Presentazione

Ci sono disastri e disastri. Ci sono quelli naturali, a volte imprevedibili e quelli provocati dall’uomo.
Tra questi rientra anche una delle più gravi tragedie italiane del Novecento, avvenuta in una valle veneta, quella del Piave, il fiume sacro alla Patria.
É mercoledì 9 ottobre 1963, un mercoledì di coppa dei campioni con i bar di Longarone pieni di tifosi che seguono la partita tra i Rangers di Glasgow e la fantastica squadra del Real Madrid di Puskas e Di Stefano. La partita finisce 6 a 0, ma nessuno di quegli avventori conoscerà il risultato finale. All’inizio del secondo tempo la luce se ne va, pochi minuti dopo se ne vanno anche le loro vite.
Cosa succede? Cos’è quel rumore che sembra quello di un temporale amplificato cento volte? Cos’è quella polvere che arriva? Da dove viene? Da quella valle che si inerpica in Friuli … oddio! La diga … la diga del Vajont!
Un monte è caduto in un lago e a Longarone arriva un’onda, altissima, terribile. Non è solo acqua, è fango che cammina, c’è terra, rade tutto al suolo, si porta via case, boschi, negozi, bar, e la vita dei poveri abitanti. Scappano, quelli che possono, quelli che riescono a reagire, scappano verso l’alto, lungo i prati che salgono ai lati del paese, sperando di riuscire a stare più su di quell’onda. Cosa diavolo è successo?
Ce lo racconta, con un pathos che ti crea un nodo alla gola, un grande attore, nato da quelle parti, Marco Paolini. Ascoltiamo
Ho voluto cominciare dalla fine, perché si capisca fin da subito di cosa stiamo parlando: ci sono stati quasi 2000 morti, sette paesi spazzati via, un tessuto sociale scomparso e ci sono, come vedremo, altri drammi legati a quello che ci si ostina a chiamare la “disgrazia” del Vajont. Quello che vorrei trasmettervi con questa puntata è che si è trattato di una strage, non diversa da tante altre, una strage provocata dall’uomo, dalla sua ingordigia e dalla sua infamia.
Il libro più bello scritto su questa storia, è di una donna straordinaria, Tina Merlin.
Sulla pelle viva”, questo il titolo, comincia con questa frase: “Resterà un monumento a vergogna perenne della scienza e della politica.

Le fonti

Prima di cominciare un doveroso cenno alle fonti utilizzate, che sono tante, importanti. Su questo argomento sono stati scritti una quantità impressionante di libri, articoli, saggi. Sono state realizzate infinite trasmissioni radio e televisive, dei film, pezzi teatrali come quello di Marco Paolini, di cui abbiamo ascoltato un brano.
Personalmente due libri mi hanno guidato nel raccontarvi questa vicenda.
Il primo è un testo fondamentale se si vuole capire cosa è successo di grave, di gravissimo, prima dell’onda, fino a quel mercoledì sera. Se si vuole capire con quanta superbia e tracotanza i ricchi mercanti e lo Stato hanno procurato tutti quei morti, entrambi colpevoli, entrambi assassini, come cercherò di dimostrare questa sera. Il libro è di Tina Merlin, “Sulla pelle viva”. Parla di Erto e Casso, due paesi appoggiati sulla riva destra del torrente Vajont, uno a mezza costa, l’altro più in alto quasi in cima. Erano un solo comune allora, poi sono stati separati. Tina Merlin è stata una giornalista de L’Unità, una comunista di quelle di una volta, senza paura e senza peli sulla lingua. Ha subito un processo, che ha vinto, perché quello che raccontava, di un disastro imminente, di manovre mafiose tra industriali e governo, sono state giudicate vere. Perché il dramma che lei adombrava, anche alla luce di quello che gli ertani le raccontavano, poi è puntualmente accaduto.
L’altro libro è di una giornalista che ho conosciuto nei primi anni 2000 su a Erto, in una delle tante assemblee alle quali ho partecipato, come responsabile di un progetto scolastico che voleva far capire ai miei studenti di prima e seconda superiore cosa davvero era avvento in quella valle. Si chiama Lucia Vastano. All’epoca lavorava per la rivista Narcomafie, uno splendido giornale, purtroppo poco diffuso. Ha scritto due libri su quello che ha raccolto in quei suoi viaggi a Erto, Casso e Longarone. Il pirmo racconta cosa è successo dopo il 9 ottobre 1963 e che è quello che io vi racconterò nella seconda parte di questa trasmissione, tra due settimane. Lucia Vastano scrive, nel 2008, “Lucia Vastano - “Vajont, l'onda lunga: quarantacinque anni di truffe e soprusi contro chi sopravvisse alla notte più crudele della Repubblica” e mi sembra che già il titolo dica moltissimo.
Questi elementi sono essenziali per comprendere il Vajont.
Naturalmente ho letto il testo di Paolini e Vacis, “Il racconto del Vajont”, ho visto molte volte lo spettacolo di Paolini e il film di Martinelli del 2001. Ho anche letto con attenzione le pagine del sito “www.sopravvissutivajont.org”, tenuto, appunto da chi quella notte è riuscito a sopravvivere. Anche il portale di Erto e Casso contiene informazioni importanti.
Alla fine degli anni ’90 con due classi della mia scuola e alcuni colleghi volenterosi, abbiamo sviluppato un progetto per analizzare da diversi punti di vista quello che era successo quel giorno alle 22,39. Ne era uscito un CD, frutto di questo lavoro ma anche di diverse “gite” a Longarone, Erto e Casso, dove avevamo potuto capire meglio cosa la gente del posto pensava e avevamo anche intervistato qualcuno dei superstiti. Una esperienza molto istruttiva, soprattutto per i ragazzi, segnati, tutti, nonostante la giovanissima età, da quella esperienza. In quell’occasione un aiuto formidabile è venuto dal mio fraterno amico Enzo Fontana, che oggi non c’è più, ma che sarebbe sicuramente affascinato, come sempre, nell’ascoltare la storia del suo Vajont. A lui è dedicato questo lavoro.

