Introduzione

carne01Cari amici, oggi parliamo di bistecche.
Il Natale, ma non solo il Natale, induce la maggior parte degli umani a rincorrere sempre più consumi. Si comincia un mese prima, il 25 novembre, con il black Friday, che è una specie di zona franca per il consumismo. L’occasione che ogni consumatore compulsivo aspetta con ansia perché è il giorno in cui nessuno si sente di rimproverarlo, vista l’enorme pubblicità promossa da ogni mezzo di comunicazione. É un’invenzione molto utile ai produttori e ai venditori e a tutti quelli che desiderano acquistare a minor prezzo quello che serve loro, ma anche quello che non serve … solo perché è un’occasione.
Dopo l’invenzione del venerdì black, siamo arrivati alla settimana black e poi al mese black e, chissà, magari tra un paio di anni il black sarà dedicato a tutto l’inverno. Osservo, ma con dolcezza e superficialmente, che tutti i beni che acquistiamo, Natale o non Natale che sia, sono il prodotto di una catena di operazioni che la loro incidenza sull’ambiente ce l’hanno, eccome. Poi è chiaro che non si può mai fare di tutta l’erba un fascio e ci sono articoli più sostenibili di altri. L’invito è di cercare, tra le tante cose inutili che si regalano il 25 dicembre, quelle meno invasive. Se si vuole, si può fare.
E poi ci sono i pranzi e i cenoni, con consumo di tante cose buone, a cominciare dall’arrosto che non può mai mancare in un banchetto per una festa come si deve.
Ecco, proprio di questo vorrei parlare questa sera, di come gli alimenti che noi usiamo, incidono sull’ambiente in generale e sul clima in particolare. Una puntata, pertanto, che non è adatta a vegani e vegetariani, che le cose che dirò le sanno benissimo, a volte anche troppo, tanto da farne una religione, che non è mai una cosa sensata. Ma se vorranno ascoltare mi farà piacere, anche perché magari potranno correggere eventuali sviste o errori della trasmissione, scrivendomi sul mio sito, Noncicredo.org.
In questo caso, sarò lieto di rispondere o di correggere quanto detto, nella prossima puntata.
É sempre complicato decidere da dove cominciare. Come ho detto un milione di volte, non esistono questioni ambientali riferite ad un paese specifico e ad altri no. Tutte le magagne che osserviamo oggi e che saranno sempre più pressanti in futuro, derivano da una gestione - come dire? - poco saggia delle nostre attività. Dove con nostre intendo della razza umana, non importa in quale nazione quelle attività vengano svolte. Per capirci, il disboscamento selvaggio praticato in Brasile o in Indonesia non danneggia solo gli abitanti di quei paesi, ma toglie all’intera umanità una parte importante di quella ripulitura dell’aria dalla CO2 che implica un aumento dell’effetto serra e quindi un inasprimento dell’emergenza climatica, della quale ho parlato moltissime volte da questi microfoni.
Dunque i dati che utilizzerò questa sera, si riferiscono al mondo intero, per capire quale sia la situazione in cui ci troviamo.
Come sempre quello che affermo in questa trasmissione deriva da studi e ricerche o da articoli specialistici, che mano a mano elencherò.
Premesso tutto questo, possiamo cominciare.
Se cerchiamo le cause dell’emergenza climatica, abbiamo una vasta scelta. La produzione industriale ha la sua fetta di responsabilità, avendo bruciato per secoli carbone, gas e petrolio e continuando a farlo in misura addirittura maggiore del passato. Anche i trasporti e il riscaldamento/raffrescamento delle abitazioni hanno il loro peso. Ce l’ha anche il modo in cui i rifiuti vengono gestiti e così via. Qui, però, ci interessa sapere come interviene l’alimentazione sull’emergenza climatica. E parlando di alimentazione non si può che iniziare da due attività fondamentali: l’agricoltura e l’allevamento del bestiame.
carne02Anticipo subito che non farò nessun discorso del tipo “Poveri animali che soffrono”, anche se mi rendo perfettamente conto della brevità e dell’atrocità delle loro vite. Ma questo è un punto che non voglio toccare per convincere tutti, anche quelli che pensano “In fondo è una gallina, cosa vuoi che importi se la trattiamo così”, per convincere tutti, dicevo, che analizzare e criticare il tipo di alimentazione che abbiamo, va al di là, molto al di là, del buonismo e dell’amore per gli animali.
Il primo documento che analizziamo è stato prodotto dal WWF, in preparazione del Pre Summit Food che si è tenuto a Roma, alla fine di luglio 2021, organizzato dalle Nazioni Unite e dal Governo italiano. Il Summit vero e proprio si è poi tenuto in settembre a New York.
Il documento del WWF analizza dunque la situazione ed è inserito nella campagna FoodforFuture (Cibo per il futuro) lanciata dall’associazione ambientalista nell’aprile di quell’anno. Con lo scopo dichiarato di “promuovere sistemi alimentari più resilienti, inclusivi, sani e sostenibili, dalla produzione al consumo, tenendo conto delle necessità umane e del pianeta.”
Nel report ci sono dati e cifre abbastanza angoscianti, a cominciare dalla premessa, che ricorda come uno dei maggiori responsabili della crisi ecologica in corso sia il comparto alimentare. E si deve cominciare dalla filiera della carne. Gli allevamenti intensivi sono responsabili, da soli, di quasi il 15% delle emissioni di gas serra (soprattutto metano). Viene inoltre utilizzato il 20% delle terre emerse come pascolo e il 40% dei terreni coltivabili per la produzione di mangimi. Inoltre, gli animali allevati in modo non sostenibile possono essere fonti di malattie trasmesse all’uomo, che, come ben sappiamo, rappresentano una grave minaccia sia per il pianeta che per la nostra specie.
Ed è proprio da qui che partiamo, dalla produzione di carne, per capire a che punto siamo e quali problemi sono ad essa legati.

