Il libro di Elena Baù

stroppari01La storia che vi voglio raccontare si svolge in provincia di Vicenza, a Tezze sul Brenta, in una frazione di poche migliaia di abitanti: Stroppari.
Parecchi anni fa, il 14 febbraio del 2015 avevo avuto come ospiti della mia trasmissione a Radio Cooperativa, Elena Baù, giovane scrittrice, che aveva appena dato alle stampe un libro intitolato “Il paese che brillò tra le luci del cromo”. Racconta la storia della frazione in cui è nata e all’epoca viveva Elena, Stroppari.
Prima di entrare nei dettagli, due parole sul libro.
É un bel libro, da leggere per diversi motivi. Anzitutto perché la vicenda si svolge dalle nostre parti. Lo fa appoggiandosi ai documenti emersi dalle indagini e dai processi. Il secondo motivo è perché si tratta di un romanzo, scritto con garbo e con grazia, che riporta nella nostra vita, personaggi che abbiamo visto nei bar, personaggi che discutono di tutto e di niente, ciascuno dal proprio punto di vista, ciascuno con le proprie certezze. I loro nomi storpiati, Cooperativa, Quajoto, Merican e gli altri avventori del bar di Stroppari, sono il quadro, quasi l’emblema della nostra società.
La storia è quella che vi racconterò tra poco. In una regione agricola, dove i contadini lottano giorno dopo giorno copn la troppa o troppo poca acqua, con la grandine, con il caldo che arriva troppo tardi o troppo presto, si assiste improvvisamente ad una trasformazione globale. Arrivano le fabbriche, che garantiscono uno stipendio non solo fisso, ma decisamente superiore a quanto si incassa dalla coltivazione dei campi.
E poi, puoi fare gli straordinari, guadagnare ancora di più e capovolgere la tua vita, avere il bagno in casa, poter andare qualche volta al cinema o in trattoria, pagare gli studi ai figli e soddisfare, magari, anche qualche capriccio.
Lo chiamano “progresso” e tutti lo vogliono.
E però, non è “gratis”, il progresso ha dei costi. Per mantenere alti gli incassi, l’azienda spesso (troppo spesso) evita di sottostare alle procedure previste dalla legge. Così, per esempio, invece di smaltire i reflui secondo i protocolli, li sversa dove capita, nei campi o nei ruscelli. E voi sapete come sono i liquidi: li butti qua e poi te li ritrovi dappertutto, filtrano in profondità, vanno a mescolarsi all’acqua delle falde.
Quell’acqua inquinata poi si sposta, arriva nei comuni vicini ed è acqua che viene portata in tavola, perché a Stroppari allacciarsi all’acquedotto costa molto più che scavare un pozzo artesiano.
Così nei bicchieri, nell’acqua per cucinare la pasta o per fare la polenta, nei lavandini, arriva Cromo, Nichel e altri metalli pesanti.
La gente di Stroppari si ammala e comincia a morire. Di tumore. Colpiti sono soprattutto gli operai che passano molte ore, molte più dei loro turni, dentro quell’antro, respirando i vapori al cromo, venendo a contatto, senza adeguate protezioni, con liquidi infetti.
Eccolo il prezzo da pagare per il progresso, un prezzo allucinante, altissimo, schifosamente figlio di una società che sul profitto ad ogni costo basa gran parte di quello che costruisce.
Di fronte a queste tragedie in cui la gente muore perché altri hanno gestito in modo scorretto le proprie attività, perché hanno violentato la natura, non possiamo parlare di leggerezze, di errori, di sfortuna. Si tratta di crimini e i responsabili sono, a tutti gli effetti, dei delinquenti.

Arriva la famiglia Milani

stroppari01Facciamo la conoscenza con la famiglia Milani. Abitano a Santa Croce Bigolina, a pochi chilometri da Cittadella in provincia di Padova. Non sono contenti della sistemazione. Hanno di fianco una serie di capannoni dai quali esce un rumore molto fastidioso. E allora decidono di partire e cercare una nuova casa. La trovano, una bella villetta con giardino, nella frazione di Stroppari, comune di Tezze sul Brenta, provincia di Vicenza. Una scelta che si rivelerà decisamente poco fortunata e non tanto perché, almeno all’inizio, si sentono forestieri e non conoscono nessuno, quanto perché di lì a poco cominciano a notare dei fastidi, legati all’uso dell’acqua, che viene estratta da un pozzo artesiano e quindi dalla falda sottostante la casa. I fastidi diventano preoccupanti, perché si tratta non solo di arrossamento della pelle, ma di forti mal di testa e poi perdita di capelli. La situazione si fa grave col passare dei mesi, finché decino che è il caso di far controllare l’acqua. Le analisi di un laboratorio specializzato sono sorprendenti: in quell’acqua c’è una concentrazione di cromo esavalente enorme, di 170 microgrammi per litro, più di tre volte quella massima consentita dalla legge, di 50 microgrammi per litro. Questo metallo, se inalato, è cancerogeno e mutageno (significa che può produrre modificazioni genetiche). Loro per mesi l’avevano addirittura ingerito.
Viene avvertita l’ARPAV (l’Agenzia per la protezione ambientale del Veneto), le cui analisi sono ancora più preoccupanti, perché nell’acqua della falda si trovano concentrazioni addirittura con picchi di 600 microgrammi per litro.
 La famiglia Milani fa le sue denunce: per via ordinaria, ma anche coinvolgendo il ministero della Salute e direttamente il Presidente della repubblica.
L’inchiesta giudiziaria parte il 21 marzo del 2002. Nel frattempo l’ARPAV si dà da fare, con analisi su tutto il territorio di Stroppari: l’inquinamento è generalizzato. Ci sono 14 km quadrati di falda con alte concentrazioni di cromo esavalente e anche altri pozzi in paesi vicini tra Fontaniva e Cittadella. Si riesce finalmente a scoprire da dove tutto quel veleno arriva: è la Galvanica PM di via Tre Case. Si trova a Stroppari, a un km e mezzo dall’abitazione dei Milani.

