non c’è nemmeno l’ombra. Ci sono invece 600 mila ettari di campi coltivati a soia, un’area più grande dell’intera Liguria. I dati di cui dispongo sono del 2020 e probabilmente sono ridotti rispetto agli anni successivi per i noti motivi legati alla pandemia. Dunque da Sorriso partono ogni anno 2,2 milioni di tonnellate di soia, un vero e proprio record. Ma la cosa più curiosa è che la maggior parte (oltre il 60%) affronta un lunghissimo viaggio per arrivare in Cina. La crescita è di questi ultimi anni con cifre enormi rispetto addirittura al consumo interno Brasiliano, per non parlare dell’Unione Europea, rispetto alla quale il Brasile incassa dalla Cina 10 volte di più.
Il motivo di un mercato così ricco e cresciuto è abbastanza semplice. In Cina è aumentata di moltissimo la richiesta di carne, soprattutto di polli, che, come abbiamo visto costituiscono la filiera che consuma più soia di tutti.
Ma la crescita di consumo di carne nei piatti cinesi è universale, con aumenti enormi dal 2010 al 2020, ben superiori al 50%.
L’atteggiamento della Cina nei confronti degli effetti nefasti della deforestazione e in generale della ricerca di materie prime nel mondo e in Brasile in particolare, è quanto mai controversa, come l’intera politica ambientale di XI Jinpig. Questo aspetto però ci porterebbe molto lontano dal tema che stiamo affrontando e meriterebbe una discussione a parte.
Ovviamente non c’è solo la Cina. Gli esiti della pandemia e i giochini del mercato internazionale hanno prodotto aumenti strabilianti del prezzo di molte materie prime, che sono diventate troppo care per competere con mercati sicuramente meno affidabili ma più a portata come quelli argentini e brasiliani.
Concludo con l’osservazione di Nature Climate Change a proposito della resilienza della foresta amazzonica, pubblicato nel marzo 2022.
“I ritmi di deforestazione e i cambiamenti climatici stanno spingendo l’Amazzonia verso un punto di non ritorno, con l’aumento della stagione secca e il ridursi delle piogge. Superata questa soglia, la foresta è destinata a trasformarsi in una grande savana, rilasciando enormi quantità di gas serra in atmosfera.”
Pensate un po’: l’unico polmone che oggi assorbe più CO2 di quanta ne produca, diventerà, anch’essa, un nemico mortale della sopravvivenza umana. Alla faccia dei polli, nel senso del cibo, ma anche degli esseri umani che si credono più furbi di tutti … poveri illusi.
Ma no … anche il cacao!
Vi piace la cioccolata? E a chi non piace? Viene fatta con il cacao. Il cacao è un albero che produce un grande frutto, che a sua volta contiene dei semi che sono quelli che servono per fare la cioccolata. É un albero fragile, teme il sole e va coltivato all’ombra di piante più grandi e a foglia larga come palme o banani. Ha bisogno di caldo, per questo le coltivazioni avvengono nelle zone comprese tra i due tropici. Detto questo, che è il minimo sindacale, ma potete trovare una infinità di informazioni su questo frutto e sulla miriade di sottospecie in rete, passiamo alla produzione del cacao. Lo stato che detiene il record e che, secondo la pubblicità, offre il prodotto più buono è la Costa d’Avorio.In Africa facciamo riferimento a questo stato, ma altri due, il Ghana e il Camerun, sono nelle stesse identiche condizioni, anche se con cifre meno impressionanti.
Potrà sembrare a qualcuno che dovremmo occuparci di cose più serie e non del cacao, ma questo prodotto è un asset importante del mercato internazionale, se sposta 130 miliardi di dollari l’anno. Dai dati dell’agosto 2023, veniamo a sapere che il valore delle azioni legate al cacao durante tutto il 2023 è più che raddoppiato. Insomma viviamo in un mondo di golosi, che sono la causa principale di tutto quello che succede alle foreste, sradicate per coltivare cacao.
