Parlare di Matteo Messina Denaro è piuttosto complicato. Non che sia problematico inserire, tra le tante storie di mafia, anche la sua, ma gli elementi di cui si dispone sono - come dire? - aleatori, impalpabili, come se si avesse a che fare con un fantasma, che aleggia in mille situazioni, mai ben definite. Il “si dice” è sempre presente, legato a congetture di chi lo cerca, al racconto di pentiti, i quali non si sa mai se sono affidabili oppure no, come dimostrano alcune vicende giudiziarie di cui parleremo. É una lunga storia, che ci induce a dividerla in parti: nella prima incontriamo il giovane Matteo, la sua amicizia con Giuseppe Graviano, il rapporto con Totò Riina, la strategia stragista, fino alla latitanza. É un intreccio, la sua vita, con gli avvenimenti di quel periodo, con le guerre interne, le riunioni segrete, la mafia di una provincia, Trapani, dove si trova Castelvetrano, il suo paese d’origine. Di Matteo, detto “U siccu”, sappiamo di sicuro solo due cose: la prima che scompare dalla scena nel 1993 e la seconda che non è mai stato catturato. Qui cerchiamo di capire qual è la situazione nella quale si muove, qual è l’ambiente, il clima all’interno dell’universo di Cosa Nostra fino ai primi anni ’90.
Matteo nasce il 26 aprile 1962 da Lorenza e Francesco Messina Denaro.
Come vedremo meglio tra poco, Matteo, convocato dalla polizia, del padre dice: “l’attività di mio padre [è] dedita alla coltivazione dei campi. Voglio precisare che mio padre ha iniziato la sua attività agricola come campiere e coltivatore presso i terreni della famiglia D’Alì Staiti. […] Tre anni fa sono subentrato io al suo posto con compiti simili a quelli che svolgeva lui.” Si occupano, dunque, i Messina Denaro, delle terre della famiglia D’Alì, un nome di quelli che contano nel trapanese: loro è, in quel periodo, la banca più importante della Sicilia, loro sono le saline di Trapani e Marsala. Lo incontreremo ancora, questo nome, nel nostro viaggio attraverso la vita di Matteo. Ma il contadino Francesco, detto “zu Ciccio” o “don Ciccio”, ha molti scheletri nascosti nell’armadio fin dagli anni ’50. Viene accusato di un rapimento, ma poi scagionato. Fino al 1990 risulta incensurato, candido come un fiocco di neve. Ma è in realtà il grande capo del mandamento mafioso di Castelvetrano. Lo diventa appoggiando i corleonesi di Salvatore Riina nella cruentissima guerra di mafia degli anni ’80. Nel 1988 viene accusato da due pentiti di essere il mandante dell’assassinio di Mauro Rostagno, giornalista e fondatore di Lotta Continua. Il procuratore capo di Marsala, Paolo Borsellino, ordina il sequestro dei suoi beni, la sorveglianza speciale, il divieto di dimora, ma il tribunale di Trapani respinge la richiesta. Nell’ottobre 1990, lo stesso Borsellino spicca un mandato di cattura contro “don Ciccio” per associazione mafiosa. Francesco allora si dà alla latitanza, che durerà quasi un decennio, fino al 1998. É l’anno in cui un infarto gli toglie la vita. Poche ore prima della sua morte viene arrestato per mafia il suo figlio più grande, Salvatore, impiegato di banca, incensurato. Il corpo di Francesco viene portato dai suoi picciotti alle porte di Castelvetrano, disteso sopra il muretto di cinta di un oleificio. La polizia, informata, arriva prima dei parenti e sequestra il cadavere. Viene concessa solo una commemorazione per i famigliari più stretti. Tra questi mancano due figli maschi: uno in carcere, l’altro, Matteo, latitante. Il rispetto e la stima portati da “U siccu” a suo padre sono molto grandi: lo testimonia il fatto che ogni anno, fino al 2017, si è sempre ricordato di pubblicare un necrologio nella data della sua morte.
Perso il suo più alto punto di riferimento, Matteo trova una seconda figura paterna in Totò Riina, che sarà, per lui, come, del resto, per tutti gli altri mafiosi, “il padre di tutti noi”.
Matteo è un giovane di bella presenza, con un leggero strabismo, educato e benvoluto. Ha un carissimo amico, Calogero Santangelo, detto Lillo. Sono compagni di giochi fin dall’infanzia, le famiglie si conoscono e si frequentano. Lillo non sa niente dell’appartenenza di Matteo alla più importante famiglia mafiosa della zona. Si iscrive all’Università a Palermo, dove ogni tanto l’amico lo raggiunge. Palermo non è come Castelvetrano: c’è più libertà e più occasioni. Le ragazze sono più disinibite e i due partecipano frequentemente a feste e festini che hanno nel sesso un elemento portante. Le testimonianze di altri amici parlano di festini hard, con le signore dell’alta borghesia alla ricerca di giovani che non si facciano pregare. E Matteo è uno che, in queste questioni, non si fa pregare davvero mai.
Al padre Francesco questa fama di gigolò di suo figlio non sta per niente bene. Il responsabile, a suo dire, è l’amico Lillo, accusato di aver trascinato il figlio in questo ambiente depravato. E questo suona come un’offesa, un’offesa grave, alla dignità della famiglia. Un’offesa da lavare col sangue, nonostante Lillo sia stato tenuto a battesimo proprio da “don Ciccio”. Per riguardo nei confronti del padre, il delitto viene compiuto a Palermo, lontano dalla casa paterna. É necessario quindi chiedere il permesso alla mafia della capitale, cioè a Totò Riina, il quale non ci pensa due volte e manda i suoi sicari ad eseguire l’omicidio. Tra questi c’è anche Giovanni Brusca, che racconterà tutto, quando diventerà collaboratore di giustizia. Ufficialmente Lillo muore per uno sgarro ai Messina Denaro per una partita di droga, mentre in realtà “più della cocaina poté l’onore”. É il primo omicidio non eseguito o ordinato da Matteo, ma avvenuto, in un certo senso, per causa sua.
Andiamo un po’ avanti con gli anni, quando il nostro ne ha 26 ed è diventato un picciotto temuto in paese.