La Galvanica PM

stroppari01Il proprietario e il legale rappresentante, Paolo Zampierin vengono denunciati. Un anno più tardi lo stesso Zampierin è di fronte ai giudici con l’accusa di avvelenamento di acque potabili.
Ci vogliono tre anni e mezzo per arrivare alla sentenza, che è di colpevolezza, con una condanna a 2 anni e 6 mesi di reclusione e al pagamento di tutti i danni causati valutati 2 milioni e 250 mila euro.
Tutto bene dunque? Affatto. L’indulto si porta via il carcere, mentre la Galvanica PM fallisce e così anche i risarcimenti sfumano nel nulla.
La domanda che tutti si sono posti all’indomani della sentenza è stata: “Possibile che nessuno ne sapesse niente? Possibile che questo inquinamento sia dovuto a sversamenti effettuati negli anni 2000 e prima fosse tutto a posto?
In effetti la storia del Cromo esavalente nei pozzi di quella parte di Veneto è di vecchia data. Andando a cercare nei verbali delle procure si scopre che le segnalazioni di avvelenamento delle acque cominciano negli anno ’70, trent’anni prima dei fatti avvenuti a Tezze e dintorni. Addirittura c’è stato un periodo che l’esercito ha dovuto portare acqua potabile due volte al giorno in località Battisei, perché i pozzi risultavano inquinati.
Non solo, Il pretore di Cittadella si era ben dato da fare: aveva affidato l’indagine ai carabinieri e spedito sei avvisi di garanzia, coinvolgendo a vario titolo il medico provinciale di Vicenza, l’ufficiale sanitario di Tezze sul Brenta, il sindaco di Tezze, Rocco Battistella, del quale sentiremo ancora parlare, e tre aziende del territorio. Una di queste era la galvanica Tricom SrL, guidata da Adriano Sgarbossa, che sarebbe poi diventata, guarda un po’, la Galvanica PM.
Tutte le indagini però non portano a nulla e nessuno viene incriminato.

Il sindaco Rocco Battistella

stroppari01C’è un fatto curioso, come lo sono molti di quelli che qui raccontiamo. Il direttore del reparto cromatura della Tricom è Rocco Battistella, sindaco del comune. Credo sia evidente il conflitto di interessi in una vicenda in cui egli risulta essere indagato e anche responsabile della sicurezza sanitaria dei suoi amministrati.
Ma Rocco Battistella è un uomo molto potente: resta al comando di Tezze per 25 anni. Quando, durante il processo a carico di Zampierin, viene chiamato a testimoniare, fornisce versioni e spiegazioni che non convincono nessuno, tanto che il giudice lo incrimina per falsa testimonianza. Tra le decisioni prese dall’amministrazione comunale nel periodo precedente il processo, alcune sono destinate a favorire la Tricom, che sversa nel canale Brotta, i residui della lavorazione.
Rocco Battistella diventerà Assessore alla provincia di Vicenza per gli affari legali, la caccia e la pesca, come capita spesso nella nostra repubblica di affidare ai ladri la tutela della giustizia. Muore nel 2014. Il comune di Tezze pensa bene di intitolargli un torneo di calcio. Deve intervenire la Federazione Gioco Calcio per cancellare questa assurdità.
E ciò dimostra, una volta di più, che le parole del Marchese del Grillo si applicano purtroppo fin troppo spesso nella storia reale e moderna e non solo nella finzione cinematografica.
Tezze non è un comune diverso da mille altri centri italiani ed è pieno degli stessi difetti e delle stesse storture di tutti gli altri. Così persino la cittadinanza, che ha subito pesantemente, come vedremo meglio tra poco, gli effetti di quei crimini ambientali, si divide, nel giudicare Gabriella Bragagnolo in Milani, la mamma di quella famiglia che ha tolto il coperchio a questo bubbone. Per alcuni è una specie di eroina, ma per altri è solo una che ha infangato il buon nome del paese. E questo testimonia ampiamente come, in quegli anni, l’operoso Nord-Est non avesse occhi e orecchie che per i “schei”, il denaro da fare costi quel che costi, anche sopra la pelle delle persone e la tutela dell’ambiente.
A proposito dell’ambiente. Ho detto che il Cromo esavalente è mutageno. Se ne è accorta anche la natura, che ha fatto spuntare nel prato di casa Milani delle strane margherite deformi.  (82)