Energia idroelettrica per lo sviluppo del paese: la SADE

Ma, per arrivare a tutto questo, bisogna tornare indietro, indietro di molti anni, fino al 1929. Ci sono due personaggi che girano per le montagne di quelle terre che oggi separano il Veneto dal Friuli. Camminano lungo le sponde del torrente Vajont, che nasce in Friuli a 1900 metri sul mare, nei pressi della Forcella col de Pin, e si tuffa nel Piave a Longarone.
vajont03I due tastano il terreno, discutono tra loro, come se stessero prendendo decisioni importanti. Cosa stanno facendo? E, soprattutto, chi sono?
Sono due personaggi importanti per la storia che sto raccontando. Uno è Carlo Semenza, un ingegnere nato a Milano, ma adottato dalla città di Padova, dove si laurea. Diventa esperto nella costruzione di dighe e con questa competenza si presenta alla società SADE, che lo assume. Mentre cammina nella valle del Vajont ha 36 anni. Il suo compagno di escursione è Giorgio Dal Piaz, più vecchio di quasi vent’anni. Lui è nato a Feltre, il bel comune a Sud di Belluno. Anche lui si è laureato a Padova. É un geologo, uno di quelli importanti, che avrà un ruolo fondamentale nell’intera vicenda del Vajont. Lui però non potrà vederne la fine, morirà un anno prima, nel 1962, a seguito di un incidente d’auto.
Resta la domanda di cosa ci facciano quei due lassù. Cerchiamo di riordinare le idee: siamo in pieno ventennio fascista. Il regime cerca di far vedere che un’Italia gloriosa si può fare e usa, per questo, un sistema autarchico. Ce lo facciamo in casa, sembra dire, in fondo siamo o no gli eredi dei romani che hanno conquistato tutto il mondo? Così le strade riaprono, anche in montagna per raggiungere tutti: il fascismo ha bisogno di consensi e li cerca ovunque, dalle paludi pontine alle Dolomiti, entrambe zone un po’ abbandonate a se stesse. Allora, come oggi e come sempre serve energia per sviluppare il paese, ne serve tanta, sempre di più.
Non solo: bisogna fare in fretta, non c’è tempo da perdere. Vedremo che proprio questo atteggiamento, non da solo si intende, sarà causa di quello che di terribile avverrà molti anni più tardi.
Il nostro è un paese povero di risorse energetiche e la popolazione cresce, e crescono anche le esigenze militari. Quindi tutte le possibilità vanno sfruttate, sfruttate al massimo. Non ci sono fonti fossili (petrolio e gas) sufficienti, le fonti rinnovabili nemmeno si sa cosa siano, ma abbiamo una struttura orografica straordinaria, con due grandi catene montuose che si posizionano come una enorme “T” sullo stivale. Alpi ed Appennini, raccolgono una miriade di fiumi e torrenti più o meno grandi, di laghi più o meno estesi e profondi. Ecco la nostra risorsa: costruiamo dunque un sacco di invasi per avere dei “salti d’acqua” dai quali ricavare corrente elettrica. Non è complicato da capire. Il salto può essere naturale (una cascata) o artificiale. In quest’ultimo caso basta fermare la corsa di un fiume con uno sbarramento, creando così un lago artificiale. Da questo, attraverso tubature apposite, l’acqua che salta, colpisce le pale di un generatore elettrico, una turbina, che trasformerà l’energia cinetica di quell’acqua che corre in energia elettrica, da inviare dove ce n’è bisogno. Nelle case degli italiani, nelle fabbriche per la produzione di merci, nelle piazze, nei bar che trasmettono le partite di calcio.
L’energia prodotta si chiama idroelettrica, elettricità prodotta attraverso l’acqua.
Costruire quegli sbarramenti non è un giochino da ragazzi. Bisogna saperlo fare, ci vuole preparazione e molto studio alle spalle. E non è nemmeno possibile che una sola persona faccia tutto il lavoro. Ci vuole un ingegnere, per costruire il manufatto, ci vuole un architetto che indichi come realizzare quella diga e ci vuole un geologo che sappia dire cosa succederà una volta che quel muro enorme di cemento si appoggerà sulle pareti delle montagne, che conterranno il futuro lago.
E poi servono molti lavoratori, operai, carpentieri, che realizzino praticamente il progetto.
La valle del Vajont è stretta e lunga, si inerpica attraverso i monti. Serve, sentenziano i tecnici, una diga ad arco, con la superficie curva verso valle. In questo modo la spinta dell’acqua finirà prevalentemente sui lati, sulle pareti delle montagne. Secondo le regole questa è la scelta più opportuna quando quelle pareti sono particolarmente stabili. Già, ma, nel caso del Vajont, sarà proprio così?
Mentre i due amici camminano lungo le sponde del Vajont, in Italia ci sono circa 600 strutture adibite alla produzione di energia idroelettrica. Oggi la classificazione delle dighe è cambiata (dal 2008) e distinguiamo tra grandi dighe (quelle con un salto dell’acqua di più di 15 metri dalle altre. Ci sono, oggi, 526 grandi dighe e circa 20 mila di quelle piccole e piccolissime. Alcune di queste (non pochissime purtroppo) hanno storie non proprio edificanti di soldi spesi inutilmente, di intromissioni di malavita organizzata, di progetti iniziati e poi lasciti perdere.
Ma in quel periodo, ricordo che stiamo parlando di quasi un secolo fa, la metà delle dighe sono pubbliche. Appartengono direttamente allo Stato o ad aziende che allo stato fanno riferimento, come l’ENEL. 300 sono invece private.
Semenza e Dal Piaz tornano su quei monti nel 1956, quando il fascismo si è dissolto e a comandare c’è un altro gruppo di potere formidabile, che ha in mano le redini del paese da ogni punto di vista, la Democrazia Cristiana. Questa volta però non sono due cittadini allo sbaraglio, non sono là per una loro gita personale. Ce li hanno mandati. O meglio, li ha mandati la SADE, Società Adriatica Di Elettricità. Non sono più due nullità nell’immensità della natura. Arrivano nella valle del Vajont da padroni, perché nel frattempo le cose sono cambiate, sono molto cambiate e tutte nella direzione voluta dalla SADE.
E allora conosciamola meglio questa azienda.

