greenwash01Prima di cominciare una domanda importante: avete visto il video sull’inquinamento? No? Allora vi consiglio di guardarlo prima di questo, così molte cose saranno decisamente più chiare.
Vi è mai capitato di mostrare di essere diversi da quello che siete, per fare colpo o non indispettire qualcuno? Magari esponendo idee o comportamenti che poco hanno a che fare con la vostra personalità? É, in fondo, solo una piccola bugia, che, tuttavia, può causare problemi alle persone che vi circondano, le quali non sanno bene chi hanno davvero davanti.
In questo video parliamo di questo: di bugie, truffe, inganni, riferiti alle tragiche conseguenze dell’emergenza climatica e alle reazioni di chi è uno dei maggiori imputati per questa situazione: la produzione. Oggi parliamo di Green-washing!
Come spiega bene il video sugli stati più inquinati, la signora Maria da sola non può fare nulla. Servono decisioni politiche condivise e non solo dai partiti del nostro parlamento, ma dagli stati tutti, perché l’emergenza climatica è ovunque e se si tagliano foreste pluviali in Malesia per piantarci palme da olio, o pezzi enormi di foresta amazzonica per avere la soia con cui fare mangimi, beh le conseguenze sono globali e si risentiranno anche a Prato o in qualsiasi altro comune del mondo. E la politica cosa ha fatto? A dirla tutta … ha preso tempo. É uno sport che le riesce molto bene, dal momento che lo pratica fin dal 1992, data della prima grande riunione globale a Rio de Janeiro, che aveva l’obiettivo di trovare una via d’uscita. I molti incontri successivi (chiamati COP) sono stati organizzati ogni anno dall’ONU, precisamente da un suo organismo che solo di questo si occupa, l’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), in italiano: Gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici. E proprio qui si è ben capito quanto distanti sono gli obiettivi di stati ricchi (come gli Stati Uniti o il Canada), emergenti (come India o Cina) e poveracci come la maggior parte di quelli africani e molti asiatici e latino-americani. Non si è mai cavato un ragno dal buco fino al 2015, quando, finalmente, tutti i 196 paesi presenti firmano un protocollo (l’accordo di Parigi) che contiene una via da percorrere. E non è tanto per combatterli i cambiamenti climatici, quanto per limitarli e adeguare le popolazioni alla situazione nuova che le aspetta. Tra le tante decisioni, quella di ridurre drasticamente le emissioni di gas serra, in modo da evitare che la temperatura media del pianeta superi di due gradi quella del periodo preindustriale, fissato dall’IPCC al periodo 1850-1900. I più ottimisti hanno sostituito i 2 gradi, con 1,5. Nei sette anni passati da allora le cose sono andate peggiorando, anche se in vari punti del pianeta sono state intraprese azioni importanti, come la definizione del Green deal europeo, la crescita a macchia di leopardo dell’uso di fonti rinnovabili di energia, la diffusione un pochino più seria della raccolta differenziata dei rifiuti e del loro riciclo e riuso e così via. Sia detto per chiarezza estrema: decisamente troppo poco e, soprattutto, troppo tardi!
Poi, alla prima crisi seria, quella derivata (forse) dalla guerra in Ucraina, ci si è messi di buzzo buono a scavare altri combustibili fossili, arrivando a dichiarare “green” il gas e ipotizzando soluzioni del tutto fantasiose ed inesistenti come il nucleare verde.
Questa, a grandissime linee è la situazione. Dunque, per uscire da quel buco nero, rappresentato da tutti i terribili effetti nefasti dell’emergenza climatica, la produzione è chiamata a cambiare, a sostituire le vecchie linee inquinanti con altre che non lo siano, a far uso il più possibile di energie rinnovabili, a diventare, secondo la locuzione più diffusa “sostenibile” o green. Anche la stampa, ed era ora!,  si rende conto che non si può più ignorare quello che associazioni ambientaliste importanti (ad esempio Sierra Club negli Stati Uniti, Greenpeace, WWF ecc.) vanno dicendo da più di trent’anni. Cominciano ad apparire articoli sull’emergenza climatica e su tutto quello che ad essa si può riferire. In Italia, per fare un esempio recente, i giornali dell’editore GEDI, attualmente in mano alla Exor della famiglia Agnelli, su tutti i suoi quotidiani nazionali (Repubblica, Stampa, Secolo XIX) e locali, organizza “Blue and green”. un sito, un inserto e una grande manifestazione annuale, dedicata ai temi della sostenibilità ambientale.