La storia, dagli anni ’70 in poi

Adesso che abbiamo un’idea di quanto è accaduto a Stroppari, cercherò di seguire l’intera vicenda cronologicamente. Lo farò, riprendendo le informazioni della stampa locale da quel 2007 in poi.
Prima però permettetemi di dare un’occhiata ai fatti accaduti anche nel passato più lontano, così da avere un quadro completo di tutta la faccenda. Le fonti, oltre a qualche articolo del Gazzettino, sono gli atti processuali e le perizie ordinate dal tribunale e poi la Tesi di Laurea di Laura Basso – Università di Verona - Facoltà di economia. Ed infine c’è Elena Baù, che è stata un paio di volte in questa radio per presentare il suo libro “Il paese che brillò tra le luci del cromo”. Assieme a lei erano venuti a trovarci il responsabile dell’editrice Laboratorio Natura e quel Silvio Bonan, di cui avremo modo di parlare in questa puntata.
stroppari01Cominciamo senz’altro.
22 giugno 1971: il Comune di Tezze sul Brenta concede un’area per la costruzione di un edificio ad uso industriale, sede della “Junior costruzioni meccaniche”.
1972: La ditta chiede un ampiamento del terreno, che viene concesso a patto che, attenzione!, non venga installato un impianto galvanico
1973: La ditta Junior chiede al comune di poter realizzare un impianto galvanico. Tra le assicurazioni fornite due ci interessano particolarmente. L’impegno a non superare i 50 microgrammi per litro di Cromo esavalente e quello di far funzionare in continuità l’impianto di depurazione, che, se si dimostrasse inadeguato, porterebbe alla sospensione immediata delle lavorazioni dello stabilimento galvanico. Il Comune concede l’autorizzazione.
1974: Rocco Battistella viene eletto sindaco. Rimarrà in carica per cinque mandati fino al 1999. É contemporaneamente dipendente della Tricom.
Comincia l’attività produttiva dell’azienda, denominata “Cromatura Zampierin” con sede in Via Tre Case a Tezze. Lo scarico industriale è diretto nel canale Brotta, presente vicino allo stabilimento. A settembre vengono rilevati nello scarico della ditta 5700 ug/l di cromo e 3400 ug/l di nickel.
1975: la Cromatura Zampierin diventa Tricom SpA. A febbraio vengono rilevati 7200 ug/l di cromo totale e 3700 ug/l di nickel.
1977: Partono tre avvisi di garanzia (come li chiamiamo oggi) per omissione di atti d’ufficio verso il medico provinciale Pietro Bonifaci, ufficiale sanitario Adelchi Broglio e il sindaco Rocco Battistella. Altri tre avvisi raggiungono tra aziende, tra le quali il gruppo Tricom SpA, per avvelenamento di acqua potabile e scarico di rifiuti industriali in acque pubbliche senza autorizzazioni.
1979: L’amministrazione provinciale di Vicenza revoca l’autorizzazione alla Tricom di scaricare i liquami. Ma il sindaco e dipendente Tricom emana due autorizzazioni provvisorie, trimestrali per continuare lo scarico, in deroga alla revoca della Provincia.
1980: ci sono pozzi inquinati da Cromo esavalente anche a Tombolo, 9 km a Sud Est in linea d’aria da Stroppari.
1981: Interviene il NAS (Nucleo Antisofisticazione) dei carabinieri di Padova, contestando alla Tricom una serie di attività illecite, tra cui l’aver continuato a scaricare anche dopo che le deroghe comunali erano scadute; non aver sottopsto i dipendenti alle visite trimestrali di legge; aver aumentato l’inquinamento per il peggiorare della qualità dei liquami.
1981/82: Nell’inverno, accanto agli accertamenti per l’inquinamento, vengono visitati 20 addetti alla cromatura. Solo tre sono sani, per gli altri si va da “reperto infiammatorio” a “displasia”, che è lo stadio precedente il tumore.
1982: La pretura di Bassano del Grappa apre una richiesta di rinvio a giudizio per sette persone: Pietro Forlin, Giovanni Scalco, Roberto Scalco e Adriano Sgarbossa per lo scarico e la mancanza di depuratori. Inoltre i tre già citati, per omissione di atti d’ufficio e, come da documento, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, che tradotto significa che il reato è stato reiterato più volte.
Ci sono, questa vola anche parti civili; sono cittadini dei comuni colpiti: Cittadella, Fontaniva, Carmignano.
1984: L’ULSS 5 rileva che alla Tricom non c’è separazione tra reparti pericolosi e gli altri e che mancano completamente aspiratori idonei. Complimenti: la ditta lavora così da dieci anni.
1985: un rilievo dell’ULSS quantifica la presenza di Cromo esavalente in 240 microgrammi/litro, cinque volte superiore al consentito.
1988-1995: Si scoprono altri superamenti dei limiti. La ditta Siemec, che ha in carico il depuratore di Tezze, dichiara che sono stati superati i limiti di Cromo e Nichel. Nel 1995: la Tricom cede la sua attività di cromatura alla ”Galvanica PM”.
2001: A Cittadella viene emessa un’ordinanza che invita la popolazione di varie frazioni a non bere l’acqua presa dai pozzi privati. É in questo periodo che si segnalano valori di Cromo esavalente superiori a 170 microgrammi/litro in alcuni pozzi privati.
Vengono emesse denunce per l’avvelenamento della falda acquifera e, nello stesso periodo, partono anche le prime denunce di famigliari di lavoratori morti di cancro ai polmoni, che lavoravano all’interno della Galvanica.
A Dicembre, arriva a Stroppari la famiglia Milani, come abbiamo già visto in precedenza.
2002: La polizia giudiziaria, effettua indagini accurate e scopre che il centro di tutto l’inquinamento è la Galvanica PM.
2003: Prima udienza del processo di Cittadella. La famiglia Milani è parte civile.
La ditta “Galvanica PM” decreta il proprio fallimento il 23 dicembre 2003, che viene accettato nonostante vi sia un procedimento penale in corso.
2005: i fatti di Stroppari diventano di dominio pubblico, grazie al programma di RAI3 di Milena Gabanelli, Report
2006: arriva la sentenza del tribunale di Cittadella, di cui ho già riferito. La pena per Paolo Zampierin è di 2 anni e 6 mesi di reclusione (abbonati grazie all’indulto) e al pagamento di tutti i danni cagionati, per un totale di 2 milioni 250 mila euro.stroppari01
Ma quanto paga Zampierin? Assolutamente niente. Nemmeno un giorno di carcere per via dell’indulto e neanche un euro per via del fallimento.
Il Ministero per l’ambiente aveva quantificato in 158 milioni di euro i danni ambientali e in 15 km quadrati l’area di falda inquinata in modo irreversibile. La popolazione ha subito danni alla propria salute per 30 anni. Come dire: Giustizia è fatta!
2006: La Procura di Bassano del Grappa apre un fascicolo sulle morti sospette di 14 operai che lavoravano nell’azienda di via Tre Case. Nel registro degli indagati sono iscritte quattro persone, fra le quali l’assessore provinciale Rocco Battistella, residente a Tezze, che nella ditta incriminata, era impiegato nel reparto cromatura. Le ipotesi di reato sono gravissime: di omicidio colposo plurimo, lesioni colpose gravi e omissioni di difese e cautele contro disastri e infortuni sul lavoro e violazione sulle norme di sicurezza ed igiene negli ambienti di lavoro. Per gli stessi reati sono indagati anche Sgarbossa Adriano (legale rappresentante Società Tricom), Zampierin Paolo (legale rappresentante Società Galvanica PM), Zampierin Adriano (responsabile reparto cromatura e quindi anche del personale lì impiegato).
2008: il 30 gennaio il pubblico ministero Giovanni Parolin, in merito ai decessi alla Tricom, chiede l’archiviazione. Perché? Ci si affida ad una perizia medico-legale del dottor Conflero di Padova. Un bel personaggino, che addebita tutti casi di morte e di malattia (10 morti e 5 malati) semplicemente al fumo. Un punto di vista molto sospetto, perché già negli anni 80 lo SPISAL di Padova aveva rilevato negli operai di quella fabbrica anomale modificazioni del DNA, altro che fumo. Lo SPISAl è una sezione delle ULSS che si occupa di prevenzione di infortuni sul lavoro e delle malattie professionali collegate.
L’udienza si tiene di fronte al GIP Morandini, il quale, ascoltati anche i parenti delle vittime, ordina ulteriori indagini e rigetta la richiesta di archiviazione.
Questa dunque è la storia fino al 2008 da un punto di vista processuale.

