rapanuiLa storia che stiamo per raccontare ha poche certezze. Le sue origini si perdono molto lontano nel tempo, mescolando storia e fantasia, scienza e mito. Chi ne ha parlato, ha suggerito ipotesi tutte diverse, spesso contrapposte. In una simile situazione possiamo fermarci alle poche fonti certe, oppure possiamo lasciarci trasportare dal “sentito dire”, dalle “voci” che sono state raccolte nei secoli, dalle leggende che sull’ignoranza dell’accaduto sono nate e si sono sviluppate. Oggi vogliamo raccontarvi la storia di un’isola del Pacifico, un’isola misteriosa, che noi europei conosciamo come Isola di Pasqua. La sua storia è talmente enigmatica, che qualcuno, come Erich von Däniken, si è convinto che i primi ad arrivare, nella notte dei tempi, siano stati degli extra-terrestri, che, prima di svanire nel nulla, avrebbero lasciato il loro sapere agli umani che ci vivevano. Affascinante narrazione: ma, come vedremo, di tutte quelle ipotetiche conoscenze, quegli abitanti non ne hanno fatto buon uso.
Il bello di raccontare le storie è proprio questa possibilità di mescolare informazioni documentate con altre che poggiano su racconti antichi, chissà quante volte modificati nel corso dei secoli.
Detto questo, possiamo cominciare.
Provate a immaginare un’isola in mezzo al mare, ma proprio in mezzo, perché quella di cui stiamo per parlare ha la costa più vicina a oltre 2000 km e si tratta di un’altra isola; per trovare un continente, il percorso è quasi doppio. Si trova nell’Oceano Pacifico Meridionale. A Est le coste del Perù e del Cile, ad Ovest la Polinesia. Potremmo dire che si tratta di un’isola terribilmente isolata. É abitata da una popolazione che non si sa bene che origini abbia, ma sicuramente è arrivata qui molti anni fa, più di 1500, forse 2000. Come ci è arrivata affrontando un viaggio per l’epoca quasi impossibile? E da dove è partita?
Gli occidentali vi approdano solo nel 1722, nella settimana di Pasqua, e per questo la battezzano Isola di Pasqua. Le ricerche successive esaminano tutto quello che è possibile: i resti umani, i manufatti, gli usi e i costumi per confrontarli con quelli di altri popoli dei dintorni … oddio, dintorni non è proprio il termine corretto: qualcuno ha suggerito che la terraferma più vicina all’isola sia la luna, che del resto è l’unica cosa non fatta di acqua che si riesce a vedere. Gli antropologi sembrano essere sicuri: i primi abitanti dell’isola sono arrivati dalla Polinesia attorno al 400 dopo Cristo. Il dna trovato sull’isola, l’organizzazione sociale, i riti, sembrano indicare senza dubbio questa soluzione. I coraggiosi marinai, che attraversano 4000 chilometri di oceano, quando si trovano davanti l’isola, devono essere stati così felici da chiamarla “grande roccia”, nel loro linguaggio Rapa Nui, che rimane ancora oggi il nome ufficiale di quella roccia che poi così grande non è se pensiamo che è ben più piccola dell’isola d’Elba. Perché mai si dovrebbe affrontare un simile viaggio? Le ipotesi sono molteplici: potrebbe esserci stata una guerra e gli sconfitti hanno dovuto lasciare le proprie terre e rifugiarsi altrove (ci si potrebbe chiedere perché mai così lontano, ma questo proprio non lo sa nessuno). Oppure potrebbe esserci stato un cataclisma, un’eruzione vulcanica o uno tsunami, che ha consigliato ai nostri amici di tagliare la corda.
Ad ogni modo, per un motivo o l’altro, alla fine, una popolazione ha messo radici a Rapa Nui.
La conformazione dell’isola ha fatto nascere una leggenda, che cerca di spiegare il motivo per cui le sue coste sono scogliere, spesso a picco su un oceano che, dopo pochi metri, presenta profondità impressionanti di migliaia di metri.
