Introduzione
Ci occupiamo di un personaggio che è diventato, forse suo malgrado, un eroe popolare, un vero mito, una icona di un certo modo di intendere la politica e la lotta per i diritti e la giustizia. Che questo sia avvenuto al di là dei suoi meriti è un dibattito aperto e, come sempre quando c’è di mezzo lo schierarsi politicamente, ci sono quelli che lo incensano come un santo e i detrattori che ne fanno un diavolo maledetto.
Qui cerchiamo di raccontare la storia dell’uomo, i suoi pregi e i suoi difetti, sempre attenendosi a quanto accaduto, che, come sempre dico, non può essere modificato da nessuno. Ma l’uomo è chiuso all’interno di un personaggio politico che tutti conoscono: qui vorrei raccontare la storia di Ernesto Guevara della Serna, per tutti, semplicemente “el Che”.
Se entrate in un negozio di magliette estive, vedrete che difficilmente ne manca una con sopra l’effige di un uomo adulto, di bell’aspetto, barba e sguardo fiero. In testa ha un basco con disegnata una stella gialla. Quell’uomo è Ernesto Guevara, ma nessuno lo chiama così da molto tempo. Per tutti è semplicemente el Che. É morto, ammazzato, nel 1967. Sono passati più di 50 anni, ma il suo ricordo non ha mai avuto una flessione e ancora oggi se chiedi a qualcuno quale guerrigliero conosce, il suo nome è sempre il primo della lista. Dovremo essere bravi a capire il perché di tutto questo. Ma cominciamo dal principio.
Rosario, Argentina: il giovane Ernesto
14 giugno 1928, Rosario, Argentina. Nasce un bambino: si chiama Ernesto Guevara de la Serna. É fortunato, Ernesto, perché in un continente dove la povertà è di casa, viene al mondo in una famiglia benestante. Suo padre è un imprenditore che non fa mancare nulla ai figli, anzi. La madre proviene da una ricca famiglia di allevatori di bestiame, è una donna colta, ai passi col tempo. Femminista e atea, interessata all’arte e alla letteratura. I genitori hanno tutti antenati europei, baschi e irlandesi il padre, spagnoli la madre. É un ambiente in cui chiunque vorrebbe nascere. Si respira libertà, possibilità di viaggiare, libri a non finire, di ogni genere, compresi quelli legati al marxismo e al leninismo, ma non solo.
Passa dalla poesia di Pablo Neruda alle pagine che raccontano le gesta eroiche del rivoluzionario Jose Martì, eroe nazionale cubano, che nel XOX secolo si batte per l’indipendenza dalla Spagna
, un mito per tutta Cuba, anche quella castrista che verrà. Non mancano i testi di politica: Marx, Lenin per la teoria, ma è affascinato dai grandi condottieri popolari come Emiliano Zapata e Simon Bolivar.
Non sono anni in cui ti puoi distrarre da quello che accade nel mondo. Quando è ancora ragazzino scoppia la seconda guerra mondiale, compare il nazismo e il fascismo, la guerra civile in Spagna. Si delineano gli schieramenti politico-sociali, proprio come Marx aveva predetto: il capitalismo da un lato, le energie del proletariato dall’altro. Bisogna decidere da che parte stare, ma per il giovane Ernesto è ancora presto per una scelta così complicata.
Dall’altra parte ecco novità veramente grosse: nel 1948 l’Assemblea delle Nazioni Unite emana la dichiarazione dei diritti umani, che comincia così:
“Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”.
Le sue scelte cominciano a palesarsi un po’ alla volta. Tutti quegli avvenimenti indirizzano il suo pensiero verso sinistra. Vuole contare, aiutare l’umanità, soprattutto quelli che non sanno difendersi da soli. Decide così, anche per questo: diventerà un medico.
Come ragazzo ha un temperamento molto forte. La sua salute non è il massimo, con l’asma che non gli dà pace, ma anche questa difficoltà contribuisce a convincersi che non si può e non si deve cedere alle difficoltà, gli ostacoli vanno semplicemente superati senza abbattersi mai. Questo spirito lo accompagnerà lungo tutta la sua vita.
Sì, viaggiare …
Ernesto si rende presto conto che un conto sono gli studi e altro la vita reale. Come è fatto il suo paese, quali dinamiche si sono sviluppate nel suo interno, quali popolazioni lo abitano, che desideri hanno e, soprattutto, quali disagi devono sopportare?
Non c’è che un modo per saperlo: andare di persona, fare dei viaggi. Ne farà parecchi nella sua vita, a cominciare dal primo, nel 1950. Parte da solo, diretto a Nord verso le zone rurali dell’Argentina. Percorre circa 4 mila chilometri, visitando città, piccoli villaggi, chiedendo alla gente del posto, imparando da loro. É interessato non certo alla bellezza del paesaggio, ma alla situazione sociale e organizzativa. Chiede se le scuole funzionano, se ci sono ospedali, quali prospettive abbiano i giovani, come viene retribuito il lavoro dei campi. É il periodo del peronismo in Argentina, quando ci sono accese discussioni sulla tutela dei lavoratori, sulla giustizia sociale. Comincia a capire che le disuguaglianze ci sono, spesso sono molto profonde, con zone di grande povertà e con approfittatori. Il seme di una cultura di sinistra cresce ad ogni passo.
Il secondo viaggio, più breve, lo porta in Patagonia, una zona dove vivere e resistere sono verbi che stanno spesso nella stessa frase. Impara ancora e ancora, ma …
Non è soddisfatto, vuole saperne di più, perché, in fondo, l’Argentina è un paese latino americano e bisogna anche confrontare la sua vita con quella dei suoi vicini, gli stati confinanti.
Così, quando torna, nel 1951, organizza un viaggio che rimane storico, perché viene raccontato negli anni a venire da film, documentari, libri. “I diari della motocicletta”, nelle varie forme espressive, sono il diario di questo viaggio, ma non è solo questo. I racconti colgono gli aspetti socio politici di quella che sarà poi la fede politica di Guevara. Molti incontri saranno determinanti per il suo futuro di guerrigliero e, a volte, anche di medico.
Ma andiamo con ordine. Nel caldo estivo dell’Argentina, alla fine di dicembre 1951 si parte. Con lui c’è il suo grande amico Alberto Granado, suo grande amico, futuro biologo e testimone non solo degli anni giovanili di Ernesto, ma anche dell’avventura a Cuba, dove fonderà una Scuola Medica a Santiago.
Lui è importante anche perché possiede una vecchia motocicletta Norton 500, che sarà la loro compagna di viaggio finché ce la farà. Forse il nome assegnato al veicolo, “Poderosa II” non è il più azzeccato.
E comunque partono da Grenada e il 4 gennaio 1952 arrivano a Buenos Aires.
I diari della motocicletta
Il viaggio del 1952, quando Ernesto, studente di medicina, ha 23 anni, è quello sicuramente più formativo del suo carattere ma anche del suo modo di vedere le cose, di interpretare le vicende umane che incontra, di formarsi anche politicamente. Per questo, i suoi diari del viaggio, raccolti nel libro “Notes de viaje” forse più conosciuti come “Latinoamericana”, sono così importanti. Sono pubblicati a Cuba nel 1992 e un anno più tardi anche in Italia.
Alberto Granado è un po’ più grande di Ernesto, ha 29 anni, una laurea in biochimica e sarà prezioso, dopo la morte di Guevara per tracciarne l’immagine e raccontarne le gesta.
Dunque si parte. In sella alla mitica Poderosa II, moto del 1939, probabilmente non adattissima ad un viaggio che si prospetta lungo e con tratti di strada complicati. É un’avventura. Si portano dietro solo lo stretto necessario: medicine di base, carte geografiche una piccola tenda e l’immancabile macchina fotografica, perché quello che verrà loro incontro non sia soltanto l’eco di una sensazione passeggera. Nonostante la morto sia decisamente poco adatta, servirà anche ad incuriosire la gente che incontrano, a facilitare i contatti e di conseguenza le conoscenze che potranno acquisire. Poim anche la Poderosa non ce la fa più e bisogna lasciarla morire per strada e proseguire con altri mezzi, sempre di fortuna oppure a piedi.
DA Buenos Aires arrivano al mare a Miramar, poi seguono la costa fino a Bahia Blanca e di qui un taglio netto verso occidente verso il confine con il Cile. Vi arrivano a metà febbraio entrando a Paulla, nella Patagonia cilena. Ci arrivano attraversando le Ande, dove la vita è dura, dove incontrano popolazioni per le quali la sopravvivenza non è solo una parola del vocabolario.
La regione dei molti laghi è bellissima, ma li costringe ad usare barche non sempre all’altezza per procedere, caricandovi la moto. Attraversano la regione che era stata dominata dai “mapuche” prima che il governo li isolasse in “reducciones”, come i nativi americani erano finiti nelle riserve negli Stati Uniti.
Esperienze e incontri non si contano, ciascuno coi suoi lati allegri (in fondo sono due ragazzi) e riflessivi. Poi di nuovo verso Nord, senza la Poderosa II, ormai abbandonata, come clandestini su una nave, dove alla fine vengono scoperti e sono costretti a lavare latrine e pelare patate. Ci sono vari incontri con una vecchia ammalata e un ex operaio minatore che fanno conoscere a Ernesto la brutale politica del presidente Gonzales Videla, che aveva messo fuorilegge il partito comunista ed eliminato, anche in modo drammatico, chi si opponeva al regime e i minatori erano la classe più vivace in questo senso. Tra gli altri sotto le grinfie di Videla cade anche Pablo Neruda, poeta prediletto di Guevara, costretto all’esilio e in quel periodo in Italia.
Poi arrivano a Chuquicamata, dove c’è la più grande miniera di rame del mondo. Aperta all’inizio del secolo scorso, è la ditta statunitense Guggenheim a produrvi la prima barra di rame nel 1915. Poi passa di mano in mano ad aziende ed imprese straniere, fino alla nazionalizzazione alla fine degli anni ’60. Oggi è praticamente esaurita e si sta cercando di scavare miniere sotterranee per continuare la produzione. La cittadina di Chuquicamata si è spopolata. E non è solo quel buco enorme lungo cinque chilometri e profondo uno, con quei cerchi concentrici dove corrono i camion, che ricorda tragicamente l’inferno dantesco. E tutto attorno uno dei deserti più aridi del mondo. Una visione impressionante.
Guevara e Granado visitano due volte l’enorme miniera, che è in mano ad un’impresa straniera. I minatori sono assoldati alla giornata tra la povera gente, sottopagati, senza alcuna garanzia né diritti. É questo che colpisce il giovane argentino, più della vastità di quel buco enorme a cielo aperto. Ed è qui che Ernesto ritrova, nella realtà delle persone, quella distinzione tra borghesia e proletariato di cui ha letto nei testi di Marx e Lenin. É qui che ascolta i racconti della gente sfruttata, ma anche di lotta, del desiderio di rovesciare quello stato di cose. Ma non è solo una questione di classe, c’è di mezzo anche una forma di colonialismo basato sul denaro, sul potere economico, sul capitale … eccolo di nuovo Carl Marx.
Gli sfruttatori sono, infatti, spesso, molto spesso in quei paesi, organizzazioni ed aziende straniere, soprattutto statunitensi, che si prendono le ricchezze e lasciano le briciole ai lavoratori. Ci sono altri libri su questa miniera, come quello di Marcial Figueroa “Chuquicamata, la tumba del chileno”, dove troviamo frasi terribili come questa “il becchino, ogni giorno, dava sepoltura a sei vittime, tra adulti e bambini”.
Le pagine dei diari durante la visita alla miniera sono profondamente diverse dalle altre, spesso allegre ed autoironiche, anche per le numerose avventure che si vivono durante un viaggio cercando passaggi e alloggi occasionali.
La risalita verso il confine è lunga, via terra, e alla fine vengono portati fino alla dogana di
Chacalluta e di qui, con un’auto, arrivano alla prima città peruviana, Tacna. É il 24 marzo, 80 giorni dopo la partenza da Buenos Aires.
Descrivere l’intero viaggio è impossibile, per questo consiglio a chiunque sia interessato la lettura di “Latinoamericana” edito da Feltrinelli e ad un prezzo molto minore da Mondadori. O quanto meno di vedere il film” I diari della motocicletta” del regista brasiliano Walter Salles, acquistabile online a meno di 10 €.
Dal lebbrosario a Miami
Ci sono però alcune tappe che non possono essere omesse, nemmeno in un breve riassunto come questo di NSSI. Un altro incontro decisamente formativo è quello lungo il rio delle Amazzoni, in Perù, a San Paolo, dove è presente un grande lebbrosario. Si offrono di lavorarci, di dare una mano: un quasi medico e un biochimico possono essere di aiuto. Ma non è l’aspetto medico, per triste che sia, a scavare un solco profondo nella mente e nelle convinzioni di Guevara. Qui si rende conto dell’abbandono di queste povere persone, destinate a morire. Si ferma, impara ancora, capisce che la malattia non è solo una questione fisica, ha a che fare con la povertà, con l’organizzazione sociale. Questo lo porta a riflettere sul ruolo che vuole avere da grande. L’attenzione verso gli ammalati sarà sempre un punto essenziale delle sue battaglie.
Quella visita è un pugno nello stomaco del giovane Ernesto, anche perché Il lebbrosario è in così netto contrasto con le magnifiche opere che aveva appena visitato, il maestoso Macchu Picchu, simbolo dello splendore e della meraviglia delle popolazioni indigene.
Quel contrasto tra la gloria del passato e la miseria del presente, tra la bellezza sconfinata e la totale disperazione, segna profondamente Ernesto. Probabilmente è proprio quello il momento in cui decide che non avrebbe fatto finta di niente, ma si sarebbe ribellato.
Del lebbrosario di San Pablo scrive queste parole sul suo diario: “Questo è uno di quei casi in cui il medico, cosciente della propria assoluta impotenza di fronte alla situazione, sente il desiderio di un cambiamento radicale, qualcosa che sopprima l’ingiustizia che ha imposto alla povera vecchia di fare la serva fino al mese prima per guadagnarsi da vivere, affannandosi e soffrendo, ma tenendo fronte alla vita con fierezza”. La permanenza al lebbrosario è il punto di arrivo di un viaggio di formazione: da semplice studente idealista, Ernesto diventa un rivoluzionario disposto a morire per quegli ideali. Senza quel viaggio epico, forse non avremmo mai avuto un personaggio carismatico e incisivo come il “Che”.
Dopo aver curato i pazienti per alcune settimane, Guevara e Granado partono a bordo della zattera per Leticia, in Colombia. Dopo aver trascorso alcune settimane in Colombia, i due raggiungono Caracas, in Venezuela. Lì Guevara decide di tornare a Buenos Aires per terminare i suoi studi in medicina.
Pur avendo deciso di rientrare in Argentina per terminare gli studi, Guevara non riesce a lasciarsi alle spalle il ricordo del viaggio perché era ormai già agitato da ideali rivoluzionari.
Prima di rientrare in Argentina passa un mese a Miami, negli Stati Uniti.
La scelta di campo – Guatemala: CIA e USA
Quando rientra in Argentina ha accumulato esperienze profonde che indirizzano il suo pensiero sempre più verso i movimenti che cercano giustizia sociale e la liberazione dagli oppressori, poco importa che questi siano interni o esterni al proprio paese. Cresce in lui il desiderio di contare davvero in questa lotta, diventa una motivazione decisiva nella sua vita. Termini come rivoluzione, lotta armata, fino a quel momento del tutto estranei ai suoi pensieri, cominciano ad affiorare senza trovare preclusioni preconcette.
Ecco il suo pensiero, piuttosto crudo, ma esplicito:
«Nel momento in cui il grande spirito guida scava l’enorme squarcio che divide l’umanità intera in due sole frazioni antagoniste, io sarò con il popolo, e so […] che io […] assalirò le barricate o le trincee, tingerò di sangue la mia arma e, pazzo di furore, sgozzerò tutti i vinti che mi cadranno tra le mani […]. Sento già le narici dilatate, assaporando l’odore acre della polvere da sparo e del sangue, della morte nemica; già tendo il mio corpo, pronto alla lotta […] affinché in esso risuoni con nuove e nuove vibrazioni l’urlo bestiale del proletariato trionfante».
Credo che queste parole non lascino dubbi sulle idee politiche di Guevara. Ma il suo desiderio di conoscere a fondo i popoli del Sud America, lo riportano in viaggio nel 1954. La meta questa volta è il Guatemala, dove avvenimenti di grande rilievo stanno per accadere.
A parte le vicende personali, che lo portano a conoscere Hilda Gadea, che diventerà la sua prima moglie, il Guatemala è un paese dal volto progressista, grazie al lavoro di due presidenti, Juan José Arévalo prima e il suo successore Jacobo Arbenz. Vengono varate riforme importanti, tra cui quella agraria che espropria terre non utilizzate, ma in larga parte di proprietà di una società statunitense straordinariamente potente, la United Fruits, che gestisce anche la ferrovia, il telegrafo, l’unico porto atlantico, gli ospedali destinati ai suoi 40 mila dipendenti, molti dei quali statunitensi.
Racconterò in un prossimo articolo le vicende guatemalteche, l’intromissione della CIA, il ruolo della multinazionale come “parcheggio” delle spie americane. Per ora basti sapere che le reazioni statunitensi alle idee di Arbenz sono fortissime. La CIA, guidata da quel fanatico di Allen Dulles e sotto la spinta del presidente Eisenhower, ha sì il compito di combattere ogni guaito di comunismo ma soprattutto di difendere, anche con le armi, gli interessi economici di Washington ovunque nel mondo. L’anelito democratico statunitense è una di quelle bugie così grosse, da lasciare basiti che qualcuno davvero ci possa credere. A conti fatti si tratta senza dubbio della nazione meno democratica di tutto l’Occidente.
L’aria che tira in Guatemala non è di quelle migliori e così il governo si rivolge alla Cecoslovacchia comunista chiedendo aiuto. Il 15 maggio 1954 una nave ceca scarica 2000 tonnellate di armi destinate al governo. Si tratta, a detta degli storici, di pezzi piuttosto antiquati, spesso obsoleti, inadatti a fermare una eventuale irruzione ben organizzata.
Ma è sufficiente alla Casa Bianca per etichettare di comunismo il governo di Arbenz. La CISA mette in piedi un piccolo esercito, equipaggiato con risorse americane, contatta qualche pupazzo locale come capo della ribellione e invade il paese. Viene così instaurata una dittatura, che durerà 40 anni.
A Bogotà c’è anche Ernesto Guevara, che vede tutto questo e, nella sua mente, si fissano i punti salienti della vicenda. A cominciare dalle azioni di Arbenz: c’è la necessità di ridistribuire le terre, di modo che vengano coltivate e diano da mangiare alle famiglie. C’è anche la resistenza interna dei ricchi, ma soprattutto quella delle aziende straniere, in prevalenza statunitensi. L’invasione e l’instaurarsi della dittatura ne sono conferme evidenti. Il capitalismo di cui ha letto sui testi sfocia nell’imperialismo, esattamente come aveva detto a suo tempo Lenin.
Il Guatemala offre a Guevara l’insegnamento forse più importante, lo prepara per la sua futura vita di rivoluzionario. Ma la politica di Arbenz insegna anche altro: il concetto di sovranità nazionale, da difendere ad ogni costo, sia contro invasioni straniere che contro movimenti interni, che ne minino la solidità. Una decina di anni più tardi sottolineerà questi concetti in una famosa conferenza alle Nazioni Unite. Il Guatemala è anche occasione per i contatti con le formazioni di sinistra, le discussioni sui modi per ottenere giustizia sociale. E poi l’incontro con i contadini e con la loro lotta di classe nelle campagne, tutti elementi che saranno molto preziosi.
Cresce in lui la critica agli Stati Uniti, che si proclamano la patria della democrazia, mentre in America Latina fomentano e sostengono dittature, agitando lo spettro del comunismo, semplicemente per affermare i propri interessi commerciali. Ecco un altro tema che porta alla lotta armata: l’imperialismo. E quello che soprattutto capisce dall’esperienza guatemalteca è che l’uguaglianza sociale ben difficilmente si può raggiungere con le buone. Tornano alla sua mente le teorie marxiste e leniniste che prevedono una rivoluzione, che non può essere pacifica, avendo di fronte questi nemici. É qui che il Guevara medico, studioso, viaggiatore, diventa guerrigliero e rivoluzionario. Un viaggio che lo porterà a Cuba, ma prima arriva in Messico: è il mese di settembre 1954.
In Messico: Fidel Castro
Nel frattempo, a Cuba, i ribelli guidati da Fidel e Raul Castro, attaccano la caserma Moncada, per recuperare armi e incominciare la rivoluzione. Le cose vanno malissimo. Ci sono molti morti, altrettanti arresti e solo un gruppo non numeroso riesce a scappare. Alla fine se ne vanno in Messico, per riorganizzare le fila, potenziare l’esercito rivoluzionario e organizzare una spedizione che sbarchi a Cuba e riprenda la lotta contro la dittatura di Batista. Questo fatto l’ho raccontato nell’articolo sul comunismo, che, se volete, trovate qui.
Dunque in Messico ci sono le menti della rivoluzione cubana proprio quando vi arriva Ernesto Guevara, in uno dei suoi viaggi. Ed è qui che avviene il primo contatto con questi guerriglieri, i “barbudos”, come si facevano chiamare. E loro raccontano ad Ernesto la situazione sull’isola caraibica, con le sopraffazioni, la repressione, le ingiustizie sociali molto profonde. Guevara rimane colpito da questi racconti, che si inseriscono perfettamente nel suo elenco di posti visitati e di fatti ai quali ha assistito come in Guatemala qualche tempo prima.
Del resto, se pensiamo alle rivoluzioni popolari, non c’è posto più iconico del Messico, con i suoi eroi popolari di inizio secolo, Pancho Villa e, soprattutto, Emiliano Zapata. Qui incontra un uomo che avrà un ruolo decisivo nella sua vita, Fidel Castro.
Percorsi diversi, culture diverse, origini sociali diverse, ma entrambi hanno la stessa visione del mondo diviso in sfruttatori e sfruttati, con le multinazionali e gli stati che si intromettono nelle vicende altrui, fino a determinare chi comanda e come. Beh a pensare in questo caso agli Stati Uniti non si fa certo peccato.Entrambi concordano che è necessaria una lotta, e certo non solo a parole, contro l’imperialismo statunitense. C’è un forte feeling tra i due. Guevara vede in Fidel un capo dal carisma enorme, capace di analizzare situazioni anche complicate e spiegarle con grande semplicità, dote che probabilmente gli deriva dal suo studio da avvocato. E poi conosce perfettamente la situazione politica e sociale non solo di Cuba, ma dell’intera America Latina.
Fidel, dal canto suo, trova in quel medico non solo teorie affini alle sue, ma vede anche un combattente impegnato e deciso a tutto.
Quello che più di ogni altra cosa impressiona Guevara è la visione complessiva che Castro ha in mente, così come i suoi uomini: sanno perfettamente non solo cosa vogliono abbattere, ma anche cosa vogliono costruire in cambio e sanno perfettamente come lo faranno.
Ed è così che Ernesto, piano piano, si integra in quel gruppo, che è il fulcro del “Movimento 26 Luglio”, che è proprio la data dell’attacco alla caserma Moncada. Li conosce, vive la loro stessa vita, partecipa alle riunioni in cui si parla sì di linea politica ma soprattutto dei preparativi per tornare a Cuba e abbattere finalmente il regime di Batista. La batosta subita è il segnale che serve una preparazione più meticolosa, certamente fisica, nell’uso delle armi, nelle strategie della guerriglia, ma la preparazione va oltre. Occorre, poi, stabilire in cosa verrà trasformata la società cubana una volta vinta la rivoluzione. Guevara, come detto, propende per una soluzione di tipo marxista-leninista, ha in mente la rivoluzione russa del 1917, ma si confronta con i suoi compagni di avventura, molti dei quali, come lo stesso Fidel, puntano più sul nazionalismo che su una visione comunista del futuro. Vogliamo il bene del nostro paese e dei suoi cittadini, non ci importa la filosofia e la teoria di Marx e Lenin.
La storia di Ernesto qui si fonde con quella della rivoluzione cubana, con quella di Fidel Castro, di suo fratello Raul, del fido Camilo Cienfuegos, eroe della rivoluzione.
A Cuba c’è una dittatura, quella di Fulgencio Batista, sostenuta apertamente dagli USA, un governo corrotto, complice delle multinazionali, che hanno soffocato l’economia cubana. Pochi ricchi, tra i quali molti stranieri, vivono alla grande sulle spalle di un popolo povero, con scarsi diritti e nessuna opportunità. Della situazione cubana del periodo ho detto nel già citato articolo sul comunismo e a quello rimando chi volesse saperne un po’ di più.
Ma torniamo ai preparativi: serve una imbarcazione per attraversare il mar dei Caraibi. Alla fine viene comprato uno yacht per 17 mila dollari. Non è molto grande: 20 metri e spazio per 20 persone. Il nome, Granma, nonna, non lascia spazio a molti dubbi sull’età dell’imbarcazione. Ma questo è quanto si possono permettere, così che alla fine il viaggio inizia con 82 passeggeri, fittamente stipati, ma consapevoli di andare verso un’avventura che avrebbe indirizzato le loro vite. Lo pensa anche Ernesto Guevara, che stringe una forte amicizia con un giovane rivoluzionario, Ñico López. É lui, a quanto pare, a ribattezzarlo “Che”. Questo termine non ha un significato particolare, è un intercalare tipico degli argentini, che Guevara usa continuamente. Ed è così che oggi noi ricordiamo Ernesto Guevara de la Serna semplicemente come “el Che”.
Il viaggio in mare è complicato, i tempi si allungano più del previsto. Ernesto mette a disposizione le sue competenze mediche, ma presto bisognerà fare ragionamenti diversi, le strategie, le tattiche di guerra e tutto il resto. L’arrivo a Cuba non è certo quello sognato. Non c’è nessuna popolazione ad attenderli pronta alla rivolta. Ci sono invece le truppe di Batista che fanno un massacro. Solo in pochi riescono a scappare nelle foreste sulle montagne della Serra Madre. Tra loro ci sono i capi, compresi Fidel ed Ernesto.
É un momento difficile, quello in cui tutte le conoscenze teoriche non servono a nulla se non diventano azioni concrete. Guevara è preparato in questo senso e diventa presto un leader del gruppo. É un elemento fondamentale e a lui vengono delegate diverse funzioni, dall’addestramento, sia fisico che ideologico, alla realizzazione di un efficace impianto sanitario. Bisogna istruire i “barbudos” praticamente su tutto. Le strategie della guerriglia, l’orientamento tra le boscaglie, l’uso delle armi, ma anche le motivazioni ideologiche e politiche che li hanno portati là. C’è un po’ di tutto nel gruppo, le discussioni sulle idee socialiste del Che sono frequenti. Guevara guadagna sempre più consensi fino a che …
