nauruL’isola che non c’è” è un fantastico posto dove lo scrittore James Metthew Barrie ha raccolto, attorno a Peter Pan, i bambini sperduti, sempre in lotta con i pirati di Capitan Uncino. Potremmo usare questo modo di dire anche per il luogo che stiamo per visitare. Per raggiungerlo non servono i suggerimenti di Edoardo Bennato: “Seconda stella a destra, questo è il cammino e poi dritto fino al mattino”. É ben presente sulle mappe, anche se è così piccola da sembrare una puntura nella cartografia.
Si trova molto a Nord dell’Australia, a 3300 km da Brisbane, avendo a Sud Ovest la Papua Nuova Guinea. In quanto a isole “sfortunate” è in buona compagnia: a Nord si trovano le isole Marshall, con l‘atollo di Bikini, tristemente famoso per gli esperimenti nucleari e a Sud Ovest le isole Salomone, che hanno già visto scomparire cinque atolli per l’erosione delle coste e l’innalzamento del livello del mare.
L’isola di cui stiamo per occuparci si chiama Nauru ed ha una storia davvero allucinante!
Ha diversi record, ma per ora vogliamo ricordare solo quelli che non fanno piangere. É la repubblica più piccola al mondo, con i suoi 20 km quadrati e circa diecimila abitanti. Nel passato era meta di un turismo che apprezzava soprattutto lo splendido mare, il clima sempre caldo e la quantità di pesci presenti vicino alla costa, protetta da una meravigliosa barriera corallina.
Oggi tutto questo non c’è più: ci sono altre cose, ma il cambio è stato davvero disastroso.
Le informazioni che la CIA (sì … quella delle spie statunitensi) consegna al presidente su tutti gli stati del mondo, raccontano di un’isola dell’Oceania, dal clima tropicale, famosa per i fosfati e senza una sorgente di acqua dolce. Punto.
E l’economia? E i mezzi di sostentamento della popolazione? E le risorse agro alimentari? E la produzione? Niente. E allora bisogna arrangiarsi seguendo altre vie di informazione.
Cominciamo dai fosfati. Di cosa si tratta? E a cosa servono? Se ci passate l’espressione, tutto ha origine dalla cacca d’uccello, depositata nei millenni sui coralli, creando uno spesso strato di guano, ricco, appunto, di fosfati.
Dev’essere qualcosa di importante e raro se per 90 anni grandi società australiane, neozelandesi e britanniche si sono dannate l’anima per avere concessioni per estrarre questo materiale dall’isola. In effetti il loro uso è importante nella realizzazione, per esempio, di fertilizzanti e di detersivi. Questi fosfati sono stati la gloria e assieme la maledizione di Nauru.
Ma a questo punto occorre fare un passo indietro.
Come per molti altri stati, i guai cominciano quando gli europei arrivano su questa capocchia di spillo in mezzo all’oceano. É il 1798 e vi approda una baleniera, comandata dall’ufficiale britannico John Fearn, che la chiama Pleasant Island ("isola piacevole") probabilmente per la natura amichevole degli indigeni e per il suo ambiente affascinante. Novant’anni dopo entra a far parte della Nuova Guinea tedesca, un protettorato assegnato alla Germania dalla Convenzione Anglo-Tedesca del 1886. Nel 1900 si scoprono i fosfati. É un australiano a farlo, sir Albert Fuller Ellis. Ed è l’Australia la prima a fiondarsi su quel ben di dio e a cominciare a scavare per portarseli a casa. Ma il territorio è ancora tedesco e ci vuole una decisione della Società delle Nazioni, precursore delle Nazioni Unite, per metterlo sotto il protettorato australiano, neozelandese e - poteva mai mancare? – britannico. Questi stati acquisiscono anche i diritti di estrazione dei fosfati.
Gli ingenui abitanti dell’isola guardano questi signori affannarsi a scavare, mentre loro si dedicano alla pesca e a bere il toddy, un vino ricavato dalla linfa delle palme. Poi però a qualcuno viene il sospetto che tutta quella frenesia non può essere fatta solo per sport e la gente di Nauru capisce di essere seduta sopra una montagna d’oro. Terminata la seconda guerra mondiale, con una breve dominazione giapponese, per 20 anni gli abitanti di Nauru si battono per ottenere l’indipendenza, che arriva nel 1968. I diritti di estrazione del fosfato vengono assegnati al governo britannico (guarda un po’) e Nauru entra a far parte del Commonwealth.