La SADE

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Nasce nel 1905, fondata dal Conte di Misurata, al secolo Giuseppe Volpi, personaggio dalle molte sfaccettature. É lui a volere la realizzazione di Porto Marghera sulla laguna di Venezia, dove fa costruire una centrale termoelettrica a carbone, che serve a sopperire i tempi di magra d’acqua e quindi di scarso apporto delle centrali idroelettriche. Già, perché la SADE ne ha già fatte di dighe e centrali nelle Dolomiti. Si servono dell’acqua del Cordevole, del Boite, del Maè, dello splendido Mis e dello stesso Piave. Gli invasi sono sotto la Marmolada, a Fedaia, ad Alleghe, a Sospirolo lungo il Mis, a Pontesei lungo il Maè, le centrali stanno più giù, a Cencenighe, Agordo, Fadalto, Nove. Il 15% dell’energia elettrica italiana è fornito, in quel periodo, dalla SADE, che però non è contenta, vuole di più, vuole realizzare un grande bacino d’acqua. Vedremo tra poco dove e perché.
Giuseppe Volpi, che tra l’altro apre anche la mostra del cinema di Venezia, tanto che la coppa destinata ai migliori attori, ancora oggi è intitolata a lui, dopo la marcia su Roma si iscrive al partito di Mussolini. É un fascista convinto, talmente convinto che dopo un solo anno diventa ministro delle Finanze. Diventa anche quello che oggi chiamiamo presidente di Confindustria.
La SADE ha idee molto chiare in testa: vuole un grande impianto idroelettrico.  Prepara un progetto, cerca la valle giusta, il torrente giusto, la posizione geografica giusta. Trova tutto questo nella valle del Vajont. La diga sarà costruita là dove quella valle si affaccia sul Piave, a pochi passi dal comune di Longarone.
Perché proprio là?
La risposta è complessa, ma sicuramente conta molto il fatto che le acque del Piave sono poco affidabili in quanto a continuità di portata, mentre quel torrente di montagna è costante, ha sempre acqua e formerà un lago che sarà continuamente alimentato. E poi la valle è quasi disabitata. Ci sono solo due piccoli paesi, Erto, sul versante Nord e Casso, molto più in alto. Verso Sud, sul monte Toc, gli ertani hanno costruito delle case in pietra dove passano l’estate a lavorare i campi e a pascolare le mucche, perché andare e venire da Erto è lungo e faticoso. Per il resto solo boschi, prati e campi.
Ma c’è dell’altro nelle intenzioni dell’azienda veneziana. Si vuole fare del futuro lago del Vajont una specie di banca d’acqua, che raccolga i contributi di tutti gli invasi e i corsi d’acqua dove la SADE ha già costruito le dighe. Nel futuro lago arriveranno le acque del Boite, del Cordevole e dei fiumi che siano più alti della quota del lago del Vajont. Alla fine, dice il progetto, avremo un invaso con 58 milioni di metri cubi d’acqua, poco meno di quella complessiva di tutti gli altri impianti SADE messi assieme. Vedremo poi che questo valore è destinato a moltiplicarsi. Un progetto semplicemente grandioso: ci sarà acqua e quindi energia tutto l’anno non importa se in alcuni periodi pioverà poco.
Questo progetto, che era nella testa di Semenza e Dal Piaz fin dal 1929, viene presentato al ministero dei Lavori pubblici il 22 giugno 1940: si chiama “Grande Vajont”.

Il grande Vajont

vajont03Già ... il 1940. Non è un anno qualsiasi: il 10 giugno Mussolini dichiara guerra a Francia e Gran Bretagna. Anche per noi comincia la seconda guerra mondiale. Ci sono problemi ben superiori a mettersi a studiare il progetto del Vajont. Sono entrate in vigore le tessere annonaria, c’è un esercito male armato da sistemare, c’è l’alleanza con Hitler da tutelare, ci sono, insomma, un sacco di cose che non possono essere messe da parte. Questo pensiero è nelle teste anche degli amministratori centrali, quelli del ministero dei lavori pubblici. Il progetto “Grande Vajont” rischia di finire in un cassetto e rimanerci per semprevajont03.
Poi arriva l’armistizio di Cassibile e l’8 settembre. L’Italia cambia nemico e cambia anche Volpi, il quale improvvisamente diventa sostenitore della Resistenza, dopo essere fuggito in Svizzera. Del progetto del grande Vajont non parla nessuno. Ma la SADE insiste e mette in campo tutta la sua potenza politica. Il 15 ottobre 1943, mentre l’Italia intera è sottosopra e nei ministeri ci sono praticamente solo gli usceri, riesce a far convocare la Quarta Sezione del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, riesce perfino a farla votare, nonostante siano presenti solo 13 commissari su 36. Viene approvato tutto, compreso l’esproprio dei terreni demaniali.
L’ultimo atto formale tocca al presidente della Repubblica. Luigi Einaudi convalida, con la sua firma, il progetto il 21 marzo 1948.
Nasce così il “Grande Vajont”, illegalmente.