Comandante Guevara, el Che
Dunque Guevara si inserisce nel gruppo cubano e guadagna ammirazione da parte di tutti, per la padronanza, la calma estrema in ogni situazione, anche la più difficile. Viene apprezzato molto il suo dialogo con i compagni, la sua capacità di prendere decisioni senza doverci pensare più di tanto. Viene promosso Comandante, “Comandante Che Guevara”, come recita una canzone che gli sarà dedicata qualche anno più tardi.
In questo ruolo gestisce la strategia di battaglia, le imboscate alle truppe di Batista, enormemente superiori di numero, il “mordi e fuggi” con continui spostamenti rapidi per diventare un nemico quasi invisibile. É lui, “el Che”, il maestro organizzatore di tutto questo. Diventa un punto di riferimento per i rivoluzionari cubani, quelli di vecchia data e quelli che, mano a mano, si aggiungono al Movimiento. Presto è un simbolo della lotta a Batista, un esempio, che si trasforma presto in un mito. Nonostante le molte difficoltà, cominciano le vittorie significative, a La Plata, poi a El Uvero, con la dimostrazione pratica e tangibile che la guerriglia può battere le truppe dell’esercito regolare. Le vittorie sono importanti non solo per indebolire le truppe di Batista, ma, forse soprattutto, per coinvolgere la popolazione, che vede nella rivoluzione una strada per uscire dalla propria situazione di povertà drammatica.
L’attacco decisivo avviene alla fine dell’anno 1958. Dopo le battaglie nelle foreste e nelle campagne, Fidel decide di attaccare direttamente le città. Che Guevara guida un plotone di 320 uomini verso Santa Clara, dove avviene l’episodio culminante e decisivo della rivoluzione cubana.
Che le idee di guerriglia siano tutta farina del sacco del Che non è chiarissimo. Qualche storico sostiene che in realtà Guevara contava su aiutanti di primissimo piano da questo punto di vista e che Fidel Castro lo proteggesse accusando altri delle mancanze e degli errori commessi dal Comandante, di cui aveva bisogno perché stava diventando una bandiera, un manifesto, un testimonial irrinunciabile della rivoluzione.
Sia come sia, è sotto la guida di Ernesto che viene installata nella Sierra Madre una radio, Radio Rebelde, che sarà indispensabile per la vittoria finale, in quanto connetterà i vari gruppi dell’esercito castrista e fornirà alla popolazione resoconti delle sconfitte del regime, così da invogliare il popolo a stare dalla loro parte. Radio Rebelde esiste ancora oggi ed è la radio più importante di Cuba.
La battaglia conclusiva avviene a Santa Clara, anche se a decidere le sorti del conflitto è l’azione di bloccare un treno carico di armi, munizioni e militari. Vengono requisite tutte le armi, arrestati 350 ufficiali, mentre i soldati semplici passano nelle fila del Movimiento. Un‘azione studiata e organizzata da Roberto Rodrigo Fernandez, detto El Vaquerito, che con il suo “plotone suicida” spazza via le truppe che aspettano il carico, imponendo al treno di cambiare percorso, facilitando così il compito alle truppe del Che. El Vaquerito, in questa azione, perde la vita e diventa uno dei grandi eroi della rivoluzione cubana.
Una settimana più tardi i “barbudos” entrano a L’Avana e Fidel Castro prende il potere.
É qui che nasce la leggenda, il mito del Comandante Che Guevara. A Santa Clara una sua statua guarda la piazza della città. Ma non si può ridurre l’importanza di Ernesto solo a questo. La sua azione è assai più completa ed è rivolta alle relazioni che stabilisce da una parte con il popolo e dall’altra con altre formazioni rivoluzionarie che riesce a coinvolgere. Il popolo si convince non solo per la diplomazia di Guevara, ma anche per la sua opera concreta, fornendo assistenza medica ai campesinos, una specie di anticipazione delle intenzioni del nuovo corso del governo dell’isola.
“Fare pulizia” a Cuba
E, in effetti, finite le battaglie, c’è un paese da rimettere in sesto, in cui l’economia è ancora dominata dagli stranieri, i latifondi si sprecano, i poveri sono dappertutto.
Ma prima occorre fare pulizia. Possiamo storcere il naso finché vogliamo, ma questa è la storia della rivoluzione. Al nemico, battuto sui campi di battaglia, non si può concedere la possibilità di riprendersi. Fidel Castro nomina Che Guevara presidente del tribunale politico che si insedia nella roccaforte militare de La
Cabaña. Per alcuni mesi sfilano i responsabili di più o meno alto livello del precedente regime. Ci sono centinaia di condanne a morte. Guevara dirà che la violenza non è prerogativa dei tiranni, anche i ribelli la possono usare se serve a salvaguardare il bene di Cuba. Non è un periodo edificante per il nuovo governo. Ci sono anche altri processi altrove, a volte pubblici, con molti spettatori e pochi testimoni, non sempre credibili. Ci sono sentenze al termine di processi sommari e le fucilazioni diventano una triste consuetudine. A La Cabaña ci sono circa 400 esecuzioni, nel resto del paese sono molte di più.
Subito dopo la conquista del potere, il governo rivoluzionario emana una serie di riforme di grande portata. Quella urbana riesce a riorganizzare l’assegnazione degli alloggi e diminuire gli affitti. Ma è quella agraria a dare l’imprinting al nuovo corso politico. Ci sono due riforme agrarie, una del 1959 e una quattro anni più tardi, assai diverse tra loro. Cominciamo dalla prima. Essa non ha alcun iter all’interno dei gruppi rivoluzionari e tanto meno tra i contadini che, una mattina, si ritrovano con questa legge emanata e in vigore. Viene stilata in alcuni incontri tra elementi del partito comunista e rappresentanti del Movimiento, avvenuti a casa di Che Guevara. Una riforma durissima, che abolisce di fatto ogni forma di latifondo, ridistribuendo le terre ai contadini. Il popolo appoggia questa riforma, ma non partecipa in alcun modo alla sua definizione. Nel 1963, Fidel Castro emana una seconda riforma che riduce gli appezzamenti che ogni contadino può lavorare da 402 a 67 acri, espandendo notevolmente le Granjas del Pueblo fino a farle diventare la principale istituzione dell’agricoltura cubana. Si tratta di tenute appartenenti allo Stato, create dall’INRA (Istituto Nazionale per la Riforma Agraria) con lo scopo di accorpare le terre dei grandi latifondi confiscati. Il modello si avvicina dunque a quello sovietico di agricoltura collettivizzata.
Fidel Castro assegna proprio al Che l’incarico di portare a termine questa nuova legge. É evidente che le confische non possono far piacere ai proprietari terrieri, nemmeno ai cubani più ricchi, figurarsi a quelli stranieri. Questi ultimi vengono colpiti dalla riforma anche con un editto che proibisce agli stranieri di possedere piantagioni di zucchero. É vero che lo zucchero è l’asset più importante dell’isola, ma Cuba non può vivere di solo zucchero. E allora?
Cuba: politica tra USA e URSS
Ernesto Guevara, dunque, si rende conto che non si può sopravvivere solo con lo zucchero. Bisogna diversificare la produzione, allargare la produzione ad altri settori, come quello tessile. Tutte queste novità hanno bisogno di lavoratori che non siano solo professionalmente adatti, ma anche consapevoli del loro nuovo ruolo. Devono rendersi conto di essere protagonisti, coinvolti nel bene e nel male nell’azienda per cui lavorano. Per questo serve che siano istruiti. Dà a questo aspetto una importanza enorme, perché non si tratta solo di saper leggere e scrivere, ma di creare un sistema educativo che prepari i cittadini a partecipare attivamente alla costruzione di una società socialista. Sotto la sua influenza vengono sviluppati nuovi programmi di studio e metodi pedagogici e create opportunità educative per tutti, indipendentemente dal contesto sociale o economico. Ernesto capisce che l’istruzione è un potente motore per l’uguaglianza sociale e un elemento essenziale nella lotta contro la povertà e l’oppressione.
L’economia è comunque centralizzata con lo stato che diventa il padrone del vapore. Forse questa scelta può non piacere a qualcuno, ma la situazione ereditata da Batista non permette molta scelta.
L’intenzione di Guevara è quella di chiudere con quelle che chiama “ambizioni imperialiste”. Impiega 100 mila uomini per far rispettare le confische della terra. Inutile dire che le aziende più colpite sono quelle statunitensi, che possiedono quasi mezzo milione di acri nell’isola. La reazione di Washington è immediata. Il presidente Eisenhower impone una riduzione drastica delle importazioni di zucchero da Cuba. In questo modo viene a crollare l’unico mercato che fino a quel momento era aperto. Guevara cerca di risolvere la situazione con un viaggio lungo, toccando molti paesi dal Giappone alla Jugoslavia, dal Sudan all’India.
All'inizio del 1961 gli Stati Uniti interrompono tutte le relazioni diplomatiche con Cuba, che però ha bisogno di alleati che sostengano la rivoluzione e la ricostruzione del paese. L’attenzione è rivolta verso nazioni che abbiano una visione simile, una visione socialista. Ed è così che al primo posto non può che esserci l’Unione Sovietica, retta, all’epoca, da Nikita Kruscev. Guevara stringe accordi commerciali e politici, invita l’URSS ad investire sulla canna da zucchero in cambio di carburante e di armamenti, anche se quelli che arrivano sono carri armati e jet da combattimento piuttosto vecchi.
La situazione economica cubana è comunque disastrosa. Guevara se ne rende conto e nel 1961 a Punta del Este in Uruguay partecipa ad una conferenza internazionale. Qui ha un lungo colloquio con Richard Goodwin, uno stretto collaboratore del presidente John Kennedy, al quale, dopo avergli regalato una scatola di sigari, presenta una lettera nella quale prospetta un accordo: la riduzione della pressione economica e militare degli USA in cambio di una svolta democratica a Cuba, mantenendo tuttavia le conquiste (soprattutto sociali) della rivoluzione. Kennedy non solo rifiuta l’accordo, ma inasprisce le sanzioni con tro l’isola.
Il rifiuto porta Castro ad aumentare la dipendenza da Mosca e non sono pochi i commentatori e gli storici che vedono in quel rifiuto di Kennedy la causa della famosa crisi dei missili. Forse, se il presidente USA avesse accettato, quei quattro giorni in cui il mondo ha tremato, temendo un conflitto nucleare tra le due superpotenze, si sarebbero evitati.
La baia dei Porci
I rapporti Usa-Cuba non potrebbero essere più tesi. Il culmine si raggiunge nell’aprile del 1961, quando una brigata di profugi cubani, sostenuti con tutti i mezzi dalla CIA, sbarca a Cuba con l’intento di rovesciare il regime di Castro. Sono tranquilli, perché pensano di avere alle spalle l’enorme potenza militare degli Stati Uniti. Ma Kennedy non muove un dito. Kruscev l’aveva avvertito che l'Unione Sovietica avrebbe "fornito al popolo cubano e al suo governo tutto l'aiuto necessario per respingere un attacco armato a Cuba”. Così, mentre gli Stati Uniti si defilano, rimane in piedi solo quella brigata che, sbarcata alla Baia dei Porci, viene spazzata via dai soldati del Che in 48 ore. Guevara ringrazierà sarcasticamente Goodwin, perché quell’azione aveva reso il movimento rivoluzionario cubano più forte che mai. Questa vicenda verrà inserita, e raccontata nei dettagli, in una futura puntata di NSSI, quando vi parlerò delle azioni che la CIA ha compiuto nei paesi stranieri a tutela degli interessi commerciali americani, con la scusa di combattere il comunismo.
Quel fallito colpo di stato spinge Cuba ancora più tra le braccia del Cremlino. Kennedy se ne accorge bene il 14 ottobre 1962, quando un aereo da ricognizione individua diversi SAM (missili terra-aria) russi in costruzione sull'isola. Nasce così la vicenda della crisi dei missili, risolta alla fine dal passo indietro compiuto da Kruscev, che ordina alle navi di riportare tutto a casa.
Economia e finanza … quanto ne sa?
Torneremo su questo punto un po’ più avanti. C’è un altro aspetto da valutare nella vita politica di Che Guevara a Cuba. Castro, infatti, lo nomina ministro dell’industria e presidente della banca nazionale, due compiti per i quali il guerrigliero non sembra essere molto attrezzato. Sopperisce a queste carenze con l’esempio, facendosi vedere ogni giorno nei campi a tagliare canne o in fabbrica a lavorare da operaio. Chiede ai cubani, che certo non se la passano benissimo, un “nobile sacrificio” che migliorerà la vita dei loro figli e nipoti. Ma le sole macchine disponibili sono quelle che le industrie statunitensi avevano portato sull’isola. Piano piano, diventano vecchie, obsolete e per ripararle mancano i pezzi di ricambio. Vale per tutto, anche per le automobili, gli elettrodomestici ... A Cuba sembra di essere in un film americano degli anni ’50: macchine lunghe così che si trascinano lungo le strade, rattoppate spesso alla bene e meglio. Guevara non ha molta scelta. Se vuole davvero realizzare il suo sogno, deve rivolgeri all’unico alleato in grado di dare una mano, l’Unione Sovietica. Questa sembra essere un’avanguardia tecnologica, in lotta con gli Stati Uniti in molti settori, quello missilistico, quello spaziale, quello nucleare, quello culturale e tecnico. Ma a Cuba arriva un cumulo di macchine inadatte, superate, non in grado di provocare quella scintilla tecnologica di cui Cuba ha terribilmente bisogno. Guevara ha in mente una visione socialista perfetta, quella che coniughi l’industrializzazione con un’autonomia economica che migliori il tenore di vita del popolo. Già ... il popolo: si trova a dover fare un triplo salto mortale da una società contadina arcaica ad una società moderna, industrializzata, istruita, efficiente ed efficace. E, per di più, in tempi brevissimi. Non a tutti i cubani questa impostazione sta bene e i lamenti si cominciano a percepire. Guevara non ascolta nessuno, tracciata una via, segue quella fino in fondo. Con quali risultati?
Le critiche a Mosca e i primi dissensi con Fidel
Tutti questi eventi, dal ritiro dei missili al fallimento industriale fanno crescere in Guevara una forte delusione per quello che considera un tradimento da parte di Mosca. Dopo aver accusato alle NU gli Stati Uniti non solo di imperialismo, ma anche di “politiche brutali”, riferendosi in particolare ai diritti negati e alla segregazione razziale, parte per un lungo tour in Europa, Asia e Africa. Ad Algeri, è il gennaio 1965, spiega ai delegati la differenza tra il comunismo cinese di Mao, che esalta, e quello sovietico, che accusa di “sfruttamento immorale” dei paesi del terzo mondo e di una esagerata e assureda burocrazia. Del resto, l’intervento dell’Armata Rossa in Ungheria e Cecoslovacchia stanno a dimostrare quello che Guevara chiama “complicità nello sfruttamento imperialista”. Questa uscita non piace a Fidel Castro e, quando il Che torna a Cuba, viene redarguito dal lider maximo, spiegandogli che non è possibile perdere gli appoggi economici e militari dell’Unione Sovietica. É uno dei punti che dividono i due esponenti della rivoluzione e che sarà alla base della partenza di Guevara da L’Avana.
Nella mente del Che si apre un nuovo capitolo. Se Mosca ci tratta in questo modo, bisogna rivovlgersi ad altre nazioni che abbiano lo stesso modello di sviluppo socialista. Ma in giro, a parte quelle sottomesse a Mosca, non ce ne sono molte. É così che Guevara pensa che sia necessario fomentare la rivoluzione in altri paesi, dove sia presente un nucleo in grado di scatenare la rivolta e prendere il potere. Insomma di replicare quanto avvenunto a Cuba negli anni ’50.
La “teoria del foco”
Come mai Guevara ha questa idea in testa? Lo capiamo leggendo uno dei suoi libri più conosciuti e significativi, pubblicato nel 1961, “La guerra di guerriglia”, che sarà tradotto in italiano da Adele Faccio nel 1994. Qui il Che non racconta la sua storia, è piuttosto una specie di manuale del guerrigliero, in cui compaiono tattiche, strategie, comportamenti, relazioni con il popolo e tutto il resto. É qui che nasce quella “teoria del foco”, che si basa sull’azione di un piccolo gruppo, un focolaio di guerriglia appunto, una specie di miccia che piano piano riesce a far scoppiare la rivoluzione. Una strategia valida particolarmente per i paesi arretrati, avendo come protagonisti i contadini. Questa teoria, che ha avuto successo a Cuba, altrove non porterà a risultati positivi, come vedremo tra breve.
La figura del guerrigliero delineata da Guevara è mille miglia lontana da quella di certi rivoluzionari che vediamo nei film, tutto coraggio e azione. Il guerrigliero deve avere a cuore la terra e la gente in cui opera, deve pensare al futuro, a cosa fare una volta ottennuta la vittoria. Se si vuole davvero vincere bisogna legare l’avanguardia (il foquismo appunto) alla partecipazione del popolo. Non è solo lo stato che deve cambiare, ma l’individuo, invaso da un forte senso di solidarietà e di impegno per il benessere di tutti. É questo quello che chiama l’Uomo Nuovo, che rivolge lo sguardo anche fuori dai propri confini, verso i fratelli in difficoltà.
L’internazionalismo e il desiderio di creare partner socialisti altrove, porta Che Guevara a partire per nuove avventure.
Fidel Castro racconterà che una prima richiesta d’aiuto era arrivata dai rivoluzionari del Congo, dove aveva spedito un gruppo di addestratori guidati da Che Guevara. Una missione voluta dal Che, della quale tuttavia Fidel non si fida per niente, così scrive una lettera, rimasta segreta, nella quale si dissocia. Non si sa mai. Potrebbe servire nel caso di una crisi con Mosca o con le Nazioni Unite.
Castro si spinge oltre. In un discorso a L’Avana, rende pubblica una lettera che il Che gli ha consegnato, nella quale sostiene di aver esaurito il suo compito a Cuba e lo saluta con affetto. Ma Guevara non sa nulla di tutto questo, non c’era nessun accordo sulla pubblicazione delle sue intenzioni. Quella uscita di Fidel gli rende le cose difficili. Dalla giungla africana non sa se potrà tornare a Cuba e si sente tradito da quello che considera più di un fratello. Da questo momento entra in clandestinità.
L’avventura in Congo è deludente. Le sue teorie sul foquismo non funzionano. Non siamo a Cuba, è tutto diverso: la lingua, la cultura dei ribelli, le divisioni tra i vari gruppi, la difficoltà nel convincere la popolazione ad unirsi a loro. É tutto così complicato che, nonostante la buona volontà, decide di arrendersi e di ritirarsi.
É qui che capisce che una rivoluzione che ha avuto successo in uno stato non può semplicemente essere esportata come fosse un pacco. Che Guevara ha molte altre collaborazioni, ma lo fa scrivendo ai movimenti, fornendo suggerimenti, rispondendo alle domande. Questo lo fa conoscere in tutto il mondo, lo fa diventare un punto di riferimento per ogni movimento ribelle.
Bolivia … fine della corsa
L’ultimo atto si recita in Bolivia. É una situazione diversa dal Congo. C’è un regime fortemente sostenuto dagli Stati Uniti. C’è un partito comunista, un forte sindacato, un movimento studentesco effervescente, un’ampia società contadina. Un ambiente che sembra promettere bene. Arriva nel sud del paese con 12 guerriglieri. Getta un campo base da dove iniziare la guerriglia: è il famoso “foco”, il focolaio della rivolta. Ma le cose non vanno bene. Il partito comunista si defila, i contadini non si fidano di quegli stranieri, l’esercito avversario è numeroso, ben addestrato ed equipaggiato. Hanno il supporto di esperti in antiguerriglia della CIA. Guevara applica il suo schema: mordi e fuggi, si sposta continuamente, non è facile da rintracciare, ottiene qualche vittoria,ma poi commette un errore: invita tre illustri uomini di sinistra stranieri. Non sono guerriglieri, non sono addestrati, e vengono catturati. Non sono eroi e la tortura ha un rapido effetto. Il pittore argentino Ciro Roberto Bustos e, il marxista francese Jules Regis Debray, interrogati dalla CIA, forniscono preziose informazioni sull’esercito ribelle. Bustos disegna anche ritratti del Che e mappe dei luoghi frequentati dai rivoltosi. Così vengono scoperti depositi di armi e documenti dei rivoluzionari. La sproporzione tra i due schieramenti porta all’unica conseguenza logica, la sconfitta. Il regime non solo si mostra più forte sui campi di battaglia, ma anche nella strategia nei confronti della popolazione, minacciata di gravi conseguenze se avesse parteggiato per i rivoltosi. C’è una taglia di 50 mila pesos sulla testa del Che. Un contadino ne approfitta e racconta tutto quello che sa. É sufficiente: lo sparuto esercito ribelle viene circondato.
Vicino alla cittadina di La Higuera la battaglia finale conclude la rivoluzione boliviana, e purtroppo anche la vita di Ernesto Che Guevara.
Sono rimasti in pochi, la maggior parte sono stati uccisi. Da un canalone escono in due. Il comandante del drappello che li intercetta, Gary Prado, capisce che uno è straniero e gli chiede chi è. “Sono Che Guevara e per te valgo più da vivo che da morto”.
La task force che insegue Guevara è comandata da Felix Rodriguez, agente CIA. Ci sono intenzioni diverse su come procedere adesso. Il governo boliviano vuole sopprimere il prigioniero e non pensarci più, gli americani vorrebbero tenerlo in vita, processarlo pubblicamente per far diventare quell’evento un atto di accusa mondiale contro il regime castrista. Ma Rene Barrientos, capo dell’esercito boliviano, ha spifferato ai quattro venti che il Che è stato ucciso in battaglia e quindi non può essere lasciato in vita per non far fare al governo una brutta figura. Così da La Paz arriva l’ordine di ammazzare Guevara. É un prigioniero. Si tratta di un assassinio a tutti gli effetti.
Il giorno seguente, alle 13.00, avviene l’esecuzione. Si estrae a sorte il nome di chi dovrà eseguire la sentenza. Tocca al sergente Mario Teràn, che ha ordini precisi: nessun colpo alla testa. Il corpo crivellato di colpi sarà testimonianza migliore di una morte durante un combattimento. Così avviene e Ernesto Che Guevara non muore all’istante, muore dissanguato. É il 9 ottobre 1967.
Dopo la morte
Il suo corpo viene traferito a Vallegrande, dove viene lavato ed esposto alla visione dei fotografi e degli abitanti, incuriositi da una notizia così importante. Un soldato lo prende per i capelli e ne solleva più volte il capo per mostrare che è proprio lui, il Comandante Ernesto Che Guevara.
Ma la questione è ben lontana dall’essere finita. C’è il corpo, cosa farne? Non si può dargli una sepoltura pubblica o comunque assegnargli una tomba identificabile: diventerebbe una specie di santuario, meta di pellegrinaggio. Così viene seppellito, assieme ad alcuni suoi soldati, in una fossa senza nome nei pressi dell’aeroporto di Vallegrande. In questo modo si intende cancellare, oltre alla vita, anche la memoria di quel rivoluzionario.
C’è dell’altro: temendo che, un giorno, qualcuno possa dubitare della morte del Che, gli vengono tagliate le mani e conservate in due contenitori di formaldeide, così da poter dimostrare che, effettivamente, il Comandante, non c’è più.
Passano trent’anni prima che un antropologo cubano riesca ad individuare la tomba con i resti del Che: è il 2 giugno 1997. Il 17 ottobre di quell’anno, con una manifestazione grandiosa, il corpo di Ernesto Guevara, il Che, il Comandante, viene tumulato, assieme a quello di sei suoi compagni uccisi in Bolivia, in un mausoleo appositamente costruito nella città di Santa Clara. Proprio là dove lui e le sue truppe avevano costruito la battaglia decisiva per la vittoria della rivoluzione cubana. Sulla tomba una scritta, “Hasta la victoria siempre!”.
E dunque, come concludere?
É sempre difficile trarre conclusioni dalla vita di un personaggio così discusso e divisivo come Che Guevara.
Potremmo usare le parole dello storico Mike Gonzales, che scrive: “La vita di Guevara è un esempio di coerenza estrema e di sacrificio e di eroismo, ma spesso le idee che alimentavano le sue battaglie erano ingenue, a volte sbagliate e non offrivano un modello per creare un movimento rivoluzionario per le generazioni a venire. Guevara incarnò lo spirito e il desiderio di cambiare il mondo, ma forse non elaborò un sistema valido per mettere in atto questo progetto”.
Ed è sicuramente così, perché molte critiche possono essere fatte alle sue decisioni, allo stesso scopo che ha dato alla sua esistenza. Ma rimane il fatto che è considerato un simbolo della lotta globale per l’uguaglianza e la giustizia sociale. La sua vita e il suo messaggio hanno ispirato generazioni di attivisti, da quelli coinvolti nella lotta contro l’oppressione e la disuguaglianza a quelli che difendono la giustizia ambientale e i diritti umani. Del Che non si può non apprezzare la lealtà verso i principi che lo hanno ispirato a diventare il più grande rivoluzionario di ogni tempo. Sicuramente lo è stato per fama, appeal, carisma, prestigio, che ancora oggi è presente ovunque nel mondo. Anche su quella maglietta comprata al mercato.
…
Quando il Che lascia Cuba per non tornare più è un momento di grande emozione per il popolo cubano. Nascerà una canzone, dedicata a quel momento. Dirà quello che tutti i cubani pensavano e pensano ancora. Se il corpo di Ernesto è lontano, la sua presenza è ancora là, nell’amata patria:
Aquí se queda la clara - La entrañable transparencia - de tu querida presencia – Comandante Che Guevara
Qui rimane la chiara, accattivante trasparenza della tua amata presenza, Comandante Che Guevara.
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FONTI:
Ernesto Guevara, La guerra di Guerriglia, Feltrinelli, 1967
Ernesto Guevara, Latinoamericana, I diari della motocicletta, Mondadori 2021
Jean Cornmier, Hilda Guevara, Alberto Granado, La vera storia del Che, Rizzoli, 2004
Adalberto Cirilo Ramos Alfonso, Che Guevara, BookRix, 2023
Michael Lowy, Il pensiero del Che Guevara, ND, 1969
Christina Grey, La historia de Che Guevara: El soñador Revolucionario, 2023
Jon Lee Anderson, Che Guevara, Fandango ed., 2009
Brian Liegel, “Creating” Che, 2012
Video:
Gianni Minà, Fidel Castro racconta Ernesto Che Guevara (Intervista del 1987)
I diari della motocicletta, film 2004
Arrigo Levi, Quel giorno, morte di Che Guevara, 1970