La filiera della carne e l'impatto sull'ambiente

Cominciamo dalla FAO, la Food and Agricoltural Organisation, l’organizzazione del cibo e dell’agricoltura, una costola delle Nazioni Unite, che da molti anni lotta contro la fame nel mondo. In questi ultimi periodi si è aggiunto un nuovo obiettivo, cioè quello di rendere il più sostenibile possibile la produzione di cibo, come appare evidente visitando il sito di questa organizzazione.
Per chi non lo sapesse, il 2021, è stato dichiarato l’anno internazionale della frutta e della verdura, alimenti spesso dimenticati dalle diete di chi ha troppa fretta e si ciba di panini, hamburger e bevande gassate. Ma anche da chi pensa che sia sufficiente riempire la pancia con grandi piatti di pasta o riso e con enormi bistecche. Il riferimento ad una dieta tipicamente nordica o statunitense è evidente. Il consumo di frutta e verdura è una delle pecche dell’alimentazione giovanile degli Stati Uniti, tanto da indurre personalità politiche importanti a spronare per un loro maggiore consumo. Penso alle mogli dei presidenti Roosvelt e Obama, in tempi distanti tra loro e quindi non confrontabili, ma questo è significativo del fatto che la questione non è mai stata risolta. Il problema è rimasto: gli americani mangiano malissimo e l’altissima percentuale di obesi, diabetici, infartuati è là a dimostrarlo.
Purtroppo, mentre le indicazioni di una dieta equilibrata e la stessa FAO, spingono per aumentare le portate di vegetali in sostituzione della carne, il mercato si muove in direzione opposta.
Le stime dei rapporti che arrivano alla nostra conoscenza da parte di associazioni e società di consulenza, sono terribili. Si stima che entro 10 anni il settore zootecnico crescerà del 74% nei paesi a basso e medio reddito, mentre a livello globale il numero degli animali da allevamento aumenterà del 50% entro il 2050. E questo il pianeta proprio non se lo può permettere, perché dovrà destinare altre terre alla filiera, sottraendole a produzioni meno invasive o, come accade da moltissimo tempo, abbattendo foreste.
Lasciatemi fare un inciso molto amaro. Sapete che ci sono siti, anche importanti, che pubblicano le ricerche che vengono messe a disposizioni. Tra poco noi analizzeremo il contenuto di una indagine, commissionata dalla LAV (la Lega AntiVivisezione) a tecnici indipendenti della società di consulenza Demetra e pubblicata su “Il Fatto Quotidiano”. Un articolo fatto bene, con tutte le cose e le cifre al posto giusto, leggendo il quale viene voglia di intraprendere una dieta vegetariana. Quello che stona è che, in questo contesto così ambientalista, tra gli sponsor che finanziano la pubblicazione c’è, in bella mostra, la Macelleria Pompa con i suoi arrosticini abruzzesi, forza della coerenza tipicamente italiana! Chiuso l’inciso.
E adesso parliamo di soldi. Quanto costa la filiera delle carni in Italia? Ogni anno solo per la produzione di carne bovina vengono immesse in atmosfera 18 milioni di tonnellate di anidride carbonica, per un danno di oltre un miliardo di euro. Se mettiamo assieme la produzione di carni di bovine, suine e del pollame, si sfiorano le 100 mila tonnellate di PM10, le polveri sottili. La produzione di queste polveri porta con sé un danno economico di quasi 4 miliardi di euro. Alla fine, se si somma tutto quello che succede con la filiera della carne, si arriva, secondo il rapporto di Demetra, alla cifra di 37 miliardi di euro l’anno, a causa dell’impatto ambientale e sanitario. Significa che ogni cittadino italiano, alla fine dell’anno, ha aggiunto al suo debito, altri 605 € per questo motivo.
Lo studio di cui sto parlando, individua undici categorie di impatto, di cui adesso analizzeremo le più importanti. Ognuna di esse contribuisce a quel debito di cui ho appena detto in misura più o meno importante. La carne di bovino ha la massima incidenza sulla società, la formazione di particolato è quella che incide di più sul costo finale (28%), seguita dall’acidificazione dei terreni (22%), consumo di suolo (19%) e cambiamenti climatici (14%).
E noi da questi ultimi partiamo.
Perché l’effetto serra viene aumentato dalle filiere di carne?
I dati sono reperibili su molti siti, ad esempio su quello dell’ISPRA, Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, alle dipendenze del ministero dell’ambiente o comunque venga chiamato dai vari governi che si succedono nel nostro paese. Per quanto riguarda i bovini (ma anche gli altri ruminanti come bufali, capre, pecore), una delle cause è la cosiddetta fermentazione enterica, che accompagna la digestione dei ruminanti, producendo metano, uno dei gas climalteranti più pericolosi, essendo 25 volte più dannoso della CO2. Anche la gestione delle deiezioni (cioè della pipì e della cacca per capirci) è responsabile dell’immissione di gas serra in atmosfera.
L’allevamento dei maiali incide per circa il 30% rispetto a quello dei bovini. Qui il primo responsabile è la dieta. Il 64% delle emissioni infatti è causato dalla produzione e trasporto dei mangimi. La farina di soia pesa per quasi un terzo, anche se l’alimento rappresenta meno del 10% della dieta dell’animale. Il motivo? Queste farine arrivano prevalentemente da Argentina e Brasile, dove sono coltivate abbattendo foreste vergini per fare spazio a terreni coltivabili. E devono, inoltre, essere trasportate su lunghe distanze.
Il pollo è quello che incide meno di tutte le carni sui cambiamenti climatici. Anche in questo caso la responsabilità è dovuta agli alimenti usati per la dieta: farina di soia e olio di palma. Ora, uno può osservare che anche i fagioli vanno coltivati e quindi sostituendo la carne con i legumi comunque si produce gas serra. Questo è vero, tuttavia va rilevato che, a seconda del tipo di carne e del tipo di legume, l’impatto di questi è da 10 a 50 volte inferiore. Senza contare la necessità di acqua nei vari casi, cosa che faremo alla fine della trasmissione.
Passiamo adesso alla formazione di particolato.
Le polveri sottili derivano principalmente dall’emissione di ammoniaca in atmosfera, che avviene sia nella gestione delle deiezioni che nella fertilizzazione dei campi per l’alimentazione degli animali. Altra causa sono le emissioni di ossidi di azoto, dovute alla combustione di combustibili fossili nei macchinari agricoli, nel trasporto, nella produzione di energia. Si calcola che in un anno finiscano in atmosfera circa 55 mila tonnellate di Pm10. Facendo un confronto con piselli e soia, i valori si riducono all’1% e rispettivamente all’8% di quello generato dalle carni. Quello delle polveri sottili è un altro caso segnalato durante il lockdown del 2020, dovuto alla pandemia. In quell’occasione infatti sono diminuite le polveri sottili in città, per il traffico quasi azzerato e la riduzione delle attività delle aree industriali, ma non quelle in campagna, dove l’allevamento, specie negli allevamenti intensivi, è continuato.