I terreni da espropriare

Adesso si può programmare il da farsi, studiare come intervenire, scegliere le priorità e tutto il resto.
Come prima cosa serve il terreno dove costruire la diga e l’invaso. Erto e Casso formano un unico comune. Rappresentanti della SADE si presentano in municipio per far presente le loro esigenze. É il 5 ottobre 1948. C’è una giunta democristiana, che alla fine è costretta a cedere i terreni demaniali a meno di 4 lire al metro quadro. L’incasso, circa 3 milioni e mezzo, deve però essere girato al Ministero dell’Agricoltura e delle Foreste. Al comune non rimarrà niente.
vajont03I contadini di quell’angolo sperduto di mondo imparano una nuova parola, che non c’era nel loro vocabolario: esproprio. Non c’è niente da fare. Se una società ha vinto un appalto, ricevuto l’approvazione del governo, la vendita dei terreni demaniali è obbligatoria. Tanto loro, lassù, mica sanno come l’autorizzazione è stata ottenuta. Pur essendo demaniali, quei terreni da secoli permettono a quella gente di avere mais, patate, verdure e latte dalle mucche che vi pascolano.
Ma, di fronte allo Stato, come puoi controbattere? Uno Stato che qui non è mai esistito e diventa visibile solo quando arriva la SADE, perché si apre una stazione dei carabinieri, che faranno ben poco per tutelare quei contadini e montanari. Così il comune cede e vende gli appezzamenti, ma c’è un errore, perché tra i terreni demaniali ci sono anche quelli che un’antica trattativa aveva ceduto ai cittadini di Casso. Sono circa cento famiglie, che si sentono prese per il collo, perché quei boschi e quei prati servono al loro mantenimento.
Nel frattempo il Ministero vuole i suoi soldi, quei tre milioni e mezzo che la SADE ha versato al Comune. Ma quei soldi non ci sono più, sono stati usati per “questioni urgenti e inderogabili”. Preso tra due fuochi, i suoi cittadini e il ministero, alla fine il Consiglio Comunale è costretto ad accettare un prestito dalla SADE, che sarà anche senza interessi, ma è un grosso vincolo di sudditanza verso l’azienda di Volpi.

Il cantiere e i posti di lavoro

NeTIna Merlinl 1957 il cantiere del Grande Vajont viene aperto. Ci sono 400 posti di lavoro tra operai, cantonieri, manovali e quant’altro. Le prospettive cambiano: un posto fisso è un sogno e poi ci sarà lavoro anche dopo la fine dei lavori, quando la diga sarà terminata. Servirà controllare, sistemare, adeguare …
E poi, dai: una diga. Quante se ne sono costruite anche qui vicino, cosa potrà mai succedere? Siamo all’inizio del boom economico, ci sono euforia e ottimismo a volontà … ma, c’è un “ma” in questa storia, un “ma” che diventerà sempre più grande, fino ad essere gigantesco e ingombrante, un “ma” che ha un nome e un cognome.
A Trichiana, pochi chilometri a Sud di Belluno, nasce, nel 1926, una ragazza, che diventerà una delle giornaliste più toste del periodo. Lavora a Belluno, il suo nome è Tina Merlin. Lei vede oltre quell’entusiasmo, comincia a scrivere pezzi che dicono che c’è qualcosa che non la convince, che ci sono sotto intrallazzi e misteri, attacca la SADE e quello che rappresenta: la tracotanza democristiana. Lassù, nella valle del Vajont, la lettura dei quotidiani non è proprio l’attività più diffusa. Se poi quegli articoli appaiono su L’Unità, organo ufficiale del Partito Comunista Italiano, la loro lettura è ancora più rara e certo non diventano “popolari”. Quelli della SADE però, gli articoli li leggono e il termine più gentile usato per Tina è “rompicoglioni comunista”.