Vedremo, ma solo alla fine, che un filo conduttore queste vicende ce l’hanno o, quanto meno, potrebbero averlo, perché, ancora una volta, il mistero è piuttosto fitto.
Argo 16
La prima storia che voglio raccontarvi è un’altra questione misteriosa, una di quelle in cui ci sono morti, pochi per fortune, anche se potevano essere molti, molti di più e, ancora una volta ci sono indagini poco affidabili e processi che non portano a nessuna verità. Del resto, credo che chi mi segue sia abituato a sentirsi raccontare casi di questo tipo e comunque fa parte della storia del nostro paese il fatto che avvenimenti di enorme portata sono ancora avvolti nella nebbia del dubbio e del mistero.Introduzione

Credo che tra gli ascoltatori ci sia chi ha partecipato alle azioni del partito comunista italiano. Di questo parlerò tuttavia poco, avendo dedicato, a suo tempo, un’intera puntata ad Enrico Berlinguer. E a quella rimando per chi fosse interessato (LINK).
Un solo chiarimento prima di cominciare. Non c’è, qui, nessuna intenzione di inneggiare al comunismo o, al contrario, di denigrarne i fondamenti. Cerco di essere semplicemente fedele narratore di quanto è successo, perché, come dico sempre, la storia è storia e non si può modificarla a piacimento. Fissati dunque i paletti e supponendo che siate convinti della mia onestà intellettuale, possiamo cominciare.
Quando parliamo di società comunista (ma anche socialista o anarchica), l’obiezione che sentiamo subito è che “si tratta di un’utopia”.
E ci scontriamo subito con il problema più arduo, vale a dire la distinzione tra le proposte teoriche e le realizzazioni pratiche. Dovremo chiederci, insomma, se esista o se sia esistita qualche società che ha messo in pratica i dettami del comunismo, quello dei suoi padri. Cercherò di dare alcune risposte a questo quesito che è, alla fine, quello cruciale. Ma prima andiamo molto indietro nel tempo, perché le società utopiche non nascono certo con Marx ed Engels.
Società utopiche
La domanda è: sono mai esistite società utopiche? E poi, cosa significa utopia, in questo caso?Banalizzando al massimo, in questo caso l’utopia è quella di un governo del popolo, ma non quello nostro che vota ogni tanto, lasciando poi che gli eletti facciano quello che vogliono. Intendo che è il popolo a proporre e a decidere le leggi con una sorta di democrazia diretta. Ma anche di più. L’altro aspetto è quello della messa in comune dei beni, della condivisione dei mezzi di produzione, delle terre da coltivare, delle risorse del paese. É un aspetto che troviamo sia nel comunismo primitivo che nell’anarchismo. Vediamo qualche esempio.
Uno dei primi ad immaginare una società utopica è il filosofo greco Platone, che, attorno al 375 a.C. scrive quella La Repubblica. Nei 10 libri di cui si compone, ci offre molti spunti di vario genere. Quello che qui ci interessa è il suo concetto di “Stato ideale” (o Città ideale). E non è nemmeno il primo, perché, anche leggendo la bibbia si incontrano suggerimenti idealistici, come avviene ad esempio nella Genesi a proposito della torre di Babele.