A pochi chilometri da Castelvetrano c’è il paese di Partanna. Qui la gestione del territorio è in mano a due famiglie, gli Ingoglia e gli Accardo. Questi ultimi sono legati ai corleonesi e quindi anche ai Messina Denaro. Nel 1988 scoppia tra loro un conflitto con decine di morti per il controllo del traffico internazionale di droga. “U siccu” è uno dei fautori di queste stragi e, a sentire i pentiti ben informati, il suo kalashnikov si è dato parecchio da fare nell’occasione. É la sua prima guerra, ma non è questo il punto. Quando, davanti al bar che frequenta, viene freddato Giuseppe Accardo, boss riconosciuto della famiglia, Matteo viene convocato per una testimonianza. Niente di preoccupante: è là solo perché conosceva bene la vittima. É il 30 giugno 1988. La testimonianza registrata, in cui compare la descrizione del padre che abbiamo visto [sentito?] all’inizio, rappresenta l’ultima volta che la sua voce viene ascoltata pubblicamente. Dal verbale risalta la sua freddezza, la precisione delle sue indicazioni, sulla sua famiglia, su se stesso, sui fatti in questione. Un ragazzo per bene, sembrerebbe. Ma lui è il boss, che sostituisce il padre quando questo va in latitanza. Un boss spietato, dalla vita glamour con molte donne, auto sportive, vestiti firmati, serate al night. Ma anche dal grilletto facile, anzi facilissimo. Secondo gli investigatori è corretto quello che lui stesso confida ad un amico: “Con le persone che ho ammazzato, potrei fare un cimitero.”
Quando il padre entra in latitanza, per Matteo le responsabilità aumentano di colpo. Adesso è lui il capo del mandamento, con grande influenza su tutta la provincia di Trapani. Provincia in cui le cose vanno molto diversamente dal resto della Sicilia, in particolare di Palermo e dintorni. Qui la filosofia mafiosa non è quella di vessare commercianti e imprenditori, ma di cercare di farli entrare nel business, garantendo loro ogni tipo di copertura (anche finanziaria se serve) in cambio di qualche pacchetto azionario o compartecipazione agli utili. In questo modo non occorre mandare gli sgherri a richiedere il pizzo, non servono pestaggi per recuperare i crediti. Tutti hanno un tornaconto dalla situazione. É un’impostazione imprenditoriale della malavita, quella che sarà, come vedremo, il futuro di Cosa Nostra.
Abbiamo già detto del legame che si crea tra Matteo e il “capo dei capi”. É quasi impossibile disgiungere le storie di questi due personaggi, capire l’una (quella di Matteo) senza descrivere l’altra.
Totò Riina, detto “U curtu”, si fa largo nelle maglie di Cosa Nostra a forza di omicidi di uomini d’onore e di grande prestigio. La conquista del potere passa attraverso l’eliminazione delle famiglie che lo avversano o, nel caso migliore, nel farle diventare fedeli alleati.
La seconda guerra di mafia, che costerà centinaia di morti, è dovuta a questo, alla conquista del potere, dei mercati di droga, dei legami con imprenditori e politici influenti. Il mezzo usato è quello dello sterminio. Ne sanno qualcosa i boss Stefano Bontate e Salvatore Inzerillo. La conclusione è che la Commissione, una specie di governo della mafia, alla fine, è composta solo da uomini fidati, anzi fidatissimi dei due boss corleonesi, Salvatore Riina e Bernardo Provenzano. Entrambi sono latitanti, Riina dal 1970, Bernardo addirittura dal 1963, ma la gestione della Commissione è roba loro. Nessuno si sogna neanche lontanamente di eseguire azioni senza il loro permesso.
Nella strage degli uomini legati a Bontate si salva la famiglia Graviano, che governa il quartiere Brancaccio a Palermo. É una famiglia ricchissima, e non solo per avere una quantità enorme di immobili e investimenti nel Nord Italia, ma anche perché responsabile di una grossa fetta di eroina che viene preparata in Sicilia (dal mago della chimica Francesco Mannoia) e poi portata in aereo a New York. Si tratta della famosa operazione “Pizza Connection” che costerà il carcere, tra gli altri, a Tano Badalamenti. Il capo mandamento, Michele Graviano e i suoi figli, giurano fedeltà a Totò Riina. In alcuni casi, anche Cosa Nostra prevede il transito di un affiliato da un boss all’altro. É quanto avviene per i Graviano, o meglio, per i giovani Graviano, perché il loro padre viene assassinato da Gaetano Grado, nemico giurato di ogni alleato dei corleonesi. Tra i ragazzi ci interessa particolarmente il maschio più giovane, Giuseppe, che ha un ruolo decisivo nella storia che stiamo per raccontare.
Matteo Messina Denaro è amico di un carissimo amico di Giuseppe. Così, i due si conoscono, diventano amici e successivamente complici di delitti e azioni criminali clamorose, di cui parleremo tra poco. É Matteo a perorare la causa dei Graviano presso Riina, che ha un debole davvero grande per Matteo. Giuseppe ha la stoffa del capo e Riina ne resta impressionato; lui e Matteo diventano i suoi pupilli, li tratta come fossero figli suoi e loro vedono in Riina un secondo padre, a cui offrono incondizionata fedeltà e rispetto fino alla sua morte.
La seconda guerra di mafia si porta dietro parecchi omicidi eccellenti. In particolare quello del generale Alberto Dalla Chiesa e quello di Pio La Torre, deputato del Partito Comunista Italiano, molto attivo nella lotta contro Cosa Nostra. L’assassinio di uomini fidati dello stato è, nelle intenzioni di Riina e Provenzano, un tentativo di far venire a più miti consigli le istituzioni. Ma succede esattamente l’opposto. Appena 10 giorni dopo la morte del generale, il parlamento vara la legge Rognoni-La Torre, basata su una proposta che il deputato siciliano aveva promosso prima di morire. É una legge importante, perché stringe il cerchio attorno ai mafiosi. Alla base di tutto, l’appartenenza alla mafia diventa un reato, con la dicitura “associazione di stampo mafioso”, per cui è prevista la confisca dei beni.