L'impatto sui terreni

Un altro problema legato all’allevamento dei bovini è la modifica del pH del terreno. Significa che questo diventa più acido con conseguente danneggiamento dei raccolti. La causa principale è l’ammoniaca emessa durante la gestione (raccolta, ricovero e stoccaggio) delle deiezioni. Una delle possibili conseguenze è quella delle piogge acide. Tra l’altro, questa stessa causa produce quasi il 60% delle emissioni di ammoniaca nel nostro paese, mentre il 33% deriva dalla fertilizzazione dei campi. Continuando con il nostro confronto con i legumi (piselli e soia) il loro impatto sulla acidificazione dei terreni è minima, rappresentando appena lo 0,1% rispetto alla carne bovina e l’8% rispetto alla carne di pollo.
Il prossimo punto riguarda l’ecotossicità terrestre. Di cosa si tratta?
È sempre l’ISPRA a darci l’informazione che ci serve. L’uso di agenti chimici e fisici può modificare organismi viventi (uno dei test per i terreni viene fatto sui vermi che ci vivono), ma interviene anche sull’ambiente. Dunque versare veleni o sostanze tossiche nei campi implica un aumento della tossicità di quegli stessi campi. Secondo lo studio che stiamo seguendo, i danni economici di questo tipo, associati alla filiera della carne, raggiungono in Italia i 4 miliardi e mezzo di euro l’anno. A causare questo problema sono soprattutto i pesticidi usati in agricoltura, creati apposta per uccidere organismi che minaccino il campo o gli animali allevati. Ma le tossine possono accumularsi negli animali destinati alla tavola, creando così danni anche alla salute dei consumatori umani. In questo caso sotto accusa finisce per primo il pollo, seguito dal maiale e solo da ultimo dal bovino. La domanda tuttavia è: da dove diavolo vengono questi problemi. Secondo la ricerca sono dovuti a due cause principali. Per il 70% alla farina di soia che arriva dall’Argentina e per il 27% all’olio di palma che arriva dall’Indonesia e dalla Malesia. La quasi totalità dell’impatto del pollo è dovuto a queste due cause, mentre per i bovini il contributo più importante è quello dei pesticidi, utilizzati per la coltura del mais, con cui si fanno poi i mangimi.
Ancora una volta il confronto con i vegetali è impietoso. I piselli impattano 50 volte meno dei bovini e addirittura 500 volte meno dei polli.
E ancora: molti dei terreni che oggi sono destinati alle varie colture, sono stati sottratti alla natura, attraverso disboscamenti o comunque variazione della destinazione d’uso. Il consumo di suolo è, evidentemente più grande nel caso dei bovini, perché maggiore è la quantità di mangime prodotto, grazie a colture di cereali come mais, frumento, soia, ecc.
Ancora una volta il confronto con i legumi fa capire le differenze. Per ottenere 100 grammi di proteine servono 0,8 metri quadrati di terreno per la soia, ma 12,5 metri quadrati per i bovini, 15 volte di più.

Il consumo di carne

Torniamo adesso al report del WWF, per altri numeri e altre considerazioni.
Secondo questo studio, assieme al benessere medio, è cresciuto anche il consumo di carne in tutto il mondo. Oggi il 70% della biomassa degli uccelli è costituita da pollame destinato alla nostra alimentazione. Dunque solo il 30% è composto da uccelli selvatici. Ogni anno vengono macellati 50 miliardi di polli, la maggior parte dei quali è allevato in maniera intensiva. Si tratta di quegli allevamenti in spazi ridotti, con accelerazione della crescita, senza che mai questi animali vedano il terreno circostante. Dare un giudizio è complicato. Ci sono quelli che ritengono questa pratica migliore perché il bestiame così è più protetto, i detrattori invece sostengono che questo tipo di allevamento sia un grave pericolo per l’ambiente e di conseguenza per la salute delle persone. Come ho detto all’inizio non voglio intervenire sulla miseria della vita di questi animali, ma va detto che la maggior parte della carne di pollo che troviamo nei supermercati ha questa origine.
Se poi passiamo ai mammiferi, le cifre sono ancora più sconcertanti. Pensate che il 60% del peso dei mammiferi sul Pianeta è costituito da bovini e suini da allevamento, il 36% da umani e appena il 4% da mammiferi selvatici. 
La crescita dei consumi è evidente: dagli anni ’60 ad oggi l’aumento è di cinque volte. Nel mondo, in media, vengono consumati 35 kg di carne a testa l’anno, ma evidentemente con grandi differenze tra paese e paese. In Italia il consumo medio è di quasi 80 kg a testa, una cifra davvero molto alta. In cima a questa classifica ci sono, guarda un po’, Australia e Stati Uniti con 115 e 114 kg a testa all’anno, come se ciascun americano mangiasse 50 polli o mezza mucca ogni 12 mesi. Si tratta ovviamente di valori medi, per cui ci sarà chi non ne mangia affatto e chi si rimpinza a non finire. Pensate al cibo tipico degli statunitensi: hot-dog e hamburger … carne di maiale e di manzo a tutto andare.
D’altra parte queste considerazioni sono le stesse per qualunque tipo di consumo, non solo di cibo. Pensiamo che dagli anni ’60 la popolazione è triplicata, arrivando ormai a 8 miliardi di persone. Inoltre il reddito medio è più che triplicato e, in modo analogo, dunque anche il consumo di carne.
Ho già detto dell’impatto sull’ambiente legato alla deforestazione, al consumo di suolo e alla sua modifica, che hanno prodotto danni molto gravi al pianeta. Si può aggiungere, come fa il WWF, ma anche molti altri studi al riguardo, che molte malattie infettive sono trasmesse dagli animali, compreso il COVID.
C’è un altro aspetto da sottolineare: quello dell’uso di antibiotici dati al bestiame. Perché questo non va bene? Come può essere un rischio per noi?
Il fatto è che, di tutti gli antibiotici utilizzati nel mondo, la metà sono destinati proprio all’allevamento animale. Questo è uno strumento che consente ai batteri di diventare resistenti. D’altra parte un terzo delle infezioni in Europa sono causate da batteri resistenti agli antibiotici. Come sembra evidente, il collegamento è presto fatto.
Cosa fare allora? È una domanda alla quale è difficile rispondere, per il solito, eterno motivo che mette in contrasto la salute della popolazione e dell’ambiente con le esigenze concrete. Quelle dei produttori, che certamente non hanno intenzione di rinunciare ai loro profitti, quelle dei consumatori che considerano la bistecca un simbolo del raggiunto benessere sociale, quella dei lavoratori del comparto che, riducendo la produzione vedrebbero di pari passo ridurre anche i posti di lavoro. A dire il vero sarebbe da dire “di quel lavoro” perché mangiare, si deve comunque mangiare e si aprirebbero posti di lavoro in altre filiere. Ma questo è un discorso lungo e complicato che qui non è il caso di approfondire.
Per capire questo conflitto, proviamo a vedere cosa è successo in due paesi: l’Irlanda del Nord e la Nuova Zelanda.