Un esempio più concreto si ha dopo la morte di Gesù di Nazareth, secondo quello che le scritture raccontano. La Chiesa primitiva, sorta a Gerusalemme, ha instaurato proprio questo sistema di condivisione dei beni ed è chiaramente la trasposizione dei dettami della predicazione del Cristo, così come appare dai Vangeli.
A proposito di religiosi che hanno cercato di organizzare società prive di proprietà privata, possiamo ricordare i Valdesi, o anche i dolciniani, guidati da fra Dolcino. Alla Chiesa questi movimenti non sono piaciuti per niente, tanto che il povero fra Dolcino finisce bruciato vivo sul rogo nel 1307.
Rivolte, dovute alla situazione grave in cui le classi più povere vivono, si ripetono in vari stati. In Inghilterra la rivolta dei contadini, la Jaquerie in Francia o il tumulto dei Ciompi a Firenze.
Questo non significa affatto che il comunismo è nato nel 1300 o prima, ma che ci sono stati molti movimenti che hanno cercato di modificare la situazione in meglio puntando verso una situazione utopica, sostituendo la distanza tra ricchi e poveri, con una giusta ed equa distribuzione dei beni.
Nell’elenco di chi ha proposto città ideali, utopiche, che possiamo chiamare “proto-comuniste”, ci sono due filosofi importanti. L’inglese Thomas Moore, latinizzato poi in Tommaso Moro e Tommaso Campanella.
Il primo descrive, nel suo trattato “Utopia”, una società basata sulla proprietà comune delle risorse, amministrate attraverso l'applicazione della ragione e non del profitto. Questa idea trova anche applicazione pratica in varie località inglesi, dove i Diggers, cioè gli zappatori, si uniscono per lavorare la terra secondo principi comunitari, senza quindi alcun concetto di proprietà privata o personale.
Tommaso Campanella inventa una “Città del Sole” in cui tutto funziona alla perfezione.
Gli abitanti non conoscono gli egoismi, gli orrori della guerra e della fame e le violenze che ci sono nel resto del mondo. La città è organizzata in modo totalmente razionale. Essa viene controllata da un gruppo di persone chiamate "offiziali" che vigilano continuamente in modo che nessuno possa compiere azioni non giuste nei confronti di altri cittadini.
Ma questa è solo un’opera letteraria, nessuna sua applicazione reale è mai esistita.
Quello che conta è che di società utopiche, descritte o realizzate, anche se per breve tempo e poi soffocate dal potere, ne sono esistite. Possiamo pensare a queste esperienze come alle prime immagini di comunismo, anche se il termine comparirà solo due secoli più tardi, all’inizio dell’800, e sempre in trattati utopici.
Utopie appunto, distrutte dall’indole dell’uomo di possedere mezzi, denaro e potere. Nascono così disuguaglianze, i ricchi e i poveri e, perché questo status regga, occorre che i ricchi prendano tutto quello che possono, lasciando i poveri in braghe di tela. Questa divisione aumenta nel tempo e non occorre tornare al medioevo con una classe dominante di prìncipi, feudatari e cavalieri e con una plebe alla fame, se non addirittura in schiavitù.
E adesso il nostro viaggio può cominciare. Ci trasferiamo nell’ultima parte del 1'700, in Inghilterra.
Rivoluzione industriale: borghesia e proletariato
Il nostro viaggio può cominciare verso l’ultimo scorcio del 18° secolo, quando avviene la rivoluzione industriale, prima in Inghilterra e poi negli altri paesi del continente. É una trasformazione epocale, enorme, che cambia ogni cosa da tutti i punti di vista. L’introduzione delle macchine a vapore prima e dell’elettricità poi, porta ad una industrializzazione che si autoalimenta. Tutti i settori produttivi e dei servizi ne sono coinvolti e con essi, come potrebbe essere diversamente, cambia anche profondamente la società tutta.
I commercianti sfruttano gli introiti provenienti dalle merci che riescono a recuperare dalle colonie a prezzi non esorbitanti e, rivendendole in patria, possono investire in nuove tecniche di produzione, più moderne e sicuramente più remunerative. É un passaggio cruciale che porta la società contadina a dover fare i conti con un progressivo aumento di produzione dei beni per altra via, nelle fabbriche, che sostituiscono il lavoro manuale con quello delle macchine.
E poi, in Inghilterra, si mette di mezzo anche la legislazione, che approva una serie di Enclosures Acts, letteralmente “leggi sulle recinzioni” che di fatto tolgono ai contadini una grande fetta di terre da coltivare, favorendo i proprietari terrieri. E così i piccoli agricoltori si trovano costretti a cambiare mestiere e a spostarsi in città, diventando la nuova forza lavoro impiegata nelle fabbriche.
In tutto questo non possiamo dimenticare l’aspetto scientifico o tecnico se preferite, con l’invenzione delle macchine a vapore, grazie al genio di un fabbro inglese, Thomas Newcomen all’inizio del secolo 18°, macchine rese efficienti 50 anni più tardi dal senso pratico dell’ingegnere James Watt. É un passaggio fondamentale che dà una spinta decisiva all’industrializzazione. La società cambia: cresce una classe operaia sempre più numerosa. Le campagne si svuotano e si riempiono le città, dove crescono fabbriche di ogni genere, dando il via al lungo processo che porterà all’attuale società dei consumi. Alcuni lavori spariscono o sono ridotti a pochi isolati casi e altri nuovi si materializzano. Cresce un benessere generale, perché ci sono più beni da scambiare, da vendere e comprare, ma questo benessere non è per tutti e, soprattutto, non è gratuito: lo paga una classe operaia sfruttata e malpagata, senza diritti, con turni esasperanti di lavoro, soggetta ai voleri non sempre logici e quasi mai benevoli dei padroni.
É una situazione intollerabile per moltissime persone, perché i ricchi sono enormemente meno dei poveri e degli sfruttati. Una simile società è ingiusta e a qualcuno comincia a balenare l’idea che debba essere cambiata. Già, cambiata … ma come?
Bisogna costruire una strategia di intervento, capire come e cosa si possa fare per sovvertire questa divisione sempre più marcata tra ricchi e poveri. Si parla di classi sociali, quella dei lavoratori nelle fabbriche e dei contadini è all’ultimo gradino della scala.
Nascono nuovi termini. I borghesi sono quelli che hanno in mano il potere economico e politico, i proletari tutti gli altri. Il termine “proletario” deriva dal latino. Nell’antica Roma chi non possedeva niente veniva censito solo se possedeva figli, cioè prole, da qui il termine proletario. I borghesi invece sono quelli che possiedono qualcosa, probabilmente è di derivazione medioevale e deriva da burgos, borgo, paese, forse quelli che vivevano all’interno del borgo, forse nei castelli e quindi detentori del potere. Ma questa derivazione è molto incerta. Quello che conta, per noi è che la borghesia, nata con la rivoluzione industriale, è quella che possiede e gestisce i mezzi di produzione.
Analisi della società: da Hegel a Marx