In Costa d’Avorio poi è uno dei punti di forza dell’economia se occupa il 20% del PIL. Ovviamente, come detto tante volte, questo significa solo che in complesso arrivano molti soldi, ma certo non vengono distribuiti equamente tra la popolazione, che invece con una media di due dollari al giorno e in larga percentuale è sotto i limiti si sopravvivenza. Tra l’altro, nelle piantagioni lavorano molti bambini e lo sfruttamento minorile è un altro brutto problema accanto alla deforestazione.
I dati sono impietosi. Tra il 2010 e il 2020, le coltivazioni di cacao hanno sostituito 25 mila km quadrati di foresta, un’estensione grande come tutto il Piemonte o la Sicilia, le più grandi regioni italiane. I dati emergono da una ricerca dell’università belga di Louvain dell’inizio 2023. Sostituire foreste anche primarie con coltivazioni agricole è diffuso nel mondo, come vedremo anche più avanti, ma in questo caso la situazione è davvero grave. Infatti se l’approvvigionamento di cacao è responsabile del 60% della deforestazione in Costa d’Avorio, quasi la metà di questa avviene in modo del tutto illegale. Questo significa che oltre la metà del cacao che arriva sui mercati di tutto il mondo non si sa da dove provenga e quali nefandezze sono state commesse per coltivarlo. É evidente che questo va contro le leggi previste dall’Unione Europea. La logica conseguenza sarebbe dunque che da noi di cacao dalla Costa d’Avorio non ne arri vi per niente. Ma la realtà è molto diversa: l’UE importa il 60% del cacao ivoriano. C’è da sperare che con le nuove misure restrittive questo finisca anche per imporre allo stato africano un controllo più puntuale sulla propria produzione.
Abbiamo già visto, riguardo la deforestazione, come molti stati si nascondano dietro frasi ad effetto, adesioni a convenzioni che poi non rispettano. É avvenuto anche per i grandi produttori di cacao: la Costa d’Avorio, il Ghana, la Colombia assieme a 35 grandi aziende produttrici di cioccolato, hanno aderito nel 2017 alla iniziativa Cacao e Foreste, impegnandosi a “porre fine alla deforestazione e ripristinare le aree forestali, evitando ulteriori conversioni di terreni forestali per la produzione di cacao”. E come sempre, tra il dire e il fare, in tema ambientale, ci sono molti mari da attraversare. Questa iniziativa fa acqua da tutte le parti e i responsabili maggiori sono proprio le strutture statali che non sono in grado di tracciare il prodotto, così che “Le aziende non sanno da dove proviene il cacao e sono quindi incapaci di valutare se la sua produzione è legata a questioni di sostenibilità, tra cui la deforestazione o il lavoro minorile.” Come si legge nel documento belga.
É anche chiaro che le multinazionali, nonostante le dichiarazioni ambientaliste, non fanno molto per capire da dove arrivano i prodotti (il discorso si potrebbe allargare anche al caffè) e che danni sono stati commessi per averli. Sotto la lente di ingrandimento è finita, ad esempio (ma non è l’unica) la Cargill uno dei più grandi trasformatori di cacao al mondo.
Questo stato di cose si porta dietro altri problemi. Alcuni più generali come la perdita di biodiversità e la distruzione di interi habitat, di cui abbiamo già parlato anche in altre puntate di NSSI. E poi la diffusione di questo sistema distruttivo ivoriano in altre parti del mondo: L’Amazzonia peruviana, il bacino del Congo e le foreste del Sud est asiatico sono il nuovo “Eldorado” per le multinazionali del cioccolato.
E poi arriviamo alle questioni sociali. La deforestazione, la monocoltura e la logica del profitto hanno come conseguenza lo sfruttamento della manodopera. I contadini sono pagati pochissimo; in Costa d’Avorio e Ghana guadagnano un dollaro al giorno e, come già detto, per abbassare i costi ecco arrivare anche i bambini nelle piantagioni.