Si comincia a predisporre anche le opere che servono al cantiere. Si costruisce una strada vera, asfaltata, non quella bianca che fa il giro del mondo per salire a Erto da Longarone. La si scava dentro la roccia, una galleria dopo l’altra. Le mine esplodono vicino alle abitazioni e qualche conseguenza sulla natura la provocano. Gli ertani, oltre alla rabbia, cominciano a provare paura. Paura per quelle fessure che si formano nel terreno e nelle case sul Toc, paura per quei sassi che ogni tanto rotolano a valle, paura per le loro vacche, che sono così spaventate da rendere meno del solito. Paura che quell’opera sia l’inizio della fine.
E cominciano a protestare, a scrivere lettere, a sporgere denunce.

Permessi, acquisizioni, espropri

Nel frattempo i carabinieri, portano a termine il loro primo ingrato compito: eseguire gli espropri. E si avvia anche l’acquisto dei terreni privati. La SADE offre prezzi decisamente bassi, anche tre, quattro volte inferiori a quelli di mercato.
C’è una rivolta ad Erto e si forma, cosa decisamente eccezionale nella valle, un comitato per contrastare le acquisizioni. A capo di questo comitato c’è il medico del paese, che è anche, cosa ben più importante, il marito del sindaco, Caterina Filippin, per tutti semplicemente “La Cate”, a capo di una giunta di sinistra.
La Cate è un personaggio unico nel paese: nipote di Domenica Flippin, morta per le torture delle SS hitleriane, socialista e benvoluta senza condizione da tutto il paese. Anche lei ha terre sequestrate, anzi ne ha parecchie, più di tutti gli altri. Se c’è lei – dicono i paesani – che ha più interesse di noi a resistere, possiamo stare tranquilli.
Poi però, ecco il classico colpo di scena.
Mentre gli ertani cercano di resistere alla tracotanza della SADE, guidati dalla Cate, emblema di resistenza nel paese, proprio lei, la Cate, vende i suoi terreni, riuscendo a spuntare un prezzo molto conveniente, più alto di quello offerto agli altri. Un colpo basso, che rende la SADE più forte e che adesso si presenta agli ertani con discorsi di questo tipo: “nessuna contrattazione, questo è il prezzo, prendere o lasciare”. Arrivano i tecnici e a chi resiste più per principio che per convinzione, si rivolgono più o meno così: Questi sono i soldi che vi offriamo. Voi li potete rifiutare ma noi le vostre terre le prendiamo lo stesso e vi mettiamo i soldi in banca. Poi potete fare ricorso, prendere un avvocato, andare da un notaio, forse finire in tribunale e alla fine avrete speso molti più soldi di quelli che vi stiamo offrendo e le terre non le avrete comunque indietro.
Tutto a posto dunque: ci sono i terreni, ottenuti come sappiamo, ci sono le autorizzazioni, ottenute come sappiamo: la costruzione della diga può cominciare.