La guerra, scatenata dai corleonesi, tira in ballo, in modo molto pesante, anche Tommaso Buscetta, all’epoca emigrato in Brasile, dopo essere stato latitante e nascosto nella villa di Nino Salvo, sotto la protezione dei già citati boss palermitani Bontate e Inzerillo, acerrimi nemici di Totò Riina. La sua sorte viene decisa dai corleonesi: va eliminato come avvenuto per i suoi capi, sorte che condivide con gli “esattori” Ignazio e Nino Salvo. Ma raggiungere Buscetta in Brasile è complicato, così Riina pensa bene di fare strage della sua famiglia: vengono ammazzati due figli, un fratello, un genero, un cognato e quattro nipoti. Questa strage peserà non poco sulla decisione di Buscetta di diventare il più importante collaborate di giustizia. Le vicende che lo riportano in Italia sono molto complesse: arrestato in Brasile, gli fa visita Giovanni Falcone proponendogli di collaborare. L’estradizione è abbastanza difficoltosa, ma alla fine arriva a Palermo e vuota letteralmente il sacco su Cosa Nostra. Lo fa per alcuni mesi, raccontando ogni cosa su delitti, traffici, infiltrazioni e quant’altro. In Italia non c’è ancora una legge di protezione dei collaboratori, per cui viene rispedito, grazie a Falcone, di nuovo negli Stati Uniti, dove riceve una nuova identità, viene protetto e vive in libertà vigilata. Partecipa come testimone al processo Pizza Connection, assieme ad un altro uomo di Stefano Bontate, Salvatore Contorno, e al Maxi Processo di Palermo. Ma dei legami tra la mafia e i politici, segnatamente una parte della democrazia cristiana, parla solo dopo l’assassinio di Giovanni Falcone, del quale aveva grande stima e con cui aveva un ottimo rapporto.
Quando Falcone ha tutto chiaro in testa sull’organizzazione, con i nomi dei capi, sottocapi e picciotti, parte con gli arresti. Il 29 settembre 1984 scatta un blitz che, alla fine, porta in carcere centinaia di mafiosi.
Utilizzando la legge Rognoni – La Torre, il giudice Rocco Chinnici, aiutato da un pool di magistrati, tra i quali Falcone e Borsellino, dà il via, nel 1986, al primo Maxi-processo, che si concluderà nel 1992, con una serie di ergastoli e migliaia di anni di detenzione.
Molti degli arrestati (una settantina circa) usciranno dal carcere e andranno, in parte, a unirsi alla schiera dei collaboratori di giustizia. L’ansia per le sentenze è palpabile tra i carcerati, ma anche tra i latitanti, tra i quali, come detto, spiccano, oltre ai grandi boss corleonesi, Giuseppe Graviano e Matteo Messina Denaro. É evidente che devono reagire in qualche modo.
La strategia è sempre la stessa. Forzare la mano allo Stato, attraverso l’eliminazione degli uomini più attivi contro la mafia. Totò Riina lo spiega molto bene con una frase: “Fare la guerra per poi fare la pace”, cioè sparare sempre più in alto per poi intavolare una “trattativa Mafia-Stato”, un termine sul quale sono state scritte una infinità di pagine, aperti processi e inchieste giudiziarie. Matteo Messina Denaro è al fianco del suo padrino e approva questa mossa.
La riunione decisiva avviene nel dicembre 1991, a poche settimane dalla sentenza definitiva della Cassazione (30 gennaio 1992). Sotto la guida di Totò Riina e Bernardo Provenzano, si programma di uccidere da un lato gli istruttori del maxi processo, Falcone e Borsellino, dall’altro i politici Martelli, Mannino, Andò e altri, oltre a Salvo Lima, colpevole di non essere riuscito ad “aggiustare” le sentenze della Cassazione.
Si organizza anche un gruppo di fuoco da mandare a Roma con l’obiettivo di uccidere Falcone, Martelli e Maurizio Costanzo, il quale, in quel periodo, se la prende spesso con la mafia nella sua seguitissima trasmissione televisiva. Assieme a Vincenzo Sinacori, uomo di fiducia di Riina, fanno parte della squadra Giuseppe Graviano e Matteo Messina Denaro. É lui a procurare le armi, il covo dove nascondersi a Roma e a organizzare la logistica dell’azione. Non riescono a intercettare né Falcone, né Martelli e quindi si concentrano su Costanzo, aspettandolo all’uscita degli studi televisivi. Ma arriva l’ordine di Riina di ritirarsi, che in Sicilia ci sono cose più importanti da fare.
Poi arriva la primavera e una bomba si porta via la vita del giudice Falcone, della moglie Francesca e della sua scorta. É un atto decisamente intimidatorio, come a dire: o fate come diciamo noi o questo è solo l’inizio di una strage. Ma lo Stato, una volta tanto, reagisce in modo sorprendente. Viene approvato dal parlamento il famoso articolo 41bis, che mette la museruola a tutti i carcerati mafiosi, togliendo loro ogni sorta di diritto ed impedendo qualunque contatto con chicchessia. É un decreto legge che va convertito entro il 7 agosto. Ma è anche il tempo di Tangentopoli, un marasma incredibile, che fa “dimenticare” ai parlamentari la questione mafiosa. Probabilmente quel decreto cadrebbe nel nulla se a Palermo, in via D’Amelio, un’auto bomba non facesse strage di Paolo Borsellino e di cinque agenti. É il 19 luglio, mancano pochi giorni alla scadenza, ma di fronte a questo nuovo schiaffo, il parlamento fa quello che doveva fare prima: approva la legge. Rimarrà in vigore tre anni, poi verrà rinnovata due volte fino al 2002, per essere poi modificata e addolcita. I mafiosi condannati nel maxi-processo finiscono in carceri di massima sicurezza, come quelli sulle isole di Pianosa e dell’Asinara.
Gli attentati si fanno perché lo ha deciso Riina, ma è Giuseppe Graviano a studiare le modalità di esecuzione dei due massacri. A raccontare tutta la storia è il suo autista di fiducia, Fabio Tranchina, che ha un posto da osservatore in prima fila in tutte le fasi dell’operazione. É lui che viene “comandato” dal boss di Brancaccio, di recuperare il telecomando che innesca l’ordigno di via d’Amelio. A un certo punto non ne può più e comincia a parlare.
