mmd4Matteo Messina Denaro è in carcere. É stato arrestato il 16 gennaio, trent’anni dopo il suo secondo padre, Totò Riina. Anche la data dei due arresti, domenica a parte, coincide come se un rito si fosse compiuto con la compiacenza delle parti in causa. Sul suo arresto, sulla carcerazione al 41bis a L’Aquila, sappiamo tutto. Giornali e televisioni non ci hanno fatto mancare informazioni che inneggiano al grande risultato, alla fine di Cosa Nostra, alle pazienti ricerche investigative delle forze dell’ordine. Certo qualche voce stonata c’è stata, qualcuno sospetta una nuova fase della trattativa tra lo stato e la mafia. Ad altri, guardando i due carabinieri che accompagnano Matteo in auto, come se fosse un vecchio zio che non vedono da anni, crolla il mito di quei begli arresti pieni di pathos dei telefilm americani. Altri sostengono che, malato e vecchio (attenzione, MMD ha solo 60 anni), abbia preferito consegnarsi per curarsi meglio. Voci, illazioni, sospetti, dietrologie …
Noi che della questione ci siamo occupati negli ultimi mesi, osserviamo preoccupati che la lettura e visione delle notizie è un déjà vu, poi ci tranquillizziamo, rendendoci conto che si tratta di quello che abbiamo raccontato coi nostri video.
Adesso cosa accadrà? Non lo sappiamo. Si cercheranno tracce e documenti, qualcosa è stato trovato nei primi covi individuati, ma nessuno crede davvero che salteranno fuori all’improvviso i segreti delle stragi, i nomi dei mandanti o quell’agenda rossa, scomparsa da via D’Amelio il 19 luglio 92 e sicuramente non portata via da un picciotto qualunque. Se verremo smentiti, beh allora faremo una grande festa!
Quello che, oggi, rimane è che ci sono voluti 30 anni per arrivare a questo risultato. La domanda che ci facciamo è: perché? Cosa non ha funzionato nelle indagini? Non ci si può venire a raccontare che l’arresto di oggi è la conseguenza di trent’anni di ricerche.
Prima dell’operazione di metà gennaio, il racconto dei pentiti e le ricerche della magistratura hanno raccolto solo brandelli di verità. É a questo periodo che il video si riferisce, ai trent’anni di latitanza del boss di Castelvetrano, U Siccu. Ovviamente ci sono frasi e previsioni che non si sono avverate, vanno messe nel contesto storico di un periodo nel quale di Matteo Messina Denaro non si sapeva, ufficialmente, assolutamente nulla.
Già … com’è possibile che non sia stato preso in tutti quegli anni? Domanda legittima se si tiene conto che ci sono state squadre speciali di polizia, carabinieri e guardia di finanza che hanno fatto solo questo e che hanno potuto utilizzare tecnologie molto avanzate. La risposta è che Matteo ha avuto attorno a sé una cortina di protezione formidabile, costituita, oltre a Cosa Nostra, da altri elementi. Una parte della popolazione lo adora come un santo, ci sono logge della massoneria nel mirino delle indagini post-arresto, ci sono i servizi segreti con un ruolo non chiaro. Insomma la frase “la mafia ha fatto tutto da sola” appare sempre meno credibile, mano a mano che le informazioni si accumulano.
Forse (sottolineo, forse) avere un nemico pubblico numero uno da combattere può essere anche un modo per mantenere viva l’attenzione e probabilmente anche i finanziamenti per una lotta che sembrava persa da tempo. La convinzione di molti era stata espressa dal collaboratore Tuzzolino (di cui parleremo tra poco): che Matteo non sarà mai preso vivo, se mai sarà preso, perché conosce i segreti della mafia stragista di Riina e Provenzano, quella della trattativa Stato-Mafia, segreti che è meglio rimangano tali.
Recentemente Marco Buffa, fiancheggiatore arrestato, ha sostenuto che Matteo è morto. Ma il boss di Castelvetrano, Piero Di Natale, lo redarguisce così “Chiedi scusa, perché è vivo e vegeto” e lo fa citando un recente pizzino arrivato a Francesco Luppino, uno dei suoi portavoce, con cui impartisce direttive per la riorganizzazione di Cosa Nostra.