La variante

É a questo punto che alla SADE viene un’idea temeraria, che farà, nelle intenzioni dell’azienda, del grande Vajont un grandissimo Vajont. Chiede vajont 066una variante, che significa modificare i termini del progetto iniziale. Ma non si tratta di una variante qualsiasi, perché la richiesta è di aumentare l’altezza della diga di 61 metri, arrivando così al valore di oltre 261m. Sarà la diga più alta del mondo. Ancora oggi la più alta diga italiana in funzione è 100 metri più bassa. Ancora oggi la diga del Vajont è la settima diga per altezza al mondo. Questa variante, dunque, cambia tutto, a cominciare dal livello a cui arriverà l’acqua, 725 metri sul mare, per proseguire con l’invaso: un lago enorme che conterrà circa 150 milioni di metri cubi d’acqua, quasi tre volte quelli previsti dal progetto iniziale. Un’opera sensazionale, un vero gioiello, un biglietto da vista luccicante delle capacità dell’industria italiana. Larga 190 metri, spessore alla base 22 metri, in cima 3,40 metri. Il progetto porta la firma di Carlo Semenza, ma serve l’autorizzazione di un geologo. Dal Piaz, vecchio amico di Semenza, è in pensione, ma si presta, dietro compenso, a fare delle perizie, come in questo caso. Tuttavia, come lui stesso dice, la variante gli produce “un mancamento” e non sa cosa scrivere. Si rivolge a Semenza, chiedendogli di redigere lui la relazione, che poi firmerà senza cambiare nulla. Così una variante di quelle dimensioni vede il progettista diventare anche giudice di se stesso e della sua opera. Il ministero approva, anche se qualche mugugno c’è, perché nella richiesta si parla della diga ma non dell’invaso. Ma da Roma non parte nessun tecnico per verificare cosa succede lassù lungo la valle del Vajont. Non solo, ma sono anche contenti che, finalmente i lavori possano partire. Certo che, se quel tecnico fosse stato spedito ad Erto, avrebbe visto che i lavori approvati erano un bel pezzo avanti, cominciati circa un anno prima.
Il grande progetto dunque si realizza con una approvazione postuma.
Una volta saputo dell’ampiamento, il ministro chiede almeno una perizia geologica supplementare, che lo faccia stare tranquillo, nonostante i 150 milioni di metri cubi di acqua, quasi cento milioni in più rispetto a quanto previsto all’inizio.
La SADE risponde: “Tranquilli, ve la faremo avere”. Usare il verbo al futuro è giusto, perché una simile perizia non è mai uscita dalla valle e quindi non è mai arrivata a Roma.

Nasce il “mostro”

TIna MerlinLa variante, cioè l’innalzamento della diga di altri 61 metri, farà diventare il lago molto più grande e di conseguenza, altri terreni verranno sommersi. Bisogna dunque espropriarli. Si tratta, in tutto, di 400 appezzamenti degli abitanti di Erto e Casso. Questi, ormai hanno capito l’antifona e le perplessità dei primi tempi si sono trasformate in incazzature molto forti. Nonostante l’ottimismo per il lavoro offerto dall’impresa, la SADE non gode certo delle simpatie della gente. Così l’azienda veneziana pensa di dare un contentino a quelle persone, promettendo di realizzare una passerella che colleghi il pendio dove stanno Erto e Casso con quelli sul monte dall’altra parte del fiume, il monte Toc. Là ci sono boschi e campi che guardano la valle da Sud.
La passerella, una specie di circonvallazione ante litteram, non viene approvata da nessuno, né in loco né in regione a Venezia né, tantomeno, a Roma. Si tratta quindi di un’opera abusiva. Senonché una scappatoia c’è e la SADE la conosce benissimo e la sa sfruttare. C’è una di quelle leggine che solo l’Azzeccagarbugli manzoniano potrebbe conoscere, secondo cui l’impresa può costruire tutto quello che vuole, basta che sia utile al cantiere e che sia “provvisoria”. Questo termine è qualitativo, non ci dice quanto tempo deve passare prima che quell’opera non sia più utile al cantiere. E dice anche, però, che la SADE può rimuoverla quando vuole. Ovviamente ai cittadini di Erto e Casso, niente di tutto questo viene spiegato. E quella passerella può essere letta come qualcosa di magico, che servirà in futuro per il traffico … che bravi quelli della SADE!