La mafia intanto pensa alle prossime mosse ed è divisa tra chi vuole fermarsi e cambiare rotta e chi invece crede sia opportuno continuare con gli attentati e gli omicidi eccellenti, per far vedere i propri muscoli allo stato. Non è che ci siano fazioni contrapposte, perché ostacolare il volere di Totò “U’ curtu” non è cosa neppure da prendere in considerazione. Diciamo, solo opinioni leggermente divergenti.
Poi però ecco il classico colpo di scena.
Il 15 gennaio 1993 c’è una riunione a Palermo: si tiene in via Tranchina al civico 22, nella casa di un importante boss, Salvatore Biondino, capomandamento di San Lorenzo. Ci sono tutti: Giuseppe Graviano e il suo amico Matteo Messina Denaro, Raffaele Ganci, Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca. Riina deve ancora arrivare. Biondino è andato a prenderlo dove abita, in via Bernini, un’abitazione sorvegliata dai carabinieri. I militari sono là davanti, in un furgone, assieme all’ex autista di Riina e pentito Balduccio Di Maggio. Esce una macchina, Di Maggio riconosce in uno dei passeggeri il suo ex capo. I carabinieri del ROS. guidati dal famoso capitano Ultimo, la bloccano. Riina ha documenti falsi, ma Biondino no, essendo ancora incensurato. I due alla riunione non arrivano, finiscono in carcere, da dove non usciranno più.
L’arresto di Totò Riina è una mazzata tremenda per la mafia, anche se le cose potevano andare molto peggio per loro. In effetti ci sono alcuni elementi poco comprensibili in tutta la faccenda. Innanzi tutto la villetta di via Bernini, stranamente, non viene perquisita subito. Eppure là dentro c’è un tesoro di informazioni, che permetterebbe di conoscere a fondo non solo l’organizzazione, ma anche nomi e cognomi dei collegati alla mafia a livello imprenditoriale e politico. La perquisizione avviene alcune settimane dopo. L’appartamento è vuoto, sono perfino stati ritinteggiati i muri.
E poi c’è il fatto che nessuno riconosce in Biondino quello che è: un importante boss mafioso. Questo impedisce di correre in via Tranchina, dove, oltre a informazioni e bottino, si sarebbero potuti arrestare i capi di Cosa Nostra e adesso non ci staremmo chiedendo dove è finito Messina Denaro. Vedremo, nelle prossime puntate, altri intoppi nell’esecuzione delle indagini. E tuttavia, l’Italia intera si esalta alla notizia sparata su giornali e mezzi di comunicazione. Con troppo ottimismo gira la frase: “É stata arrestata Cosa Nostra.”
In libertà ci sono ancora boss molto pericolosi, come Leoluca Bagarella, Salvatore Gangi, Gioacchino La Barbera, per citarne alcuni e poi i soliti Graviano e Messina Denaro. Gli attentati devono continuare. Così nascono progetti, poi non realizzati, come quello di attaccare la torre di Pisa o di spargere siringhe infette sulla spiaggia di Rimini, per creare tensione sociale e indebolire le posizioni dello stato. Alla fine, con il parere favorevole di Bernardo Provenzano, i boss Bagarella, Graviano e Messina Denaro decidono che si continua, ma non in Sicilia, bensì in continente. É il 1993.
Il 14 maggio una bomba cerca di colpire Maurizio Costanzo, ma l’accensione dell’ordigno avviene in ritardo e il conduttore televisivo si salva, essendo a bordo di un’auto diversa da quella prevista dalla mafia.
Il 27 maggio all’una di notte un’autobomba fa cinque morti a Firenze, a fianco della Galleria degli Uffizi, in via dei Georgofili.
Il 26 luglio due bombe esplodono a breve distanza di tempo nel centro di Roma di fronte a due chiese, forse un monito a papa Woytila per un discorso contro la mafia tenuto ad Agrigento qualche tempo prima.
Poco prima un’auto bomba a Milano uccide cinque persone e ne ferisce dodici.
L’ultimo episodio avviene a Roma. Siamo ormai nel gennaio del 1994, Matteo Messina Denaro è in latitanza dall’estate precedente. Sono però i suoi uomini ad eseguire il sopralluogo allo stadio Olimpico per programmare un nuovo attentato. Domenica 23 gennaio c’è una partita di calcio tra Roma e Udinese. All’uscita dallo stadio una lancia Thema, piena di esplosivo e di tondini di ferro, è parcheggiata in viale dei Gladiatori, proprio di fronte al presidio dei carabinieri. L’esplosione è prevista nel momento in cui un autobus di carabinieri passa di là. É facile immagine il ruolo devastante, oltre che dell’esplosivo, dei tondini di ferro. Ma non succede niente. Non c’è alcuna esplosione. I mafiosi rimuovono e nascondono il carico di tritolo, un amico arriva con il carro attrezzi e rottama la Lancia. Cosa è successo? La versione ufficiale parla di un innesco difettoso, ma ci sono altre voci che suggeriscono un dietro front, arrivato dalla Sicilia.
L’ultimo atto della nostra storia si compie a Milano, in un ristorante, dove Giuseppe Graviano, suo fratello Filippo e le loro fidanzate cenano tranquillamente. Del resto sono dieci anni che se ne vanno in giro per la Sicilia e il resto del paese e non è mai successo niente. Questa volta però, quel 27 gennaio 1994, hanno ricevuto visita da alcuni amici da Palermo, che sono arrivati in treno, ma non da soli. Con loro ci sono dei carabinieri che li seguono e avvisano una squadra di Milano di intervenire. Questi non sanno niente di Giuseppe Graviano e quando entrano nel locale e li arrestano non hanno idea di quale colpo micidiale stiano inferendo alla mafia.
Filippo, presentatosi con documenti falsi, addirittura rischia di farla franca. É Giuseppe a metterlo nei guai, quando chiede “fate venire mio fratello”. Come nel caso dell’arresto di Totò Riina, anche qui, all’arresto non seguono altre scoperte sensazionali. Non si trova nulla, né l’abitazione, né la camera d’albergo, solo 17 milioni di lire che i quattro hanno addosso.
Non solo: a quel tavolo c’è una sedia vuota. Doveva esserci seduto Matteo Messina Denaro, che però aveva rifiutato l’invito, per seguire una passione molto più forte, quella di seguire in Svizzera una “fimmina”, come lui l’avrebbe chiamata. Il “fantasma” se la cava per il rotto della cuffia, adesso come era già successo e succederà ancora; la sua latitanza continua e continua ancora oggi.