L’assurdo è che mentre i paesi africani forniscono oggi il 75% del cacao, ricevono in cambio solo il 6% dei profitti delle industrie cioccolatiere. C’è un tentativo, da parte di Ghana e Costa d’Avorio, di creare un cartello sul tipo dell’OCSE (gli esportatori di petrolio), coinvolgendo anche altri paesi come l’Indonesia, l’Equador e in Africa la Nigeria e il Camerun. Messe assieme queste nazioni forniscono quasi tutto il cacao mondiale (85%) e potrebbero fare la voce grossa sul mercato. Ma questa è solo una mossa economica che non avrebbe molta importanza sulla salvaguardia delle foreste.
Pensiamo solo un attimo alle conseguenze della legge europea sulle limitazioni alle importazioni di prodotti causa di deforestazione. Legge entrata ormai in vigore dal 1° gennaio 2025. Quello che dovrebbe accadere … uso il condizionale perché quando si tratta di soldi non si sa mai come vanno a finire le cose … quello che dovrebbe accadere è che le scorte di caffè e cacao non immesse sul mercato entro il 31 dicembre prossimo dovrebbero essere distrutte. Infatti, secondo Europe Today, nei magazzini sparsi per l’Unione Europea ci sono 350 mila tonnellate di caffè e cacao.
In allarme non sono solo le aziende coltivatrici, ma anche chi trasforma i semi in cioccolata. Forse, dicono, le uova di Pasqua 2025 saranno senza cioccolata.
Pasqua 2025 è lontana, la deforestazione è cosa attualissima e penalizza tutti noi. Non resta che aspettare se questa legge europea farà riflettere società e stati di mettere ordine alla produzione, rendendola sostenibile.
L’olio di palma nella terra di Sandokan
Adesso ci trasferiamo su un’altra isola, una delle più grandi al mondo, la terza come estensione, il Borneo. Politicamente, la maggior parte di esso, fa parte dello stato indonesiano, capitale Giacarta, 2 milioni di km quadrati, quasi sei volte e mezzo l’Italia, 17 mila e cinquecento isole che formano l’arcipelago più grande del mondo.Una di queste isole è la terra dove Emilio Salgari ha fatto vivere Sandokan e la sua perla di Labuan, Tremal Naik, Yanez e tutte le tigri di Mompracem. Il Borneo ha un’estensione di circa due volte e mezzo l’Italia ed è divisa tra Malaysa (la parte settentrionale) e l’Indonesia. Quest’ultima parte è chiamata Kalimantan e si estende per circa 530 mila km quadrati, più del 70% dell’intera isola.
La storia di questo luogo è interessante. Sembra sia stata scoperta dai reduci della flotta di Magellano nel 1521. Qui trovano la vera “isola del tesoro”: ricche riserve di miniere, oro, diamanti, manganese. E piantagioni di caucciù, caffè, riso e tabacco. Tutto in mano ad un solo uomo: il ricchissimo Sultano del Brunei, che allora la possedeva interamente. Ma la ricchezza più importante e, per certi versi, clamorosa di quest’isola è altrove: è dentro quelle foreste, è nella natura dell’isola, un paradiso della biodiversità: si contano quindicimila specie di piante da fiore, tremila di alberi, duecento specie di mammiferi terrestri e quattrocento di uccelli. E ancora oggi, ogni anno, se ne scoprono di nuove.
Un regalo della natura da conservare con cura, quasi con gelosia, ma un regalo che non produce profitto se si escludono i turisti che fino a qualche tempo fa arrivavano per provare il brivido di una camminata nella giungla, stando attenti agli scorpioni letali per terra, a quelle strane liane che se ti mordono muori in pochi istanti, alle sanguisughe negli stagni e agli animali predatori che possono attaccarti.
200 mila km quadrati di foresta primaria, quella che chiamiamo foresta vergine, mai toccata da attività umane, lasciata intatta come natura l’ha creata e come poi si è sviluppata.
Ebbene, è triste dirlo, ma quella foresta non è più vergine.