Nel frattempo anche la pubblicità si adegua. Se ci fate caso quella delle automobili è nettamente cambiata a favore dell’ibrido e dell’elettrico. Poco importa se queste saranno davvero le soluzioni future, quello che interessa qui è la tendenza dell’informazione di massa.
E così le persone, o meglio i consumatori, perché è di questo loro aspetto che parleremo, i consumatori dunque, restano influenzati da tutto questo e, dovendo decidere se comprare un prodotto che si professa green e un altro, in generale scelgono il primo. Lo fanno, spinti da quella pubblicità e quegli articoli, con gli stessi criteri usati per comprare il detersivo A invece del B e spesso per votare il partito A invece del B. Ma come possono, in realtà, sapere se quella merce è davvero green?
La conseguenza sul mercato è che i prodotti green vanno di più e di questo ogni produttore deve tenere conto.  Ha due strade da percorrere: o cambia la propria produzione, investendo un mucchietto di soldi per il futuro o sostiene che i suoi prodotti sono green, che derivano da una filiera sostenibile, anche se non è affatto vero. Questa non è più una piccola bugia: è una truffa bella e buona. Sarà sanzionata dalla legge? Sembrerebbe di sì, se leggiamo l’articolo 41 della nostra Costituzione, che recita: “L'iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.” Ma per una presa di posizione più puntuale, si deve arrivare al 2014, quando nel Codice di Autodisciplina delle Comunicazioni Commerciali viene inserito l’articolo 12. Eccolo: “La comunicazione commerciale che dichiari o evochi benefici di carattere ambientale o ecologico deve basarsi su dati veritieri, pertinenti e scientificamente verificabili. Tale comunicazione deve consentire di comprendere chiaramente a quale aspetto del prodotto o dell’attività pubblicizzata i benefici vantati si riferiscono.”
Proprio a questo articolo fa riferimento il giudice di Gorizia, Francesca Clocchiatti, quando, per la prima volta in Italia, il 25 novembre 2021 emette una sentenza storica. [vedi pdf allegato] In una causa tra due aziende produttrici di tessuti per auto, si esprime chiaramente contro i messaggi pubblicati da una delle due, quali “scelta naturale amica dell’ambiente”, “prima e unica microfibra che garantisce eco sostenibilità”, “fibra ecologica”. Lo fa perché sono bugie, quei tessuti derivano dal petrolio. (pag 5) E proprio citando l’articolo 12 di cui sopra, fa presente che la condanna tiene conto “di un’espansione rapida del fenomeno patologico del Green-Washing.” (pag 5)
Non è nostra abitudine fare di tutta l’erba un fascio, perché ci sono molte aziende che si sono adeguate alla nuova situazione, sia climatica che normativa, ma altri (non pochi purtroppo) hanno fatto i furbi, nascondendo i comportamenti abituali dietro una cortina fumogena, che mostri un aspetto “verde” dell’azienda, come dire: “guardate che bravi che siamo, anche noi siamo ambientalisti”, salvo poi scoprire che dietro quella cortina si nasconde solo una bugia. É questo atteggiamento che il ricercatore Jay Westerveld nel 1986 ha chiamato Green-washing, letteralmente lavaggio verde, ma che sarebbe meglio chiamare “occultamento verde”. Lo ha fatto quando ha letto una pubblicità di alcuni hotel che invitavano gli ospiti ad usare il più possibile lo stesso asciugamano. Così si è chiesto se quella richiesta era un invito a ridurre i consumi di acqua ed energia o a far risparmiare denaro all’albergo. In quest’ultimo caso si tratta, per l’appunto, di green-washing.
Una cosa è certa: quello che sappiamo sul green washing, riguarda solo casi che sono stati scoperti, che sicuramente non sono tutti. Di esempi ce ne sono a migliaia, senza esagerare. Ci sono cascati colossi della produzione, ma molto spesso anche produttori sconosciuti o situazioni di cui nessun giornale potrebbe occuparsi. Ed è proprio da qui che cominciamo, con un caso reale che sarebbe potuto capitare a chiunque di voi. C’è un mercatino che vende prodotti alimentari. Sopra l’entrata un cartello verde con una scritta gialla: “Mercato a km 0” “Tutto bio”. Al di là del fatto che sul termine “bio” potremmo aprire un nuovo capitolo, l’intenzione del gestore è chiara: si tratta di prodotti ad altissima eco-sostenibilità. Siamo in pianura padana, nel Veneto. É curioso che chi compra non si accorga delle banane che arrivano dalla Sicilia, delle marmellate piemontesi, e di quei sacchetti di plastica con su scritto “biodegradabili al 100%”, ma in realtà ottenuti con un additivo chimico, ad esempio l’ECM, mescolato alla plastica tradizionale, derivata dal petrolio. Ma i sacchetti sono di colore verde e tu ci caschi anche per questo. Nei mercatini, ancora oggi, nonostante la legge che vieta l’uso di sacchetti di plastica, ne trovi a non finire. Casi come questo sono avvenuti in talmente tante occasioni attorno al 2010, che è dovuta intervenire l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, per chiarire le cose. Dunque in quel mercatino il green-washing era di casa.