Gli operai della Tricom/Galvanica

E allora andiamo con ordine nel tentativo di ricostruire una storia dalle molte fasi e dalle molte sfaccettature. Ci siamo, credo fatti l’idea di cosa è successo, ma finora non abbiamo incontrato i veri protagonisti della nostra storia: i lavoratori della Tricom o Galvanica PM.
Cominciamo a prendere nota di qualche nome, di persone che hanno perso un genitore, un fratello, un parente.
C’è Silvio Bonan, figlio di Domenico, morto di tumore, come Ugo Conte e Franca Calò. Anche Dino Brotto ha fatto ricorso: lui è stato più fortunato. Il tumore l’ha preso per tempo e se l’è cavata. Quando ha lasciato la Tricom nel 1999, racconta del suo lavoro: sembra di essere in uno di quei film terrificanti sulle miniere e sugli schiavi che vi lavoravano.
Era stato, Dino, impiegato in officina, poi dirottato alla cromatura. Quello che faceva durante il suo turno era di stare sopra le vasche, appoggiato su una traversa di legno. “Ho svuotato secchi di nichel e altre sostanze sopra le vasche. Non avevamo niente: né guanti, né maschere. Eravamo manovali, non serviva aver studiato”. Nel 2003 si accorge di una macchia di 3 cm nel polmone. Viene operato e si salva, ma non respira bene e deve inalare farmaci tre volte al giorno per tutta la vita. Come gli altri è presente al dibattimento sull’archiviazione del caso, a Bassano, aspettando che il giudice Morandini si pronunci. Lui chiede trenta giorni, appena un mese per valutare bene tutte le cose. Non è un granché di tempo, ma per chi ha aspettato molti anni, anche un mese in più diventa fastidioso. Là fuori dal tribunale ci sono diversi cittadini di Tezze e dei comuni più Sud, dove la falda fa arrivare la propria acqua inquinata dal Cromo. Ne parlano, ne parlano in continuazione e i discorsi si confondono tra la speranza di una apertura del caso e le considerazioni di quello che sta succedendo ancora. Ci sono persone che continuano ad usare i pozzi, anche se non si potrebbe. Lo fanno o perché non lo sanno o perché se ne sono dimenticati. O, ancora, perché si fidano della controinformazione che insiste nel dire che tutto va bene e non c’è alcun pericolo. Del resto la questione della Tricom non è una bomba esplosa a cielo aperto, che si vede bene, che lascia segni evidenti. É una bomba esplosa sotto terra, a 25 metri di profondità, dove nessuno può vedere nulla. É uno di quei casi che non puoi giudicare dal fatto in sé, ma solo dalle conseguenze che ha portato. E le conseguenze non sempre sono immediate, ci vuole tempo, a volte anni perché diventino evidenti.