La storia dell’Indonesia nel dopoguerra, cioè dopo la dominazione olandese di quelle terre, non è certo un esempio di nazione guidata da uomini saggi e giusti. Colpi di stato, guerre civili con molte centinaia di migliaia di morti, esecuzioni sommarie e, soprattutto, corruzione, hanno accompagnato il regime di Suharto, durato 32 anni. Questi fatti probabilmente hanno inculcato nella nazione la convinzione che tutte quelle nefandezze potevano essere compiute.
É inutile aggiungere, perché lo abbiamo già fatto in abbondanza, che quelle foreste sono anche un polmone di ricambio della CO2 decisamente importante vista la vastità della foresta e l’antichità di quegli alberi, che hanno per così tanto tempo accumulato anidride carbonica e rilasciato ossigeno. Questo significa che distruggendo quegli alberi si fa un danno molto grande dal punto di vista dei cambiamenti climatici, molto più grave che se si tagliasse il pero che avete in giardino.
Certo potrebbe essere sostituito, ma non tutti gli alberi hanno lo stesso potere ripulente l’atmosfera (passatemi questo termine impreciso). Sostituire un baobab con una palma non porta il bilancio in pareggio, per niente.
E adesso vediamo cosa è accaduto alle foreste del Borneo negli ultimi decenni.
Cominciamo con il dire che lo stato confinante con l’Indonesia non è certo una verginella, anzi. Anche nella parte malese le cose sono andate malissimo. Tra l’altro è proprio là che esiste la provincia di Sarawak, a proposito delle leggendarie gesta della tigre di Mompracem. E da là cominciamo la nostra analisi.
La prima domanda che viene in mente è questa: come diavolo si fa a sapere quanti alberi sono stati abbattuti e quale impatto sull’effetto serra e sulla biodiversità ha provocato? In effetti è facile convincersi che andare a contare gli alberi uno ad uno in un territorio così vasto e inospitale per l’uomo non è il massimo. Si usano visioni dall’alto, sia da aerei di ricognizione che, soprattutto, da satelliti. Le immagini che si ricavano sono estremamente nitide e chiariscono perfettamente la situazione.
I primi studi sullo stato forestale del Borneo malese sono cominciati nel 2009. Li hanno condotti scienziati delle università di Papua Nuova Guinea e della Carnegie Institution for Science, un’organizzazione di Washington che sostiene la ricerca scientifica ed è anche quella che ha messo a disposizione i propri satelliti.
Il risultato viene presentato nel 2013, con dati impressionanti. La costruzione di strade e cantieri nella giungla è penetrata fin nel cuore del Borneo malese, riducendo la verginità di quelle foreste in misura inaccettabile. Non si tratta soltanto di tagliare alberi, ma anche di disturbare (per usare un eufemismo) un ecosistema che si mantiene da secoli, di rovinare un equilibrio conquistato con pazienza in millenni di evoluzione.
E poi dipende anche dal tipo di piante che vengono abbattute. Lo studio del 2013 sottolinea che quelle abbattute, con diametro superiore ai 45 cm, sono pronte per essere nuovamente abbattute dopo 25-30 anni. Ma questa non è certo una consolazione, come scrivono gli estensori del rapporto, i quali dicono:
“Questa forma di disboscamento danneggia in maniera considerevole il suolo, i corsi d’acqua e la struttura della foresta nonché gli alberi residui, con un progressivo degrado della biomassa nel corso dei diversi cicli di raccolta. I bulldozer, poi, impattano circa il 30-40% delle aree deforestate e danneggiano dal 40 al 70% degli alberi residui. La produzione iniziale di legname non può, dunque, essere effettuata su cicli multipli: 25-30 anni rappresentano un periodo di tempo troppo breve per la rigenerazione delle riserve di legname.
Di conseguenza, le foreste subiscono danni enormi. Le foreste della regione, infatti, sono state classificate per il 44% come “degradate” o “severamente degradate,” mentre un altro 28% è stato convertito in piantagioni o si trova in una fase di rigenerazione successiva all’abbattimento.”
Insomma un vero disastro.