L’attentato all’Olimpico fallito e l’arresto di Giuseppe Graviano segnano una linea di demarcazione tra la mafia vecchia maniera, quella stragista di Riina, Provenzano, e dei loro seguaci e una mafia nuova, che si muoverà in modo completamente diverso, badando molto più agli affari che a gesti eclatanti.
E con i grandi capi in carcere duro, soggetti al 41bis, toccherà agli altri impostare questo nuovo corso di Cosa Nostra. Tra loro, un posto di primissimo piano tocca a Matteo Messina Denaro.
Ma questa è un’altra storia, che racconteremo in un prossimo video.
Matteo nasce il 26 aprile 1962 da Lorenza e Francesco Messina Denaro.
Come vedremo meglio tra poco, Matteo, convocato dalla polizia, del padre dice: “l’attività di mio padre [è] dedita alla coltivazione dei campi. Voglio precisare che mio padre ha iniziato la sua attività agricola come campiere e coltivatore presso i terreni della famiglia D’Alì Staiti. […] Tre anni fa sono subentrato io al suo posto con compiti simili a quelli che svolgeva lui.” Si occupano, dunque, i Messina Denaro, delle terre della famiglia D’Alì, un nome di quelli che contano nel trapanese: loro è, in quel periodo, la banca più importante della Sicilia, loro sono le saline di Trapani e Marsala. Lo incontreremo ancora, questo nome, nel nostro viaggio attraverso la vita di Matteo. Ma il contadino Francesco, detto “zu Ciccio” o “don Ciccio”, ha molti scheletri nascosti nell’armadio fin dagli anni ’50. Viene accusato di un rapimento, ma poi scagionato. Fino al 1990 risulta incensurato, candido come un fiocco di neve. Ma è in realtà il grande capo del mandamento mafioso di Castelvetrano. Lo diventa appoggiando i corleonesi di Salvatore Riina nella cruentissima guerra di mafia degli anni ’80. Nel 1988 viene accusato da due pentiti di essere il mandante dell’assassinio di Mauro Rostagno, giornalista e fondatore di Lotta Continua. Il procuratore capo di Marsala, Paolo Borsellino, ordina il sequestro dei suoi beni, la sorveglianza speciale, il divieto di dimora, ma il tribunale di Trapani respinge la richiesta. Nell’ottobre 1990, lo stesso Borsellino spicca un mandato di cattura contro “don Ciccio” per associazione mafiosa. Francesco allora si dà alla latitanza, che durerà quasi un decennio, fino al 1998. É l’anno in cui un infarto gli toglie la vita. Poche ore prima della sua morte viene arrestato per mafia il suo figlio più grande, Salvatore, impiegato di banca, incensurato. Il corpo di Francesco viene portato dai suoi picciotti alle porte di Castelvetrano, disteso sopra il muretto di cinta di un oleificio. La polizia, informata, arriva prima dei parenti e sequestra il cadavere. Viene concessa solo una commemorazione per i famigliari più stretti. Tra questi mancano due figli maschi: uno in carcere, l’altro, Matteo, latitante. Il rispetto e la stima portati da “U siccu” a suo padre sono molto grandi: lo testimonia il fatto che ogni anno, fino al 2017, si è sempre ricordato di pubblicare un necrologio nella data della sua morte.
Perso il suo più alto punto di riferimento, Matteo trova una seconda figura paterna in Totò Riina, che sarà, per lui, come, del resto, per tutti gli altri mafiosi, “il padre di tutti noi”.
Matteo è un giovane di bella presenza, con un leggero strabismo, educato e benvoluto. Ha un carissimo amico, Calogero Santangelo, detto Lillo. Sono compagni di giochi fin dall’infanzia, le famiglie si conoscono e si frequentano. Lillo non sa niente dell’appartenenza di Matteo alla più importante famiglia mafiosa della zona. Si iscrive all’Università a Palermo, dove ogni tanto l’amico lo raggiunge. Palermo non è come Castelvetrano: c’è più libertà e più occasioni. Le ragazze sono più disinibite e i due partecipano frequentemente a feste e festini che hanno nel sesso un elemento portante. Le testimonianze di altri amici parlano di festini hard, con le signore dell’alta borghesia alla ricerca di giovani che non si facciano pregare. E Matteo è uno che, in queste questioni, non si fa pregare davvero mai.
Al padre Francesco questa fama di gigolò di suo figlio non sta per niente bene. Il responsabile, a suo dire, è l’amico Lillo, accusato di aver trascinato il figlio in questo ambiente depravato. E questo suona come un’offesa, un’offesa grave, alla dignità della famiglia. Un’offesa da lavare col sangue, nonostante Lillo sia stato tenuto a battesimo proprio da “don Ciccio”. Per riguardo nei confronti del padre, il delitto viene compiuto a Palermo, lontano dalla casa paterna. É necessario quindi chiedere il permesso alla mafia della capitale, cioè a Totò Riina, il quale non ci pensa due volte e manda i suoi sicari ad eseguire l’omicidio. Tra questi c’è anche Giovanni Brusca, che racconterà tutto, quando diventerà collaboratore di giustizia. Ufficialmente Lillo muore per uno sgarro ai Messina Denaro per una partita di droga, mentre in realtà “più della cocaina poté l’onore”. É il primo omicidio non eseguito o ordinato da Matteo, ma avvenuto, in un certo senso, per causa sua.
Andiamo un po’ avanti con gli anni, quando il nostro ne ha 26 ed è diventato un picciotto temuto in paese.