Uno dei più clamorosi esempi di green washing viene alla luce il 18 settembre 2015. A comunicarlo è l’EPA, l’Agenzia Americana per la protezione ambientale; l’accusa è rivolta alla tedesca Volkswagen. Il cosiddetto “Dieselgate” consiste in un “trucchetto”, realizzato con un software malandrino, che fornisce dati fasulli per aggirare le norme sulle emissioni di inquinanti come gli ossidi di Azoto. Mezzo milione di autovetture vanno riprogrammate, dice il governo USA. Ma la questione è ben più grave. La casa automobilistica fa sapere che le automobili coinvolte sono 11 milioni in tutto, una cifra enorme, in grado di mettere in crisi anche il più importante gruppo automobilistico del mondo. Tra penali, multe e risarcimenti alle class action, la VolksWagen spende alla fine quasi 30 miliardi di euro e fa una figuraccia mica da ridere. Questo caso ha messo sotto accusa altre case costruttrici tra cui Audi, FCA, Renault e, in generale, i sistemi di controllo e monitoraggio delle emissioni automobilistiche.
Ma più che inseguire casi particolari, di cui la rete è piena zeppa (ad es. qui: link1  

link2), crediamo interessante capire come mai il greenwashing persista. Come mai non si riesce a controllarlo? E poi: chi lo controlla?
Cominciamo dalle grandi aziende, soprattutto energetiche. Tutte hanno prodotto un piano di decarbonizzazione, con l’obiettivo di azzerare le emissioni entro il 2050, secondo i criteri di varie proposte, tra le quali quella del già citato Green Deal Europeo. Se cercate in rete, farete molta fatica a trovare un’azienda che non abbia il suo piano pronto ed esaltato dalla propria pubblicità. Attenzione: azzerare non significa non emettere più gas serra, significa che quello che si emette va annullato da azioni contrarie, ad esempio piantando alberi da qualche parte nel mondo.
A dare i voti alle compagnie ci pensa la “Transition Pathway Initiative” (TPI), che sul proprio sito giura di essere indipendente e di fornire ricerche e dati sui progressi compiuti dal mondo finanziario e aziendale nella transizione verso un'economia a basse emissioni di carbonio. Così, nel novembre 2021, una decina di aziende importanti nel campo energetico (ENI, Shell, Total, ecc) vengono promosse, anche se con qualche distinguo sulla “ambizione” dei propri progetti di decarbonizzazione. Tutti in linea con l’opzione 1,5°C di Parigi: possibile?
Facciamo, adesso, la conoscenza con un’organizzazione francese, Reclaim Finance, che non guarda solo le intenzioni dichiarate, fa i conti ai progetti legati all’emergenza climatica. In un articolo pubblicato sul proprio sito (link) dà un giudizio non tranquillizzante dello studio di TPI: “le sue conclusioni sono troppo belle per essere vere e tecnicamente impossibili.” I motivi di questa critica sono due. Il primo che TPI si basa, almeno in parte, sulle dichiarazioni delle aziende sotto controllo, il secondo che valuta le prospettive a lungo termine, senza tenere conto di quello che avviene nel breve/medio periodo, quando quelle stesse aziende si sentono autorizzate a fare quello che vogliono. Un esempio, secondo Reclaim Finance, è quello di ENI, che imperversa per ogni dove con immagini e slogan rassicuranti, ma continua imperterrita a sviluppare il suo tradizionale core business: la ricerca, lo sviluppo, l’estrazione e la commercializzazione di combustibili fossili in giro per il mondo. (citato in link)
Del resto non può sfuggire che quando la Coca Cola sponsorizza la COP27 di Glasgow contro i cambiamenti climatici, qualcosa che suona stonato c’è.