Ambiente e lavoro

Dunque cerchiamo di capire come, in alcuni paesi, si affronta la eterna questione del dualismo tra ambientalismo e produzione, tra sostenibilità e profitto, tra salute collettiva e posti di lavoro.
Come ben sappiamo, è ormai diventato non rimandabile la riduzione delle emissioni di gas serra in atmosfera. Molti stati hanno definito valori e date. Così il parlamento dell’Irlanda del Nord ha stabilito di dimezzare le proprie emissioni entro il 2045, che non è una scelta così rivoluzionaria se si pesa che l’Unione Europea ha fissato quell’obiettivo nel 2030.
Ad ogni modo il sindacato dei Farmers (cioè degli agricoltori) dell’Ulster sostiene che quella legge “sarà la rovina dell’industria agricola nel Paese”. È convinto, questo sindacato, che le conseguenze saranno la perdita di 13mila posti di lavoro, un enorme taglio al numero di capi di bestiame e mancati introiti per miliardi di sterline.
La legge è appoggiata da quasi tutti i partiti presenti nel parlamento irlandese e segue le indicazioni generali sull’emergenza climatica.
Sappiamo che molte aziende, non necessariamente del comparto zootecnico o agricolo, si sono date da fare per intervenire sulla propria filiera e renderla più sostenibile. Pensate alle automobili, alle mille aziende che usano solo energia rinnovabile e così via. Ma la rivista accademica Climatic Change ha pubblicato uno studio che evidenzia come, tra le 35 maggiori aziende di carni e latticini, solo quattro si sono impegnate in questo senso. In particolare l’azione è rivolta all’uso di energia rinnovabile e non alle cause vere delle emissioni, che abbiamo analizzato questa sera. La stessa rivista raccoglie le dichiarazioni di Jennifer Jacquet, docente di studi ambientali della New York University, che esamina le emissioni di due grandi aziende: la Fonterra in Nuova Zelanda e la Nestlè in Svizzera. Le loro emissioni rappresentano più dell’intera quantità stabilita per i due paesi nel prossimo decennio.
Arrivando in Italia, ecco le parole del responsabile ambiente della Coldiretti, Stefano Masini: “In Italia il ciclo zootecnico ha una significativa caratterizzazione estensiva, compatibile con una corretta gestione del territorio. Il nostro è il primo Paese in Europa per produzione biologica”.
Torneremo sulla questione della produzione cosiddetta “bio”.
Masini difende il settore (questo del resto è il suo compito), sostenendo che ridurre l’allevamento significherebbe perdere prodotti d’eccellenza come il formaggio grana padano o i prosciutti San Daniele o Parma. E aggiunge una battuta: “Sarebbe come chiudere la Ferrari perché le auto inquinano.
Peccato che questo paragone faccia acqua da tutte le parti; basterebbe confrontare il numero di Ferrari prodotte e vendute contro quello di formaggi e prosciutti. 
Sempre su questo argomento ci spostiamo adesso in Olanda, uno dei più grandi produttori mondiali di latte e latticini. La presenza di allevamenti intensivi ha portato i politici olandesi a pensare di ridurre drasticamente i propri capi bovini, fino al 30%. In previsione c’è anche la riduzione del suolo per l’industria del bestiame. Oggi nel paese sono presenti 100 milioni di animali allevati, tra bovini, suini e polli. L’obiettivo è quello di ridurre le emissioni secondo le direttive europee, investendo tutti i settori produttivi e non solo l’industria, dove sembra essere più semplice, anche se certo non banale, intervenire con una transizione ecologica.
I confronti sono molto frequenti, specie perché nella conoscenza comune del problema dell’emergenza climatica, noi pensiamo sempre subito all’industria, alla mobilità, alla produzione di energia e solo raramente a quanto costa in termini ambientali quello che mettiamo ogni giorno in tavola.
Così l’ONU ha pubblicato uno studio con dati impressionanti.
Quasi il 90% dei sussidi all’agricoltura causa danni alla natura e alla salute umana. Nonostante questo, i finanziamenti alle industrie agricole e di allevamento sono in aumento: perciò gli esperti delle Nazioni Unite chiedono un radicale riutilizzo dei finanziamenti governativi verso soluzioni agroalimentari sostenibili, che non provochino inquinamento e anzi contribuiscano a combatterlo. Lo stesso rapporto ha rivelato che, a livello globale, bastano le cinque più grandi aziende produttrici di carne, latte e formaggi per produrre più emissioni rispetto ad un colosso del petrolio, come BP o Exxon-Mobil.
Un altro studio di Friends of the Earth Europe, ha calcolato che le prime venti aziende zootecniche a livello mondiale, liberano in atmosfera una quantità di gas serra superiore ad interi paesi, come Germania, Gran Bretagna o Francia. Secondo il rapporto, questa situazione è figlia proprio delle enormi sovvenzioni ricevute, che ammontano tra il 2015 e il 2020 a quasi 500 miliardi di dollari, arrivati da società di investimento, banche, fondi di pensione, quasi tutte con sede in Nord America ed Europa. Grazie a questo meccanismo finanziario il rapporto prevede che la produzione, anziché diminuire, potrebbe considerevolmente aumentare nei prossimi anni.
Tuttavia, siccome le ricerche sul tema sono moltissime, mi piace raccontarvi anche quella pubblicata dal Guardian alla fine di marzo di quest’anno e realizzata dal Boston Consulting Group e della Blue Horizon Corporation. La prima è una multinazionale statunitense di consulenza strategica con 90 uffici in 50 paesi, fondata nel 1963 da Bruce Henderson. È considerata tra le "Big Three" nel mondo della consulenza manageriale. La seconda è un’azienda che investe nel cibo alternativo, se mi passate l’espressione.
Dunque queste due organizzazioni prevedono che il consumo di carne crescerà ancora per qualche anno fino a raggiungere un picco nel 2025 per poi diminuire progressivamente. Questa convinzione deriva dall’analisi della crescita di piatti alternativi, in particolare di proteine che, sempre secondo la ricerca, dovrebbero conquistare l’11% del mercato entro il 2035 e addirittura il 22% se per quella data saranno state definite regole diverse per la produzione di cibo. Un’altra curiosità di questo rapporto è che entro quella data, il 2035, sono previste alternative vegane a piatti decisamente classici come la pizza e il sushi.
Il tutto rientrerebbe in un’ottica di espansione del mercato vegano in generale. Si parla di carne artificiale con gli stessi prezzi di quella animale entro pochi anni e un mercato in forte espansione anche dal punto di vista dei profitti: entro il 2035 potrà garantire introiti per circa 300 miliardi di dollari l’anno. Naturalmente la convinzione dello studio poggia sulla preoccupazione delle persone sia per la propria salute che per l’ambiente. Queste dunque sarebbero ben disposte a rivolgersi a cibi derivati dalle verdure piuttosto che dagli animali. Certo una bistecca di soia non ha lo stesso gusto di quella di Kobe, ma anche risparmiare 1 miliardo di tonnellate di CO2 emesse in atmosfera può dare una grande soddisfazione!