A pochi chilometri da Castelvetrano c’è il paese di Partanna. Qui la gestione del territorio è in mano a due famiglie, gli Ingoglia e gli Accardo. Questi ultimi sono legati ai corleonesi e quindi anche ai Messina Denaro. Nel 1988 scoppia tra loro un conflitto con decine di morti per il controllo del traffico internazionale di droga. “U siccu” è uno dei fautori di queste stragi e, a sentire i pentiti ben informati, il suo kalashnikov si è dato parecchio da fare nell’occasione. É la sua prima guerra, ma non è questo il punto. Quando, davanti al bar che frequenta, viene freddato Giuseppe Accardo, boss riconosciuto della famiglia, Matteo viene convocato per una testimonianza. Niente di preoccupante: è là solo perché conosceva bene la vittima. É il 30 giugno 1988. La testimonianza registrata, in cui compare la descrizione del padre che abbiamo visto [sentito?] all’inizio, rappresenta l’ultima volta che la sua voce viene ascoltata pubblicamente. Dal verbale risalta la sua freddezza, la precisione delle sue indicazioni, sulla sua famiglia, su se stesso, sui fatti in questione. Un ragazzo per bene, sembrerebbe. Ma lui è il boss, che sostituisce il padre quando questo va in latitanza. Un boss spietato, dalla vita glamour con molte donne, auto sportive, vestiti firmati, serate al night. Ma anche dal grilletto facile, anzi facilissimo. Secondo gli investigatori è corretto quello che lui stesso confida ad un amico: “Con le persone che ho ammazzato, potrei fare un cimitero.”
Quando il padre entra in latitanza, per Matteo le responsabilità aumentano di colpo. Adesso è lui il capo del mandamento, con grande influenza su tutta la provincia di Trapani. Provincia in cui le cose vanno molto diversamente dal resto della Sicilia, in particolare di Palermo e dintorni. Qui la filosofia mafiosa non è quella di vessare commercianti e imprenditori, ma di cercare di farli entrare nel business, garantendo loro ogni tipo di copertura (anche finanziaria se serve) in cambio di qualche pacchetto azionario o compartecipazione agli utili. In questo modo non occorre mandare gli sgherri a richiedere il pizzo, non servono pestaggi per recuperare i crediti. Tutti hanno un tornaconto dalla situazione. É un’impostazione imprenditoriale della malavita, quella che sarà, come vedremo, il futuro di Cosa Nostra.
Abbiamo già detto del legame che si crea tra Matteo e il “capo dei capi”. É quasi impossibile disgiungere le storie di questi due personaggi, capire l’una (quella di Matteo) senza descrivere l’altra.
Totò Riina, detto “U curtu”, si fa largo nelle maglie di Cosa Nostra a forza di omicidi di uomini d’onore e di grande prestigio. La conquista del potere passa attraverso l’eliminazione delle famiglie che lo avversano o, nel caso migliore, nel farle diventare fedeli alleati.
La seconda guerra di mafia, che costerà centinaia di morti, è dovuta a questo, alla conquista del potere, dei mercati di droga, dei legami con imprenditori e politici influenti. Il mezzo usato è quello dello sterminio. Ne sanno qualcosa i boss Stefano Bontate e Salvatore Inzerillo. La conclusione è che la Commissione, una specie di governo della mafia, alla fine, è composta solo da uomini fidati, anzi fidatissimi dei due boss corleonesi, Salvatore Riina e Bernardo Provenzano. Entrambi sono latitanti, Riina dal 1970, Bernardo addirittura dal 1963, ma la gestione della Commissione è roba loro. Nessuno si sogna neanche lontanamente di eseguire azioni senza il loro permesso.
Nella strage degli uomini legati a Bontate si salva la famiglia Graviano, che governa il quartiere Brancaccio a Palermo. É una famiglia ricchissima, e non solo per avere una quantità enorme di immobili e investimenti nel Nord Italia, ma anche perché responsabile di una grossa fetta di eroina che viene preparata in Sicilia (dal mago della chimica Francesco Mannoia) e poi portata in aereo a New York. Si tratta della famosa operazione “Pizza Connection” che costerà il carcere, tra gli altri, a Tano Badalamenti. Il capo mandamento, Michele Graviano e i suoi figli, giurano fedeltà a Totò Riina. In alcuni casi, anche Cosa Nostra prevede il transito di un affiliato da un boss all’altro. É quanto avviene per i Graviano, o meglio, per i giovani Graviano, perché il loro padre viene assassinato da Gaetano Grado, nemico giurato di ogni alleato dei corleonesi. Tra i ragazzi ci interessa particolarmente il maschio più giovane, Giuseppe, che ha un ruolo decisivo nella storia che stiamo per raccontare.
Matteo Messina Denaro è amico di un carissimo amico di Giuseppe. Così, i due si conoscono, diventano amici e successivamente complici di delitti e azioni criminali clamorose, di cui parleremo tra poco. É Matteo a perorare la causa dei Graviano presso Riina, che ha un debole davvero grande per Matteo. Giuseppe ha la stoffa del capo e Riina ne resta impressionato; lui e Matteo diventano i suoi pupilli, li tratta come fossero figli suoi e loro vedono in Riina un secondo padre, a cui offrono incondizionata fedeltà e rispetto fino alla sua morte.
La seconda guerra di mafia si porta dietro parecchi omicidi eccellenti. In particolare quello del generale Alberto Dalla Chiesa e quello di Pio La Torre, deputato del Partito Comunista Italiano, molto attivo nella lotta contro Cosa Nostra. L’assassinio di uomini fidati dello stato è, nelle intenzioni di Riina e Provenzano, un tentativo di far venire a più miti consigli le istituzioni. Ma succede esattamente l’opposto. Appena 10 giorni dopo la morte del generale, il parlamento vara la legge Rognoni-La Torre, basata su una proposta che il deputato siciliano aveva promosso prima di morire. É una legge importante, perché stringe il cerchio attorno ai mafiosi. Alla base di tutto, l’appartenenza alla mafia diventa un reato, con la dicitura “associazione di stampo mafioso”, per cui è prevista la confisca dei beni.
La guerra, scatenata dai corleonesi, tira in ballo, in modo molto pesante, anche Tommaso Buscetta, all’epoca emigrato in Brasile, dopo essere stato latitante e nascosto nella villa di Nino Salvo, sotto la protezione dei già citati boss palermitani Bontate e Inzerillo, acerrimi nemici di Totò Riina. La sua sorte viene decisa dai corleonesi: va eliminato come avvenuto per i suoi capi, sorte che condivide con gli “esattori” Ignazio e Nino Salvo. Ma raggiungere Buscetta in Brasile è complicato, così Riina pensa bene di fare strage della sua famiglia: vengono ammazzati due figli, un fratello, un genero, un cognato e quattro nipoti. Questa strage peserà non poco sulla decisione di Buscetta di diventare il più importante collaborate di giustizia. Le vicende che lo riportano in Italia sono molto complesse: arrestato in Brasile, gli fa visita Giovanni Falcone proponendogli di collaborare. L’estradizione è abbastanza difficoltosa, ma alla fine arriva a Palermo e vuota letteralmente il sacco su Cosa Nostra. Lo fa per alcuni mesi, raccontando ogni cosa su delitti, traffici, infiltrazioni e quant’altro. In Italia non c’è ancora una legge di protezione dei collaboratori, per cui viene rispedito, grazie a Falcone, di nuovo negli Stati Uniti, dove riceve una nuova identità, viene protetto e vive in libertà vigilata. Partecipa come testimone al processo Pizza Connection, assieme ad un altro uomo di Stefano Bontate, Salvatore Contorno, e al Maxi Processo di Palermo. Ma dei legami tra la mafia e i politici, segnatamente una parte della democrazia cristiana, parla solo dopo l’assassinio di Giovanni Falcone, del quale aveva grande stima e con cui aveva un ottimo rapporto.