Con l’intenzione di “fare terra bruciata” attorno a Matteo, sono state arrestate centinaia di persone colluse, sono stati sequestrati, negli ultimi sette anni, beni per 5 miliardi di euro. A leggere l’ultima relazione della DIA (Direzione Investigativa Antimafia) del dicembre 2021, fin quando esiste uno Stato-Mafia che gli cura la latitanza, quel giorno che il Paese attende da 30 anni faticherà ad avvicinarsi.
Di questo vogliamo parlare nell’ultima parte del nostro racconto: delle indagini che sono state effettuate, dei loro fallimenti, cercando i motivi di questa debacle. Ovviamente non possiamo inseguire tutte le piste di trent’anni, ma, attraverso alcuni esempi, cercheremo di capire cosa non ha funzionato e perché.
Che le cose puzzino, è chiaro già da quello che è avvenuto il 15 gennaio 1993, quando Totò Riina viene arrestato in via Bernini. L’abitazione del boss di Corleone viene perquisita solo qualche settimana più tardi. Invece di trovare il tesoro di “U curtu” si trovano solo scatoloni e i muri ridipinti, come all’inizio di una nuova locazione.
La nostra storia comincia con una donna, una delle tante che sono state fidanzate o amanti di Matteo e con un piccolo paese, un sobborgo di Bagheria, alle porte di Palermo, Aspra.
Nel 1996, una pattuglia di carabinieri ferma un’auto con due persone a bordo dalle parti di Mazara del Vallo. Hanno con sè un sacchetto con decine di pizzini. Sono destinati al boss di Castelvetrano. Provengono anche dalla famiglia, dalla sorella Patrizia che lo ragguaglia sulla latitanza del padre. E poi, ci sono un paio di lettere molto interessanti. Sono firmate da una certa Meri, testimoniano in modo inequivocabile l’esistenza di una storia d’amore tra i due, come appare evidente da queste parole: Ti amo e ti amerò per tutta la vita. Tua per sempre Meri. PS: scrivimi presto. Una storia in essere dunque, che fa aumentare l’interesse della polizia, perché, seguendo il famoso detto “cherchez la femme”, potrebbe essere proprio questa Meri a portarli da Matteo. Già, ma chi è Meri? Il procuratore consegna i pizzini anche alla polizia, che risale a Maria Mesi, di Aspra, paese a forte concentrazione mafiosa, e residenza della famiglia Guttadauro, imparentata con i Messina Denaro. Nel maggio 1997 una pattuglia della polizia, appostata vicino a casa Mesi in via Milwaukee, vede uscire una donna che si protegge dalla vista, con occhiali da sole, turbante, sciarpa. É lei, la Meri dei pizzini. La conclusione è immediata. Il luogo di incontro di Matteo e Meri deve trovarsi da queste parti.
Poi si scopre che, proprio di fronte a casa Mesi, c’è una famiglia che abita il primo piano di una palazzina. Da qualche tempo hanno affittato anche il secondo piano, cosa quanto mai strana per la loro certo non florida situazione economica, tanto da aver chiesto un’indennità al comune. Nasce l’idea che quel secondo piano possa essere il ritrovo dei due amanti. Si scoprirà poi che la villetta è messa a disposizione di Matteo dal suo grande amico, Giuseppe Graviano, il boss di Brancaccio.
C’è una prima visita, segreta, all’appartamento da parte della polizia. Gli oggetti che trovano sono riconducibili a Matteo, ai suoi viaggi all’estero, ai suoi vizi, alle sue passioni. La convinzione della polizia è rafforzata da quanto racconta il pentito Vincenzo Sinacòri, che conosce molto bene Matteo. La polizia è sicura di aver fatto il passo decisivo. Le strade di ingresso al paese sono tutte monitorate, la casa degli incontri è sorvegliata da telecamere 24 ore al giorno. Matteo non ha scampo: è l’ora di catturarlo. Ma, il tempo passa e di incontri non ce ne sono più. Meri se ne sta a casa sua, non esce più. Si decide allora di tornare nell’appartamento, che viene trovato in fase di trasloco. Cos’è successo? Come ha fatto “U siccu” a scoprire tutto?