I soliti americani!

A proposito di carne, adesso voglio raccontarvi una storia curiosa, tipicamente americana. É una disputa tra due stati della confederazione, il Colorado e il Nebraska, vicini geograficamente ma enormemente distanti politicamente. A Denver il governatore è Jared Polis, democratico e il primo membro del congresso ad essersi dichiarato gay, un uomo che favorisce le iniziative innovative.
A Lincoln, capitale del Nebraska, invece è governatore Pete Ricketts, conservatore e legato alle tradizioni della società americana.
Ecco dunque i fatti. Nel 2021 il governatore del Colorado ha dichiarato il 22 marzo la giornata senza carne, ovvero il giorno in cui si esorta a bandire la carne dai menu di famiglia e da quelli dei ristoranti dello stato. Il suo collega del Nebraska risponde assegnando alla stessa data la giornata della carne nei menù, invitando i ristoranti a proporre menù tutti a base di carne. L’annuncio di questa contro-iniziativa è avvenuta, non a caso, in una macelleria.
Abbiamo visto in precedenza, anche se solo con un accenno, che gli Stati Uniti sono, assieme all’Australia, i primi consumatori di carne al mondo e certi piatti (hot dog, hamburger, le celeberrime steak) fanno parte della tradizione come le partite di football o il giorno del ringraziamento. Per cui questa decisione dei due governatori è stata presa terribilmente sul serio dalla popolazione e dall’industria delle carni.
In realtà Jared Polis non ha inventato nulla di nuovo, perché l’idea della giornata senza carne è addirittura del 1985, quando il movimento per i diritti degli animali l’aveva inaugurata. Da allora la ricorrenza è stata sponsorizzata da autorità locali e nazionali un po’ in tutto il mondo, a sostegno di un’alimentazione più sana e meno invasiva, per tutti i motivi detti fin qui.
L’iniziativa, ovviamente, ha creato malumori nella stessa industria agricola del Colorado, che porta quasi 50 miliardi l’anno all’economia dello stato. Qualche politico ha addirittura gridato, esagerando per partito preso, al tradimento contro lo stato da parte del Governatore. Poi sono iniziate le controffensive delle varie associazioni. C’è chi ha invitato le famiglie ad andare al ristorante e ordinare grandi porzioni di carne proprio quel giorno, chi invece vuole organizzare un enorme barbecue, con carni di manzo provenienti dal Freeman Ranch di Calhan, paese a metà strada tra Denver e Colorado Spring. Lascio a voi immaginare cosa è successo sui social, con i sostenitori carnivori scatenati contro la decisione del loro governatore. La portavoce di Polis ha cercato di stemperare gli animi, a dire il vero senza grande successo.
In Nebraska le reazioni sono state ben più decise e aspre. Del resto il governatore Ricketts aveva dichiarato marzo “mese del manzo”, tanto per capire la distanza tra le due posizioni.
Questo è un esempio di quello che dicevo prima e cioè del fatto che le persone, pur dichiarandosi preoccupate per l’ambiente e favorevoli alla riduzione degli impatti ambientali, non vogliono rinunciare alle condizioni raggiunte. D’altra parte le rinunce saranno prima o poi inevitabili, e non solo per la carne, con buona pace di Ricketts e dei suoi sostenitori.