Nel 1848, due filosofi tedeschi danno alle stampe un libretto propagandistico, che diventerà uno dei più famosi mai pubblicati: Il Manifesto del Partito Comunista. Karl Marx e Friedrich Engels fanno parte della “Lega dei giusti”, organizzazione operaia clandestina, che, quando, nel 1847, diventa “Lega dei comunisti”, adotta il motto “Proletari di tutti i paesi, unitevi!” e dà a Marx e Engels l’incarico di scrivere un manifesto, sull’indicazione del primo articolo dello statuto della Lega, che si pone come obiettivo “l'abbattimento della borghesia, il dominio del proletariato, la liquidazione della vecchia società borghese, basata sugli antagonismi di classe e la fondazione di una nuova società senza classi e senza proprietà privata”.
Il compito non è semplice, perché un simile obiettivo, di portata straordinaria, non si può basare su slogan o urla. Serve un’analisi, storica e sociale, che affronti tutti gli aspetti dell’economia, della produzione, dei rapporti tra le classi. Il “Manifesto” è questo, è la proposta di una società diversa, migliore nelle intenzioni, e dei modi per realizzarla. Karl Marx scriverà altre opere importanti, tra cui “Il Capitale”, tre volumi che disegnano una critica dell’economia politica. Il comunismo moderno nasce qui, una filosofia marxista che conterà seguaci in larga parte del mondo. Le domande che possiamo porci sono due: “Cosa vuole Marx?” e poi “Come si modifica il marxismo nelle successive esperienze concrete?”
É una bella domanda.
Cosa vuole Karl Marx?
Per capire se le idee di Karl Marx e Friedrich Engels possono trovare applicazione pratica, è necessario cominciare dall’inizio, dalla dichiarazione di intenti di Marx, che apre il Manifesto così:“Uno spettro si aggira per l'Europa - lo spettro del comunismo. Tutte le potenze della vecchia Europa, il papa e lo zar, Metternich e Guizot, radicali francesi e poliziotti tedeschi, si sono alleati in una santa caccia spietata contro questo spettro”.
Bisogna che cominciamo a prendere contatto con i nuovi termini. Sicuramente uno è comunismo, che è poi l’argomento di questo articolo, ma nel Manifesto ce n’è un altro, “partito”. Marx fa capire che per cambiare la società, perché le sue idee trovino applicazione, c’è bisogno dell’aggregazione dei comunisti e cioè la necessità di organizzarsi in una formazione politica con tanto di progetto da produrre, condividere e realizzare.
Questo succederà davvero, ma ci vorrà un bel po’ di tempo perché il proletariato si organizzi in questo senso. Accade quando nasce il Partito Socialdemocratico di Germania (SPD Sozialdemokratische Partei Deutschlands). Come si nota qui ci sono un sacco di definizioni differenti: socialismo, socialdemocrazia, comunismo e, siccome i termini sono importanti, con Marx ancora vivo, si parla diffusamente di marxismo come sinonimo di comunismo.
L’opera di Marx è monumentale perché affronta ogni aspetto della società tutta, la analizza e non si limita ad evidenziarne i difetti, ma propone soluzioni alternative, perché ci sia meno ingiustizia e più equilibrio. Perché gli uomini siano uguali. Ma questa, l’uguaglianza, è solo un mezzo per arrivare alla vetta delle conquiste: la libertà. Libertà che manca a chi è ostaggio dei potenti, dei ricchi; manca ai proletari, agli operai, ai contadini.
Qui non si tratta di dire che Marx è stato bravo o un povero illuso. La sua opera fa parte della storia che sto raccontando e come tale la propongo.
Materialismo, plusvalore, rivoluzione
La differenza fondamentale tra l’analisi di Hegel e quella di Marx è che quella di quest’ultimo è basata sul materialismo. In sostanza, dice Marx, la realtà non si compone di belle parole e di teorie, ma è fatta di cose concrete, di bisogni, di desideri, di appetiti e quindi, in ultima analisi di lavoro e di denaro. Di cose materiali appunto!Ecco allora che bisogna guardare a chi queste cose concrete, materiali, possiede e a chi non le possiede ma vorrebbe averle. La società è divisa in classi: chi ha e chi vorrebbe avere. Questa divisione scatena quella lotta di classe, che è portata avanti dagli uomini e certo non dalle idee o dalle teorie. Quando viene scritto “Proletari di tutti i paesi unitevi” significa che, per cambiare la storia e il mondo, serve un’azione collettiva. Un’azione che sovverta la situazione, che permetta alla classe debole, al proletariato di avere quelle cose di cui ha bisogno. Come ci si arriva? Attraverso una rivoluzione!
La storia ci insegna che questa divisione è sempre esistita, anche se si è manifestata in forme differenti. Sono le condizioni economiche a determinare non solo la vita delle persone. ma anche il tipo di governo, le gerarchie sociali, le leggi, le istituzioni politiche.
Nell’antichità questo avveniva grazie allo schiavismo, pensiamo a tutti i popoli dell’antichità, dagli egizi ai romani, dai greci ai popoli del Nord Europa. La cattura di schiavi era essenziale per far funzionare la propria società. Poi si arriva al Medioevo, dove lo schiavo cambia semplicemente nome, entrando nell’ambito del feudalesimo. Oggi, nell’800 in cui vive Karl Marx e nei secoli successivi, il feudalesimo è sostituito dal capitalismo, basato sulla proprietà privata dei mezzi di produzione. In ogni fase ci sono classi contrapposte. Oggi, dice Marx, sono la borghesia e la classe operaia.
La borghesia ha però aggiunto qualcosa di nuovo e potente: l’apparato pubblico, lo stato nelle sue molteplici sfaccettature, fatto apposta per tutelare i propri interessi.
Ovviamente in tutto questo discorso ha un ruolo fondamentale anche lo sviluppo tecnico, l’avvento delle macchine, che hanno reso la gestione della società più complicata. É necessaria una organizzazione che gestisca la fabbrica, l’industria, dove l’operaio lavora per il

E torniamo qui al discorso del servo e del padrone di Hegel. Gli uni, gli operai, non possono esistere senza gli altri, i capitalisti, ma i loro interessi sono profondamente diversi. La conseguenza logica e inevitabile è che nascano contraddizioni in questa situazione e conflitti, che possono portare a cambiamenti sociali.
Insomma, in Marx ci sono le due anime di questa visione: materialista per il ruolo centrale delle esigenze economiche, ma anche dialettica. Questo termine significa che esiste un confronto tra le due classi, che in quel momento non può che essere tra la borghesia e il proletariato.
Perché? Da cosa dipende questa grande differenza? Dipende dal plusvalore, un concetto assolutamente centrale nell’analisi economica marxista. Di cosa si tratta?
Il plusvalore corrisponde alla differenza tra il valore prodotto dal lavoro dell’operaio e il valore accumulato, grazie a quel lavoro, dal capitalista. Proviamo a chiarire meglio. Il lavoro all’operaio porta uno stipendio, al datore di lavoro porta un utile, che è superiore allo stipendio. La differenza tra i due è il plusvalore. É così che, secondo Marx, si manifesta lo sfruttamento del proletariato, un meccanismo economico molto concreto. Il plusvalore è dunque la linfa del capitalismo, da qui deriva l’accumulo di ricchezze e quindi di potere nelle mani di pochi, mentre la maggior parte dei lavoratori deve accontentarsi di magri salari in una vita precaria. É questa disuguaglianza a portare allo scontro, alla lotta di classe, perché il proletariato riceve enormemente meno di quello che produce e chiede migliori salari, migliori condizioni di lavoro e un maggiore controllo sulle proprie vite. É questa contraddizione tra la ricerca del profitto e la ricerca della giustizia ad alimentare la lotta di classe.
La società che Marx ha in mente, la società socialista, elimina il plusvalore, perché assegna i mezzi di produzione ai lavoratori tutti, che li possiedono e li controllano, e ognuno riceve quello che dà, così che il conto è pari.
Il mezzo per arrivare a questa conquista è la rivoluzione, che sovverte il capitalismo e porta ad una fase di transizione, chiamata “dittatura del proletariato”, durante la quale la classe operaia prende il controllo dello stato, al fine di eliminare la borghesia e muoversi verso un’economia socialista. Questa fase è essenziale, per Marx, per impedire alla borghesia di riprendersi il potere. Non è, insomma, una dittatura nel senso che solitamente diamo a questo termine, perché non si tratta di sopprimere, ma di liberare le masse dallo sfruttamento del capitale.
Prima Internazionale e dissidi

Delle differenze molto forti tra comunisti e anarchici ho detto nell’articolo sull’anarchismo, che trovate qui (LINK). Alla fine prevale l’idea marxista, mentre gli anarchici di Bakunin se ne vanno a fondare una loro internazionale.
Tuttavia, nonostante l’allontanamento degli oppositori, questa internazionale non dura moltissimo e nel 1876 si scioglie.
Oggi noi siamo abituati a parlare di destra e sinistra credendo di avere le idee chiare su questi termini. É un po’ più complicato farlo riferendosi all’Ottocento. Ad ogni modo, sul lavoro di Marx arrivano critiche anche “da sinistra” cioè dagli ambienti più duri o più decisi a muoversi verso una rivoluzione piuttosto che verso un accordo con la borghesia. C’è chi giudica il suo ragionamento troppo incentrato sull’economia, troppo tecnicistico, poco adatto a masse ignoranti. A parte Engels, difensore quasi d’ufficio, nella disputa interviene uno dei grandi autori comunisti italiani, Antonio Labriola (l’altro è Gramsci, di cui diremo più avanti). Lui ribadisce che il marxismo è un movimento basato proprio sui rapporti che l’economia stabilisce con tutto il resto, con politica, idee, dottrine religiose, istituzioni, … tutto. Labriola è una delle grandi figure del socialismo. Cerca anche di far entrare nel partito socialista idee marxiste, ma senza troppo successo.
La posizione più ostile verso Marx si ha nel suo paese, in Germania, dove alle critiche seguono i cambiamenti di rotta. La socialdemocrazia tedesca fa una notevole marcia indietro. Sotto l’influsso del filosofo berlinese Eduard Bernstein, butta all’aria concetti fondamentali del marxismo, come quello della rivoluzione e della dittatura del proletariato. É una revisione che separa, da allora, la socialdemocrazia dal comunismo. In fondo, dice Bernstein, questa società borghese ha prodotto dei miglioramenti nella vita delle persone, offrendo nuove possibilità lavorative, e di questo dobbiamo essere contenti e goderne. In questo dibattito entrano nomi importanti, come quello di Rosa Luxemburg, che contesta aspramente Bernstein. Nessuno – dice – nega che le riforme siano importanti, ma l’obiettivo non è un miglioramento, ma il raggiungimento di una società di “liberi ed uguali”, una società pienamente comunista, per avere la quale una rivoluzione è indispensabile.
I socialdemocratici e i socialisti vengono da questo momento ritenuti traditori, revisionisti, addirittura fiancheggiatori della borghesia.
Marx muore nel 1883, Engels nel 1895.
Dopo Marx, Lenin e i bolscevichi
La domanda ora si sposta: i suoi successori, sono stati capaci di seguire le sue indicazioni? Là dove il comunismo è diventato dominante, ed è accaduto in una larga parte del mondo, la strada percorsa è quella del Manifesto?Qui bisogna distinguere, perché cambiare radicalmente una società verso il modello comunista di Marx, dipende anche dalle condizioni che si trovano in ogni singolo stato.