Ed è qui, che la nostra storia comincia.
Le condizioni dell’isola e dei suoi abitanti, all’epoca circa 4 mila persone, fa un salto triplo con innumerevoli avvitamenti. Viene creata una società pubblica, la Nauru Phosphate Corporation. I vecchi proprietari terrieri fanno una mossa geniale. Mettono le loro terre a disposizione della società, aspettando, senza alcuna fatica, di incassare i diritti, le royalties, intascando ogni anno milioni di dollari. Il territorio viene diviso in lotti minerari tra gli abitanti. Bastano poche centinaia di metri quadrati per avere un incasso di circa 40 mila dollari l’anno. E su Nauru le occasioni per spenderli non sono molte. Così gli abitanti si dedicano al Nauru time, che non è niente di speciale. Si tratta di correre, tutto il giorno, con auto o moto lungo la strada che segue la costa, l’unica presente su Nauru. Si fermano per rifornirsi, mangiare e bere, bere parecchio, e poi ripartono fino a notte. A parte questo, non sanno come usare il denaro e lo depositano nella Bank of Nauru, scelta obbligata, ma dal destino molto incerto, come vedremo più avanti. Negli anni ’70 l’esportazione raggiunge i due milioni di tonnellate l’anno, con incassi da capogiro.
Purtroppo l’amministrazione dell’isola ha le idee molto confuse e si lancia in progetti “mega-galattici” e in investimenti enormi anche al di fuori del proprio territorio.
Lo sperpero si nota anche nei comportamenti degli abitanti. Qualcuno ancora oggi ricorda come le persone si recassero al ristorante cinese e pagassero tirando fuori i soldi da valigette piene di mazzette di denaro. Sembra un film sul banditismo a Chicago al tempo di Al Capone.
L’amministrazione, se possibile, è ancora peggio. Investe molti soldi in progetti e attività sempre straordinarie. Come la Nauru House a Melbourne, il più alto palazzo dell’Australia, inaugurato con una festa da far impallidire Briatore: champagne a fiumi, caviale a volontà e sigari cubani come se piovesse. Questa della presentazione faraonica è una caratteristica che contraddistingue tutte le iniziative nauruane. Vengono acquistati immobili di pregio e alberghi di lusso negli Stati Uniti, a Houston, Honolulu, terreni a Portland. E sull’isola nasce un aeroporto con cinque Boeing oltre ad un campo da golf, delizia degli isolani che sanno così come passare il tempo che non trascorrono in automobile. Gli aerei servono agli abitanti anche per andare a fare la spesa … in Australia o in Giappone!
Le avventure continuano. Ci si rivolge all’India per costituire una joint-venture che apra il mercato dei fosfati in Asia. Tutta questa ricchezza e la scarsa saggezza degli amministratori richiama imprenditori con pochi scrupoli, i quali, come il Gatto e la Volpe con Pinocchio, propongono affari incredibilmente remunerativi, che si riveleranno poi dei pacchi mostruosi. Per tutti, vale quella di un impresario australiano che si fa finanziare una commedia musicale sulla vita di Leonardo Da Vinci. La prima si tiene a Londra con il solito accompagnamento di una festa super sfarzosa. Ma lo spettacolo è un clamoroso fiasco e i 4 milioni di dollari spesi da Nauru vengono persi completamente.
Piano piano, mentre i fosfati cominciano a diventare sempre meno e sempre più difficili da estrarre, i due miliardi di dollari incassati negli anni, si trasformano in centinaia di milioni di debiti per la scarsa oculatezza degli investimenti.