Proviamo adesso a capire ancora meglio, entrando nei meandri dei finanziamenti alle aziende e quindi coinvolgendo anche le decisioni che importanti istituti di credito prendono, anche con i soldi dei cittadini, quelli “normali”, che hanno messo da parte qualche euro e vogliono investirli in modo sostenibile. Si parla di investimenti ESG, sigla che sta per Environment, Social, Governance, che indica un modo trasparente e responsabile di indirizzare il denaro verso compagnie e società che si impegnino in azioni sostenibili in campo ambientale, sociale e di governance. É un capitolo decisamente importante, se Bloomberg garantisce che entro cinque anni un terzo degli investimenti sarà di questo tipo. Certo, come ammonisce Eurosif (Forum europeo per gli investimenti sostenibili e responsabili), non basta mettere il cartello “sostenibile”, bisogna garantire che le strategie su cui si investe abbiano un’efficacia reale sul mondo. Insomma, per citare il mitico Palmiro Cangini … “fatti, non pugnette!
E siamo di nuovo alle solite: chi controlla che gli investimenti siano corretti? Quello che avviene è un po’ come la quotazione delle imprese commerciali e statali. Viene data una valutazione (un rating) dalla peggiore, la D alla migliore, la tripla A. Oggi tutti conoscono i nomi delle società che fanno questo servizio, come Moody’s o Standard & Poor’s. Bene, ci sono agenzie che fanno un lavoro simile anche per gli investimenti ESG, ma con diversi criteri, 35 in tutto, tra i quali figurano anche le informazioni fornite dall’azienda indagata. Tra i più importanti valutatori c’è MSCI, che sta per Morgan Stanley Capital International, con sede a New York. Le indicazioni ufficiali di questa società sono improntate al benessere del mondo, che vogliono far diventare un posto migliore, una frase che sentiamo ripetere ad ogni occasione da chiunque, anche dalle ragazze in concorso per Miss Universo. Tuttavia non tutti si fidano delle loro parole. Non lo fa, ad esempio, un settimanale finanziario importante, il Bloomberg Businessweek. Dopo aver fatto tutte le sue ricerche, pubblica un articolo il 10 dicembre 2021, un articolo piuttosto sorprendente e di grandissimo interesse. (link in inglese).
Il fatto è che MSCI poche settimane prima aveva aumentato il rating ESG di ben 155 società statunitensi, azione che per gli esperti di Bloomberg puzzava terribilmente di inciucio. E così ha fatto due conti. Riportiamo solo uno dei tanti esempi possibili, quelli dell’azienda McDonald’s Corp. Nel 2019 l’azienda di fast food emette in atmosfera 54 milioni di tonnellate di gas serra, il 7% in più dell’anno precedente, più di uno stato delle dimensioni del Portogallo o dell’Ungheria. Questa cifra enorme deriva, in larghissima parte, dalla filiera della carne, di cui McDonald’s è uno dei maggiori acquirenti al mondo. MSCI, tuttavia, ha pensato bene di aumentare il rating da una doppia B ad una tripla B. Perché mai? Lo capiamo leggendo un documento della stessa MSCI, quando afferma che il rating (la tripla B) “è progettato per misurare la resilienza di un’azienda ai rischi ambientali, sociali e di governance (ESG) a lungo termine del settore.
Traducendo questa frase in un italiano più comprensibile, capiamo che MSCI non valuta l’impatto dell’azienda sul pianeta o sull’ambiente, ma l’opposto, cioè l’impatto che le questioni ESG avranno sul futuro economico dell’azienda. Nel caso di McDonald’s, MSCI ha concluso che l’aumento delle emissioni non incide sul futuro dell’azienda. Dunque avanti così ad inquinare a più non posso. E le altre aziende a cui è stato aumentato il rating? Secondo Bloomberg, delle 155 esaminate, 154 sono nelle stesse condizioni di McDonalds. Un trionfo!
Ma il greenwashing di questa società di rating esplode in modo più che evidente, quando, tra i motivi che premiano le aziende, vengono citati i bidoni per la raccolta differenziata messi a disposizione nei locali francesi e inglesi di McDonald’s. Ma come? La legislazione di quei paesi prevede proprio questo. Ecco che un’azione dovuta, per legge, viene spacciata come un comportamento virtuoso. É come se si premiasse uno che si ferma col rosso o non spara ai passanti.