Dove trovare una situazione ideale come questa? In quel momento non c’è migliore esempio della Russia zarista. Ed è là che adesso ci trasferiamo.
Il movimento marxista, come visto, non è monolitico, diviso tra ortodossi che seguono fedelmente le indicazioni di Marx e revisionisti che hanno una visione più soft, meno drastica del percorso da compiere. Ma, anche tra gli ortodossi, non è che regni un’unità di intenti assoluta.
Nel 1898 viene fondato il POSR (Partito Operaio Socialdemocratico Russo), nel quale confluiscono tutti i movimenti rivoluzionari. Ci vuole qualche anno perché il partito cominci ad essere attivo, per via della reazione zarista, che porta decine di dirigenti in carcere. Si arriva così alla primavera del 1903, quando ha luogo, a Londra e Bruxelles, il 2° Congresso. Qui gli ortodossi si spaccano in due correnti, una minoritaria che potremmo definire “riformatrice”, i menscevichi e l’altra decisamente rivoluzionaria, i bolscevichi, legata alle idee, espresse in una pubblicazione uscita l’anno precedente e intitolata “Che fare?”, a firma di Vladimir Il'ič Ul'janov, detto Lenin, uomo di intelletto e di cultura, ma anche d’azione. Del resto, a testimoniare le sue partecipazioni attive, ci sono la carcerazione e un esilio di 17 anni. La storia del comunismo non può prescindere dalla sua figura.
Ma la Russia non è la Germania di Marx e applicare alla lettera le sue idee risulta impossibile. Lenin si trova di fronte ad una situazione in cui l’industrializzazione fa fatica a decollare, la maggior parte del popolo è composto da contadini e, soprattutto, non esiste una classe operaia a cui affidare il compito di guidare la rivoluzione.
Chi può farlo allora? Il proletariato russo è in grado di acquisire una coscienza politica socialista? É possibile fare affidamento su quelle masse?
Lenin pensa di no. E allora anche le strategie proposte da Marx vanno modificate, adeguate al presente. Se il proletariato russo, per proprio conto, non è in grado di avviare una rivoluzione, ha bisogno di una guida, una avanguardia, formata da intellettuali radicali. Il “Partito” ha il compito di educare le masse, indicando la strada, gli obiettivi, i metodi, tutto insomma. Per questo ci vuole un organismo estremamente compatto, disciplinato, che, dopo una democratica discussione interna sui vari punti, segua monoliticamente le decisioni prese. É l’origine di quello che verrà poi chiamato centralismo democratico. Quello che ne risulta è che più che verso una dittatura del proletariato, ci si muove verso una dittatura del “Partito”, anche se fatta in nome e per conto del proletariato.
Rivoluzione russa: bolscevichi al potere
Nel 1916, Lenin scrive un saggio politico di fortissimo impatto, che sarà pubblicato nella primavera del 1917, “L’imperialismo, fase suprema del capitalismo”, che contiene una sintesi delle teorie di Marx esposte nel Capitale. É un testo che sembra scritto per la nostra società attuale, con l’avvento della globalizzazione e del neoliberismo: la finanza che prevale sull’industria, i militari sui politici, il potere dello stato gestito da grandi gruppi finanziari internazionali … trovate qualche riferimento ad oggi?Arriviamo così allo scoppio della prima guerra mondiale con i partiti socialdemocratici e socialisti che approvano l’entrata in guerra. É una scelta che lascia Lenin basito, quasi non ci crede. Rosa Luxemburg, con il solito piglio battagliero, definisce la socialdemocrazia “anticomunista”, come, del resto, aveva fatto Karl Marx, leggendo il programma politico all’atto della fondazione dell’SPD. I socialisti sono traditori del marxismo e il distacco diventa definitivo: i bolscevichi sono i soli comunisti, come la società che vogliono creare. Nel 1918 il POSR cambia nome e diventa Partito Comunista Russo.
La storia è ben nota: nel febbraio 1917 scoppia una rivolta spontanea che toglie di mezzo lo zar, ma non è la rivoluzione comunista. Per quella ci vorrà ancora qualche mese. Lenin intanto rientra in Russia e scrive “Stato e Rivoluzione”, che verrà pubblicato l’anno successivo. É la visione marxista dello stato, una guida di come il proletariato si deve comportare. Nei vari capitoli, Lenin esamina esperienze e teorie precedenti. Un particolare riferimento è alla Comune di Parigi, i cui princìpi ugualitari sarebbero perfettamente adatti alla società comunista in senso marxista. Solo, dice Lenin, bisogna evitare una fine simile ai comunardi, massacrati dall’esercito imperiale. Fine dovuta al fatto di aver sottovalutato la reazione imperiale. Ed ecco tornare a galla il concetto marxista di dittatura del proletariato, fase di eliminazione della borghesia e di consolidamento del potere comunista, evitando rinascite borghesi. Serve una vera rivoluzione comunista, con il rovesciamento dei rapporti sociali, quella rivoluzione che ha luogo nell’ottobre russo del 1917. Lenin e i suoi bolscevichi sono al potere.
Cosa cambia? Praticamente tutto. Se lo stato capitalista rappresenta il dominio di una minoranza, la borghesia, su una maggioranza, il proletariato, lo stato comunista è l’esatto contrario: è il dominio della maggioranza. In questo senso è un passaggio democratico. Bisogna arrivare al punto, citando Lenin, che anche una cuoca possa dirigere il paese. Ma, proprio come la dittatura del proletariato, anche lo stato è provvisorio. Alla fine le classi devono sparire, lo stato si deve “addormentare”. Ci vorrà tempo, sostiene Lenin, almeno una generazione … un po’ ottimista davvero!
La questione economica: i soviet
Questo enorme cambiamento produce una forte reazione da parte dei proprietari terrieri e degli aristocratici (i cosiddetti “bianchi”), sostenuti da diverse potenze straniere. La controffensiva diventa una guerra civile, che dura tre anni, fino al 1920, quando i bolscevichi prendono il sopravvento e Lenin ottiene tutto il potere. Durante il periodo della guerra, dal 1918 al 1920, viene attuato quello che viene chiamato comunismo di guerra, mettendo al centro delle questioni l’approvvigionamento delle città. Nascono così fattorie sovietiche (sovchoz) e fattorie collettive (kolchoz), specie di cooperative agricole gestite direttamente dallo Stato o dai soviet locali. Nei sovchoz i contadini diventano semplici dipendenti pubblici: la produzione è dello stato, così come i terreni, i mezzi e le strutture.I soviet erano nati anni prima, addirittura durante l’impero dello zar, soprattutto per controllare e gestire gli scioperi nelle fabbriche. Si tratta di assemblee chiamate a gestire il potere politico locale. Sono formate da operai, ma anche da militari e da contadini: alla vigilia della rivoluzione d’ottobre sono oltre 1400 in tutta la Russia. É con l’avvento al potere dei bolscevichi che assumono un ruolo determinante nella configurazione del nuovo stato, che, non a caso, verrà chiamato Unione Sovietica.

NEP: Nuova Politica Economia
La Russia è in gravissime difficoltà. Il comunismo di guerra ha prodotto solo guai. Servono dei correttivi rapidi ed efficaci. Serve un nuovo programma di interventi, un piano, che Lenin chiama NEP, Nuova Politica Economica. In realtà non è una scelta definitiva, è solo per tamponare i problemi in attesa della realizzazione della società socialista.Rispetto al precedente piano, è una piccola ritirata, un passo indietro rispetto all’ideologia marxista. Con due decreti, emanati tra aprile e agosto 1921, le confische illimitate vengono sospese, si torna indietro sulla nazionalizzazione, alcuni beni che erano stati requisiti vengono restituiti dallo stato ai vecchi proprietari, ma solo nei settori dell’agricoltura e delle piccole attività. Lo stato tiene per sé il grosso degli affari: le banche, il commercio con l’estero, i grandi gruppi industriali. Sembra un ritorno, anche se molto blando e parziale, all’economia di mercato, una scommessa, che però porta qualche frutto positivo nella vita dei cittadini. Come è facile immaginare, all’interno del partito, non tutti sono soddisfatti di queste scelte. Lo statalismo è un bene prezioso per i privilegiati e i musi lunghi si sprecano.
La Russia diventa, dalla fine del 1922, “Unione delle repubbliche socialiste sovietiche” (URSS), o semplicemente Unione Sovietica. Nello stesso anno, Lenin subisce alcuni ictus e non è più in grado di dirigere il Partito e il Paese. Muore il 21 gennaio 1924. Nessuno tocca la NEP, al momento c’è qualcosa di più importante da fare: scegliere il successore del padre della rivoluzione.
Succedere a Lenin: Josip Stalin
A contendersi il potere sono in due: Lev Trockij e Josip Stalin, uomini molto diversi per storia, cultura, modi di porsi. E sono diversi anche
Il massimo degli sforzi viene diretto verso una meccanizzazione della produzione, soprattutto in agricoltura, dove i campi vengono ancora arati da aratri in legno trainati dai buoi. C’è anche una spinta verso una gestione collettiva delle terre, risorgono i soviet, ma la situazione è decisamente cambiata ed è stata cambiata proprio dalla NEP, voluta da Lenin. I piccoli possidenti di terre, i kulaki, se la passano abbastanza bene e non sono favorevoli a condividere con altri i propri introiti. Stalin agisce con calma, aspetta qualche anno e toglie di mezzo la NEP solo nel 1928. Il malumore tuttavia non è solo quello dei kulaki. Anche all’interno del Partito, Stalin ha avversari e non sono pochi. La sua reazione non ha mezze misure: gran parte degli oppositori finisce nei gulag, i campi di lavoro correttivi, che vedranno passare, negli anni, quasi venti milioni di persone, gli altri vengono semplicemente sterminati. L’opera di distruzione dei nemici da parte di Stalin verrà conosciuta solo molto tempo dopo, grazie alla relazione di Kruscev al 20° congresso del PCUS nel 1956, quando si scopriranno, con orrore, le grandi purghe staliniste.
In questo repulisti, Stalin commette alcuni errori, al di là del modo indegno di affrontare i nemici. Infatti, oltre ai contadini ribelli e ai contestatori, finiscono nelle mire di Stalin molti abili e importanti dirigenti bolscevichi e le menti migliori dell’Armata Rossa, figlia del suo avversario Trockij. É un errore che l’Unione Sovietica pagherà cara con un inizio della seconda guerra mondiale particolarmente difficile. Ci vorrà tempo perché l’esercito riprenda in pieno la sua efficienza. Anche quello che era stato tra i suoi migliori alleati, Bucharin, fa una brutta fine. C’è un processo farsa, come la maggior parte dei processi ai dissidenti, alla fine dei quali gli accusati ammettono colpe inesistenti, spesso fantasiose e la conclusione è sempre la stessa. Bucharin si piega, come lui stesso dice, “alla macchina infernale, che si serve di sistemi medievali, e maneggia un potere immane - la macchina che fabbrica calunnie sistematiche e funziona con perfetta automatica sicurezza”. Nella sua confessione tira in ballo anche Trockij, indicandolo come principale fautore di una controrivoluzione. Entrambi vengono uccisi, Bucharin giustiziato dall’NKVD, il Commissariato del popolo per gli affari interni, Trockij in Messico da un sicario, dopo un lungo esilio. Ci vorranno molti anni perché la figura di Bucharin venga riabilitata: lo farà Gorbacev nel 1988.
Uno degli aspetti importanti del governo stalinista è il culto della personalità, che è tipico delle dittature. La fama, l’amore e la devozione verso di lui, non termineranno nemmeno dopo le rivelazioni di Kruscev. “Baffone”, come veniva chiamato in Italia, manterrà il suo posto nel cuore dei compagni. Lui è quello che ha realizzato il comunismo, ha dato una indicazione chiara di come procedere per una società comunista e, soprattutto, ha sconfitto la bestia del nazifascismo riportando la libertà nel mondo. Ma, già prima delle rivelazioni di Kruscev, non tutti sono d’accordo su questa interpretazione. In Italia c’è un personaggio di enorme cultura, Antonio Gramsci, che è segretario del partito comunista d’Italia, oltre che deputato del regno. É il 1926 quando affida a Palmiro Togliatti, suo braccio destro in quel momento a Mosca, una lettera destinata ai compagni sovietici. Si lamenta della lotta interna al Partito. Come è possibile trattare da nemici i comp

Gramsci ha un concetto tutto suo del comunismo, che vede come la vera “democrazia operaia”, rifacendosi all’opera dei soviet, dove prevale il principio assembleare, a partire da quei consigli di fabbrica, per i quali si era speso fin dal 1919. Un ruolo importante nella critica gramsciana ha sicuramente anche il cosiddetto “testamento di Lenin” che raccomandava prudenza nell'affidare una concentrazione di poteri nelle mani di Stalin, giudicato rozzo e inadatto a ricoprire il ruolo di segretario.
Togliatti non se la sente di portare un simile messaggio ai dirigenti sovietici e si rivolge all’ufficio politico del PCdI, il quale sconfessa il proprio segretario, che viene messo in minoranza. Questo episodio segna una rottura tra Togliatti e Gramsci, ma poco dopo il segretario viene arrestato, condannato e rinchiuso tra carceri e case di cura. Muore prima che termini il suo periodo di detenzione nel 1937. Per avere un’altra critica al regime sovietico occorrerà aspettare il memoriale di Yalta (1964) di Togliatti e l’opera di Berlinguer, che ho raccontato nei dettagli nell’artivcolo sul politico sardo. (LINK)
Dunque nel corso degli anni le critiche a Stalin non sono mancate. Ma adesso torniamo a Mosca e al periodo di regno del “piccolo padre”, come Stalin veniva chiamato. L’idea di comunismo, già modificata da Marx a Lenin, cambia volto: il materialismo dialettico diventa la verità assoluta, un dogma nell’URSS, una scusa perché Stalin possa attuare tutte le strategie politiche che desidera. La società sovietica diventa definitivamente totalitaria. Stalin viene rappresentato come un gigante geniale, che sa far tutto e che ci ricorda altri dittatori di tutt’altro colore. Ovviamente, non c’è più posto per la democrazia interna, né per il centralismo democratico.
L’imperialismo sovietico
Le cose, nonostante le scioccanti rivelazioni di Kruscev, non cambiano granché con i suoi successori, in particolare con Leonid Breznev. Lui impone il “socialismo reale”, che è anche l’unico ammesso o possibile.L’idea staliniana di “socialismo in un solo paese” chiude le porte all’internazionalismo comunista, ma con qualche eccezione. Regimi comunisti vengono instaurati negli stati che stanno al di là della cortina di ferro. I partiti che li governano sono semplici succursali del PCUS. La scaletta, l’agenda e tutto il resto è dettato direttamente da Mosca.

