matteo Abbandonato il tritolo e la lupara, la mafia si concentra sul business.
Con la maggior parte dei grandi capi in carcere duro, a guidare gli affari e ad essere considerato dai suoi picciotti il punto di riferimento più importante è Matteo Messina Denaro, latitante dal 1993 e vera e propria primula rossa della mafia. Di questo vogliamo parlare: gli affari e “U siccu”. Occorre distinguere, perché ci sono affari e affari. In questo caso ci riferiamo agli affari legali, all’apertura di aziende, al controllo dei consigli di amministrazione di società quotate in borsa, all’acquisto di pacchetti di azioni, alla gestione di appalti importanti e così via. Come è facile immaginare, queste attività servono non solo a fare soldi puliti, ma anche a riciclare quelli derivati dagli altri affari, quelli, diciamo così, meno leciti.
Del resto che Matteo sia tagliato per questo lavoro lo riconosce anche Totò Riina, quando gli affibbia il nomignolo “l’affarista”. La strategia passa dallo stragismo al coinvolgimento del tessuto produttivo, fatto di imprenditori e commercianti, che non subiscono più la mafia … sono loro la mafia. Cresce una società con regole diverse, molto diverse da quelle classiche, regole fatte di solidarietà, sostegno, vicinanza. La mafia si fa impresa e “U siccu” costruisce un impero economico, che ha il suo “ombelico” nella provincia di Trapani. Antonino Giuffrè, ex capomafia pentito, lo dirà chiaramente: se volete sconfiggere la mafia è da là che dovete partire, là dove regna incontrastato Matteo Messina Denaro.
Possiamo cominciare con le dimensioni del fenomeno. Qualcuno è convinto che l’organizzazione sia presente e agisca prevalentemente in Sicilia. Altri, più arditi, sanno che a Milano e più recentemente nel ricco Nord-Est il tessuto mafioso è presente in modo massiccio. Soprattutto ai nostri tempi. In realtà l’espansione imprenditoriale della mafia è di vecchia data e non solo nel nostro paese.
C’è un esempio, citato da Lirio Abbate nel suo libro “U siccu”, che è illuminante.
Siamo nel 1998, quando un pentito, Francesco Milazzo, ex killer agli ordini di Matteo, conduce gli agenti verso un luogo dove ci sono documenti molto importanti, fatti nascondere da Francesco Messina, uomo fidato della famiglia di Castelvetrano. Ci sono un sacco di indicazioni: nomi, legami, appunti di lavoro. Tra questi viene trovato un pizzino (dei pizzini avremo modo di parlare nel prossimo capitolo) in cui si legge «Bisogna telefonare al signor Ahmed che è cugino di Anine Habli ed è titolare della Oje Libano, il quale può intervenire su Hariri Rafic per ottenere lavori per la ricostruzione del Libano.” E ci sono indicazioni su come arrivare ad Hariri Rafic, attraverso un avvocato di Viareggio, dove Hariri ha lo yacht ancorato. Lui non sa dell’interesse dalla mafia nei suoi confronti e quindi non viene avvicinato dalla polizia, anche perché è il primo ministro del Libano. Si stringono legami con il mondo intero per aggiudicarsi appalti estremamente vantaggiosi, per entrare in affari colossali. A muoversi per prima è la mafia di Trapani e Mazara del Vallo, dove il boss Andrea Mangiaracina tiene i rapporti con il Medio Oriente e la Tunisia. Ma i mazaresi vantano legami strettissimi con altre zone di interesse, come Malta, Libia, Sudafrica, Namibia. E si tratta spesso di legami di altissimo livello, come nel caso di Hariri. Il tutto sotto l’attenta supervisione di Matteo Messina Denaro.
Un altro esempio dell’importanza mazarese negli affari, viene rivelato dalla polizia nel 1996 e si riferisce ad una riunione tenuta a Roma verso la fine del 1992, pochi mesi dopo la morte di Borsellino e Falcone. C’è una riunione alla quale partecipano tre boss mazaresi, un algerino, un funzionario del governo maltese. Si discute della costruzione di un complesso turistico, un affare da quasi 2 mila miliardi di lire.
L’affare è molto contorto e prevede collegamenti con il governo maltese e la gestione di una gara d’appalto truccata. Alla fine salta tutto, ma Malta entra in gioco ancora, quando Cosa Nostra apre una società nell’isola mediterranea per pescare nelle acque della Libia ed entrare negli appalti delle raffinerie del paese di Gheddafi, con l’aiuto di un esponente politico italiano, di cui però non si fa il nome nell’inchiesta.