Gli allevamenti intensivi

Affrontiamo adesso il tema degli allevamenti intensivi. Se cercate su Wikipedia nella pagina italiana, trovate avvertimenti ripetuti sul fatto che questa voce è incerta, non ha le fonti che si vorrebbe, è meglio diffidare. Leggo in tutto questo il fatto che l’argomento è divisivo: c’è chi pensa a questo tipo di allevamento come a qualcosa di molto positivo, altri invece pensano che nuoccia gravemente all’ambiente, alla salute dei cittadini oltre che, ovviamente, a quella degli animali.
Dal momento che questo tema è centrale per la puntata, cerchiamo di capirci qualcosa, fatto salvo l’avviso che ognuno degli ascoltatori può (secondo me, deve) verificare ogni cosa che gli altri (compreso chi vi sta parlando) vi vanno raccontando.
Dunque cominciamo dal principio: cos’è un allevamento intensivo?
Credo che, da un punto di vista fisico, due siano le sue caratteristiche: ci sono molti animali, ciascuno dei quali ha pochissimo spazio vitale. L’opposto insomma delle mucche nei pascoli che possono gironzolare a piacere per cercarsi l’erba preferita.
Ma non è tutto qui, perché alla base dell’allevamento intensivo c’è una tecnologia e un’organizzazione molto spinta: dalla selezione delle razze al controllo di quanta acqua beve ogni animale all’uso di medicinali (antibiotici) e così via. Insomma si tratta della industrializzazione dell’allevamento.
L’origine di questo tipo di allevamento è in una incredibile storia avvenuta nel 1923 in Delaware (Stati Uniti) quando alla signora Celia Steele arrivano 500 pulcini, invece dei 50 ordinati. Lei li tiene tutti, li chiude in un capannone e li alimenta con mais e integratori. Una scommessa, vinta e ripetuta come prassi, che rende la signora Steele molto, molto ricca. Nel dopoguerra questo tipo di allevamento diventa comune e sempre più presente sul mercato del bestiame. Bovini, suini, pollame, tacchini, ovini entrano in queste strutture. Ancora oggi il fenomeno è in crescita, se, il dato è del 2020, sono stati allevati circa 70 miliardi di animali, l’80% dei quali in modo intensivo. Questa percentuale cresce negli Stati Uniti arrivando al 99%. Tutti i dati che riferisco sono presi da vari report di inchieste svolte per lo più da associazioni pubbliche, come l’Anagrafe Zootecnica del Ministero della Salute. In Italia questi allevamenti sono principalmente al Nord, segnatamente Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna. Il dato più inquietante riguarda il pollame. Praticamente tutto (il 99,8%) il pollame viene allevato in modo intensivo, con, in media, quasi 35 mila volatili ciascuno. Solo lo 0,2% esce da impianti con meno di 5 mila polli. Il maggior numero di impianti, circa un terzo, si trova nel Veneto. In Italia trovano posto circa 9 milioni di maiali (la metà dei quali in Lombardia) e 6 milioni di bovini distribuiti in 140 mila allevamenti intensivi.
Questi sono i numeri, o meglio: sono alcuni dei numeri che servono ad inquadrare la dimensione della produzione di carne per questa via. Numeri che mostrano un grande successo dell’iniziativa. I motivi di tale successo sono semplici e chiari: controllando tutto (anche le eventuali malattie con le medicine) e la somministrazione del cibo, si ottiene un prodotto migliore: più carne a minor prezzo, quindi un profitto maggiore.
Come ho detto e ripetuto, non spenderò molte parole per le sofferenze e il tipo di vita che l’uomo costringe questi animali a trascorrere. È una cosa fin troppo ovvia e, credo, conosciuta da tutti. Sono altre le preoccupazioni alle quali voglio rivolgere l’attenzione degli ascoltatori.
L’agricoltura tutta, lo abbiamo già sottolineato, è un potente sistema di immissione di gas serra in atmosfera. Questi derivano dal consumo di suolo per produrre mangimi, dalla digestione dei ruminanti (metano) e dalla gestione delle loro deiezioni (ossidi di azoto). Tuttavia, restando agli allevamenti intensivi, sembra che per produrre un litro di latte questi vadano meglio di quelli estensivi per tutti i motivi vantaggiosi di cui ho parlato poco fa. Su questo poggiano le loro tesi i fautori di questo modello, sostenendo che, al contrario di quanto si afferma, l’allevamento intensivo ha fatto sensibilmente ridurre e non di poco l’immissione di gas serra in atmosfera.
Il fatto è che questo è solo un modo di vedere la questione, limitato ad un unico dato, mentre ce ne sono altri da valutare per un giudizio complessivo.
Gli studi su questo problema si sono moltiplicati negli ultimi anni, anche per l’aggravarsi della situazione climatica e il conseguente aumento di attenzione verso ogni situazione che abbia un impatto ambientale negativo.
I dati che seguono sono ripresi da una ricerca dell’Università di Brescia, pubblicata sui quotidiani verso la fine di gennaio 2021. Secondo questo studio ben 1459 morti premature causate dalle polveri sottili potrebbero essere evitate ogni anno nella sola Lombardia se la domanda di carne venisse dimezzata. In effetti, secondo Greenpeace, gli allevamenti intensivi in Italia producono il 54% delle polveri PM2,5, responsabili di migliaia di morti ogni anno nel nostro paese. L’Italia ha il primato di morti premature attribuibili all’inquinamento atmosferico. Secondo l’Agenzia dell’Ambiente europea, sarebbero 60 mila i morti dovuti ad esposizione di PM2,5 e biossido di Azoto, che, come visto in precedenza, sono emissioni tipiche degli allevamenti intensivi. Accanto a questo c’è l’enorme consumo di risorse che andrebbero riservate all’uomo, come l’acqua (di cui parleremo tra poco), i cereali, i legumi e il suolo. E poi c’è la storia degli scarti, delle deiezioni che solo in parte vengono usate per produrre biogas. Spesso, purtroppo, vengono sparse nei campi circostanti, portandosi dietro azoto, fosforo, potassio, farmaci e antibiotici. Non si tratta quindi di fertilizzanti adatti, ma di pericolosi inquinanti che possono finire nei prodotti di quei campi o, peggio, nelle falde d’acqua sotterranee.
E i numeri, che l’associazione Onlus Terra! ci comunica sono pazzeschi. Gli allevamenti intensivi di maiali in Italia producono 31’500 tonnellate di feci al giorno, 11 milioni e mezzo di tonnellate all’anno. Smaltire questi scarti è come se la popolazione italiana fosse di 86 milioni, invece dei 60 attuali.
La notizia dall’Università di Catania durante la pandemia è stata che dove è massima la concentrazione di questi allevamenti (soprattutto tra Brescia e Bergamo) è anche la zona dove più grave è stato l’impatto del COVID, ma questa è un’informazione che non ha trovato riscontro in altre ricerche. Ve la do solo per dovere di cronaca.
Arriviamo ad una semplice conclusione. Dal momento che l’allevamento intensivo fa parte del modello di sviluppo e sta diventando universale o quasi, il solo modo per sfuggire ai danni che compie e può compiere all’ambiente e di conseguenza alle persone che lo abitano è quello di attuare una dieta meno carnivora possibile. Ridurre il consumo di carne si può. Che io sappia non ci sono vegetariani morti di fame.

Quanti litri di acqua costa una bistecca?