La cosa curiosa è che le strade del disboscamento nelle regioni malesi del Borneo finiscono di colpo al confine con il Brunei. La differenza tra le due foreste è incredibile, perché nel Brunei esse risultano praticamente intatte. Il motivo è abbastanza semplice. L’economia del piccolo stato è sostenuta principalmente dal petrolio offshore, sul gas e sui servizi ad essi associati. E quindi non hanno bisogno né di legname, né di ulteriori territori per sviluppare la propria agricoltura.
É ovvio che della situazione malese e di quella indonesiana, che vedremo tra poco, sono preoccupati tutti gli stati che sono chiamati a ridurre le emissioni di CO2 in base ai vari accordi internazionali: quelli di Parigi del 2015, il Green Deal Europeo e quelli dei singoli stati. La deforestazione è una delle cause principali dell’aumento della quantità impressionante di anidride carbonica presente in atmosfera, non esserne consapevoli è un delitto assai grave.
É cambiato qualcosa nel frattempo?
Che la situazione, rispetto al 2013 non sia migliorata lo dimostrano molte ricerche effettuate anche di recente.L’Indonesia è stata letteralmente invasa negli ultimi anni da incendi mastodontici. “Beh – dice uno – è successo anche altrove, anche da noi.” Certo, ma le dimensioni e la durata di quelli indonesiani sono davvero un’altra cosa.
Cominciamo con le notizie più dure. Come sempre, ci affidiamo alle informazioni ufficiali, essendo piuttosto refrattari a fare dietrologia o a inventarci notizie inesistenti. Dunque nel 2016 esce un rapporto di una ricerca condotta dalle Università di Harvard e Columbia, rispettivamente di Cambridge nel Massacchussets e di New York. Viene pubblicato su una prestigiosa rivista scientifica, l’Environmental Research Letters (Pubblicazioni di ricerche ambientali). Il dato più clamoroso è questo: gli incendi boschivi del 2015, legati alla deforestazione nel sud-est asiatico hanno causato più di centomila morti. Si è trattato di roghi titanici, appiccati di proposito dalle multinazionali dell’olio di palma e poi sfuggiti di mano. Il fumo prodotto riesce a coinvolgere perfino i paesi confinanti, Malesia e Singapore, ci sono mezzo milioni di casi di infezione alle vie respiratorie, circa 50 milioni di persone esposte a fumi tossici 24 ore al giorno per settimane. Le conseguenze, per così dire, civili, sono annullamento dei voli, chiusura delle scuole e di altre attività. Insomma un vero disastro sociale.
Lo studio statunitense calcola 90 mila morti in Indonesia, 6 mila in Malesia e 2200 a Singapore. Non è la prima volta che una simile disgrazia avviene. Era accaduto già nel 2006, ma questa volta gli effetti sono tre volte peggiori.
Altri dati clamorosi: le emissioni giornaliere prodotte dai roghi superano quelle medie giornaliere degli Stati Uniti, mentre i livelli di inquinanti emessi in atmosfera toccano un valore di un indice standard pari a 3'000, mentre la soglia di pericolo è 300.
Le torbiere (cioè il sottosuolo delle foreste) su cui gli incendi si sviluppano contengono molto materiale organico combustibile e rilasciano in atmosfera grandi quantità di polveri sottili (soprattutto PM 2,5) che sono la principale causa di morte delle persone colpite.
C’è un ultimo avvertimento da parte dei ricercatori: abbiamo indagato – dicono - solo tra gli adulti. Probabilmente, considerando anche i bambini i numeri così terribili, potrebbero essere anche più grandi.
Il governo indonesiano ha giudicato questo report semplicemente “privo di senso” ed ha stimato che i morti sarebbero stati appena 24.
Questo negli anni passati. E oggi?
Fino al 2018 venivano dati in concessione alle multinazionali terreni vastissimi per piantare le palme da olio, quell’olio di palma, che la stragrande produzione alimentare usa nei propri prodotti (di questo parleremo poi). Sono ovvie due cose. La prima che per poter sfruttare quei terreni è necessario togliere di mezzo la foresta che vi sta sopra e la seconda che l’apporto in quanto a rimozione di CO2 da parte delle piante crolla vertiginosamente. C’è poi tutta la questione degli habitat distrutti, della sopravvivenza di molte specie, della biodiversità e così via.