Lo si viene a sapere solo qualche anno più tardi. Il tradimento, che affossa la cattura, ha due nomi su tutti: Michele Aiello, imprenditore, che il magistrato Massimo Russo definisce come “perno centrale di una rete di collegamento tra Cosa Nostra, la politica, le istituzioni, l’imprenditoria” e il maresciallo dei Ros dei carabinieri, Giorgio Riolo, esperto informatico e nella gestione degli strumenti per le intercettazioni. Le due “super-talpe” verranno condannate rispettivamente a 15 anni e 7 anni e 5 mesi. Anche Meri finirà in carcere per favoreggiamento. Ma di Matteo Messina Denaro, ancora una volta, si perdono le tracce.

Passano dieci anni e Aspra torna al centro dell’attenzione. Questa volta il protagonista della vicenda è un carabiniere dei ROS, Giuseppe Barcellona, accusato di essere una talpa di Matteo Messina Denaro. Barcellona registra un’intercettazione tra due personaggi, ritenuta dal carabiniere di poca importanza. La fotografa e la invia attraverso Whatsapp al tenente colonnello Marco Zappalà della DIA di Caltanissetta, che era stato suo superiore qualche tempo prima. Questi non è coinvolto nella ricerca di Matteo, ma si prende la briga di consegnare stralci di quella intercettazione ad un uomo che abbiamo già conosciuto, l’ex sindaco di Castelvetrano, Antonio Vaccarino, che sta collaborando con montagne di informazioni, con l’intento, a suo dire, di favorire la cattura di Matteo. L’errore di Barcellona è quello di essersi rivolto ad un estraneo all’indagine, invece che al suo diretto superiore. Così patteggia, si fa 23 giorni di carcere, ammettendo le sue responsabilità. Zappalà invece prende 4 anni in primo grado.
Antonio Vaccarino è uno degli elementi chiave per capire come sono andate le cose nelle molte inchieste sulla latitanza di Matteo Messina Denaro. La vita di Vaccarino è legata alle accuse rivolte contro di lui dal falso pentito Vincenzo Calcàra. Tra queste, quella che sarebbe stato affiliato alla mafia di Castelvetrano proponendogli addirittura di ammazzare Borsellino e avrebbe gestito un traffico di droga. Viene assolto dalla prima accusa, ma condannato per la seconda.
Quando, nel 1997, esce dal carcere, dopo 5 anni passati a Pianosa, viene avvicinato da Michele Filardo, cognato di Francesco Messina Denaro, il padre di Matteo. Il boss vorrebbe conoscerlo e lo invita a raggiungerlo dove si trova in latitanza. Vaccarino non ci va, ma scopre di godere di una certa stima da parte della mafia di Castelvetrano. Questo lo convince di essere un’arma decisiva per combattere Cosa Nostra e contribuire alla cattura di Matteo. É quanto Vaccarino racconta allo scrittore Marco Bova, che ne parla a lungo nel suo libro “MMD latitante di stato”.
Quando viene catturato Provenzano, nel suo covo, tra i molti pizzini, ce ne sono alcuni di Matteo che fanno riferimento ad un certo “Vac”, che la magistratura, l’anno successivo, individua in Antonio Vaccarino. Così viene intercettato e, con grande sorpresa, si scopre che le sue telefonate non sono dirette a uomini della mafia, ma ad elementi del SISDE, i servizi segreti. Viene contattato il direttore Mario Mori, che subito mette a disposizione della magistratura un carteggio tra Vaccarino e Messina Denaro. Come abitudine, Matteo impone l’uso di pseudonimi per firmare le missive: lui è ancora Ascanio, mentre Vaccarino diventa Svetonio, riferimento piuttosto colto allo storico romano e per questo sorprendente.