La commissione di collaudo

Tina Merlin continua la sua battaglia e trova un alleato in Renzo Desidera, capo ingegnere del genio civile di Belluno. La SADE deve avere anche la sua autorizzazione, ma non l’ha nemmeno richiesta. E Desidera blocca i lavori.
All’epoca è in fase sperimentale la regionalizzazione del genio civile, ma, alla fine, ad avere l’ultima parola è sempre il ministero dei Lavori pubblici. Nel 1957 in Italia c’è il governo Segni, un monocolore democristiano, eletto con i voti decisivi di fascisti e monarchici, che vede al ministero dei Lavori Pubblici, Giuseppe Togni. Costui impiega 24 ore a risolvere la questione. A Renzo Desidera arriva l’ordine di trasferimento ad altra sede, sostituito da un passacarte del ministero, Almo Violin. E i lavori riprendono immediatamente.
Togni è un politico navigato e così, per tutelarsi, istituisce una “commissione di collaudo”, con il compito di certificare la regolarità del progetto e della sua realizzazione. E poi, ma questo non viene detto ufficialmente, di non rompere le scatole a quell’opera magnifica che tanto serve al paese.
Ne fanno parte alcuni ingegneri e un geologo … due degli ingegneri, Pietro Frosini e Francesco Sensidoni, sono quelli che hanno approvato la variante. Il geologo è Francesco Penta, che ha certificato tutte le precedenti opere della SADE. La commissione è dunque legata mani e piedi all’azienda da controllare … bello no? Il risultato è che nelle tre occasioni in cui la commissione si sposta a Erto, non saprà granché dei lavori in corso, ma conoscerà a fondo le feste veneziane, farà meravigliose gite sulle dolomiti di Cortina e apprezzerà molto la cucina della zona. Va tutto bene … che problemi ci sono?

Avvertimenti e paure

TIna MerlinChe il dramma del Vajont non fosse prevedibile è una sciocchezza enorme. Prima di quel tragico 9 ottobre, di segnali ce n’erano stati e anche molto chiari.
A Forno di Zoldo, c’è un altro impianto della SADE, che ha arrestato, con una diga, le acque del torrente Maè per formare un piccolo lago, il lago di Pontesei, a quota 775 metri sul mare. Siamo, in linea d’aria, a meno di 10 km dal cantiere del Vajont.
Nel 1959 a Pontesei, si verificano fenomeni strani: macchie giallastre sull’acqua del lago, alberi tutti inclinati, fessure nel terreno. Non ci vuole molto a capire che c’è una frana sul monte che sovrasta quella diga, progettata da Carlo Semenza e approvata dal geologo Francesco Penta (sempre quello della commissione). Cosa fare? La prima idea è di togliere l’acqua dal lago, ma, mano a mano che il livello scende, la frana accelera. É come se fosse proprio l’acqua a tener ferma la massa di terra che rischia di scivolare giù. La SADE risolve ogni cosa monitorando la situazione. Con un esercito di tecnici? Con qualche squadra di operai specializzati? No! Ci manda il solo Arcangelo Tiziani, un carpentiere, zoppo, che, alle sei di mattina della domenica delle palme del 1959, sta salendo lungo i pendii a ridosso del lago. É il giorno in cui la frana si stacca dai monti Castellin e Spitz e corre verso il lago, sempre più veloce. Tre milioni di metri cubi di montagna si tuffano nell’acqua. L’onda che si forma è alta 20 metri, scavalca la diga e si porta via il povero Arcangelo, seppellendolo in fondo al lago, in mezzo ai detriti della frana. Il suo corpo non sarà più ritrovato.
Pensate - comincia a dire la gente a Erto e Casso - se una cosa del genere succedesse al Vajont. Siamo proprio sicuri che sia tutto a posto? In fondo, le montagne della Val Zoldana, dove si trova Pontesei, non sono diverse da quelle che circondano la valle del Vajont.TIna Merlin
126 famiglie di Erto e Casso prendono il segnale molto sul serio e si riuniscono nel “Consorzio per la difesa e la rinascita della valle ertana”. Le firme per il rogito notarile, a testimonianza di quanto avvenuto, sono del comunista Giorgio Bettiol e di Tina Merlin. Si comincia anche a ragionare sui nomi: Vajont in friulano significa “che viene giù” e Toc deriva da “patoc” che significa marcio. Non sono buone sensazioni!
Alla riunione partecipa anche la stampa. A dire il vero sono presenti solo Tina Merlin, come visto, corrispondente de L’Unità e qualche giornalista dal Gazzettino di Venezia. Mentre Tina Merlin continua la sua battaglia contro l’impresa che giudica azzardata a maggior ragione dopo i fatti di Pontesei, il Gazzettino non scriverà mai nulla che possa adombrare la SADE. Perché? É molto semplice. Dopo essere stato di proprietà del conte Volpi, è pappa e ciccia con la Democrazia Cristiana, che è di fatto lo sponsor del progetto del Vajont.
Un altro allarme scatta quando si cerca di realizzare la passerella tra le due sponde del Vajont. Non se ne fa nulla, perché i tecnici della SADE non riescono ad ancorarla al monte. I punti d’appoggio si sgretolano. Verrà fatta una lunga circonvallazione più su nella valle, dice la SADE.
Si sgretolano? E il resto della montagna? Non è che quell’instabilità sia presente su tutto il monte? L’azienda tranquillizza tutti: il monte Toc è sano, non c’è alcun pericolo. Del resto con tutti i soldi in ballo cos’altro volete che dicano? Ma quello che pensano è molto diverso.