Tutta l’economia dell’isola è incentrata sui fosfati e così si dimenticano le buone pratiche per mantenere Nauru in condizioni ottimali. L’80% delle foreste vengono distrutte, l’agricoltura sparisce per mancanza di terreni coltivabili, le coste sono lasciate a se stesse. Su un’isola che non ha produzione di cibo e acqua dolce, le cose finiscono malissimo. Gli abitanti cominciano a nutrirsi di cibo spazzatura e prodotti surgelati. Il Nauru time si trasforma nell’assunzione di alcool di pessima qualità e bevande gassate, seduti sul litorale a guardare nel vuoto. E ingrassano, ma ingrassano male, fino a diventare il paese con la maggior percentuale di obesi al mondo: l’80% degli abitanti. Questo però non è tutto, perché questa situazione incide pesantemente sulla salute. Più di metà della popolazione è colpita dal diabete. Lo stesso presidente più rappresentativo dell’isola, Renèè Harris, in carica dal 1999 al 2004, ma presente in parlamento dal 1977 al 2008, muore nello stesso anno a causa del diabete. I funerali sono frequenti, le cause di morte sono quasi sempre le stesse. La popolazione cala, il disastro di Nauru è un fatto compiuto.
Per capire la situazione facciamo un piccolo salto indietro agli anni ’70, quando il disfacimento ambientale è all’inizio, ma a ben guardare lo si percepisce perfettamente e non è certo una buona prospettiva per il futuro. Cosa fanno allora i nauruani della loro terra? Loro hanno un PIL pro capite elevatissimo, paragonabile a quello dell’Arabia Saudita: potrebbero investire un sacco di soldi per rinverdire l’interno, per accrescere le tecniche di desalinizzazione delle acque marine, attirare turisti, riprendere la pesca … oppure potrebbero continuare come sempre, affidandosi alla risorsa unica dell’isola, l’estrazione dei fosfati.
Sull’argomento si scatenano beghe politiche a non finire tra i fautori delle due posizioni. C’è sempre chi sa tutto e parla come se avesse la verità in tasca. Di fosfati – sentenziano – ce n’è ancora per almeno 40 anni; perché preoccuparcene adesso? Fanculo l’ambiente, la sopravvivenza, le foreste e tutto il resto. Non che sia una novità. Non lo è per noi che vediamo con quali ritardi si prendono di petto situazioni drammatiche. Pensiamo alle alluvioni, alle frane, alle case di cartapesta che crollano alla prima scossa di terremoto. Solo di fronte al dramma, ai morti, si grida allo scandalo e si propone di fare qualcosa … che poi lo si faccia davvero è tutto un altro discorso.
É quanto avviene a Nauru. In effetti quelli che dicono che per 40 anni sono a posto, hanno ragione. Poi però i 40 anni passano e finiscono anche i fosfati. L’isola è ridotta ad un colabrodo di buchi e miniere abbandonate, circondate dal mare. Un mare anch’esso inquinato per il modo in cui i fosfati vengono caricati sulle navi. La presenza della barriera corallina impone di usare lunghi nastri trasportatori, che non riescono ad evitare che parte del materiale cada in mare. E questo incide sulla fauna marina, con gravi morie di pesci, e di conseguenza sulla pesca. Dunque manca il cibo sull’isola per la desolazione in cui la terraferma è ridotta e nel mare per l’inquinamento delle acque. La maggior parte del fosfato di Nauru è stato estratto a cielo aperto, con la rimozione di grandi strati di terra per raggiungere i minerali sottostanti. Questa pratica lascia la terra in gran parte sterile, sterile e incapace di sostenere la vita vegetale. Attualmente, circa il 90% dell'isola è ricoperto da cumuli di corallo pietrificato e frastagliato, che non è adatto nè per l'edilizia nè per l'agricoltura. Inoltre, il deflusso dai siti minerari ha gravemente contaminato l'acqua dentro e intorno a Nauru. I ricercatori stimano che quasi la metà della vita marina sia stata persa a causa di questo inquinamento.
Che fare? Cosa mangiare? L’unica soluzione è importare il cibo dall’estero. Nel caso specifico arriva dall’Australia, che, è bene non dimenticarlo, si trova a tremila km di distanza. Niente cibo fresco dunque e questo è un guaio per la salute dei nauruani.
Beh – dice uno – torneranno i turisti!
Già, ma a fare cosa? A guardare i buchi per terra, a bighellonare lungo la costa, a mangiare malissimo nei pochi ristoranti rimasti aperti, come quello cinese dove ti servono sempre le stesse cose? A rischiare di fare un bagno in acque inquinate?