La logica è sempre la stessa, anche in altri campi. Ad esempio la valutazione di “stress idrico” di un’azienda chimica non valuta l’impatto sulle forniture idriche della zona in cui produce prodotti chimici, ma misura se le comunità hanno abbastanza acqua per sostenere le loro fabbriche. E questo indipendentemente dal fatto se la società cerca di limitare gli scarichi nocivi nei sistemi idrici locali.
Parlando di soldi, potevano mai mancare le banche nei nostri discorsi? Dal 2016 al 2020 sessanta grandi banche hanno foraggiato le industrie fossili con 3800 miliardi di dollari, alla faccia della transizione ecologica. Da notare che questo avviene subito dopo la firma dell’accordo di Parigi. Sembra una mossa per smentire i 196 stati che quell’accordo avevano appena sottoscritto. In cima alla classifica c’è la JP Morgan Chase con 317 miliardi, un valore che è quasi il doppio del PIL ungherese. Nonostante questo, per MSCI la banca di New York merita addirittura una A e viene quindi dichiarata in linea con gli obiettivi internazionali sul clima.
A beh … ci sono anche le altre in classifica: al secondo posto ecco Citigroup, sempre con sede a New York, che ha stanziato 238 miliardi investiti nelle fossili ma si trova con un rating A, che ne fa una banca altamente dedicata alla sostenibilità. Che bella storia, vero? [vedi grafico allegato]
Così, per curiosità, cosa diavolo si deve fare per essere esclusi dagli indici ESG?
Tra gli esempi più recenti di greenwashing, alcuni meritano almeno una citazione. In molti casi si tratta di aver usato una riforestazione per compensare i danni prodotti dalle proprie azioni. Succede ad esempio con Michelin, che ha speso 95 milioni per rinverdire 90mila ettari in Indonesia. Si scopre però che si trattava di una piantagione di gomma naturale a monocoltura, che sostituiva migliaia di ettari di foresta pluviale, habitat di oranghi, orsi, tigri ed elefanti, rasi al suolo da Royal Lestari Utama, un partner locale di Michelin.
Famoso è anche il caso della band rock inglese Coldplay, che più volte è caduta in azioni di greenwashing. A cominciare dal 2002 quando, per sopperire alle emissioni legate alla produzione di un disco, decidono di piantare 10 mila alberi di mango nel Sud dell’India. Peccato che i fondi arrivino un po’ dove capita, soprattutto senza ascoltare l’esperienza dei coltivatori locali, che sanno bene che quella coltura necessita di un grande consumo di acqua, di cui quella zona non abbonda. L’operazione si conclude in modo disastroso e i terreni vengono abbandonati. Più recentemente nel 2019-2020, nonostante ottime iniziative sostenibili della band, i fan non hanno gradito per niente che il tour fosse sponsorizzato da Neste Oyj, una società finlandese di raffinazione, trasporto e vendita di petrolio e biodiesel. I fornitori di olio di palma dell’azienda hanno abbattuto 10mila ettari di foresta tra il 2019 e il 2020. Forse i Coldplay sono solo stati tirati in mezzo, ma la richiesta di abbandonare quello sponsor è rimasta, per ora, lettera morta.
Ci sono tentativi di greenwashing che non si sa se siano più ingenui o più stupidi. Il primo premio va alla coreana Innisfree, marchio di cosmetici. Uno dei suoi prodotti è stato venduto in un flacone coperto da un’etichetta che garantisce: “Ciao, sono una bottiglia di carta”. Peccato che la carta nasconda un flacone di plastica.
Come già detto, si potrebbe continuare per molte ore a citare esempi di questo tipo. É, invece interessante aggiungere che, oltre al green-washing, altri terribili tipi di washing sono attuati. Senza intervenire sullo sport-washing, di cui si parla nel video sui mondiali in Qatar, vale la pena di spendere qualche minuto sui social-washing.
Fino a qualche decennio fa per vendere pneumatici sembra fosse d’obbligo metterci a fianco una donna seminuda, un modo oltraggioso di utilizzare l’immagine femminile e non solo in questo ambito. Oggi le cose stanno cambiando, lentamene e con varie eccezioni. Cambiano anche perché le aziende possiedono una quantità enorme di informazioni dei propri potenziali clienti. Come fanno? Lasciando stare le possibilità di spiarci attraverso tutto ciò che è “smart”, quelle informazioni gliele forniamo noi, ad esempio usando in modo sprovveduto i social, sui quali riusciamo a mettere tutto quello che ci riguarda, le nostre scelte culturali, l’orientamento sessuale, le tendenze religiose, l’etnia, addirittura la geolocalizzazione. E lo facciamo gratis.