Quando Falcone ha tutto chiaro in testa sull’organizzazione, con i nomi dei capi, sottocapi e picciotti, parte con gli arresti. Il 29 settembre 1984 scatta un blitz che, alla fine, porta in carcere centinaia di mafiosi.
Utilizzando la legge Rognoni – La Torre, il giudice Rocco Chinnici, aiutato da un pool di magistrati, tra i quali Falcone e Borsellino, dà il via, nel 1986, al primo Maxi-processo, che si concluderà nel 1992, con una serie di ergastoli e migliaia di anni di detenzione.
Molti degli arrestati (una settantina circa) usciranno dal carcere e andranno, in parte, a unirsi alla schiera dei collaboratori di giustizia. L’ansia per le sentenze è palpabile tra i carcerati, ma anche tra i latitanti, tra i quali, come detto, spiccano, oltre ai grandi boss corleonesi, Giuseppe Graviano e Matteo Messina Denaro. É evidente che devono reagire in qualche modo.
La strategia è sempre la stessa. Forzare la mano allo Stato, attraverso l’eliminazione degli uomini più attivi contro la mafia. Totò Riina lo spiega molto bene con una frase: “Fare la guerra per poi fare la pace”, cioè sparare sempre più in alto per poi intavolare una “trattativa Mafia-Stato”, un termine sul quale sono state scritte una infinità di pagine, aperti processi e inchieste giudiziarie. Matteo Messina Denaro è al fianco del suo padrino e approva questa mossa.
La riunione decisiva avviene nel dicembre 1991, a poche settimane dalla sentenza definitiva della Cassazione (30 gennaio 1992). Sotto la guida di Totò Riina e Bernardo Provenzano, si programma di uccidere da un lato gli istruttori del maxi processo, Falcone e Borsellino, dall’altro i politici Martelli, Mannino, Andò e altri, oltre a Salvo Lima, colpevole di non essere riuscito ad “aggiustare” le sentenze della Cassazione.
Si organizza anche un gruppo di fuoco da mandare a Roma con l’obiettivo di uccidere Falcone, Martelli e Maurizio Costanzo, il quale, in quel periodo, se la prende spesso con la mafia nella sua seguitissima trasmissione televisiva. Assieme a Vincenzo Sinacori, uomo di fiducia di Riina, fanno parte della squadra Giuseppe Graviano e Matteo Messina Denaro. É lui a procurare le armi, il covo dove nascondersi a Roma e a organizzare la logistica dell’azione. Non riescono a intercettare né Falcone, né Martelli e quindi si concentrano su Costanzo, aspettandolo all’uscita degli studi televisivi. Ma arriva l’ordine di Riina di ritirarsi, che in Sicilia ci sono cose più importanti da fare.
Poi arriva la primavera e una bomba si porta via la vita del giudice Falcone, della moglie Francesca e della sua scorta. É un atto decisamente intimidatorio, come a dire: o fate come diciamo noi o questo è solo l’inizio di una strage. Ma lo Stato, una volta tanto, reagisce in modo sorprendente. Viene approvato dal parlamento il famoso articolo 41bis, che mette la museruola a tutti i carcerati mafiosi, togliendo loro ogni sorta di diritto ed impedendo qualunque contatto con chicchessia. É un decreto legge che va convertito entro il 7 agosto. Ma è anche il tempo di Tangentopoli, un marasma incredibile, che fa “dimenticare” ai parlamentari la questione mafiosa. Probabilmente quel decreto cadrebbe nel nulla se a Palermo, in via D’Amelio, un’auto bomba non facesse strage di Paolo Borsellino e di cinque agenti. É il 19 luglio, mancano pochi giorni alla scadenza, ma di fronte a questo nuovo schiaffo, il parlamento fa quello che doveva fare prima: approva la legge. Rimarrà in vigore tre anni, poi verrà rinnovata due volte fino al 2002, per essere poi modificata e addolcita. I mafiosi condannati nel maxi-processo finiscono in carceri di massima sicurezza, come quelli sulle isole di Pianosa e dell’Asinara.
Gli attentati si fanno perché lo ha deciso Riina, ma è Giuseppe Graviano a studiare le modalità di esecuzione dei due massacri. A raccontare tutta la storia è il suo autista di fiducia, Fabio Tranchina, che ha un posto da osservatore in prima fila in tutte le fasi dell’operazione. É lui che viene “comandato” dal boss di Brancaccio, di recuperare il telecomando che innesca l’ordigno di via d’Amelio. A un certo punto non ne può più e comincia a parlare.
La mafia intanto pensa alle prossime mosse ed è divisa tra chi vuole fermarsi e cambiare rotta e chi invece crede sia opportuno continuare con gli attentati e gli omicidi eccellenti, per far vedere i propri muscoli allo stato. Non è che ci siano fazioni contrapposte, perché ostacolare il volere di Totò “U’ curtu” non è cosa neppure da prendere in considerazione. Diciamo, solo opinioni leggermente divergenti.
Poi però ecco il classico colpo di scena.