La leggenda assomiglia a quella che il filosofo greco Platone ha sdoganato per il continente sommerso di Atlantide. La conquista di molte terre che si affacciano sul Mediterraneo da parte dei guerrieri di Atlantide e il tentativo di conquistare Atene, avrebbe fatto arrabbiare moltissimo Poseidone, il dio dei mari. Mettere in pericolo Atene deve essergli sembrato un delitto così grave da indurlo a far sprofondare, nel corso di un’unica notte, tutto il continente in fondo all’oceano Atlantico. Ebbene, una cosa simile sarebbe successa al continente Mu, nell’Oceano Pacifico. I motivi sono meno legati all’Olimpo o a qualche vendetta divina. Forse durante una glaciazione le acque erano molto più basse e il continente era fuori dal pelo dell’acqua, con tutti i suoi abitanti. Quando la glaciazione è finita, il livello dell’oceano si è alzato e le montagne di Mu sono sprofondate. É rimasta fuori dall’acqua solo la cima più alta, appunto Rapa Nui. La scienza dà alla storia di Mu la stessa attendibilità di Atlantide, cioè nessuna, ma questa leggenda ha impegnato molti autori che ne hanno discusso seriamente.
Quello che la geologia ci racconta è che l’isola è di origine vulcanica, cresciuta dal mare, eruzione dopo eruzione, versione sicuramente più corretta, ma anche meno affascinante di quella leggendaria.
L’origine polinesiana dei Rapanui(*) non è l’unica possibile. Infatti, quando gli europei sono arrivati all’isola, gli abitanti hanno raccontato loro che due popolazioni ci vivevano: quelli dalle lunghe orecchie e loro dalle corte orecchie, che secoli prima avevano vinto una guerra ed erano così rimasti padroni del territorio.
Le orecchie lunghe derivano dall’abitudine di appendere un oggetto pesante al lobo dell’orecchio che, nel tempo, si allunga. Ma in Polinesia questa usanza non esiste. Esiste invece tra le antiche popolazioni andine, soprattutto tra guerrieri e nobili. Insomma avere orecchie lunghe era, per loro, segno di regalità.
Inoltre si sono trovate coltivazioni di patata dolce, tubero del tutto sconosciuto, all’epoca, ai polinesiani, ma coltivato in Perù. Anche alcune costruzioni sacre, di cui parleremo, sono realizzate con tecniche tipiche delle comunità andine. Nasce così l’idea che gli abitanti di Rapa Nui, i primi ad arrivarci, non provenissero dalla Polinesia, ma dal Perù e facessero parte della popolazione Nazca, affascinante civiltà pre-inca, presente dal primo al sesto secolo dopo Cristo. Per confermare la possibilità di attraversare l’oceano dal Perù fino a Rapa Nui, un esploratore molto coraggioso, Eric De Bisshop, nel 1958, costruisce una zattera molto simile a quelle peruviane dell’epoca (attorno al 100 dopo Cristo), naviga per più di tre mesi, fino a raggiungere e superare Rapa Nui, approfittando di una corrente che spinge ogni cosa che galleggi in quella direzione. Purtroppo muore alla fine del viaggio di ritorno, schiantandosi contro le coste peruviane.
Per non far torto a nessuno, ma soprattutto per seguire le conclusioni più recenti degli studiosi, possiamo pensare che i primi ad arrivare siano stati quelli dalle lunghe orecchie provenienti da Est, raggiunti poi dai polinesiani che all’inizio si sono integrati e poi ne hanno preso il posto.
Stabilito questo, parliamo di Rapa Nui.
Perché ci importa di quest’isola? Per le sue strane statue che guardano il mare? Per il turismo? Che poi coincide con le statue che sono l’unica straordinaria attrazione da vedere?
Il motivo vero riguarda l’organizzazione sociale di questi uomini, che pensano di essere i soli abitanti del pianeta e accolgono i primi esploratori europei con enorme stupore. E riguarda il loro rapporto con la natura che ci porterà a riflettere sulla società dei consumi.
Cominciamo con qualche nozione di base: dal punto di vista amministrativo, Rapa Nui fa parte del Cile, della regione di Valparaiso, che tuttavia è distante più di 3mila km. A visitarla oggi si resta un pochino delusi. I 7 mila abitanti vivono essenzialmente di turismo, con circa 100 mila visitatori ogni anno. La vegetazione è poverissima, contando meno di 50 specie vegetali native; non c’è una foresta neanche a cercarla con il lanternino. E questo è molto strano, perché le ricerche effettuate sui pollini nel terreno, sui residui di legno trovati in antichi forni, testimoniano di un passato molto diverso.