Si chiarisce che il SISDE ha usato Vaccarino, come strumento, per capire di più la situazione di Matteo. Le lettere spedite al boss sono preparate da incaricati del SISDE. Vaccarino le scrive e le spedisce, ricevendo risposta da “U siccu”, attraverso il cognato di questi e marito di Patrizia, Vincenzo Panìcola. Quando il ruolo dell’ex sindaco viene alla luce, arriva un’ultima lettera, questa volta firmata M. Messina Denaro, scritta al computer, contenente insulti e minacce di morte. Vaccarino viene arrestato lo stesso giorno di Barcellona per i suoi rapporti poco chiari con il colonnello Zappalà. La condanna di 6 anni è per questo. Nel 2020 comincia il processo per il riesame della sua situazione. La vicenda Vaccarino è piena zeppa di fatti strani. Quella dei rapporti tra servizi segreti e Procure è molto lontana dall’essere chiarita. L’ex generale Mori, ad esempio, sostiene, durante questo processo (aprile 2020), che la procura di Palermo era stata informata fin dal 2004 dell’operazione Svetonio. All’epoca procuratore generale era Pietro Grasso, futuro presidente del senato e procuratore nazionale antimafia. Grasso nega che le cose siano andate in questa maniera e dunque per noi diventa impossibile sapere la verità sulla questione. Certo che se l’operazione fosse proseguita, magari qualche possibilità in più di prendere MMD ci sarebbe stata … a meno che …
La corrispondenza Alessio-Svetonio ha un risvolto veramente inaspettato quando le lettere vengono consegnate ad un esperto, lo scrittore Salvatore Mugno di Trapani, il primo ad analizzarle.
I contenuti di Svetonio (cioè del SISDE) servono per incastrare Matteo. Quindi propongono affari, interessi economici per invogliarlo a scoprirsi. Le lettere di Alessio sono molto diverse. Contengono sicuramente “cose di mafia”, ma spaziano poi alla famiglia, alla religione, alla filosofia. Ci sono citazioni molto colte, come quella che pensa a se stesso come a Malausséne, il personaggio di Pennac, che fa il capro espiatorio di professione. Traspare, dalle lettere, non più il sanguinario assassino, il boss mafioso, ma un uomo che parla della propria interiorità, del proprio destino, in modo quasi intimo con “l’amico” Svetonio.
Il carteggio lascia, nelle forze di polizia, molti dubbi e così si comincia a indagare più a fondo. Emerge una verità certa: la grafia delle lettere di Ascanio non sono di Matteo Messina Denaro. Il confronto con altri suoi pizzini non ammette dubbi. L’idea della polizia è che ci sia qualcuno che scrive le lettere di Matteo. Poi però ci si ripensa, analizzando i contenuti degli scritti. Sono troppo colti, con riferimenti importanti, con una costruzione del messaggio più adatta ad uno scrittore di romanzi. Il procuratore di Trapani, Gabriele Paci, riassume così le sue perplessità: “nel carteggio con Vaccarino, io Matteo Messina Denaro non lo riconosco assolutamente”. Chi ha scritto quelle lettere? Qualcuno che vuole che l’idea di Matteo sia mantenuta viva per forza? É stato il SISDE? Massimo Russo è un magistrato che ha collaborato con Borsellino. Lui ha conosciuto molto bene Vaccarino e sostiene che alcune risposte di Matteo sono straordinariamente simili a quelle che gli sono arrivate da Svetonio, come se a pensare fosse una sola testa. Russo non usa tanti giri di parole. Secondo lui i servizi segreti avrebbero messo in piedi un’operazione farsa per mantenere vive le ricerche sul boss di Castelvetrano. Come sono andate davvero le cose? Potrebbe rispondere Vaccarino, che però muore, nel 2021, portando con sé questo mistero, uno dei tanti, forse troppi, che circondano la latitanza di M. Messina Denaro.
Nella ricerca dei motivi per cui “U siccu” rimane libero così a lungo, affiorano situazioni che definire imbarazzanti è solo un eufemismo. Alle indagini lavorano un po’ tutti: i carabinieri, le procure, l’antimafia, la finanza, con il rischio di sovrapposizioni dannose. Accade, ad esempio, quando la DDA (Direzione Distrettuale Antimafia) di Palermo segue i pizzini e scopre una vasta rete di fiancheggiatori, i “postini” di Matteo. Come sappiamo i tempi di consegna sono spesso lunghi e la polizia aspetta pazientemente il momento buono per capire dove si trova il latitante. Interviene il Viminale che ordina di agire. Ci sono molti arresti, tutti di figure di secondo piano e l’indagine della DDA si blocca.
Altro caso clamoroso è quello che riguarda Leo Sutèra, controllato sia dalla DDA di Trapani che dalla polizia di Agrigento per una questione di droga. Siamo nel 2012: Leo è molto amico di Matteo e la DDA aspetta una mossa falsa per intervenire. Il 26 giugno però, la polizia arresta 49 persone, tra le quali Sutera, che sarà l’unico a rimanere in carcere dopo il riesame. Un blitz che vanifica tutto il lavoro fatto a Trapani. La responsabile dell’inchiesta, Teresa Principato, usa parole di fuoco contro questa azione non concordata.