Giudici e tribunali

stroppari01Scaduti i trenta giorni il giudice rigetta l’archiviazione, come già detto in precedenza.
Siamo nel 2009 e a settembre sul Corriere del Veneto viene pubblicato un articolo a firma Alessandro Zuin, che è molto interessante. Ecco cosa ci racconta.
Il capannone dell’ex Tricom è là, ancora in piedi, coperto, come potrebbe essere diversamente, da un tetto in eternit (anche la questione dell’amianto dalle nostre parti è un argomento che primo o poi affronteremo). É quasi un emblema del modo disordinato e spesso criminoso dello sviluppo tumultuoso del Veneto e del Nord Est in generale. Si fanno tanti soldi, spesso passando sopra regole e leggi e, qualche volta, passando sopra le vite delle persone.
Sindaco di Tezze sul Brenta è Valerio Lago, espressione della lista di centrodestra. Il comune sa tutto e qualcosa deve pur fare. Si costruisce una barriera idraulica nel sottosuolo della fabbrica, che aspira continuamente l’acqua della falda, la depura dalle enormi concentrazioni di Cloro esavalente e la rimette in circolazione. É un sistema tampone, che non risolve niente in via definitiva, ma che costa al comune dai 200 ai 400 mila euro l’anno. Certo ci vorrebbe una bonifica, di quelle serie, di quelle radicali ma per questo servono molti soldi, almeno 20 milioni, soldi che il piccolo comune ovviamente non ha e non avrà mai. Lago non sa più cosa fare e allora fa un gesto eclatante, che porti, almeno, all’attenzione più diffusa la questione. Riapre la fabbrica dei veleni per la prima volta e invita i giornalisti e la commissione provinciale dell’ambiente. E, tra le mura ingiallite e mangiucchiate dal Cromo, racconta: «Quando sono entrato per la prima volta, mi sono venuti i brividi. Perché qui dentro sono morte tante persone che lavoravano alle vasche, uccise da quello che hanno respirato».
Come già detto i morti e gli ammalati trasformano le accuse da avvelenamento a omicidio colposo, che non è per niente la stessa cosa. Ma stabilire il legame tra il lavoro nella Galvanica e i tumori non è cosa semplice né limpida e può dare adito a molte interpretazioni, tra cui quella, già vista dell’attribuire al fumo ogni responsabilità.
É anche per questo che si succedono i tentativi di archiviare il tutto e buona notte ai suonatori.
Tra i personaggi che si occupano del caso c’è anche un’europarlamentare della Lega, ancora in carica peraltro, Mara Bizzotto di Bassano, ma all’epoca residente proprio a Tezze. E dice: «È vero, era­no altri anni rispetto a oggi, ma su questa vi­cenda ci sono stati troppi silenzi, degli impren­ditori e delle istituzioni. I figli e le famiglie de­gli operai deceduti si meritano almeno un pro­cesso che accerti le responsabilità».
Silvio Bonan è uno di questi figli. Suo padre Domenico ha passato 22 anni in Galvanica e se n’è andato per un tumore ai polmoni. Le sue sono parole amare: “Prima di intac­care la falda acquifera, il cromo e gli altri veleni avevano intaccato l’organismo degli operai, che lavoravano qui dentro senza alcuna tutela. Tutti quelli che stavano alle va­sche avevano, come minimo, il setto nasale perforato dalle esalazioni. Mi batto da 9 anni per avere giustizia, ma la Procura di Bassano mi sembra allergica al cro­mo.”
E sì che i dati non potevano certo lasciare dubbi. É il responsabile dell’ARPAV di Bassano a chiarirlo. Il cromo esavalente – spiega – è cancerogeno quando supera i 50 microgrammi per litro e aggiunge “Quest’estate, quando la falda si è alzata, sono stati rilevati anche 22 mila microgrammi/litro. Senza un in­tervento di bonifica radicale, qui dovremmo andare avanti a depurare l’acqua per decenni.”