Qui infatti, quando, poco dopo il 400, i polinesiani arrivano, c’è una foresta fittissima di alberi di alto fusto. Oltre al palissandro oceanico, ci sono vari tipi di palma, tra le quali spicca una gigante, probabilmente tra le più grandi al mondo, con un diametro del tronco di due metri. Di tutto questo non c’è più alcuna traccia: cos’è successo? Perché l’isola ha subito un cambiamento così drastico?
Il primo occidentale a mettere piede su Rapa Nui è l’olandese Jacob Roggeveen, dal quale abbiamo le prime notizie, che innescano ricerche scientifiche sempre più accurate con il passare del tempo. Accanto ai resti delle palme, si trovano poche coltivazioni di patate dolci e di banani, coltivazioni che esistono ancora oggi. É interessante capire come facessero questi fieri marinai a sostenere una comunità che, nel periodo di suo massimo splendore, si avvicina alle diecimila unità.
Le prime indagini che ci arrivano, ci portano direttamente al mare, alla pesca d’altura, vista l’abbondanza di resti di delfino trovati sull’isola. Torneremo tra poco a parlare dell’alimentazione.
La pesca, che fosse o meno l’attività primaria, aveva esigenze molto particolari per la conformazione delle coste, come detto ripide e per le profondità dell’oceano vicino a riva. Dunque si imponeva la costruzione di grandi imbarcazioni, zattere o canoe, che fossero in grado di “tenere il mare” e di essere ben manovrabili e solide per non finire schiantate contro gli scogli. Viene da pensare che quei popoli, che avevano affrontato un viaggio impensabile per raggiungere quella roccia nell’oceano, non potevano certo arrendersi di fronte a questioni, che a noi sembrano insormontabili, ma che per loro erano poca cosa.
In ogni caso, servono grandi imbarcazioni e quindi serve molto legname e quindi occorre tagliare molte palme.
Ci sono poi altre attività per cui servono le palme: scaldarsi, cucinare, costruire case, realizzare corde e altre ancora. Questi alberi, dunque rappresentano la risorsa ampiamente più utilizzata a Rapa Nui.
Esattamente come accade oggi, anche allora il consumo di risorse è importante. Fintanto che l’utilizzo del legno e la ricrescita delle palme si mantiene in equilibrio, tutto fila liscio. Oggi parleremmo, in questo caso, di una società virtuosa, con un modo di vivere sostenibile e sostenuto, appunto, dalle foreste dell’isola.
Poi però succede qualcosa, che cambia le carte in tavola. Non sappiamo bene cosa sia accaduto, forse un tentativo di golpe per prendere il potere da parte di una fazione, forse un’epidemia da curare con grandi dosi di bisogni soprannaturali, che porta, forse, al potere una setta religiosa. Sta di fatto che la scena politica e sociale di Rapa Nui cambia di colpo.
Siamo attorno alla metà del 13° secolo, quando cominciano a comparire i primi moai. Si tratta di grandi statue di pietra, altissime, fino a 10 m, intagliate in un unico blocco di tufo vulcanico e disposte in ordine in varie posizioni dell’isola. Oggi si parla delle “teste di Rapa Nui”, ma è una dicitura che non rende merito al lavoro di quegli straordinari scalpellini. Infatti molti moai hanno tronco e braccia, solo che sono interrati. Probabilmente il terreno ha ceduto nel corso dei secoli oppure era così fin dall’inizio. Nel 1935 arriva a Rapa Nui, Sebastian Englert, un frate Cappuccino bavarese, che rimane sull’isola per oltre trent’anni, impara la lingua locale e riesce a catalogare 639 moai. Quando muore, a New Orleans durante un giro di conferenze, viene comunque sepolto sull’isola a cui ha dedicato gran parte della sua vita. Successivamente l'Archaeological Survey and Statue Project dal 1969 al 1976 ne determina 887. Ma è assai probabile che il numero complessivo delle statue superi il migliaio. Al di là del valore esatto, questi numeri ci dicono che le statue sono davvero tantissime per un’isola così piccola. E dunque la domanda che viene da farsi è: cosa rappresentano? Che ruolo hanno avuto nella cultura e nella vita sociale della popolazione?