Ed è proprio il Pubblico Ministero Teresa Principato il prossimo personaggio della nostra storia. É lei a indagare e portare a termine la cattura di Provenzano, è lei a dare la caccia a “U siccu” con caparbietà, lottando contro la mafia e contro chi la mafia supporta o sopporta. É sempre lei a sostenere che è assurdo pensare che la mafia faccia tutto da sola. È lei ad indagare sui rapporti tra Cosa Nostra, imprenditoria, politica e, soprattutto, massoneria.
Il suo braccio destro è Calogero Pulici, detto Carlo, appuntato della guardia di finanza, da trent’anni nell’ufficio giudiziario. C’è anche Carmelo D’Andrea, incaricato delle ricerche sulle logge massoniche per la DDA di Palermo e grande esperto della storia mafiosa del trapanese. Ed infine c’è Marcello Viola, all’epoca procuratore capo di Trapani.
Il 2015 è un anno orribile per questi personaggi. Pulici viene accusato di tradimento, D’Andrea viene relegato a lavori che non hanno niente a che fare con la caccia a Matteo Messina Denaro. Eppure è lui il referente per importanti collaboratori come Giuseppe Tuzzolino.
Costui è un altro elemento chiave di questa storia. É un truffatore, che nel 2013 viene arrestato. Patteggia e, una volta scontata la pena, si presenta in procura ad Agrigento: ha un sacco di cose da raccontare su mafia e massoneria, un legame in cui sono coinvolti nomi importanti: magistrati, avvocati, amministratori pubblici, parlamentari, ufficiali dei carabinieri, dirigenti della polizia, medici e primari, professionisti di ogni genere. Poi affronta anche il tema Messina Denaro, il quale gli avrebbe affidato commesse e affari in giro per l’Europa.
Una delle rivelazioni più conosciute è quella in cui dice che, in un appartamento di New York, c’è una cassaforte contenente un hard disk con le foto più recenti di Matteo e altre decisive informazioni. I magistrati incaricano una squadra statunitense di controllare, ma, dentro quella cassaforte, non si trova niente. Una bugia di Tuzzolino? Oppure è stato sfortunato? O ha alzato il tiro sapendo che il suo racconto non poteva essere verificato? Lui è massone e racconta di cose poco nobili che avvengono nella loggia di Castelvetrano: riciclo di denaro sporco, spaccio di cocaina, assunzioni pilotate, appoggi a politici che fanno carriera rapidamente. Queste confessioni convincono il procuratore di Palermo, Francesco Messinèo a chiedere per Tuzzolino un programma di protezione provvisorio, con la motivazione seguente: le sue rivelazioni “appaiono di notevole importanza per lo sviluppo delle indagini, avendo fornito già specifici elementi su fatti e soggetti nei cui confronti sono in corso indagini preliminari.”
Alla fine del 2014 il dossier-Tuzzolino arriva a Teresa Principato. Il 28 novembre c’è il primo interrogatorio. Sono presenti, oltre al PM, il sostituto Maurizio Agnello, Marcello Viola, Carlo Pulici, Carmine D’Andrea e il colonnello della finanza Francesco Mazzotta. Un altro ciclone parte dalla bocca del pentito: il sistema di potere della mafia trapanese, i favoreggiatori e gli affari legati a Matteo Messina Denaro. Le dichiarazioni fanno colpo e negli interrogatori seguenti si aggiungono i ROS dei carabinieri e la SCO (Servizio centrale operativo) della polizia. Troppa gente, con interessi diversi, che portano a numerose fughe di notizie e spaccature profonde.
A dicembre cambia il procuratore capo di Palermo. A sorpresa viene eletto Francesco Lo Voi, battendo due dei favoriti alla vigilia, Sergio Lari e Guido Lo Forte, che faranno ricorso contro la nomina, secondo loro manovrata dall’alto.
Quello che a noi interessa qui è che il nuovo procuratore spedisce una lettera a Pulici, dichiarando “concluso il rapporto di fiducia” con il finanziere. Il motivo è del tutto estraneo alle indagini. Ci interessa di più il fatto che, data l’importanza di Pulici nell’inchiesta, questa subisce una brusca frenata. Anche D’Andrea non passa giorni felici. Il suo ruolo viene ridimensionato, sistemato in un ufficio e tolto da ogni partecipazione all’indagine Matteo – Massoneria.