In questo modo le aziende sono in grado di puntare su obiettivi classificati, di cui conoscono i gusti e i desideri di acquisto. E si rivolgono anche alle donne, agli omosessuali o trans, o alle persone che non hanno un fisico come quello delle modelle o degli atleti olimpici, diventati target importanti nel loro business. Nel social washing convergono così il pink-washing, dedicato alle donne e il rainbow-washing, dedicato al popolo LGBT. E così, dopo aver insultato per anni le donne e reso invisibili le persone LGBT, oggi usano i loro stessi slogan con messaggi al miele, dipinti di rosa o arcobaleno, per ottenere la simpatia dei consumatori sensibili alla parità di genere e ai diritti umani. Ma lo scopo, ovviamente, è quello di vendere più prodotti.
Ancora una volta va sottolineato che ci sono molte aziende che hanno iniziative serissime in questi campi, ma, allo stesso tempo, anche qui gli esempi si sprecano e coinvolgono soprattutto ditte di abbigliamento e cosmetici. Più in generale, per quanto riguarda le donne non occorre fare degli esempi, basta guardare i livelli retributivi inferiori e la miseria dei posti di comando pubblici e privati riservati loro. Qualsiasi pubblicità a favore del genere femminile cozza contro questa cruda realtà. In Italia c’è voluta una legge (Golfo-Mosca 2011) per ridurre, ma siamo ben lontani dall’azzerare, l’evidente disparità di genere.
Tra le aziende più colpite da provvedimenti social-washing c’è l’inglese H&M (eich and em - so che tu sai benissimo l’inglese, scusa la pignoleria), finita sotto processo due volte nel 2022, in luglio a N.Y e in Novembre in Olanda, per aver usato sui vestiti etichette inneggianti alla sostenibilità, ma del tutto false.
Potremmo citare altre campagne pubblicitarie, come “For real beauty” di Dove (marchio di Unilever) che diceva: «Parla a tua figlia prima che l’industria della bellezza lo faccia». Nello spot ci vengono incontro immagini in modo parossistico di donne bellissime che usano prodotti di ogni genere, tutti ovviamente di Dove. Dunque la mamma dovrebbe indurre la figlia a diventare bellissima come quelle modelle, perché questo è il vero valore della vita? Su Youtube molti dei commenti femminili al video sono entusiastici. Greenpeace non c’ha visto niente di buono e ha replicato con un video di una bambina indonesiana e le foto della deforestazione selvaggia del suo paese che ci vengono incontro e termina con queste frasi: “Quando la bambina avrà 25 anni, il 98% delle foreste sarà distrutto. Ditelo a Dove prima che sia troppo tardi”.
Il Guardian, in un articolo molto interessante (link) del 2019 sul rainbow-washing, cita il negozio di alimentari Marks & Spencer che vende un “sandwich LGBT” nel Regno Unito durante le celebrazioni del Pride Month, ma si astiene dal vendere il prodotto nei mercati in cui le relazioni tra persone dello stesso sesso sono illegali.
Ci sono anche casi classici di qualche tempo fa, come la pubblicità di Zara “ama le tue curve”, destinata a fisici “rotondetti”, che mette in bella mostra due modelle taglia 36, che le curve le vedono solo salendo i tornanti del Pordoi. Va detto che adesso sono frequenti le modelle “in carne” come quelle di razze diverse da quella caucasica … sarà per convinzione o per convenienza?
Un’ultima osservazione. Molti brand si affidano oggi ai cosiddetti influencer, che spesso sono persone che di quelle merci non sanno proprio niente. Eppure, secondo il tool Bozoole, che analizza proprio l’effetto degli influencer sul mercato, 2 ragazzi (millenial e generazione Z) su 3 si affidano agli influencer per decidere cosa comprare.
Siamo d’accordo che non tutto il mercato è attraversato da questi truffatori, ma suona davvero strano il fatto che siano state create addirittura due sofisticate strategie di marketing, chiamate femvertising e diversity marketing che traduciamo con pubblicità femminista e marketing per la diversità.
Come comportarci allora di fronte alle varie forme di washing? É complicato rispondere a questa domanda, ma siamo certi che una buona informazione e uno spirito critico sarebbero molto utili. Come ottenere uno spirito critico? Studiando e guardando filmati che facciano pensare, come quelli di Nova Lectio.