Ci sono molte discussioni su quanta acqua serve per produrre la carne. Va da sé che il consumo comincia con la produzione di mangimi e finisce con l’abbeveraggio degli animali e la macellazione. Da questo punto di vista i bovini sono più impegnativi, seguiti da maiali e da pollame.
Ho cercato di saperne di più, cercando tra gli articoli delle associazioni e dei siti che man mano vi elencherò.
Cominciamo con una rivista on line molto conosciuta: Il Fatto Alimentare. Vorrei togliere subito quella risatina dalla faccia dei malpensanti. Nonostante il nome, non ha nessun collegamento con il quotidiano di Padellaro, Gomez e Travaglio. È solo un modo per ricordare che la testata segue l’intera filiera del cibo dall’inizio alla fine, dall’agricoltura alla tavola.
Cito questa rivista perché aveva pubblicato nel 2014 un articolo intitolato: “Servono davvero 15mila litri d’acqua per un chilo di carne? Alcuni studi tendono a ridimensionare questi dati.” Un titolo, insomma abbastanza sorprendente, se si considera che nel solo 2021 “Il fatto alimentare” pubblica una decina di articoli sull’uso responsabile della carne. Così mi sono incuriosito e, nonostante l’articolo sia un po’ datato, ho voluto vedere cosa dicevano gli esperti.
L’assunto è quello che in quegli anni circolava e cioè che per produrre un kilo di carne di manzo servissero 15 mila litri di acqua. Vero o falso? O meglio è un dato che è stato dimostrato o è esagerato?
Quello che viene detto in premessa è che il calcolo del cosiddetto Water footprint, cioè dell’impronta d’acqua, quindi del consumo di acqua, tiene conto spesso di fattori che non hanno molto senso, mentre ne trascura altri che sono importanti.
L’allevamento avviene solitamente in luoghi dove non c’è carenza di acqua, dove quindi il suo impatto non riduce granché la disponibilità d’acqua per tutti gli altri scopi: lavare, cucinare, eccetera.
Il water footprint tiene conto solo del volume di acqua utilizzata, ma non quantifica l’impatto ambientale associato a questo consumo. Allevare in terre con problemi di reperibilità d’acqua, comporta un danno enormemente maggiore che farlo in Irlanda, tanto per fare un esempio.
Un altro errore nel calcolo del water footprint sta nel fatto che esso somma insieme i vari tipi di acqua che vengono usati: l’acqua blu (quella da acquedotto o da falda), quella verde (quella piovana) e l’acqua grigia che serve per i lavaggi durante la produzione fino alla macellazione.
Sono questi i motivi che lasciano sospettare che quei 15 mila litri di acqua, che pure vengono consumati nella filiera, non siano tutti direttamente responsabili della bistecca che abbiamo nel nostro piatto.
Con tutti questi limiti, vediamo cosa si dice oggi della questione. Tutte le riviste che ho esaminato fanno riferimento ai dati del Water footprint network, vale a dire dell’organismo che definisce e calcola il consumo di acqua per i vari tipi di cibo.
La dieta carnivora ne esce con le ossa rotte, perché si va dai 15 mila litri per chilo di carne di manzo ai 4'300 del pollo, passando per i 9 mila di ovini e i 6 mila del maiale. In questo elenco si intrufolano le noci e la frutta secca in genere, che hanno un impatto importante, molto simile a quello delle carni ovine, 9 mila litri di acqua per kg. È bene saperlo, soprattutto durante le feste invernali quando si fa un uso molto elevato di questi prodotti.
Quello che sostengono i vegetariani, e ancora di più i vegani, è confermato dal fatto che cereali, frutta e verdura sono agli ultimi posti di questo elenco. Ora, per quanto detto in precedenza, può anche essere che questi valori siano un po’ sovrastimati, ma rimane comunque la differenza tra una dieta fortemente improntata all’uso di carne ed una che cerca di farne a meno o, almeno, ne limita l’uso durante la settimana.
L’Unione Coltivatori Italiani ha raccolto dei dati dalla Fondazione Barilla confrontando i due tipi di dieta, ma con apporto nutritivo equivalente, dunque con lo stesso apporto di proteine, in un caso animali, nell’altro vegetali (ad esempio prodotte da piselli, fagioli, soia, ecc.). La differenza è considerevole. Calcolata per i paesi europei, la differenza è di quasi il 40%. Si passerebbe infatti da un pasto che costa circa 3-4 mila litri di acqua ad uno da mille litri soltanto. Sostanzialmente sarebbe possibile, agendo solo sulla dieta, avere un risparmio di circa 4 mila litri al giorno per persona, che non è affatto poco. Quello che viene insegnato ai bambini a scuola sul lavarsi i denti tenendo chiuso il rubinetto (cosa decisamente giusta e pregevole) fa risparmiare circa 20 litri ogni lavaggio, quindi 40 al giorno, cento volte meno che intervenendo sulla dieta.
Poi, a mio parere, non serve essere assolutisti nelle cose. Si può intervenire evitando di mangiare carne tutti i giorni a pranzo e a cena, riservando, ad esempio, il piatto di carne a due o tre pasti la settimana. Già così si avrebbe una riduzione dell’impatto di oltre 20 mila litri d’acqua ogni settimana.
Il nostro consumo di acqua, ovviamente, non si limita al cibo. Secondo i dati del Water footprint network, l’impronta idrica degli italiani è di circa 6’300 litri al giorno per persona. Siamo bravi rispetto alla Spagna (6% in meno) e agli Stati Uniti (20% in meno) che però sono da sempre i più grandi consumatori di ogni cosa. Ma stiamo peggio, ad esempio, della Francia, che ha un’impronta idrica molto più bassa della nostra: il 30% in meno.
Questo grande consumo è un problema oggi e lo sarà ancora di più in futuro. Per tutti i motivi che descrivo ogni volta che trasmetto da questa radio, a partire dall’emergenza climatica, è prevedibile che ci saranno periodi difficili per l’approvvigionamento idrico anche per il nostro paese. Il bacino del Mediterraneo, infatti, è indicato come uno dei siti mondiali dove si verificherà una più alta riduzione delle risorse idriche. Va anche tenuto conto che in Italia circa la metà dell’acqua dolce disponibile viene usata per attività agricole.
Dunque, se non possiamo dire che la dieta è la causa di tutti i mali, possiamo comunque affermare che è (o sarebbe) un buon punto di partenza per fare meglio e soprattutto un punto dal quale possono partire i singoli cittadini, che magari, rinunciando a qualche polpetta, potrebbero favorire i propri figli e nipoti, regalando loro una vita leggermente migliore di quella che, di sicuro, li aspetta.