E siccome al peggio non c’è mai fine, Pulici viene accusato di peculato, rivelazione e utilizzazione di segreti d’ufficio per aver sottratto un vecchio computer e una stampante. In realtà quegli oggetti gli erano stati consegnati dalla Principato per buttarli. Lui li aveva riparati e regalati alla parrocchia dove gestiva una squadra di calcio. Teresa Principato non è tipo da fare un passo indietro e contrasta nettamente le posizioni di Lo Voi con interviste al veleno, tra le quali quella rimasta famosa al giornalista Enrico Deaglio per un dossier che viene pubblicato sull’inserto di Repubblica, Venerdì. In questo dossier si prendono in esame le possibili coperture della latitanza di Matteo: i servizi, la massoneria e quant’altro.
Ma, per Pulici, i guai non sono finiti. Si trova un hard disk a casa sua, dove sono conservati materiali delle indagini, oltre a documenti personali, come fotografie, di Teresa Principato. Anche in questo caso era stato lo stesso magistrato a pregare Pulici di tenere da parte quella documentazione, perché lei aveva problemi agli occhi, tanto da essere curata a Barcellona, nella stessa clinica in cui si era forse operato “U siccu”.
Questo dovrebbe chiudere la questione, ma Teresa, appena uscita dal tribunale, chiama Pulici per raccontare come sono andate le cose. Così si becca anche lei un’accusa per aver rivelato notizie coperte dal segreto d’ufficio. Viene condannata in primo grado a 40 giorni di carcere, assolta in appello con formula piena, lo stesso accade a Pulici. La frase “tutto è bene quello che finisce bene”, qui proprio non ci sta. L’interruzione delle indagini sul latitante, soprattutto quella del coinvolgimento della massoneria, i sospetti che corrono da una procura all’altra, l’atteggiamento del procuratore capo Lo Voi, sono tutti elementi che, in un modo o nell’altro, hanno facilitato la latitanza di Matteo. Il motivo non è noto, ma a pensar male …
E Tuzzolino? Continuerà a collaborare, denunciando attentati contro i magistrati. La squadra mobile di Caltanissetta, con un’indagine molto rapida, scopre che si tratta di bugie belle e buone e arresta Tuzzolino nel 2017, escludendolo dal sistema di protezione. Nell’ordinanza di custodia cautelare, emessa dal tribunale nisseno, viene definito come «un bugiardo patologico, aduso a strumentalizzare ai fini personali il suo status di collaboratore di giustizia nel malcelato tentativo di accreditarsi verso le diverse autorità giudiziarie …”
Non è per niente chiaro se questa conclusione è corretta, perché alcune delle cose dette da Tuzzolino vengono confermate dai fatti. Non bisogna dimenticare contro chi le sue dichiarazioni sono dirette. Oltre a Matteo Messina Denaro, la massoneria deviata.

Tra le tante storie che si intrecciano con le inchieste, compare il nome di un notaio, che si occupa di operazioni che hanno a che fare con personaggi mafiosi, come il boss di Trapani, Vincenzo Virga. Ma, soprattutto, segue gli affari di Michele Mazzarra, un imprenditore conosciuto come “il Berlusconi di Dattilo”, accusato da diversi pentiti, tra i quali Sinacòri, di aver facilitato la latitanza di Matteo Messina Denaro. L’ultima condanna è del 2015 a 4 anni, ma il reato viene prescritto. Muore per cause naturali nel 2021. La sua storia è curiosa perché in pochissimo tempo passa dall’essere un povero contadino ad un imprenditore ricchissimo, tanto che la confisca dei suoi beni è un lungo elenco: 99 immobili, terreni per 150 ettari, alberghi, otto automobili tra cui due Suv, 17 automezzi agricoli e ben 86 conti correnti e rapporti bancari. Tra le confessioni, anche che, nel 2013, il cognato gli chiede di trovare una casa a San Vito Lo Capo, per essere utilizzata dall’inizio del 2014 da Matteo Messina Denaro. Dietro le operazioni immobiliari c’è lui, il notaio Di Natale, che, intercettato, dice: “La casa dove Matteo Messina Denaro è certo che è stato ospitato due volte, l’ho venduta due volte quella casa”. Gli investigatori e i pm di Trapani inviano allora la documentazione ai colleghi della DDA di Palermo, trovando in quelle parole un’analogia con i racconti di Michele Mazzarra. Il legale del notaio, Marino, comincia una serie di denunce e accuse ai magistrati, minacciando azioni legali perché il suo assistito – dice - è vittima di una faida interna ai pm trapanesi. Le minacce colpiscono nel segno: magistrato e investigatore vengono allontanati dall’indagine sul notaio, che naufraga inesorabilmente e con essa i possibili legami con la latitanza di Matteo.