Guardando le statue c’è un particolare che si evidenzia subito: hanno le orecchie lunghe. Perché mai un popolo con le orecchie corte avrebbe dovuto rappresentare le “teste” così? Dunque l’ipotesi più probabile è che nella fase di coesistenza dei due popoli, i polinesiani e gli andini, fossero questi ultimi gli artisti scultori oppure che fossero la classe dominante e ad essi le statue fossero dedicate.
I moai non sono messi a caso a guardarsi intorno. Ci sono altri manufatti importanti su Rapa Nui. Li chiamano Ahu e sono delle piattaforme circondate da muretti, realizzati con pietre a contatto a secco, leggermente bugnate e perfettamente coincidenti, un’arte, che si ritrova nelle Ande, ma non nelle isole della Polinesia.
Sul significato di queste opere ci sono varie ipotesi. Che sia un luogo importante per gli abitanti è fuori dubbio.
Secondo la maggior parte degli studiosi, queste aree appartenevano ai singoli villaggi, abitati forse da un clan o da famiglie allargate ed erano situate tra lo stesso villaggio e la costa. É un monumento tipico delle isole del Pacifico Meridionale: se ne trovano di simili anche a Tahiti, a Bora Bora, perfino in Nuova Zelanda, ma le dimensioni di quelle di Rapa Nui sono decisamente più grandi. Una breve scalinata porta in quella che potremmo definire l’area cerimoniale, lastricata di pietre basaltiche perfettamente allineate. Intorno sono disposti i Moai, che, nella stragrande maggioranza dei casi, guardano verso il villaggio, come se fossero là per proteggere i suoi abitanti. Qui si svolgevano le cerimonie pubbliche, forse solo religiose o forse anche sociali delle varie comunità.
C’è tuttavia chi ha proposto un’interpretazione diversa, che è così curiosa che merita di essere ricordata.
Il 10 gennaio 2019, PlosOne, rivista scientifica che pubblica i risultati di studi originali non importa in quale ambito scientifico, pubblica una ricerca condotta da un gruppo di archeologi e antropologi statunitensi, guidati da Robert DiNapoli. La lunga relazione, che fa riferimento a molti risultati precedenti, fornisce informazioni interessanti.   https://journals.plos.org/plosone/article?id=10.1371/journal.pone.0210409
Si parla soprattutto delle risorse primarie, necessarie alla sopravvivenza, a disposizione dei rapanui, divise in tre categorie: l’agricoltura, le risorse del mare e l’acqua dolce. In tutto questo, ecco saltar fuori un possibile ruolo degli Ahu e di conseguenza dei Moai, come custodi o forse solo segnalatori delle risorse terrestri, così scarse da meritare una “guardia soprannaturale”. La ricerca del 2019 rileva che l’alimentazione conta su proteine animali provenienti da polli e da una specie di ratto, di cui avremo modo di parlare tra poco.
In tutta la storia di Rapa Nui le certezze interpretative sono davvero molto poche. Così i moai non si sa bene a cosa facessero la guardia, se alle risorse del mare o agli orti, realizzati su pacciame di roccia lavica, che contengono sali minerali importanti per la crescita delle piante. Qui venivano coltivate patate dolci, banane, canna da zucchero e il taro, una verdura molto diffusa in Africa, che contiene alte percentuali di acqua, di carboidrati e di proteine vegetali. Una produzione complicata, perché di acqua a Rapa Nui ce n’è davvero pochissima. Forse per questo l’ipotesi più suggestiva è che gli Ahu e i moai segnalassero i luoghi dove era possibile accedere all’acqua dolce. In effetti il clima dell’isola è molto ventoso con scarsissime precipitazioni e la completa assenza di corsi d’acqua o di laghi, se si escludono quelli formati dalle piogge all’interno dei coni vulcanici e quindi difficilmente accessibili. Anche le falde, quelle poche presenti soprattutto all’interno dell’isola, sono raggiungibili solo con tecniche di trivellazione che, ovviamente, all’epoca sono del tutto sconosciute. Il problema dell’acqua è evidenziato anche da alcuni compagni di viaggio di Roggeveen, i quali testimoniano di aver assaggiato l’acqua offerta loro dai nativi, un’acqua salmastra e salata, conservata in specie di zucche vuote. James Cook, uno dei primi europei a sbarcare sull'Isola di Pasqua, torna da Rapa Nui affermando che gli abitanti bevono acqua direttamente dal mare, resa accettabile solo dall’enorme sete. Riprenderemo alla fine questo discorso, cercando una spiegazione.