Leopold Müller

vajont11Si convincono che va fatto uno studio geologico approfondito, con uno specialista di alto profilo, indipendente e non stipendiato da loro. Il più importante geologo del momento arriva dall’Università di Salisburgo, in Austria, dove dirige una scuola all’avanguardia. Si chiama Leopold Müller. Lavora due anni, aiutato da due giovani geologi, Edoardo Semenza e Franco Giudici. Edoardo è il figlio di Carlo Semenza, il padre ideatore del grande Vajont. Alla fine, ecco il verdetto: “A mio parere - scrive Müller - non possono esistere dubbi su questa profonda giacitura del piano di slittamento o della zona limite. Il volume della massa di frana deve essere quindi considerato di circa 200 milioni di metri cubi.”
Tradotto in termini che tutti capiscano, significa che sul Toc c’è una frana enorme, che può scivolare verso il lago in presenza di piccoli terremoti o di lubrificazione del suo appoggio. Questa lubrificazione può avvenire se si immette molta acqua nel bacino. La frana è 70 volte più grande di quella di Pontesei: 200 milioni di metri cubi! E il suo fronte ha una forma strana, una “M”, la “M di Müller”, che ancora oggi è ben visibile per chi sale alla diga. Una sentenza terribile, che imporrebbe la chiusura immediata del cantiere e la sospensione dei lavori, ma, come già detto, non se ne parla. C’è anche una relazione di Edoardo Semenza. Lui conferma tutto e aggiunge che quei 200 milioni di metri cubi di terra con sopra boschi, prati, case, è attaccata al Toc con lo sputo, una bava di ragno, come dice Marco Paolini nel suo pezzo teatrale. Il padre Carlo cerca, senza successo, di far addolcire la relazione Vajont, una mostra con le foto di Edoardo Semenza | E. Pirasal figlio. In fondo c’è di mezzo la sua reputazione e anche la possibilità di passare alla storia. Ma in questo momento tutte le sue sicurezze cominciano piano piano a vacillare.
La SADE è avvertita: più alto sarà il livello dell’acqua dentro il lago, più probabile sarà il distacco della frana.
Viene chiesto un parere di confronto non ad un geologo, ma ad un geofisico, Pietro Caloi, che, dopo aver esplorato la valle, il monte Toc e tutto il resto, scrive una relazione che è l’esatto opposto di quella di Muller. La frana c’è, dice, ma è antichissima, una paleofrana, ed è una piccola cosa: i lavori possono proseguire tranquillamente.
La SADE ha investito un mucchio di soldi nell’impresa, che è già a buon punto. Inoltre riceve ingenti sovvenzioni dallo Stato. Come si fa ad abbandonarla proprio adesso che c’è di mezzo la nazionalizzazione dell’energia? L’azienda veneziana sceglie la tesi di Dal Piaz e Caloi.
Il destino della valle del Vajont e di Longarone si decide qui.