È innegabile che non avere le caratteristiche fisiche di un latitante non aiuti nelle indagini. Di Matteo, prima dell’arresto, non si sa nemmeno che faccia abbia. Sono stati costruiti degli identikit, gli ultimi nel 2011 e 2014, immaginando come il giovane sia invecchiato, ma lasciando aperte molte possibilità diverse (occhiali, stempiatura e così via). Sempre che non sia ricorso alla chirurgia estetica.
Poi, il 12 agosto 2021, succede qualcosa di clamoroso.
>>>>>> INSERIRE FILMATO TG1, da tagliare opportunamente in base a quanto scritto di seguito <<<<<<
Nadia Furnari di Associazione Antimafie “Rita Atria” (*) e due giornaliste, Graziella Proto e Giovanna Cucè, lavorano ad un libro sulla storia di Rita Atria, giovanissima e coraggiosa testimone di mafia, morta suicida a Roma pochi giorni dopo la strage di via D’Amelio. Si imbattono in un documento che riporta un interrogatorio di Matteo. Se c’è la registrazione scritta, pensano, deve esserci anche la registrazione audio e così salta fuori la traccia che poi, con molta difficoltà, riescono a rielaborare, fino a renderla udibile.
Per la prima volta gli italiani sentono la voce di Matteo Messina Denaro, una voce appena percettibile, perché lui parla quasi sottovoce e i microfoni del tribunale di Marsala faticano a raccoglierla. La cassetta che contiene questo prezioso documento è conservata nel tribunale di Marsala dal 18 marzo 1993, pochi mesi prima dell’inizio della latitanza di “U siccu”. Che sia lui non c’è alcun dubbio, visto che il giudice lo chiama con nome e cognome e lui conferma. É sconcertante che quel documento sia in mano alla giustizia da 28 anni e a nessuno sia venuto in mente di utilizzarlo nella caccia al latitante. Le domande diventano insistenti: perché non è stato acquisito dalla magistratura, dalle procure o dai servizi segreti?
Nadia Furnari, esprimendo la sua rabbia, non si nasconde quando parla di “una persona che da trent’anni è latitante e uno stato che latita a sua volta.
Questa considerazione fa a pugni con l’enfasi di dichiarazioni e conseguenti titoloni della stampa, che assicurano “Abbiamo fatto terra bruciata attorno a Matteo Messina Denaro”, “Ha le ore contate” “É ormai circondato” ma da trent’anni le ricerche sono inutili e non portano al risultato più atteso. Su questo sono significative le parole del procuratore di Trapani, Gabriele Paci: “La volontà di prenderlo c’è tutta […] perché non si riesca è certamente anche per il potere dei ricatti, perché Messina Denaro è il custode dei segreti di Riina. É a conoscenza dei pezzi di verità che ancora mancano nella ricostruzione delle stragi.
In questi video abbiamo cercato di raccontare una storia, non di fare l’analisi del fenomeno mafioso o del ruolo che lo stato ha avuto nei mille episodi in cui Cosa Nostra è entrata. Il protagonista è Matteo Messina Denaro, un fantasma per trent’anni, di cui, fino all’arresto, non si hanno foto, non si conosce la fisionomia, non si hanno notizie e nemmeno le impronte digitali. É inevitabile quindi seguire le vicende di altri personaggi, che, in un modo o nell’altro, hanno fatto parte della sua vita. Attraverso queste abbiamo cercato di capire come mai MMD sia rimasto libero così a lungo, nonostante sia inseguito da tutte le forze dell’ordine. Il fatto di essere circondato da una così fitta cortina di protezione, ci porta a ripetere, in modo abbastanza sicuro, che la mafia non può aver fatto tutto da sola.<