L’antico splendore di Nauru è morto e sepolto. I nauruani vivono adesso con assegni di circa 300 dollari al mese. Il 90% della forza lavoro è disoccupata. I suicidi, soprattutto giovanili, crescono, così come la depressione e resta sempre quella percentuale ossessionante di obesi e malati di diabete. Il tabagismo è alle stelle per non parlare dell’alcolismo.
Tutto sta andando a pezzi; da 30 anni non si costruisce più niente. Il governo ha perfino cercato di vendere passaporti a chicchessia, incappando a volte in terroristi e delinquenti, e di creare sull’isola un paradiso fiscale, finendo nella black list di numerosi paesi, compreso il nostro. Diventa perfino inutile chiedersi cosa si possa fare.
Poi però succede qualcosa.
É il 2001, quando il governo australiano del primo ministro John Howard vara la “Pacific Solution”. É una legge severissima per contenere gli arrivi di migranti, soprattutto dall’Asia. Vengono accettati solo quelli ai quali è possibile riconoscere lo status di rifugiato politico. Gli altri vengono rimandati indietro. Ma neanche la rigidità australiana se la sente di buttare a mare quelle persone (la legge si applica per tutti senza distinzione di sesso o di età, anche per i bambini). Ecco allora la grande idea: interniamoli da qualche parte, ma non a casa nostra. Così si prendono accordi con alcuni stati, come Papua Nuova Guinea, isola di Manu e anche con Renèè Harris, presidente di Nauru. Nelle condizioni in cui si trovano le finanze dell’isola, guadagnare 70 milioni di dollari l’anno per tenere in una specie di campo di detenzione un po’ di stranieri è una manna. Così si costruiscono due campi di detenzione nell’interno dell’isola, che ospiteranno, nel momento di massima capienza, fino a 1200 persone. Arrivano anche molti australiani: sono quelli che devono fare la guardia, amministrare, sistemare questi campi. Tutti vivono all’hotel Menem, l’unico rimasto aperto. Non è difficile immaginare le tensioni che possono nascere nei campi di detenzione con gente di nazionalità, razza, religioni, abitudini completamente diverse, per di più in un luogo che sta morendo giorno dopo giorno. Così, ad un certo punto, si decide di aprire le porte, e lasciare che i rifugiati si mescolino con i nauruani, salvo dover rispettare un coprifuoco serale. Dopo quattro anni il campo è praticamente deserto. Gli ultimi rinchiusi trovano un alloggio e si integrano nella popolazione locale. Ma è sempre uno straniero senza diritti, che aspetta a volte anni per vedere la sua pratica arrivare alla fine dell’iter burocratico. Il presidente Harris, in un’intervista, rilasciata al giornalista Luc Folliet, dice:
Non abbiamo mai avuto scelta. Come avremmo fatto senza l’aiuto degli australiani? Le casse dello stato erano vuote. Non avevamo più denaro per pagare i nostri impiegati. La Bank of Nauru era fallita. Questi campi ci hanno permesso di sopravvivere; senza i profughi per Nauru sarebbe stata la fine. No refugees, no Nauru”.
Luc Folliet, francese, scrive un libro molto completo sulle vicende di Nauru: “Nauru, l'île dévastée” Poche – 6 mai 2010.
Ci sono storie sorprendenti nell’isola dei fosfati. Ad esempio, in quel periodo, vive là l’ambasciatore di Taiwan. Cosa ci fa? Il fatto è che il suo paese non è riconosciuto dalle Nazione Unite e così si fa rappresentare dal delegato di Nauru. Poi il governo nauruano cerca qualche accordo con la Cina Popolare e nasce una crisi tra Pechino e Taipei, ma il presidente Harris non se la prende e commenta “In fondo i cinesi ci offrivano di più”.
Poi, anche a Nauru, le cose col tempo cambiano. Finisce la Pacific Solution e con essa i soldi che arrivano dall’Australia.
Ed è proprio il colosso oceanico a prendersi cura di Nauru. Lo fa dettando condizioni durissime, che fanno dell’isola del fosfato, nei fatti, una colonia australiana. La moneta è il dollaro australiano, l’economia dipende dagli investimenti australiani.