Nel 2018 il governo di Jakarta, sotto l’insistenza di associazioni ambientaliste e anche di qualche esponente politico, ha dovuto varare una moratoria per la concessione di terreni per la produzione dell’olio di palma.
La storia dell’atteggiamento politico di Jakarta nei confronti di questo problema è significativa. Dunque ricapitoliamo: Nel 2018 viene varata la moratoria: niente concessioni, dopo le tante, troppe già concesse ad aziende provate. La scadenza nel 2021 presupponeva un rinnovo o quanto meno che ci fosse un’analisi della situazione. Ma il governo non si è praticamente mosso, rimandando la decisione continuamente.
Intanto in Europa passava la legge sul divieto di importazione di merci prodotte grazie a deforestazione. Ma questo fatto non ha fermato proprio nulla per due motivi principali.
Il primo che l’olio di palma che arriva da noi è una minima parte di quello esportato dall’Indonesia, i cui mercati più ricchi sono la Cina, l’India, il Pakistan e la Malesia. Non è difficile pensare, e questo è il secondo aspetto, come sia possibile aggirare le leggi internazionali. Se l’olio di palma illegale viene mandato in Cina e qui lavorato da un’azienda che ha un buon rapporto con l’UE, ecco che quell’olio arriva da noi con tutti i crismi della legalità e della sostenibilità. Ancora una volta, come abbiamo già visto per il legname prezioso, il nodo della questione è la tracciabilità, sapere cioè la provenienza delle materie prime e come sono state ottenute. É ovvio che le responsabilità sono delle aziende, ma le coperture politiche e amministrative non mancano mai. Ed infine c’è un terzo motivo di preoccupazione. Le banche (anche quelle europee) non si tirano certo indietro se c’è da finanziare un’attività economicamente vantaggiosa. Quella dell’olio di palma lo è, parecchio e non credo si debba aggiungere altro.
Ora però veniamo alle notizie più recenti. Non solo la moratoria è stata nuovamente imposta, ma adesso non è più provvisoria, ma definitiva. Nessuna parte di foresta può più diventare una coltivazione di palma da olio. Il governo indonesiano in questi due anni ha avviato una mappatura imponente delle coltivazioni di palma da olio, varando una disposizione che gli appezzamenti di quelle illegali siano restituite alla foresta. In altre parole le coltivazioni di palma illegali dovranno tornare ad essere foreste. Il risultato è davvero pregevole fino a che non si guardano i numeri. Si parla di restituire alla natura circa 200 mila ettari, un’area sicuramente importante, ma ridicolmente piccola rispetto all’estensione delle coltivazioni di palma ricavate deforestando. Questa è di oltre 2 milioni e mezzo di ettari, quasi la metà dell’area indonesiana destinata alla produzione di olio di palma. Per completezza possiamo anche aggiungere che, complessivamente dal 2000 al 2022 lo stato asiatico ha perso qualcosa come 30 milioni di ettari di foreste, un valore assurdo, più del 30% del totale, presente all’inizio di questo millennio.
Olio di palma e salute
Abbiamo parlato dell’olio di palma. Credo molti di voi abbiano notato negli ultimi anni la comparsa nei negozi e nei supermercati della scritta “Non contiene olio di palma” come se quel prodotto fosse stricnina o comunque un alimento che procura gravi danni alla salute. Le cose stanno così?Cominciamo dall’inizio: cos’è questo olio di palma?
È un grasso che si ricava dalle drupe, che sono i frutti di alcuni tipi di pama e assomigliano a delle grosse olive di color rosso – marrone. Dei tre tipi di palma che lo producono, la più diffusa è la palma africana, la quale, a dispetto, del nome, trova la sua maggior diffusione proprio in Malesia e Indonesia e nelle zone tropicali delle Americhe. Poi tutto procede come per il comune olio di oliva. Si spremono le drupe e si ottiene l’olio, che poi può essere raffinato attraverso passaggi successivi.