Il 15 gennaio 1993 c’è una riunione a Palermo: si tiene in via Tranchina al civico 22, nella casa di un importante boss, Salvatore Biondino, capomandamento di San Lorenzo. Ci sono tutti: Giuseppe Graviano e il suo amico Matteo Messina Denaro, Raffaele Ganci, Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca. Riina deve ancora arrivare. Biondino è andato a prenderlo dove abita, in via Bernini, un’abitazione sorvegliata dai carabinieri. I militari sono là davanti, in un furgone, assieme all’ex autista di Riina e pentito Balduccio Di Maggio. Esce una macchina, Di Maggio riconosce in uno dei passeggeri il suo ex capo. I carabinieri del ROS. guidati dal famoso capitano Ultimo, la bloccano. Riina ha documenti falsi, ma Biondino no, essendo ancora incensurato. I due alla riunione non arrivano, finiscono in carcere, da dove non usciranno più.
L’arresto di Totò Riina è una mazzata tremenda per la mafia, anche se le cose potevano andare molto peggio per loro. In effetti ci sono alcuni elementi poco comprensibili in tutta la faccenda. Innanzi tutto la villetta di via Bernini, stranamente, non viene perquisita subito. Eppure là dentro c’è un tesoro di informazioni, che permetterebbe di conoscere a fondo non solo l’organizzazione, ma anche nomi e cognomi dei collegati alla mafia a livello imprenditoriale e politico. La perquisizione avviene alcune settimane dopo. L’appartamento è vuoto, sono perfino stati ritinteggiati i muri.
E poi c’è il fatto che nessuno riconosce in Biondino quello che è: un importante boss mafioso. Questo impedisce di correre in via Tranchina, dove, oltre a informazioni e bottino, si sarebbero potuti arrestare i capi di Cosa Nostra e adesso non ci staremmo chiedendo dove è finito Messina Denaro. Vedremo, nelle prossime puntate, altri intoppi nell’esecuzione delle indagini. E tuttavia, l’Italia intera si esalta alla notizia sparata su giornali e mezzi di comunicazione. Con troppo ottimismo gira la frase: “É stata arrestata Cosa Nostra.”
In libertà ci sono ancora boss molto pericolosi, come Leoluca Bagarella, Salvatore Gangi, Gioacchino La Barbera, per citarne alcuni e poi i soliti Graviano e Messina Denaro. Gli attentati devono continuare. Così nascono progetti, poi non realizzati, come quello di attaccare la torre di Pisa o di spargere siringhe infette sulla spiaggia di Rimini, per creare tensione sociale e indebolire le posizioni dello stato. Alla fine, con il parere favorevole di Bernardo Provenzano, i boss Bagarella, Graviano e Messina Denaro decidono che si continua, ma non in Sicilia, bensì in continente. É il 1993.
Il 14 maggio una bomba cerca di colpire Maurizio Costanzo, ma l’accensione dell’ordigno avviene in ritardo e il conduttore televisivo si salva, essendo a bordo di un’auto diversa da quella prevista dalla mafia.
Il 27 maggio all’una di notte un’autobomba fa cinque morti a Firenze, a fianco della Galleria degli Uffizi, in via dei Georgofili.
Il 26 luglio due bombe esplodono a breve distanza di tempo nel centro di Roma di fronte a due chiese, forse un monito a papa Woytila per un discorso contro la mafia tenuto ad Agrigento qualche tempo prima.
Poco prima un’auto bomba a Milano uccide cinque persone e ne ferisce dodici.
L’ultimo episodio avviene a Roma. Siamo ormai nel gennaio del 1994, Matteo Messina Denaro è in latitanza dall’estate precedente. Sono però i suoi uomini ad eseguire il sopralluogo allo stadio Olimpico per programmare un nuovo attentato. Domenica 23 gennaio c’è una partita di calcio tra Roma e Udinese. All’uscita dallo stadio una lancia Thema, piena di esplosivo e di tondini di ferro, è parcheggiata in viale dei Gladiatori, proprio di fronte al presidio dei carabinieri. L’esplosione è prevista nel momento in cui un autobus di carabinieri passa di là. É facile immagine il ruolo devastante, oltre che dell’esplosivo, dei tondini di ferro. Ma non succede niente. Non c’è alcuna esplosione. I mafiosi rimuovono e nascondono il carico di tritolo, un amico arriva con il carro attrezzi e rottama la Lancia. Cosa è successo? La versione ufficiale parla di un innesco difettoso, ma ci sono altre voci che suggeriscono un dietro front, arrivato dalla Sicilia.
L’ultimo atto della nostra storia si compie a Milano, in un ristorante, dove Giuseppe Graviano, suo fratello Filippo e le loro fidanzate cenano tranquillamente. Del resto sono dieci anni che se ne vanno in giro per la Sicilia e il resto del paese e non è mai successo niente. Questa volta però, quel 27 gennaio 1994, hanno ricevuto visita da alcuni amici da Palermo, che sono arrivati in treno, ma non da soli. Con loro ci sono dei carabinieri che li seguono e avvisano una squadra di Milano di intervenire. Questi non sanno niente di Giuseppe Graviano e quando entrano nel locale e li arrestano non hanno idea di quale colpo micidiale stiano inferendo alla mafia.
Filippo, presentatosi con documenti falsi, addirittura rischia di farla franca. É Giuseppe a metterlo nei guai, quando chiede “fate venire mio fratello”. Come nel caso dell’arresto di Totò Riina, anche qui, all’arresto non seguono altre scoperte sensazionali. Non si trova nulla, né l’abitazione, né la camera d’albergo, solo 17 milioni di lire che i quattro hanno addosso.
Non solo: a quel tavolo c’è una sedia vuota. Doveva esserci seduto Matteo Messina Denaro, che però aveva rifiutato l’invito, per seguire una passione molto più forte, quella di seguire in Svizzera una “fimmina”, come lui l’avrebbe chiamata. Il “fantasma” se la cava per il rotto della cuffia, adesso come era già successo e succederà ancora; la sua latitanza continua e continua ancora oggi.
L’attentato all’Olimpico fallito e l’arresto di Giuseppe Graviano segnano una linea di demarcazione tra la mafia vecchia maniera, quella stragista di Riina, Provenzano, e dei loro seguaci e una mafia nuova, che si muoverà in modo completamente diverso, badando molto più agli affari che a gesti eclatanti.
E con i grandi capi in carcere duro, soggetti al 41bis, toccherà agli altri impostare questo nuovo corso di Cosa Nostra. Tra loro, un posto di primissimo piano tocca a Matteo Messina Denaro.
Ma questa è un’altra storia, che racconteremo in un prossimo video.