Ovviamente non tutti ci stanno: il 18 agosto 1991 c’è un tentativo di colpo di stato da parte del KGB, il potente servizio segreto sovietico, e di alcuni reparti militari, dopo aver isolato Gorbacev, in vacanza in Crimea. Il golpe, che intende ristabilire il regime sovietico, fallisce grazie alla reazione di Boris Eltsin e della popolazione moscovita. Ma rappresenta un duro colpo per la Russia, che vede la disgregazione e progressivamente le dichiarazioni di autonomia di numerosi paesi, come ad esempio quelli baltici. Il processo di democratizzazione sembra inarrestabile. Significativamente le spinte maggiori si hanno nei paesi satelliti, a cominciare dalla Polonia, dove un forte sindacato e i molti soldi arrivati soprattutto dal Vaticano attraverso lo IOR, pongono fine al regime filo-sovietico. Nel novembre del 1989 il muro di Berlino in frantumi è l’immagine del crollo del regime. Il comunismo sovietico, che è stato di Lenin, Stalin e Breznev, finisce qui.
Nasce la Federazione russa, mentre il parlamento decreta l’abolizione del Partito Comunista: è il 29 agosto 1991.
Fuori dall’URSS

É davvero complicato seguire l’evoluzione dei governi comunisti instauratisi in ogni angolo del mondo, a volte per un periodo breve.
Un caso interessante riguarda l’Albania, dove il Partito Comunista, una volta battuti nazisti e fascisti, vince le elezioni e comincia il governo di Enver Hoxha, nelle cui mani finiscono tutti i poteri. Comincia una storia che ha dell’allucinante per i cittadini albanesi, sottoposti alle follie di un dittatore spietato e ossessionato dall’Occidente. Il legame con l’Unione Sovietica è fortissimo, tanto che la costituzione è scritta prendendo a modello quella di Mosca. Quando, a metà degli anni ’60, cominciano le critiche al comunismo stalinista, l’Albania di rivolge alla Cina, stabilendo uno strano legame con una nazione lontanissima e un popolo che ha una storia e una cultura completamente diversa. Hoxha muore nel 1985. Comincia un periodo di normalizzazione democratica, costruita sulle macerie di un paese che ha vissuto imprigionato dentro i propri confini per oltre 40 anni. Un’esperienza che, a leggere Marx, di comunismo non ha proprio nulla.
Conosciamo la storia d’Europa del dopoguerra. Partiti comunisti nascono un po’ ovunque, ma due sono quelli che prendono piede: il francese e l’italiano. Non per gestire lo stato, sono sempre all’opposizione, anche se in qualche caso vanno molto vicino alla stanza dei bottoni, come in occasione del compromesso storico. Una interessante iniziativa è quella che va sotto il nome di eurocomunismo, proposta da Italia, Francia e Spagna, che adotta una visione completamente diversa da quella sovietica, basata com’è su regole democratiche, anche se il ruolo centrale del proletariato e della classe operaia non viene mai messo in discussione.
Dunque il comunismo al potere è una questione che non riguarda l’Europa Occidentale, ma c’è una espansione dalla parte opposta, verso l’Asia, in cui si accendono alcune situazioni particolarmente interessanti.
Adesso è tempo di rivolgersi altrove, in altri paesi dove il comunismo ha preso piede ed è ancora, almeno formalmente, la filosofia e l’organizzazione dominante. Per farlo facciamo un lungo viaggio verso Est e ci portiamo direttamente in Cina.
Chiang Kai-Shek e Mao Zedong
Se, come visto, la Russia del 1917 si presenta come un paese arretrato dal punto di vista dell’industrializzazione, la Cina del 1921 lo è enormemente di più. É l’anno in cui viene fondato il Partito Comunista Cinese. Vi partecipa un uomo di Shaoshan, città del Sud Est della Cina, che salirà presto ai ruoli dirigenziali del Partito. Si chiama Mao Zedong (毛澤東).La storia della Cina dell’inizio del secolo scorso è piuttosto movimentata. La dinastia imperiale regnante, i Qing, al potere da quasi trecento anni, comincia a mostrare le crepe. É inoltre ben poco amata dal popolo data la sua origine manciuriana. Una guerra civile porta nel 1912 all’abdicazione dell’imperatore e alla nascita della Repubblica cinese. Le vicende seguenti sono a dir poco confuse con lotte interne sia al partito che all’esercito e formazione di governi e contro governi, che prendono sede un po’ dappertutto nel paese. In questa fase ecco spuntare i signori della guerra, militari di varie fazioni che tentano di ottenere il potere con le armi. La confusione, se possibile, aumenta ancora.

Nel dopoguerra la situazione sociale esplode. Ci sono scioperi nelle città e manifestazioni studentesche. Il destino della Cina viene preso in mano dal partito nazionalista, fortemente sollecitato e aiutato dall’Unione Sovietica, che era appena uscita dalla guerra civile e aveva imposto il potere di Lenin e dei bolscevichi.
A capo dell’esercito che assume il potere c’è un uomo importante, un generale, Chiang Kai-shek (蔣介石).
L’esercito rivoluzionario di Chiang si rivolge al Nord e comincia la conquista dell’intero paese. Il Partito Comunista Cinese, su suggerimento di Michail Borodin, rappresentante del Comintern, si allea con l’esercito rivoluzionario. Poi però succede qualcosa, qualcosa di grave a Shangai, quando le truppe nazionaliste reprimono con un massacro le manifestazioni dei lavoratori. Ci sono centinaia di morti, arresti, torture di membri del partito comunista. É la rottura. I comunisti entrano in clandestinità e qui comincia la guerra tra loro e il partito di Chiang Kai-Shek, il Kuomintang.
Ecco dunque il contesto, anche se descritto molto a grandi linee, nel quale si avvia una campagna che durerà 20 anni e porterà, alla fine il Partito Comunista Cinese di Mao Zedong al potere.
Chiang Kai Shek lancia ben cinque campagne di annientamento dei comunisti, fallite per la resistenza incontrata o per dover spostare truppe a combattere l’invasione giapponese. L’ultima campagna, nel 1933, riesce però a mettere in crisi le piccole repubbliche sovietiche che Mao aveva creato nel Nord del paese. L’avanzata delle truppe nazionaliste, fa prendere a Mao una decisione azzardata. Prende armi e bagagli e comincia quella che viene chiamata la Lunga Marcia, uno spostamento delle basi comuniste di 6 mila km verso Nord. É in questa occasione che Mao Zedong diventa l’eroico leader del partito comunista cinese, che stabilisce la sua sede a Yana’n. Seguono anni complicati e confusi, durante i quali alcuni signori della guerra rapiscono Chiang Kai-Shek per ottenere accordi di potere. Poi, nel 1937 ecco di buono le armate giapponesi sul suolo cinese. Non c’è da stare a guardare. Tutti i cinesi, nazionalisti o comunisti, uniscono gli sforzi in una guerra che durerà 8 anni fino alla sconfitta nipponica nella seconda guerra mondiale. Ma la fragile intesa tra Kuomintang e PCC si rompe assai prima. Già nei primi anni ’40 la frattura è nei fatti. Mao organizza le sue truppe appoggiandosi ai contadini con azioni di guerriglia che costringono i giapponesi a trattenere sul territorio ingenti truppe. D’altra parte Chiang Kai-Shek è attendista, non affronta il nemico in campo aperto, ritenendo più grave il pericolo rappresentato dai comunisti che dai nipponici. Questo diverso atteggiamento sposta larga parte della popolazione, soprattutto quella contadina, dalla parte di Mao.
La fine della guerra vede, come poteva essere altrimenti, le due superpotenze comportarsi in modo opposto. Gli Stati Uniti impongono al Giappone di arrendersi all’esercito nazionalista, i sovietici invadono la Manciuria, fanno 700 mila prigionieri, raccolgono materiali e armi, che consegnano al Partito Comunista.
Alla fine, aiutati da USA e URSS, in Manciuria le città sono in mano ai nazionalisti, le campagne in mano ai comunisti. C’è anche un tentativo americano di trovare un’intesa tra i due contendenti per un governo del paese comune, ma l’intransigenza di entrambe le parti lo vanifica.
Comincia così l’ultima fase, l’ultima lotta per il potere. Da un lato i comunisti supportati dall’URSS, dall’altro Chiang Kai-Shek supportano molto più pesantemente dagli USA con milioni dollari in armamenti vari. Ma la situazione psicologica dei due eserciti è opposta. Da un lato c’è un governo corrotto e truppe che sono sui campi da battaglia da vent’anni, prima contro i comunisti, poi contro i giapponesi ed infine ancora contro i comunisti. Dall’altra parte c’è un esercito di liberazione che si ingrossa man mano, con truppe coese e ufficiali che si sono formati durante la Lunga Marcia e nei mille episodi di guerriglia contro i nipponici. La debolezza di Chiang Kai-Shek è evidente. Conquistata la Manciuria e moltissimo materiale bellico, l’esercito comunista si sposta a Sud della grande muraglia. Nell’aprile del 1949 Mao entra a Nanchino, capitale dei nazionalisti. Il 1° ottobre proclama la nascita della Repubblica popolare cinese con capitale Pechino. Chiangh Kai-Shek e 600 mila suoi soldati oltre a 2 milioni di civili si rifugiano nell’isola di Taiwan. Da allora ci sono due Cine, una enorme, quella maoista di Pechino e quella nazionalista, sostenuta dagli Stati Uniti, a Taipei, capitale di Taiwan.
Questa è la storia. Adesso però bisogna capire cosa succede in una Cina comunista e se il comunismo cinese ha qualcosa a che fare con Marx o con Lenin.
Il comunismo cinese

Anche qui serve una industrializzazione. La Cina segue l’esempio dell’Unione Sovietica, che supporta con mezzi e suggerimenti i primi passi del nuovo regime. Del resto c’è riconoscenza da parte dei maoisti verso Mosca che, anche se in modo forse non eccessivamente massiccio, li ha comunque aiutati a superare i nazionalisti di Chiang Kai-Shek.
L’intervento dello stato ha un successo discreto nelle città in quanto a produzione industriale, ma fallisce nelle campagne, non riuscendo a migliorare di molto le condizioni dei contadini. Bisogna fare qualcosa e Mao si inventa un piano economico, chiamato “grande balzo in avanti”. Quella dei nomi pomposi e altisonanti è un vizio tipico dei cinesi. Basterebbe tradurre i nomi dei parchi di Pechino per rendersene conto. Ad ogni modo il nuovo piano poggia sulla collettivizzazione della produzione agricola e la formazione di “comuni” che ricordano le fattorie sovietiche dei primi anni della NEP.
Poi l’amore verso Mosca diminuisce parecchio: le condizioni sono molto diverse e ai cinesi non piace essere diretti (o comandati se preferite) dai burocrati sovietici. La distanza che si apre tra Pechino e Mosca ha, con ogni probabilità, anche altre motivazioni, di carattere politico e strategico. Ad esempio il rifiuto dell’URSS di aiutare la Cina a costruire un arsenale nucleare.
Intanto, nelle campagne tutto torna come prima: la produzione è famigliare con incentivi dello stato. Il fallimento del grande balzo crea un dissidio molto forte all’interno del Partito. La “sinistra” accusa la “destra” di degenerazione borghese. Mao, con il suo braccio destro, il generale Lin Biao, usa l’esercito per controllare la situazione e comincia una fase di indottrinamento ideologico delle masse. Il “libretto rosso” ne è un esempio: una raccolta di massime maoiste, pubblicate da Lin Biao nel 1963 e consegnate ai militari. É la premessa per quella fase che viene ricordata come “rivoluzione culturale”, durante la quale si parla assai poco di materialismo e moltissimo di ideologia, con manifestazioni esagerate di appartenenza ed esaltazione del leader. I fallimenti in economia e l’enorme confusione nella strategia politica comunista di Mao, fanno nascere un dissenso che è diretto da Zhou Enlai, che diventa primo ministro mentre Mao mantiene la carica di presidente senza di fatto avere un ruolo decisionale.

In tutti questi cambiamenti c’è qualcosa che non muta mai ed è la figura di Mao Zedong, il quale, nonostante tutte le critiche possibili, i fallimenti e le vendette, rimane sempre, ancora oggi, il Grande Condottiero e il simbolo del comunismo cinese. Le infinite file di persone che ogni giorno aspettano ore per rendere omaggio al suo corpo imbalsamato sono la testimonianza più immediata che quell’uomo è quello che ha cambiato per sempre la Cina e quindi il popolo gli è riconoscente. Probabilmente molte di quelle persone, che sono in coda in piazza Tienanmen, non conoscono la storia o l’hanno dimenticata o nessuno gliela ha raccontata.
Altre esperienze in Asia: Vietnam e Cambogia
A metà degli anni ’20 a Canton vive e lavora un fuoriuscito vietnamita, Ho Chi Minh, che si rifugia in Russia quando Chiang Kai-Shek prende il potere in Cina.É già stato molto attivo, fondando la lega della gioventù rivoluzionaria e partecipando alla nascita del Partito Comunista a Parigi.

Nel 1960, ad Hanoi, il Partito dei Lavoratori prende posizioni chiare: avviare una repubblica socialista nel Nord Vietnam e liberare il Sud Vietnam dal dominio capitalista. Finalmente anche il nome del partito è quello ufficiale: Partito Comunista Vietnamita. L’ideologia è quella marxista-leninista con la forte impronta di Ho Chi Minh.
La guerra che si svolge fino al 1975 contro l’esercito statunitense, sancisce alla fine la riunificazione dei due Vietnam sotto un’unica bandiera, quella socialista di Hanoi. La vecchia capitale, Saigon, oggi si chiama Ho Chi Minh.
Dal 1986 anche il Vietnam, come la Cina, si apre all’occidente, inserendo elementi di economia di mercato e diventando di fatto, nonostante il termine socialista nel suo nome, una moderna nazione dallo sviluppo enorme in questi ultimi anni.
Rimanendo in Indocina, ben diversa è la storia relativa al partito comunista cambogiano, che ha visto in Pol Pot il tiranno che per alcuni anni, fino al 1979, ha imposto una dittatura assurda alla guida dei Khmer Rossi. In quel periodo le stragi non si contano. Qualcuno ha calcolato che circa un quarto della popolazione è stata uccisa o direttamente dal regime o a causa di malnutrizione o dei terribili lavori forzati. La storia della Cambogia è complicatissima per l‘intervento di numerosi stati. Posso suggerire, per saperne di più, questo video di Nova Lectio. Quello che resta è l’orrore di quegli anni e una distanza abissale dalle idee del comunismo di Marx e Lenin.
La rivoluzione di Fidel Castro
Ci rivolgiamo adesso dall’altra parte del mondo, in America Latina, dove a varie riprese, esperienze comuniste o socialiste sono state messe in piedi. Tuttavia, quel subcontinente è il giardino di giochi degli Stati Uniti, non solo politicamente, ma, soprattutto, economicamente, avendo le molte grandi aziende, anche multinazionali, monopolizzato in vari paesi la produzione della nazione. Così, numerosi sono stati i golpe contro governi apertamente di sinistra. Tra tutti possiamo ricordare il caso del Guatemala di Arbenz Guzman e del Cile di Salvador Allende, che tuttavia non sono certo i soli.Dove invece il comunismo ha attecchito è in un’isola dell’America caraibica, a Cuba.