Questo ci fa capire che, oltre ai vantaggi economici, Matteo Messina Denaro riesce, grazie a questi affaristi internazionali, ad avere coperture in gran parte del mondo. Anche per questo è in grado di muoversi liberamente senza venire mai intercettato.
Le coperture sono importanti, anche nel nostro paese, a livello politico. La mafia non è schierata politicamente per convinzione, ma solo per convenienza. Che comandi Tizio o Caio fa poca differenza purché sia in grado di portare dei benefici all’organizzazione. Non importa se questi benefici riguardano gli appalti, una legge da sistemare, un giudizio da aggiustare o un articolo di legge da addolcire, come nel caso del 41bis. Così si passa tranquillamente dal sostegno alla Democrazia Cristiana, in particolare alla corrente andreottiana, al sostegno al partito socialista. É il 1987 e il PSI di Craxi e Martelli si presenta come garantista per i carcerati. A Palermo passa dal 9,8% a quasi il 17% e non è certo un caso. Poi Martelli si mostrerà molto deciso contro la Mafia e per questo i corleonesi proporranno la sua eliminazione.
Nel 2006 ci sono le elezioni politiche che porteranno al governo Prodi 2. Anche a Castelvetrano ci sono riunioni elettorali. Una di queste è molto particolare, perché sono presenti gli uomini di Matteo, che valutano cosa sia meglio fare. Non vogliono i comunisti perché potrebbero spazzarli via (questo almeno è il loro timore) e quindi decidono che bisogna appoggiare Forza Italia, il partito di Silvio Berlusconi. É una scelta tattica, ovviamente, dovuta al fatto che a Trapani c’è un loro caro amico, che va sostenuto. Si tratta di Antonio “Tonino” D’Alì, rampollo di una famiglia importante in Sicilia: una banca, le saline di Trapani, navi commerciali, latifondi estesi, quelli dove, ufficialmente, lavoravano come contadini Francesco e Matteo Messina Denaro. Nel 1983, Tonino diventa amministratore delegato della Banca Sicula di Trapani, il primo istituto di credito privato della Sicilia. Poi si dà alla politica. Figura tra i fondatori di Forza Italia ed è sottosegretario nei governi Berlusconi tra il 2001 e il 2006. Nell’interregno Prodi tra il 2006 e il 2008, è presidente della provincia di Trapani. Poi torna in auge Berlusconi e lui è nominato presidente della commissione ambiente, carica che ricopre fino al 2013. Insomma uno che di strada ne ha fatta. Resta da chiedersi come. In Sicilia i suoi punti di riferimento sono i Messina Denaro, Francesco prima, Matteo poi. La sua carriera termina nel 2021, quando il tribunale d’appello di Palermo lo condanna a sei anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa. É chiaro che la scelta cade sempre su uomini che si lasciano corrompere facilmente, o che sono associati a Cosa Nostra.
In questo senso il capitolo degli appalti è significativo. Non è certo una novità che in Sicilia le gare vengano truccate in modo pesante dalla mafia. Basta ricordare, come esempio, il cosiddetto “sacco di Palermo”, quando, sotto la guida di Salvo Lima e Vito Ciancimino, vengono elaborati due piani regolatori gestiti in modo da favorire potenti, mafiosi, amici, parenti senza minimamente badare al bene della città. Ci sono molti testi che ne parlano, come quello di Fabrizio Pedone del 2019, La città che non c'era. Certo, truccare gli appalti è uno sport nazionale, ma qui stiamo parlando di Cosa Nostra e a questo ci limitiamo.
Nel 1991, arriva in procura a Palermo un fascicolo di quasi mille pagine. Lo riceve Giovanni Falcone: è un’inchiesta realizzata senza usare pentiti, ma solo intercettazioni, pedinamenti, indagini che seguono l’odore dei soldi. Il protagonista della vicenda è Angelo Siino, considerato il responsabile di Cosa Nostra degli appalti in Sicilia. Lui decide a chi assegnare le gare, a chi versare le tangenti, a quali politici passare la mazzetta. Siino non agisce per conto suo, non potrebbe mai: il suo capo è Totò Riina. Ci sono dentro tutti: imprese miliardarie, politici locali, politici nazionali, sottosegretari e ministri. Del resto siamo alla vigilia di Tangentopoli, un anno dopo a queste cose la gente comincerà ad abituarsi.