Qualche anno fa il governo australiano, quello neozelandese e la corona britannica, consapevoli delle proprie responsabilità in questa brutta storia, si sono accordate per trasferire i nauruani rimasti su un’altra isola. Ed erano perfino riusciti a trovarla, mettendosi d’accordo tra loro. Si trattava di Curtis Island, nel Queensland australiano. I tre governi avrebbero pagato tutto: il trasferimento e la realizzazione delle infrastrutture necessarie. Poteva essere una buona soluzione, ma agli abitanti di Nauru non passava nemmeno per la mente di abbandonare l’isola dove erano nati, di lasciare i loro riti e le loro tradizioni. Così alla fine non se ne è fatto nulla.
Eppure questo discorso dovrebbe essere preso in considerazione seriamente, proprio come avviene in altre isole della zona, le Salomone, le Maldive. Le disgrazie per queste terre infatti non sono finite. I cambiamenti climatici hanno già innalzato il livello dell’oceano al punto che la barriera corallina non è più in grado di fornire una adeguata protezione. Basterebbe un’onda più alta del normale per scatenare panico e distruzione. Tutta la vita si svolge su un sottile anello vicino al mare. Scappare verso l’altopiano è inutile, perché si incontrano solo buche e devastazione.
La storia di quest’isola negli anni recenti porta altre brutte notizie. Nel 2017 il presidente dell’Alleanza Avvocati australiani scrive al governo una lettera, sottoponendo all’attenzione delle autorità sanitarie un’altra crisi su Nauru, precisamente un avvelenamento da Cadmio. L’estrazione dei fosfati avrebbe infatti causato la contaminazione delle acque profonde con questo metallo pesante, altamente tossico. “Le conseguenze sanitarie includono danni ai reni irreversibili, danni ai polmoni, danni ossei e cancro", spiega la lettera. Come se non bastasse il diabete.
C’è un’ultima recente notizia da dare, e riguarda il traffico. Possibile? C’è una sola strada, lunga 36 km, con un limite di velocità di 40 km all’ora. Come si fa ad avere traffico? Il fatto è che, durante i fasti degli anni passati, i nauruani hanno comprato un sacco di automobili per il già ricordato Nauru time. Ce ne sono circa 5 mila sull’isola, come racconta il direttore per l'ambiente, Bryan Star. E sono quasi sempre macchinoni “americani”, lunghi così. Che messi tutti in fila lungo la strada costiera la occupano quasi tutta. Ma con la crisi dell’isola anche le macchine non si usano più, invecchiano, si rompono e non c’è un meccanico che le ripari. La maggior parte sono abbandonate lungo la strada con le ruote sgonfie e la ruggine che conquista porzioni sempre più grandi di carrozzeria. Del resto non c’è sull’isola né uno sfascia-carrozze, né un restauratore. Il direttore è preoccupato per l’ambiente … come se questo fosse il problema più grave di Nauru. Una curiosità: il capo della polizia ha comprato per il servizio una Lamborghini gialla, ma non l’ha mai usata. É troppo grasso e non riesce ad entrarci.
Nonostante Nauru sia un’isoletta che quasi nessuno conosce, ci sono state iniziative per tentare un recupero del poco che resta. Ad esempio il programma di Sviluppo delle Nazioni Unite (UNPD) ipotizza l’estrazione, dalle pile di coralli rimasti, della dolomite, altro minerale che può essere venduto sul mercato, utilizzato ad esempio nella produzione dei refrattari.
La nuova generazione di politici nauruani ha poi fatto sapere che intende riprendere gli scavi per i fosfati, andando ancora più a fondo nel terreno, per riprendere a commerciarli e uscire dalla povertà. Che sia il caso di dire che “dagli errori non si impara mai niente?”. Secondo alcune dichiarazioni del governo ci sarebbero ancora fosfati per trent’anni, come ha riportato la BBC nel 2017, ma non sappiamo proprio da dove saltino fuori queste convinzioni.
É certo l’interesse degli Emirati Arabi Uniti, che hanno investito in un impianto di energia solare sull'isola. In questo modo, i residenti, che stanno già utilizzando l'energia solare per purificare l'acqua potabile, potrebbero essere in grado di ridurre la loro dipendenza da fonti di energia non rinnovabili.