I vegani sono antipatici, ma hanno ragione?

 Per completare questa puntata ho pensato di dedicare un po’ di spazio ai vegani. Loro non sono molto simpatici, specie quando il loro modo di vivere diventa, nelle loro dichiarazioni, l’unico possibile mentre gli altri sono appannaggio di delinquenti, di ignoranti, di poco di buono. Personalmente non sono vegano, ma sto molto attento a cosa mangio, evitando di ingozzarmi di carne, che uso un paio di volte la settimana, scegliendo sughi vegetali (pomodoro e basilico) o ripieni come ricotta e spinaci. Sì, lo so che la ricotta non è un alimento vegano, ma credo sia meglio di un ragù animale.
E, tutto sommato, non mi considero affatto un poco di buono, anzi.
Quello di cui però mi vanto è di non avere mai pregiudizi senza aver approfondito una questione. Ci tengo molto alla mia onestà intellettuale. Se la perdessi non parlerei mai più in pubblico, promesso.
Quindi ho voluto vedere se esistono dei miti sulla dieta vegana, o sul veganesimo in generale, che potrebbero essere sfatati. Ovviamente mi devo affidare agli esperti e, in questo caso, c’è una vastissima letteratura al riguardo. Molti articoli dicono più o meno le stesse cose, per cui mi sono affidato ad una pubblicazione redatta da Green.me uno dei siti ambientalisti che ogni tanto visito.
Si parte, mi sembra piuttosto normale dall’apporto di proteine, che sono l’incontrastato regno della carne. Ma, a guardar bene, praticamente tutti gli alimenti (se escludiamo l’alcoole gli zuccheri, ne contengono in quantità più o meno abbondante. Per fare un esempio un etto di fagioli freschi o cotti porta un apporto identico di proteine di 60 gr di carne bianca. Beh, sì, bisognerà mangiare un po’ più fagioli per uguagliare un quarto di pollo. Ma cosa ancora più importante è la varietà, per cui non bisogna limitarsi ai fagioli: lenticchie, fagioli, latte di mandorla, noci e così via servono allo scopo. Infine, come ci ricorda la ricerca di Green.me la dieta vegana è più ricca di fibre, magnesio, potassio, acido folico, vitamina C e vitamina E.
Una delle osservazioni che frequentemente si fanno, riguarda la dieta degli atleti. Molti pensano che non mangiare carne faccia diventare meno potenti e quindi meno adatti alle gare in cui occorre spendere grandi quantità di energia. Qui non serve nemmeno ricorrere a ricerche perché ci sono grandi atleti (o ex atleti) che hanno sono vegani o quanto meno vegetariani, avendo bandito la carne dai loro pasti. Tra tutti ricordo Mirko Bergamasco uno dei nomi eccellenti del rugby nostrano e poi la divina Venus Williams, per usare un aggettivo caro all’indimenticabile Gianni Clerici. Se lei ha vinto 49 titoli del circuito WTA, non credo servano molte altre prove. Per non parlare della sorella Serena, che è stata probabilmente la tennista più longeva e vincente in campo femminile, anche lei vegetariana.
Un altro punto che sembra essere contro il vegano riguarda i suoi costi. Qui occorre fare un discorso che sconfina nel sociale. Se entrate in un negozio “bio” (uso questo termine con soggezione perché non sempre ha un significato positivo) … dunque se entrate in un negozio biologico, i prezzi vi fanno girare la testa. Tutto è carissimo. Questo non è colpa dei prodotti vegani, ma del business che attorno a tali prodotti si è consumato. Trovate piatti pronti o conditi che costano più di una bistecca e quindi, giustamente, uno si chiede chi glielo fa fare. Tuttavia, se comprate i prodotti naturali (penso ad esempio al tofu non condito) e poi lo condite voi, il prezzo è decisamente più basso del pollo o del capretto. Dunque, se volete mangiare vegano, comprate gli ingredienti e preparateli nella vostra cucina di casa come meglio preferite. E poi non dimentichiamoci dei legumi, il cui prezzo è molto basso rispetto a carne e pesce.
Un’altra domanda riguarda la sazietà: se mangi vegano alla fine del pasto hai ancora fame. Anche qui dipende da come organizzate il vostro pranzo. Certo se mangiate solo insalata qualche problema potete averlo, ma se ingerite sufficienti fibre, siate certi che alla fine sarete sazi. Le fibre infatti sono la parte della pianta che non viene digerita e rimane nell’intestino fornendo proprio la sensazione di sazietà.
Altre critiche al mondo vegan e a quello vegetariano riguardano la scarsa varietà. Si mangia sempre la stessa cosa. In realtà le cose stanno molto diversamente. Per lo stesso motivo di cui dicevo prima, cioè il business che si è impadronito di quella ricca fetta di popolazione che ha adottato stili diversi di vita, oggi se cercate in rete o entrate in una libreria, troverete molti ricettari dedicati. Insomma di ricette da fare senza dover comprare alimenti con una mamma (uso questa espressione tipica dei vegani) ce n’è davvero tantissime.
Che poi si tratti di una dieta sana, anzi più sana di quella basata sulla carne, non ci sono dubbi, dal momento che è comprovato che un eccessivo consumo di carne induce malattie anche gravi come il diabete, il cancro e malattie cardiache. Del resto, lo abbiamo visto stasera, quando ho riferito della situazione statunitense.
C’è anche chi è convinto che se il veganesimo si espandesse ad una parte consistente della popolazione, avremmo un consumo di suolo molto maggiore di adesso. Questo è assolutamente falso, dal momento che è proprio la filiera della carne, come ho raccontato questa sera a richiedere sempre più terreni coltivabili, per produrre cereali da destinare alla produzione di mangimi per gli animali destinati al macello. E naturalmente lo stesso va detto per il consumo di acqua.
Probabilmente ci sono altre riflessioni simili a quelle che ho appena elencato, ma il senso era quello di far vedere come alcune convinzioni della gente, sono dettate solo dall’ignoranza del problema.
Torno a ribadire che non occorre essere tutti vegani o vegetariani per avere un sistema di nutrizione utile al proprio organismo e che non danneggi l’ambiente che ci ospita. Come sempre la legge del buon senso è quella che deve essere seguita. Ma una cosa è certa: vegani o non vegani, la sostenibilità alimentare non può che passare attraverso una riduzione sensibile della filiera della carne.