Quel dossier è fonte di una lunghissima serie di discussioni e di scontri tra i magistrati, i ROS dei carabinieri, la stampa. Non si è mai saputo fino in fondo quali nomi fossero realmente coinvolti e quali no. Ma quel dossier, che secondo alcuni è la vera causa degli omicidi eccellenti del 1992, torna sempre fuori. Una delle cose strane che sono avvenute è il fatto che quando Falcone da Palermo si trasferisce a Roma, consegna nelle mani di Borsellino l’inchiesta. Non si fida di nessun altro. Borsellino ha bisogno di una delega dal procuratore capo di Palermo, Pietro Gianmanco, autorizzazione che arriva il 19 luglio, il giorno della strage di via D’Amelio.
Tre giorni prima, però, i sostituti procuratori che hanno in mano questa inchiesta ne chiedono l’archiviazione. Bastano sei giorni perché venga firmata da Gianmanco e meno di un mese dopo, il 14 agosto, il GIP la accetta. L’indagine è chiusa.
Occorre far presente che tutto questo accade mentre è in piedi la cosiddetta “trattativa stato-mafia”, con tutte le implicazioni, i dubbi, i litigi che ha comportato. Un tema decisamente complesso, che qui non abbiamo il tempo di trattare.
Tornando al dossier sugli appalti, recentemente la procura di Caltanissetta ha riaperto l’indagine, sperando che, seguendo i soldi, si riesca a saperne di più sulla morte dei giudici Falcone e Borsellino.
Quella degli appalti è una specie di cassaforte che ha consentito a Matteo Messina Denaro di godere di entrate costanti e cospicue. Come vedremo meglio quando, nell’ultimo capitolo, parleremo delle indagini svolte, i suoi prestanome sono stati arrestati nel tentativo, finora inutile, di fare terra bruciata attorno a lui. Così, nel 2016, vengono fermati l’imprenditore edile Rosario Firenze e il geometra Salvatore Sciacca, ai quali si contesta proprio l’”aggiustamento” di gare d’appalto nella provincia di Trapani a favore di “U siccu”. Firenze è condannato in primo grado a 12 anni, poi ridotti in appello a tre, non essendo dimostrata la sua appartenenza a Cosa Nostra. Coinvolti anche alcuni dipendenti degli uffici del municipio di Castelvetrano. Si dirà che questi crimini avvengono un po’ dappertutto nel nostro paese, ma, questi servono anche a sostenere la latitanza di Matteo e, per questo, ci interessano di più.
Ci sono molte storie in questo filone. Vogliamo raccontarne alcune, che ci sembrano significative.
La prima si svolge nel mondo della grande distribuzione di cibo.
Nel 2011, nelle carceri in cui sono detenuti i mafiosi, c’è una grande agitazione. Le voci si rincorrono, le ipotesi si sovrappongono. Le informazioni emergono dai colloqui tra la sorella di Matteo Messina Denaro, Patrizia, ancora in libertà, e suo marito, Vincenzo Panicola, uomo d’onore del mandamento di Castelvetrano. Si parla di un imprenditore, Giuseppe Grigoli, in carcere da qualche mese che, improvvisamente viene trasferito a Rebibbia. Non ci vuole molto a capire che si sta tentando di convincerlo a collaborare e si fa bene a temere cosa possa dire, visto che è considerato uno dei “bancomat” di Matteo Messina Denaro e di cose sul boss latitante potrebbe raccontarne parecchie. Nonostante Grigoli faccia trapelare la notizia di essere stato autorizzato a parlare, per proteggere il patrimonio del suo capo, Patrizia chiede a Matteo cosa fare. La risposta è chiarissima. “Nessuno deve toccarlo” … perché? Come mai tanta tolleranza nei confronti di un pentito?
La storia di questo commerciante è significativa della nuova strategia mafiosa, mille anni lontana da quella corleonese di Riina. Quando Bernardo Provenzano viene arrestato nel 2006, nel suo covo si trovano molti pizzini speditigli da Matteo. Tra questi, uno riguarda proprio Grigoli. La storia di quest’ultimo comincia con un incendio della sua modesta attività. Invece di andare dai carabinieri, si rivolge alla mafia del suo paese, Castelvetrano. Nasce così il legame con i Messina Denaro, che lo porterà, nel corso degli anni a diventare il “re dei supermercati”, capo di una holding di controllate, gestore di ben 60 mercati ed ipermercati nella Sicilia occidentale (Trapani, Agrigento, Palermo). Oltre ai pizzini, sono i collaboratori di giustizia a raccontare di Grigoli e dei suoi legami con Matteo Messina Denaro.