Rimangono le risorse marine, anche per capire che tipo di pesca veniva effettuata. Come già accennato le coste ripide e le profondità del mare non aiutano certo queste attività. Negli scavi eseguiti dalla ricerca del 2019, si sono trovati pochi arnesi da pesca: reti e ami di pietra o di osso. Anche il foraggiamento di invertebrati lungo la costa può essere stato un sistema di sostentamento: polipi, aragoste, granchi. Ma tutto questo non è sufficiente. Alla fine si scoprono molti resti di delfino sull’isola. Questo cetaceo forniva certamente più della metà delle proteine alimentari.
Ma torniamo alle statue: venivano lavorate direttamente nelle cave di tufo. La più grande di queste si trova a Rano Raraku nell’entroterra a circa 1 km dalla costa più vicina, ma fino a 10 km da alcuni Ahu. Qui sono rimasti circa 400 moai, in attesa di destinazione. Dunque questi enormi massi del peso di diverse tonnellate dovevano essere trasportati nei luoghi di culto in qualche modo. Non disponendo di carretti, l’unico sistema è quello di usare tronchi di palma rotondi sui quali far scorrere quegli enormi massi fino all’Ahu cui devono appartenere. Ecco un altro uso della foresta di palme, che c’era e ora non c’è più.
L’abbandono, nella cava, di tutte quelle statue, alcune già rifinite, altre in costruzione, sembra raccontare di una conclusione improvvisa dell’attività, come se tutto d’un tratto il lavoro degli scalpellini e, soprattutto, dei trasportatori fosse diventano impossibile. E certo non per mancanza di roccia, forse per mancanza di mezzi di sostegno o di trasporto. E cioè delle palme che forniscono “ruote”, impalcature e corde.
Un altro fatto è che quasi tutti i moai sono stati rovesciati, solo una cinquantina rimangono in piedi. Può essersi trattato di un fenomeno naturale, ad esempio un terremoto, oppure una rivolta delle classi oppresse nei confronti della casta dominante. Forse è il segno di quella guerra tra le corte orecchie e le lunghe orecchie di cui i nativi hanno parlato ai primi esploratori europei.
Dunque, in un’isola povera di risorse, il consumo di palme cresce nel tempo. Si usano per sopravvivere: scaldarsi, cucinare, costruire abitazioni, soprattutto costruire zattere e canoe capaci di affrontare l’oceano per procurarsi il cibo, ma anche per attività meno fondamentali, come il trasporto dei moai. Quello che succede è che attorno al 1400 la palma su Rapa Nui è estinta. Non che la fortuna aiuti i rapanui. Assieme alle loro attività di consumo è presente anche un ratto che rosicchia i frutti delle palme, impedendo la nascita dei nuovi germogli. Questi ratti, come anticipato, finiranno anche nel menu degli abitanti. Meno alberi portano a più erosione del suolo, quindi meno cibo da coltivare.
É una storia istruttiva: con l’aumento della popolazione cresce la richiesta di statue, di cibo, di combustibile e piano piano l’isola non ce la fa più a sostenere tutte queste attività, basate in larghissima misura sullo sfruttamento delle palme. Le varie esigenze consumano gli alberi ad un ritmo enormemente più grande della loro riproduzione. E questo innesca una reazione a catena impressionante. Gli uccelli selvatici che consentono l’impollinazione si estinguono o emigrano. Per sopravvivere resta il mare, ma, senza palme, non si possono più costruire zattere per uscire in mare aperto. Rimangono i molluschi attaccati alle rocce delle scogliere; ma presto finiscono anche quelli.
Si cerca allora di incrementare l’allevamento di pollame, ma alla fine l’unica risorsa di proteine possibile, è terribile dirlo, è rappresentata dagli altri esseri umani. La pratica del cannibalismo viene confermata dal ritrovamento di ossa umane “rosicchiate” tra la spazzatura e anche dai racconti raccolti dai primi visitatori europei a Rapa Nui.