Il processo civile e i risarcimenti

Ho citato Domenico Bonan, morto nel 2000. Alla famiglia, nel 2009, il procedimento civile riconosce un risarcimento di 800 mila euro. In appello diventano 630 mila, ma questo ha poca importanza, perché comunque non viene pagato niente. Il pagamento deve essere fatto da Adriano Sgarbossa, pro­prietario della Tricom, e Paolo Zampierin, titolare della Gal­vanica Pm. Zampierin non possiede niente e per Sgarbossa occorre vedere se esistono beni mobili o immobili da pignorare.
Ma il comitato delle vittime di Tezze e le altre associazioni che sono parti civili, come ad esempio Legambiente, aspetta ben altro. Aspetta il processo penale, che stabilisca che tutti quei morti (alla fine saranno 19) e quelli che, pur non essendo morti, si sono ammalati di tumore, hanno contratto la malattia a causa del loro lavoro alla Tricom. Vogliono, insomma, che si stabilisca un legame tra chi non ha provveduto a tutelarli e i loro cari che non ci sono più.
É Silvio Bonan a farsi portavoce dei suoi concittadini, quando dice: “Stia­mo attendendo il procedimento penale. Speriamo questo pronun­ciamento non resti solo scritto su un documento ma che venga rispettato. Nemmeno due milioni di euro ci potranno ripagare mai della perdita di mio padre, però abbiamo intenzione di far valere i nostri diritti.”
Facciamo un salto avanti, rimanendo sul tema del processo civile. Ad un certo punto Silvio Bonan, visto che non arriva niente da parte dei condannati, si rivolge alla procura ricordando di non essere stato per niente risarcito e accusando che si sono verificati atti simulati e fraudolenti di beni. Cosa significa? A parte il fallimento dell’azienda di cui ho già detto, gli ex vertici dell’azienda si sarebbero liberati dei propri beni per non poter essere costretti a pagare. A titolo d’esempio si porta la donazione da genitore a figlio di un immobile solo quattro giorni dopo la sentenza della corte d’Appello nel 2012. E così la procura porta a processo i parenti dei condannati, nel frattempo deceduti e precisamente: la moglie di Zampierin, Marisa Vettorazzo e moglie e figlio di Rocco Battistella, Graziella Tessarollo e Pierpaolo Battistella. L’accusa è mancanza di esecuzione dolosa del provvedimento del giudice.
Nonostante sia emerso che effettivamente niente era stato corrisposto alla famiglia del povero Domenico Bonan, la corte decide che la querela era fatta male e quindi i tre imputati andavano prosciolti. Dal che si capisce, ancora una volta, che per la giustizia di questo paese conta più una carta in ordine che 19 morti dovuti ad un modo indegno e farabutto di gestire la produzione. Questo succede molto recentemente, nel 2020, dopo la fine del processo penale, di cui parleremo tra poco.
Torniamo adesso al 2009. Mentre si attende l’avvio del processo penale per omicidio colposo, la gente è preoccupata del tempo che passa, perché più ne passa e più si avvicina quella specie di pietra tombale della giustizia che è la prescrizione.
Intanto il fascicolo passa sulla scrivania del giudice per le indagini preliminari Barbara Maria Trenti, che aveva deciso di non chiedere un’ulteriore perizia sul collegamento tra morte e lavoro. Era convinta che sarebbe bastato discuterne in sede di udienza se ci fossero gli elementi per procedere aprendo un processo o se invece la posizione degli indagati andasse archiviata. I legali delle parti hanno portato le loro argomentazioni e esposto le loro richieste. Il giudice Trenti, al termine del­l’udienza, si è riservata la decisione. Il processo si fa, si fa a Bassano del Grappa, ma succede un altro intoppo.
Il pubblico ministero designato per il caso rimette il proprio mandato al procuratore capo Carmelo Ruberto. Significa che non vuole occuparsi di questa faccenda. Perché?
Lo capiamo leggendo il nome di questo magistrato: Giovanni Parolin, già proprio quello che ha chiesto due volte l’archiviazione perché tutte quelle morti alla Tricom erano causate, secondo il suo perito, da un eccessivo consumo di sigarette.
stroppari01La rinuncia avviene, è il caso di dirlo, a furor di popolo. Come può, si chiede la gente, un simile personaggio diventare l’accusatore degli imputati?
Così Ruberto, che vuole fare chiarezza sulla vicenda, ma vuole anche coprirsi le spalle con gli strumenti giuridici opportuni, investe della questione il giudice dell’Udienza Preliminare Deborah De Stefano, chiedendole innanzitutto se reputa sia il caso di fare una nuova perizia medica, per fare luce su alcuni passaggi molto oscuri. Il giudice non ha dubbi in merito e ordina una nuova perizia, affidandola ad un collegio prestigioso, costituito di tre professori, medici del lavoro, provenienti dall’Università di Brescia.
Questi hanno potuto riesumare le salme di sei vittime, in particolare di tre, i cui corpi contenuti in casse di zinco erano meglio conservati. Insomma si comincia a sentirsi sicuri che le cose, almeno da un punto di vista processuale, saranno fatte per bene.
Sul banco degli imputati i soliti tre: Sgarbossa, Zampierin e Battistella, per i diversi ruoli e le diverse responsabilità che hanno avuto nella vicenda.
Si cerca di stabilire le loro responsabilità per la morte di Emilio Dal Fior, Domenico Bonan, Ugo Conte, Angelo Girolimetto, Pietro Zarpellon, Roberto Ceschi e la malattia di Dino Brotto.
Tutto questo però è inutile.
Il 24 maggio 2011 il giudice Deborah De Stefano, alla fine del dibattimento, non fa nemmeno in tempo a bere un caffè che è pronta, dopo appena 10 minuti, a sentenziare che i tre accusati sono innocenti perché il fatto non sussiste.
La reazione dei cittadini, presenti di fronte al tribunale è veemente. Si arriva al lancio di uova contro l’edificio e gli insulti nei confronti dei gestori della giustizia di Bassano posso solo lasciarveli immaginare.