Quando viene arrestato, nel 2007, la DIA (Direzione Investigativa Antimafia) sequestra i titoli del 10% della Despar Italia S.p.A., 12 società, 220 tra palazzine e ville, 133 terreni per un totale di 60 ettari, conti correnti, macchine in quantità, 3 Porsche ed uno yacht di 25 metri ormeggiato a Viareggio. Il totale è valutato in 700 milioni di euro. Le sentenze arrivano nel 2011: 12 anni per Grigoli e 27 per il suo capo, Matteo Messina Denaro, ovviamente latitante.
La lettera che “U siccu” scrive a Bernardo Provenzano è illuminante. Eccone il riassunto.
Il boss corleonese vorrebbe aprire, grazie a Grigoli, un centro Despar a Corleone, per favorire gli amici in cerca di lavoro. Provenzano viene trattato da Matteo con tutta la deferenza possibile, ma nel contempo è chiarissimo nelle istruzioni che manda. A Corleone – dice – c’è già un centro Despar, ma gestito male e quindi poco remunerativo. La soluzione è questa. Bisogna scegliere una persona pulita (incensurata) che funga da prestanome e liquidare l’attuale gestore. Solo allora Grigoli comprerà il punto vendita, ma Matteo specifica: “però pagandogli il punto vendita per quello che vale, cioè abusi non ne facciamo su nessuno”.
A quel punto Grigoli lo farà gestire da quella persona pulita. A far da tramite sarà il mafioso Filippo Guttadauro, fratello del cognato di Matteo, che si incontrerà una sola volta con la persona pulita e con estrema prudenza, perché è sorvegliato strettamente dagli sbirri.
Ecco il nuovo volto della mafia, almeno di quella voluta e gestita da Matteo Messina Denaro. Nessun pizzo, nessuna violenza inutile. Grigoli è uno degli esempi massimi di questa nuova strategia. Lui è libero di svolgere la sua funzione, senza essere aderente alla mafia (ad esempio con i riti di iniziazione richiesti). Nei suoi market lavorano amici e amici di amici. Sostiene aziende in crisi, che fanno capo a qualche famiglia mafiosa. Versa al suo capo una quota degli introiti, ma non c’è alcuna cifra concordata. É lui stesso a decidere quanto deve essere versato, in assoluta e piena autonomia. Per avere un valore del giro d’affari, il solo ipermercato di Castelvetrano, ricava 250 mila euro la settimana. Si capisce da qui la grande fiducia del boss di Castelvetrano nei confronti di Grigoli ed è così che il suo intervento in carcere, quando la sorella chiede cosa si deve fare, è: “Nessuno deve toccarlo”. Ed è così che, pur cominciando a raccontare agli inquirenti cosa succede nelle famiglie mafiose, mai e poi mai, Grigoli accenna minimamente a Matteo, coprendogli la latitanza sempre e comunque.
L’imprenditoria mafiosa, così fortemente inserita nel territorio, si mostra come una società basata su principi di coinvolgimento e di cooperazione. Una società che fa il bene economico di tutti quelli che vogliono entrarci.
L’arresto di Grigoli è un brutto colpo per Matteo, in quanto vengono meno finanziamenti importanti. Tuttavia non è un dramma: di Grigoli ce ne sono altri, molti altri e la strategia delle forze dell’ordine di fare terra bruciata sequestrando beni ai suoi fiancheggiatori, finora non ha ottenuto l’esito più importante, quello di arrestare il super latitante.
Oggi si parla diffusamente di “voglia di mafia” da parte di imprenditori grandi e piccoli, che si rivolgono ai boss locali, fedelissimi di Matteo, anche per questioni che sembrano marginali, come un’asta da rendere deserta, la necessità di bodyguard per il locale che gestiscono, l’acquisto di un hotel a Erice e così via.