Non c’è più cibo e così non si possono più mantenere i capi, i sacerdoti, i funzionari che sono esentati dal lavoro. Nascono fazioni, con capi militari, guerre intestine e faide che riducono la popolazione a poche centinaia di unità. È assai probabile che durante questa fase di guerra cominci anche la distruzione dei “moai”. Le prove di queste guerre starebbero nel ritrovamento su tutta l’isola di una quantità molto grande di punte di ossidiana, forse la punta di frecce, anche se più recentemente si è stabilito che non fossero armi, ma strumenti di lavoro, quindi inoffensivi.
La datazione delle ossa dei delfini mostra che attorno al 1500 la pesca d’altura termina. La mancanza di legno impedisce di costruire le zattere per pescare o – in caso estremo – per tentare una fuga.
E questa è la fine!
Come detto all’inizio, di fronte al mistero, le ipotesi si moltiplicano e si fa fatica a capire quale sia l’interpretazione più vicina alla verità. Una recente ricerca dell’Università di Binghamton (New York) sostiene che non c’è mai stato nessun collasso sull’isola e i suoi abitanti hanno continuato imperterriti a costruire statue anche dopo l’arrivo degli europei. C’è in questa ricerca un risultato di grande importanza. Grazie all’uso dei droni, si è visto che l’acqua piovana filtra attraverso la roccia porosa in falde acquifere sotterranee, per riaffiorare poi lungo la costa, creando sacche di acqua dolce, che finisce nell’oceano. Gli abitanti di Rapa Nui avrebbero non solo utilizzato quest’acqua, ma costruito piccole dighe sottomarine per separarla da quella salata. Ecco spiegata la convinzione di James Cook che l’acqua venisse raccolta direttamente dal mare.
Altre fonti sostengono che in realtà la popolazione sia stata decimata non da un problema di ecosostenibilità, ma dalle malattie portate là dagli esploratori europei. Tra queste ci sarebbe stata una terribile pandemia di vaiolo. É certo anche l’arrivo sull’isola di schiavisti che deportano, nel 19° secolo, larga parte della popolazione.
C’è chi nega l’una e l’altra di queste ipotesi. Nessun ecocidio e l’intervento europeo è solo uno dei fattori di un possibile collasso. Questa ricerca mette al centro del problema il clima e i suoi cambiamenti “naturali”, come le variazioni dovute a El Niño e La Niña, le correnti che determinano siccità, umidità, temperatura, su un’isola già in difficoltà per non avere abbastanza strumenti per la sopravvivenza.
Sono state trovate sull’isola una serie di tavolette con incisi dei glifi, che sembrano indicare una forma di scrittura, chiamata “Rongorongo”. Nessuno finora è riuscito a interpretarne il significato. Probabilmente questo avrebbe facilitato la comprensione di cosa è davvero successo a Rapa Nui. (immagini qui)
Noi registriamo tutte queste prospettive, e le segnaliamo perché la cronaca è cronaca, e chi è curioso può trovarle tutte in rete, ma il fatto è che, sull’Isola di Pasqua, di palme non se ne trovano più.
La storia di Rapa Nui, così come l’abbiamo raccontata, con tutti i suoi dubbi e incertezze, ci porta a considerazioni importanti. Possiamo infatti ragionare su questi fatti col senno di poi, ricchi di un migliaio di anni di esperienza. Probabilmente quei fieri marinai hanno distrutto le proprie risorse senza accorgersi di quello che stava loro accadendo, un po’ come la metafora della famosa rana bollita, usata dal filosofo americano Noam Chomsky, per far capire che adattandosi alle situazioni, alla fine non si riesce a capire che si sta cadendo in un baratro.
C’è da riflettere sul fatto che, secondo questa ipotesi, un pugno di uomini senza macchine e strumenti, è riuscito nell’impresa di autodistruggersi. Lo ha fatto eliminando le foreste che, all’inizio, aveva a sua disposizione.
E viene in mente quello che accade oggi, quando il consumo di risorse mondiali è così veloce che servirebbero quasi due pianeti per soddisfare i nostri vizi e le nostre esigenze. (qui serve un’immagine sull’overshoot day se no non si capisce)
Pur con tutti i dubbi che abbiamo manifestato, siamo proprio sicuri che la storia di Rapa Nui sia solo un ricordo del passato?
 
FONTI:
Le fonti sono particolari. Ci sono molte teorie sull’evoluzione del popolo dell’isola di Pasqua. Ognuna ha le sue giustificazioni (e parla male in genere di tutte le altre). Per chi volesse approfondire ecco un elenco di massima.