Il processo penale

É però interessante capire il perché di una simile conclusione. Lo si apprende leggendo le motivazioni della sentenza del giudice Deborah De Stefano. In sintesi ecco cosa si scopre.
Sembra di assistere ad un film sui giurati quando ogni ragionevole dubbio può far ribaltare una sentenza da un lato o dall’altro dell’innocenza. Il giudice, infatti, richiama proprio questo. Non si può dire, appunto sopra ogni ragionevole dubbio, che i tumori che hanno ucciso i 19 dipendenti (anche se solo per sei è stato istituito il processo, non si può dire – dicevo – che siano stati i veleni della Tricom a causare quelle malattie. Tutte le vittime avevano una storia particolare (chi fumava, chi aveva altri problemi di salute, chi aveva una storia familiare di neoplasie e così via) per cui i tumori possono essere insorti per altra causa. Inoltre non è stabilito che il nichel o il cromo abbiano influenzato la predisposizione ad ammalarsi, perché non risulta che il fumo interagisca con nichel e cromo, cosa che invece fa con l’amianto.
Faccio osservare, a lato, che le coperture della Tricom erano realizzate in eternit, a proposito di amianto, ma questa è un’altra storia che affronteremo prima o poi.
Ed inoltre, e questa è grossa davvero, non esistono prove, sempre secondo la sentenza di Bassano, che dimostrino che il lavoro eseguito alla galvanica possa aver accelerato il processo di formazione e sviluppo dei tumori.
Direi che la spiegazione è stato un colpo ancora più grosso, per i querelanti, della sentenza stessa. Per loro, e per noi che leggiamo il tutto da lontano nel tempo, sembrano essere solo un sacco di corbellerie scritte solo per proteggere qualcuno.
Il solo a tener botta è il procuratore generale Carmelo Ruberto, che, appena uscito dall’aula, dichiara che si ricorrerà in appello e, se necessario, si arriverà fino al più alto grado di giudizio possibile in questo paese.
L’appello si fa a Venezia, con sentenza del giugno 2012. I tre imputati vengono condannati per omicidio colposo plurimo e aggravato. Prendono un anno e 4 mesi di reclusione, che Battistella e Zampierin devono scontare mentre a Sgarbossa viene concessa la sospensione condizionale della pena. Inoltre viene anche stabilito un risarcimento corposo: 400 mila euro alla famiglia di Domenico Bonan, mentre quello destinato alle rimanenti parti civili verranno decisi in sede civile.
I tre sono stati riconosciuti colpevoli dei decessi degli ex operai Domenico Bonan, Ugo Conte e Roberto Ceschi. Per altri due i reati sono prescritti. I loro difensori decidono di ricorrere in Cassazione.
Nel 2012 la Corte di Cassazione conferma le condanne stabilite in secondo grado per tutti eccetto per Roberto Ceschi, spirato una settimana dopo il termine della prescrizione.
Accanto ai morti e ai malati di cancro, c’è anche un aspetto ambientale non trascurabile. La Galvanica-Tricom ha creato ingenti danni, oltre che a Tezze, anche nei comuni di Cittadella e Fontaniva, che si sono visti costretti ad ampliare la rete idrica per evitare che decine di famiglie venissero a contatto con le falde inquinate da cromo esavalente, nichel ed altre sostanze nocive.
Ma la storia non finisce qui: nonostante le condanne nessuno dei responsabili viene incarcerato né risarcisce i familiari dei lavoratori, tanto meno contribuisce alle operazioni di bonifica: i pochi interventi attuati per arginare l’emergenza sono stati interamente finanziati dalle casse pubbliche, cioè con i soldi dei cittadini danneggiati. Oltre al danno anche le beffe, nel tipico stile di questo nostro paese.