Ci sono i nomi di molti imprenditori a fianco di quelli dei 35 mafiosi arrestati recentemente. Si tratta di vecchi boss, usciti dal carcere, che hanno ripreso il loro posto, come nel caso di Vincenzo Luppino. Questo fa venire in mente le parole di Tommaso Buscetta: “Dalla mafia puoi uscire solo da morto o come pentito.
Un giorno, Giovanni Brusca chiede al suo capo, Totò Riina, come fare a rubare un reperto archeologico da scambiare con lo stato, in cambio di clemenza per il padre in carcere. Il boss di Corleone lo manda subito da Matteo Messina Denaro. É lui l’esperto, quello che organizza e gestisce furti di oggetti d’arte. É esperto al punto da sostenere che con i traffici d’arte potrebbe mantenersi.
Uno dei colpi più eclatanti, ma non riuscito, è quello organizzato da Matteo per rubare il “Satiro danzante”, conservato, appena ritrovato, nel municipio di Mazara del Vallo. La spedizione, capeggiata d Mariano Concetto, fallisce perché il basista si tira indietro e le misure protettive vengono molto rafforzate. Nonostante non si concluda nulla, questo episodio fa capire che Matteo ha idee a 360 gradi decisamente diverse da quelle di una mafia legata a droga, prostituzione, strozzinaggio e via dicendo. Forse il desiderio è anche quello di emulare il padre, presunto responsabile della sottrazione, negli anni ’60, del prezioso “Efebo di Selinunte”, operazione fallita anche in quel caso. E poi, vuoi mettere il fascino di un bandito che ruba tesori inestimabili? Un fascino un po’ snob, ma che ti distingue dagli altri criminali.
Imbarcarsi in un traffico d’arte significa pianificare azioni molto particolari, avere rapporti internazionali (il Satiro sarebbe finito in Svizzera), sapersi muovere in un ambiente complicato, avere bisogno di esperti, di grandi estimatori e collezionisti segreti.
Il suo contatto per le opere d’arte è Giovanni Franco Becchina di Castelvetrano, ma residente in Svizzera. Quando costui viene “pizzicato” si scopre un tesoro davvero straordinario a Basilea: 5361 reperti archeologici, provenienti da furti, scavi clandestini e depredazioni di siti, oltre ad un archivio con più di tredicimila documenti sui traffici: fatture, lettere indirizzate agli acquirenti, immagini fotografiche di reperti. Ed è proprio Grigoli che racconta agli inquirenti che Becchina arrivava da lui con borsoni pieni di soldi da recapitare al cognato di Matteo, Panicola, che li avrebbe poi messi a disposizione del latitante.
Becchina ha oggi 83 anni. Il suo arresto nel 2017 non ha avuto conseguenze, essendo i reati di cui è accusato tutti caduti in prescrizione, ma i beni che gli sono stati confiscati valgono decine di milioni di euro.
Ci sono altri personaggi che sostengono la latitanza di Matteo Messina Denaro, facendo gli imprenditori e diventando di fatto dei “bancomat” del boss di Castelvetrano. Tra loro, ad esempio, Rosario Cascio, “Re del cemento”, o Gaspare Gucciardi, imprenditore agricolo, uno dei fedelissimi di “U siccu”.
Ma vogliamo chiudere questa storia con Vito Nicastri, personaggio tra i più tipici fiancheggiatori di Matteo. É originario di Alcamo, comincia come contadino, diventa poi idraulico e elettricista. Nel 1994 viene arrestato per una storia di corruzione. Per ottenere una pena lieve confessa la corruzione, il corrotto, l’importo e il motivo. Così dopo poco più di un anno torna libero. Nel 2000 esplode il business degli impianti di energia rinnovabile. Diventa “sviluppatore”, una figura tipicamente italiana, che programma tutto ciò che serve per realizzare gli impianti. Nel giro di qualche anno, siamo nel 2006, è il leader del settore a livello nazionale. Ottiene il più alto numero di concessioni in Sicilia per la costruzione di parchi eolici.
Utilizza terreni agricoli, latifondi dei mafiosi in Sicilia e degli ‘ndranghetisti in Calabria. Gli affari vanno a gonfie vele e, secondo le inchieste e qualche pentito, dietro questi affari c’è sempre lo zampino della mafia, in particolare quella di Castelvetrano, e ovviamente di Matteo Messina Denaro. É Lorenzo Cimarosa, parente acquisito di Matteo, a raccontare di buste di denaro, di molto denaro, che partono da Nicastri e finiscono al latitante.