La volontà di rimanere sull’isola è chiara, se guardiamo alla ricerca di investimenti internazionali su questi progetti. Ma la storia è sempre un’ottima maestra e le banche e gli investitori sono restii a mettere in gioco il proprio denaro, ricordando bene tutte le vicende di corruzione avvenute a Nauru.
L’ultima trovata, partita proprio da Nauru è quella della ricerca mineraria nei fondali marini. Nel 2021 escono diversi articoli: sul Guardian, su Mongabay, e poi sul New Yorker, quest’ultimo firmato dal premio Pulitzer Elizabeth Kolbert. Dicono tutti la stessa cosa: da Nauru può partire un’avventura che potrebbe portare danni irreparabili ai fondali marini.
A Nauru però non si pensa alla conservazione del mare. Loro hanno bisogno di soldi, di venire fuori da una situazione disastrosa. In fondo, sempre di scavare miniere si tratta, ma questa volta non sull’isola, ma in fondo al mare. Il fatto è che Nauru, grazie ad una decisione della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS), possiede il controllo esclusivo di 75 mila km quadrati di fondali, nell’area Clarion-Clipperton, molto al largo delle coste messicane. É un’area particolare, ritenuta tra le più ricche di “noduli polimetallici”. Si tratta di piccole rocce delle dimensioni di una patata, che contengono metalli estremamente importanti per lo sviluppo delle tecnologie, che sono impiegate nella transizione energetica: rame, litio, nickel, cobalto, ferro, manganese e terre rare. Si trovano dai 4 ai 6 mila metri di profondità e vengono letteralmente risucchiati come la polvere dall’aspirapolvere.
Il progetto ha bisogno di una autorizzazione e di una società che lo sappia portare a termine. L’autorizzazione deve arrivare dall’ISA (Autorità internazionale dei fondali marini) ente dell’ONU che regola le attività in fondo al mare. Nata nel 1994, fino al 2022 non si è mai preoccupata di stabilire le regole per queste attività ed è quindi stata colta in contropiede dalla mossa di Nauru. La piccola repubblica oceanica si è accordata con un’azienda canadese, dal nome molto ambientalista, “DeepGreen”, poi diventato più significativamente “The Metals Company” e assieme hanno varato il progetto NORI (Nauru Ocean Resources Inc), che prevede, appunto, il recupero di migliaia di tonnellate di metalli preziosi.
(vedi: http://naurugov.nr/government/departments/department-of-foreign-affairs-and-trade/faqs-on-2-year-notice.aspx e qui: https://metals.co/nori/).
Nonostante le accorate rassicurazioni del CEO dell’azienda di Vancouver, Gerard Barron, c’è stata una reazione contro questa iniziativa da parte di molti scienziati del mare: più di 450, provenienti da 44 paesi, hanno spiegato, con una lettera pubblica, che la devastazione dei fondali può innescare danni ambientali a non finire e far estinguere centinaia di forme di vita, essenziali per la catena alimentare. Nello stesso tempo, siamo nell’anno 2021, alcuni paesi sarebbero tentati dall’avventura (Kiribati e Tonga ad esempio), mentre altri, spaventati dalle conseguenze sulle loro economie, ad esempio sul turismo, richiedono una moratoria.
Poi, il colpo di scena. L’ISA, la lenta balena inoperosa per quasi trent’anni, si sveglia di colpo di fronte alle richieste di Nauru e DeepGreen, e dà il via libera all’operazione, nonostante l’ONU non abbia ancora preparato alcun regolamento in merito. Il progetto nauruano potrà così recuperare dall’oceano circa 3600 tonnellate di noduli polimetallici. Intanto questo, poi si vedrà …
E Nauru? Servirà, tutto questo, a tornare agli antichi splendori? Potranno i ragazzini giocare anche nell’interno dell’isola senza rischiare di cadere nei buchi fatti dai minatori di fosfati? Tornerà il mare pescoso e bellissimo com’era una volta? E, soprattutto, smetteranno di morire di diabete i più grassi esseri umani del mondo?
Quante domande … e, per ora, nessuna risposta.