Nella seconda metà del XX secolo c’è un boom di richieste per l’uso commerciale di questo prodotto. I motivi sono diversi. Intanto l’olio di palma ha caratteristiche simili al burro, unico grasso vegetale. Poi può sostituire le margarine, molto osteggiate dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. E ancora: costa molto meno di altri grassi, si conserva molto meglio del burro, per il suo gusto insapore può essere utilizzato senza che alteri il sapore dei cibi in cui è presente. Anche l’industria cosmetica ne fa un grandissimo uso.
E così, nonostante l’olio di palma non sia un prodotto della nostra tradizione, ha presto spopolato anche da noi.
Alla domanda “fa male alla salute” io non posso, ovviamente rispondere, ma solo riportare quello che viene scritto. Anche qui è un vero casino, perché a fronte di chi dice che fa malissimo c’è un altro che sostiene che non è vero e che, anzi, fa bene alla salute.
Cercando di raccogliere le informazioni qua e là mi sembra di aver capito che:
Nell’olio di palma c’è un acido che fa crescere il colesterolo e sottopone a rischi cardiovascolari. Ma, d’altra parte, contiene anche altre sostanze che svolgono importante azione antiossidante. In ultima analisi la maggior parte degli specialisti in materia è propensa a dire che questo prodotto non è così dannoso per la salute come lo si dipinge. È chiaro che i rischi derivano dagli eccessi, ma questo vale per ogni grasso, dal burro all’olio allo strutto al lardo e così via. Sono gli eccessi, di ogni tipo, da evitare. I grassi saturi non dovrebbero mai superare al massimo il 10% sulle calorie del nostro fabbisogno quotidiano.
Anche la notizia che l’olio di palma sia cancerogeno è falsa o, quanto meno, non esiste alcuna evidenza scientifica che ne dimostri la cancerogenicità.
E, comunque, avere la possibilità di scelta tra prodotti con e senza l’olio di palma, che, ribadiamo, come tutti i grassi, bene non fa, è in ogni caso una garanzia è un vantaggio.
Dunque tranquilli: la vostra salute non viene messa in pericolo dall’olio di palma più del sugo grasso fatto con burro o margarina.
Ma, dal punto di vista della sostenibilità, le cose sono assai diverse. Abbiamo già visto come l’abbattimento di aree immense di foreste pluviali per realizzare piantagioni di palma significhi immettere una quantità enorme di gas serra in atmosfera. Ma c’è di più.
Il motivo per cui le multinazionali si sono rivolte a questo tipo di coltura risiede nel fatto che, contrariamente ad altre piante, non c’è bisogno di molta manutenzione, di molta acqua, di pesticidi, di fertilizzanti. Purtroppo però la pianta di palma esaurisce rapidamente e completamente il terreno e le sue proprietà nutritive, per cui si devono attuare interventi di recupero o di ripristino che sono molto costosi e per nulla convenienti per i coltivatori. E così, dopo un ciclo di circa 20-25 anni quel terreno deve essere abbandonato e c’è bisogno di un’altra area, che, come visto, si ricava da un ulteriore abbattimento di foresta pluviale.
È allora possibile produrre olio di palma in modo sostenibile? Forse sì, ma non con il sistema attualmente utilizzato. Con molto ritardo si è formato un organo di controllo, il Roundtable in Sustainable Palm Oil, che tradotto significa Tavola rotonda per un olio di palma sostenibile. Uno strumento che, seppur ancora giovane, veglia sulla produzione secondo modalità etiche dell’olio di palma e combatte i fenomeni che per lungo tempo si sono protratti a discapito di una produzione etica.
Ci sono studi che cercano vie diverse per produrre questo alimento. Recentemente la ricerca si è orientata verso alcune alghe che sarebbero in grado di produrre qualcosa di simile all’olio di palma. Ma la strada è appena cominciata e sarà, probabilmente, lunga e piena di conflitti con il mondo dell’imprenditoria al quale poco importa dell’ambiente se questo incide sui suoi profitti.