Nel 2009 il suo nome finisce tra gli indagati dell’operazione “Eolo”. L’anno successivo ecco il sequestro dei suoi beni. É molto pesante: si tratta di un valore complessivo di un miliardo e trecento milioni di euro. Saltano fuori anche relazioni politiche, come quella con Mimmo Turano, assessore della regione Sicilia per le attività produttive, il quale confermerà, che Nicastri era suo socio e aveva contribuito alla sua campagna elettorale. (‘)
Nel 2015 Nicastri viene condannato a 4 anni di carcere, poi ridotti a due e mezzo in appello.
Che fa a questo punto? Desiste e si ritira? Neanche per sogno. Affida il business ad un prestanome, Paolo Arata, deputato di Forza Italia passato alla Lega, con conoscenze molto vaste nel mondo della politica. Nel 2019, Arata viene indagato per corruzione, assieme all’allora sottosegretario leghista Armando Siri, proprio a proposito di alcune aziende nel campo delle energie rinnovabili. Viene arrestato qualche mese dopo assieme al figlio. Dopo un periodo di libertà vigilata, torna in libertà nel febbraio 2020. Durante le indagini su Nicastri, viene intercettato mentre dice ad una giovane avvocatessa: "....qui stiamo parlando in camera caritatis. Io sono socio di Nicastri al 50%...".
La procura di Palermo, guidata da Francesco Lo Voi, non ha molti dubbi sul fatto che Nicastri, aiutato da Arata, sia un fiancheggiatore di Messina Denaro e, nell’ordine di custodia cautelare, scrive:
 “Nicastri, anche attraverso il suo prestanome Arata, intesseva – more solito – una fitta rete di relazioni con dirigenti e politici regionali al fine di ottenere […] corsie preferenziali e trattamenti di favore nel rilascio di autorizzazioni e concessioni necessarie per operare nel settore. Il sorvegliato speciale Nicastri, oltre a spendere la propria competenza tecnica nel settore delle rinnovabili e le sue conoscenze nei gangli amministrativi, ha potuto far affidamento sulla importante rete di rapporti istituzionali facente capo a Paolo Arata». (“)
Ecco l’imprenditoria della mafia, così come Matteo Messina Denaro l’ha progettata fin dal principio. Con la latitanza il ruolo di tutto questo non è più solo importante, diventa decisivo.
Non tutti però sono d’accordo con questo nuovo corso. Totò Riina, viene intercettato in carcere nel 2013, mentre confida ad Alberto Lorusso, durante l’ora d’aria, il suo pensiero su quei “pali della luce” (le pale eoliche) e su Matteo Messina Denaro. Si lamenta della svolta che la mafia ha preso, non si capacita che non si faccia quello che si dovrebbe fare e cioè continuare con attentati e omicidi eccellenti, continuare la lotta allo stato. Come è possibile che quel killer, che lui stesso ha allevato e istruito, abbia dimenticato le radici e tradito la storia di Cosa Nostra?
A me dispiace dirlo, questo signor Messina, questo che fa il latitante, questo si sente di comandare, si sente di fare luce ovunque, fa luce, fa pali per prendere soldi, ma non si interessa delle questioni …”
Anche Giuseppe Graviano, molto amico di Matteo, in aula, nel gennaio 2020, si scaglia contro i collaboratori di giustizia, racconta ogni cosa dell’organizzazione mafiosa, delle alleanze politiche, ma su Messina Denaro non spende una parola. Bisogna capirli i vecchi boss, sepolti nelle carceri dal 41bis. Hanno sperato per trent’anni che qualcuno da fuori facesse qualcosa per loro, li riportasse, se non alla libertà, ad un carcere meno insopportabile. Oggi là fuori c’è solo Matteo Messina Denaro. É la sola speranza per i boss carcerati, ma, come dice Riina, “U siccu” ha smesso di pensare a loro, agisce solo per se stesso.
Sul boss di Castelvetrano, ci sono altri misteri da chiarire: come fa un generale in fuga a comandare il suo esercito senza farsi mai intercettare? Chi lo aiuta a rimanere nell’ombra? Come sappiamo quel che succede se di lui non c’è alcuna traccia?
A queste domande cercheremo di dare risposta nel prossimo episodio.
Note:
(“) questo pezzo tra virgolette è tratto parola per parola da “U Siccu” di Lirio Abbate cap10.
(‘) testimonianza di Turano al processo contro Arata del 2021