La bonifica e i soldi del Comune di Tezze

stroppari01Già la bonifica. Per sapere cosa si è potuto fare e cosa si dovrebbe fare, diamo uno sguardo al sito del comune di Tezze sul Brenta, che contiene un documento molto interessante proprio su questo argomento. Consiglio a tutti di darci un’occhiata, perché molte questioni tecniche non sono raccontabili in radio. Ecco il link:
Andiamo con ordine anche qui e parliamo di soldi, non solo di opere.
Nel 2002 viene creata una task force per intervenire sui danni da inquinamento segnalati in precedenza, come ho raccontato in questa puntata. Ne fanno parte: la Regione Veneto, la Provincia di Vicenza, l’ULSS di zona, l’ARPAV, il comune di Tezze, l’ATO Brenta e E.T.R.A. SpA.
ATO sta per Ambito Territoriale Ottimale, ha un Consiglio di Bacino Brenta, che si occupa dei problemi dell’Ambito, in cui cade anche Tezze e i comuni investiti dall’avvelenamento delle acque. ETRA SpA, invece, è l’azienda che gestisce le acque del territorio.
Il primo risultato che questa equipe ottiene è quello di aver subito individuato due zone in cui c’è un pericolo concreto e attuale di inquinamento. Si tratta dell’industria Galvanica PM e della roggia Brotta, un canale in cui i reflui delle lavorazioni vengono smistati e le cui acque presentano valori molto superiori alla norma di cromo esavalente e nichel. Nasce un braccio di ferro tra l’azienda e il Comune per indagare le aree segnalate. Vengono fatte ordinanze apposite dal Comune in accordo con Provincia, Regione e ARPAV. Il tutto finanziato dalla regione Veneto.
I progetti sono questi: realizzare subito una barriera idraulica per mettere in sicurezza la falda; nel frattempo si bonificano la roggia Brotta, il piazzale a nord, l’impianto di depurazione e la centrale termica.  Più in prospettiva si tratta di realizzare un diaframma laterale e di fondo (sarcofago) che eviti il contatto della falda con il terreno contaminato e “iniezioni” di sostanze riducenti/inertizzanti del Cromo esavalente.
Poi bisognerà potenziare queste soluzioni, estrarre il terreno contaminato e conferirlo in discarica.
Costo stimato: dai 7 ai 20 milioni di €.
I soldi che arrivano sono questi:
1 milione 650 mila tra il 2003 e il 2008 da parte della Regione
Poco meno di 6 milioni nel 2008 da parte di tutti gli organi interessati: Stato, Regione, Provincia VI, ATO Brenta.
Come vengono spesi questi soldi?
€ 1.650.000 per indagini, smaltimenti rifiuti, barriera idraulica, bonifica roggia Brotta.
€ 2.930.000 per bonifiche hot spot, barriera idraulica, test pilota e primo step di bonifica definitiva.
stroppari01L’ETRA sostiene costi per circa 200.000 €/anno per la gestione della barriera idraulica. Il Comune di Tezze sul Brenta € /anno 25.000 per costi energetici.
Ci sono poi 60.000 € per spese legali. Si tratta della costituzione in parte civile da parte del comune di Tezze nei confronti di Zampierin, condannato (siamo nel 2006) a due anni e sei mesi di carcere e 2,5 milioni di euro di risarcimento.
Da un punto di vista più tecnico viene descritto il lavoro che fa la barriera idraulica. Il documento presente nel sito del comune è aggiornato al 2019. Si tratta, per noi che non capiamo molto di idraulica, di pozzi opportunamente localizzati con delle pompe che estraggono l’acqua inquinata dal sottosuolo, acqua che viene poi mandata ad un impianto di pretrattamento chimico, realizzato in loco, e quindi scaricata nella rete fognaria nera, che arriva all’impianto di depurazione di Tezze, gestito dall’azienda ETRA Spa.
Il documento successivo è di grande interesse, con quello che è stato fatto contro l’inquinamento da cromo esavalente. Saltiamo le prime considerazioni e immagini e arriviamo direttamente ai giorni nostri. Nel 2017 inizia il primo stralcio di bonifica con la demolizione della struttura. É presente ancora il tetto on parti in eternit mentre i muri sono colorati di giallo, tipico della presenza di cromo. Le fotografie sono chiarissime.
Viene inoltre realizzato il cosiddetto pacchetto di capping, una struttura che vuole isolare ermeticamente la zona soprastante da quella sottostante. É una tecnica usata ad esempio quando si bonifica una discarica nella quale i livelli di inquinanti superano i livelli di soglia. A questo punto si incanalano le acque e si copre il tutto con un nuovo manto di asfalto.
I lavori vengono consegnati nell’ottobre del 2018.
Il secondo stralcio della bonifica prevede un confinamento laterale, la realizzazione di un tappo di fondo, trattamento chimico dei terreni. Ma questo è ancora sulla carta. Intanto si va avanti con la barriera idraulica e con la raccomandazione ai cittadini di non usare i pozzi artesiani, neanche per abbeverare le piante.
La Tricom o Galvanica PM è morta e sepolta, ma i suoi effetti nefasti sono ancora là, perché, come in altri mille casi nel nostro paese, non ci sono soldi per bonificare i siti inquinati, pericolosi per la salute delle persone. Insomma lo stato preferisce spendere i denari che noi versiamo senza sapere che fine fanno in altre imprese. Ora ci sono i soldi del Recovery fund, chissà se una piccola parte potrà prendere la strada lungo il Brenta e arrivare fino a Stroppari.