Il 1° gennaio 1959 dalla Sierra Maestra, Fidel lancia la parola d’ordine per uno sciopero generale di sei giorni che paralizza totalmente il paese: “Tutto il potere all’esercito ribelle”.
Il comunismo cubano
Conquistato il potere, la vecchia tendenza nazionalista di Fidel lascia il posto a ben altre decisioni. É il cosiddetto “grande balzo”. La proprietà terriera viene abolita, i capitali USA espropriati, assieme a quelli dei ricchi (zuccherieri e industriali). Lo scontro diventa così inevitabile con tentativi controrivoluzionari uno dei quali voluto dal presidente americano John Kennedy. Fidel è un comunista, alleato dell’URSS, che installa dei missili nucleari sull’isola con la conseguente crisi cubana, risolta con il ritiro dei missili da parte di Kruscev.Ma in questa storia del comunismo, Fidel Castro entra solo per necessità. In realtà il fascino iniziale del castrismo è il suo nazionalismo. Il modello cui Fidel si ispira è quello del grande rivoluzionario cubano José Marti, morto in battaglia nella guerra per l’indipendenza di Cuba dal dominio spagnolo, per un’equa distribuzione delle terre, per la fine della schiavitù e la discriminazione razziale, per arginare l’espansione degli Stati Uniti nei Caraibi. Una lotta per la liberazione del popolo, niente a che fare con le tesi di Lenin o il Manifesto di Marx. Perché “per necessità”? Una volta preso il potere si avviano riforme ed azioni decisive: stroncare il dominio delle oligarchie interne, modificare i rapporti con gli Stati Uniti, che avevano considerato l’isola più o meno come una propria colonia al tempo di Batista. Castro nazionalizza le imprese straniere, la maggior parte delle quali sono statunitensi, vara la riforma agraria che nazionalizza le proprietà al di sopra dei 405 ettari, che sono trasferite a cooperative agricole o a singoli coltivatori. Gli espropri colpiscono non solo i cittadini cubani più ricchi, ma anche quelli USA e le loro aziende. Gli indennizzi previsti in titoli non possono certo soddisfare i proprietari terrieri. A Washington non sono contenti e finanziano le forze di opposizione a Castro. Questa contrapposizione porta Cuba a cercare alleanze altrove, trovandole nell’Unione Sovietica, con la quale si firmano importanti accordi commerciali e non solo. Dal 1961 la rottura, anche diplomatica, con gli Stati Uniti è un fatto compiuto.

La contropartita a queste grandi iniziative è la povertà diffusa nel paese, specialmente dopo l’inizio dell’embargo permanente, che impedisce ai cubani di trovare molti generi necessari, come la benzina o i ricambi per le auto. Tutta merce che arrivava, prima della rivoluzione, in larga misura proprio dagli Estados Unidos.
Anche gli altri stati latino americani, nel 1962, dichiarano Cuba un pericolo di invasione del comunismo nel continente e la escludono dal Sistema Interamericano. Nonostante il tentativo di Barak Obama di porre fine all’embargo, non se ne fa nulla perché vi si oppone un parlamento a maggioranza repubblicana. A tutt’oggi le richieste per la sospensione sono pesanti, in quanto prevedono, oltre alla democratizzazione dell’isola, il risarcimento dei cittadini e le imprese statunitensi per le proprietà confiscate durante la Guerra Fredda.
Ovviamente anche la Cuba castrista, con una storia comunista tutta particolare, non fosse altro che per l’isolamento avuto durante tutto il suo cammino, soffre dei mali legati all’applicazione pratica dei temi di cui abbiamo parlato fin qui. La repressione degli oppositori, la mancanza di libertà di pensiero, e il culto della personalità sono ben presenti e rappresentano l’ombra scura di un regime che, finora, è riuscito a sopravvivere “in qualche modo”. Anche a Cuba, come in Russia e in Cina restano i miti della rivoluzione: Fidel, Cienfuegos e soprattutto “Il Che”.
Su Ernesto Che Guevara è in preparazione un articolo, che racconta, tra l’altro, nei dettagli, la storia della rivoluzione cubana, qui solo accennata.
La CIA e la lotta al comunismo
Rimaniamo ancora in Sud America. Come detto qualche governo di sinistra c’è stato, anche se non si è dichiarato “comunista”. Possiamo parlare di amministrazioni progressiste, come quella guatemalteca o quella cilena, già citate in precedenza.Ma se torniamo indietro nel tempo, alla fine della seconda guerra mondiale, possiamo cercare di capire quale sia lo stato d’animo degli Stati Uniti. Qui il discorso si fa un pochino complicato, perché, oltre alla politica, intervengono altri fattori, come l’economia spesso dislocata a Sud del confine, e una presenza molto ingombrante, quella della CIA, l’Agenzia di Intelligence americana, insomma l’agenzia delle spie, degli agenti segreti. La cosa curiosa è che sulla CIA sono stati fatti una quantità impressionante di film e l’agenzia esce quasi sempre con una montagna di fango versatele addosso. Bene, la realtà è molto peggiore dell’immaginazione e le porcherie fatte da questo organismo sono così tante e così gravi che è impossibile seguirle tutte. Anche su questo aspetto della politica americana, è in preparazione un articolo, che verrà pubblicato su questo sito.
La domanda che uno può farsi è questa: come facciamo a sapere le cose segrete della CIA se sono, appunto, segrete? Il fatto è che, nel 1972, succede qualcosa che in USA non si era mai visto. Un presidente, Richard Nixon, è costretto a dimettersi per l’affare Watergate, dopo l’impeachment, cioè la messa sotto accusa. Si scopre che il comitato del la rielezione di Nixon ha spiato illegalmente il comitato del partito in competizione con lui, cioè il partito democratico. Ora, per noi non è una cosa sconvolgente pensare che ci siano trucchi e trucchetti, fatti durante una campagna elettorale, ma per gli americani la parola scandalo ha un altro significato. Magari i bravi cittadini soprassiedono all’uccisione di migliaia di persone per rovesciare un governo straniero, cosa avvenuta decine di volte a cominciare da quello iraniano nel 1953, ma poi succede un pandemonio per questioni che a noi sembrano decisamente meno importanti. Nell’affare Watergate c’entra la CIA, intervenuta per bloccare le indagini dell’FBI sullo scandalo. E questo fa saltare il tappo. Molti documenti secretati (cioè quasi tutti) vengono resi pubblici e da allora la CIA utilizza una certa trasparenza nelle sue azioni … questo almeno è quello che il governo americano lascia intendere, ma io la mano sul fuoco su questa verità

Quello che a noi interessa qui è il fatto che da allora si vengono a sapere molte cose sull’operato della CIA e in particolare sulle sue linee strategiche e sui suoi obiettivi.
Ma andiamo con ordine. Dopo la seconda guerra mondiale, nel l1947, il servizio segreto militare OSS si trasforma in un servizio civile, che assume il nome di CIA, Central Intelligence Agency. L’organizzazione riferisce direttamente al presidente, che in quell’occasione è il neo eletto Dwight Eisenhower, il generale che aveva vinto contro i nazifascisti europei. Sconfitti questi ultimi, il nemico diventa un altro, molto potente e, quel che più conta, molto misterioso, l’Unione Sovietica, ansiosa, a detta degli americani di esportare il comunismo in ogni angolo del pianeta.
Il “terrore dei rossi” (Red scare), che aveva portato alla morte di Sacco e Vanzetti, (LINK) si ripete di nuovo. Perché? Perché temere un paese che certo non se la passa benissimo, che è dall’altra parte del mondo e ha un sacco di problemi interni?
Innanzitutto viene cavalcato il dualismo democrazia – comunismo, come se gli Stati Uniti fossero il solo paese democratico del mondo. Va anche aggiunto che la popolazione statunitense non brilla per cultura storica o geografica e quindi si può raccontarle tutte le balle che si vuole.
E dunque con i comunisti nascosti sotto il letto o pronti ad invadere gli studios di Hollywood, entra in scena la CIA.
A dirigerla tra il 1953 e il 1961 c’è un uomo, la cui storia pubblica comincia come finanziatore dei nazisti di Hitler, prosegue come spia in Europa per l’OSS ed infine approda alla neonata CIA nel 1947, diventandone uno dei più importanti agenti. Per un periodo può contare anche sul fratello Foster, diventato segretario di stato (cioè ministro degli esteri come diremmo noi).
É lui, Allen, a contrattare con il presidente, Eisenhower prima e Kennedy poi, tutte le azioni segrete in ogni parte del mondo. Ma anche a casa propria, dove segue le indicazioni cervellotiche e incredibilmente stupide di un senatore del Wisconsin, Joseph McCarthy, il quale si lancia in una crociata contro i comunisti americani che assomiglia molto da vicino a quella di Don Chisciotte della Mancia, eroe improbabile del genio di Miguel de Cervantes.
Ma la mission è la stessa: combattere i comunisti. Mentre il demente McCarthy se la prende con un sacco di gente che non c’entra nulla, fino a che non tocca l’esercito e qui si deve fermare e dimettersi (siamo nel 1954), la CIA opera nel concreto. Attraverso un paio di oscure e terribili operazioni induce i media a condizionare la popolazione proprio in senso anticomunista, includendo in ciò tutti i governi di sinistra, anche velatamente di sinistra, che andranno rimossi e sostituiti con personaggi cari agli Stati Uniti. Insomma con dei fantocci, come avvenuto in Iran con lo Scià nel 1953.
Una strategia seguita nei dettagli dai servizi americani. Sotto la presidenza Eisenhower si calcola che siano state ben 170 le azioni segrete in 48 paesi, usando la crescente paura del comunismo per imporre la propria visione del mondo.
Lotta al comunismo o tutela dei propri interessi commerciali?
Non potendo seguire tutti i 170 casi, ne vorrei presentare almeno uno, avvenuto nel 1954, sotto la direzione del direttore della CIA Allen Dulles.Prima di entrare nei dettagli è bene capire una cosa. Se gli Stati Uniti si presentano come i paladini dell’anticomunismo, è bene guardare più da vicino i loro interessi.
In Iran, ad esempio, intervengono per avere vantaggi, che saranno considerevoli, sull’acquisto del petrolio. Nell’Indonesia di Sukarno cercano (inutilmente) di intervenire quando si scopre che nel sottosuolo ci sono 20 miliardi di barili di petrolio, che sia unb caso?
Dunque al di là dell’ideologia, gli USA vogliono difendere i propri interessi negli altri paesi. In particolare vogliono farlo là dove le loro multinazionali hanno messo piede e fanno il bello e cattivo tempo in termini economici. La Cuba di Batista era esattamente questo, una specie di parco giochi di Washington. La rivoluzione di Fidel Castro ha tolto agli americani tutti i loro giocattoli e così si spiega la reazione violentissima, come non avvenuto in nessun’altra occasione.
Ma adesso ci spostiamo in Guatemala, all’inizio degli anni ’50.
Il paese ha un governo progressista, retto prima da Juan José Arévalo e poi da Jacobo Árbenz Guzmán. É la fase rivoluzionaria del paese, di tendenze socialiste. In particolare Árbenz vara una riforma agraria che, tra le altre decisioni, espropria le terre non utilizzate. Come in altre situazioni del subcontinente, c’è una società che ha in mano larga parte dell’economia della zona. In questo caso si tratta della United Fruits Company, che non solo controlla il commercio di cibo, in particolare delle banane, ma anche centri nevralgici come l’unico porto atlantico del paese, le ferrovie, il telegrafo e il polo ospedaliero. Secondo gli storici, nel dopoguerra, la società viene usata dalla CIA per combattere la diffusione del comunismo. L’azienda fornisce un grande sostegno finanziario e materiale (ad esempio aerei per trasportare le truppe) sia in Guatemala che a Cuba, dove finanzia la spedizione che termina alla Baia dei Porci, come abbiamo visto in precedenza.
Sospettando intenzioni non proprio pacifiche da parte degli USA, il governo guatemalteco si rivolge alla Cecoslovacchia chiedendo aiuti militari. Il 15 maggio 1954 una nave ceca scarica 2000 tonnellate di armi destinate al governo. Si tratta, a detta degli storici, di pezzi piuttosto antiquati, spesso obsoleti, inadatti a fermare una eventuale irruzione ben organizzata. Ma questo è sufficiente per creare il casus belli che la CIA e la United Fruits aspettavano. Allen Dulles aveva comunque messo le mani avanti, autorizzando il rovesciamento del governo già nel dicembre precedente. L’azione prende il nome di PBSuccess. La metodologia è più o meno la stessa di ogni altro rovesciamento di governi stranieri. Calunnie, manifestazioni guidate da Washington, creazione di una forza d’attacco, guidata dal colonnello Carlos Castillo Armas, scelto direttamente dall’Intelligence americana. Il colpo di stato riesce e Arbenz si dimette il 27 giugno 1954, lasciando il paese nelle mani di un dittatore con un futuro oscuro fatto di guerra civile per 40 anni.
La CIA però, in questo caso, scala un altro gradino. Oltre alle solite azioni segrete, questa volta partecipa direttamente alla guerra, usando la propria flotta privata per bombardare città guatemalteche. Azioni che avevano avuto il nulla osta da parte del presidente Eisenhower. É una svolta pericolosa per l’agenzia di spionaggio statunitense, perché adesso agli atti di guerra politica si aggiungevano atti di guerra vera e propria. E questa non sarà per niente l’ultima volta.
Da questo esempio, che, come già detto non è affatto l’unico, si impara che l’interventismo o, se preferite, l’imperialismo statunitense ha un forte connotato commerciale ed economico e che usa il pericolo dei comunisti come scusa per intervenire dove le pare. Anche se questa parte non è sulla storia del comunismo in senso stretto, credo valga la pena ricordare come le teorie ugualitarie … ricordate Rosa Luxemburg che voleva una società di liberi ed uguali? … valeva la pena, dicevo, ricordare come le teorie ugualitarie siano state sempre viste come pericolose da una nazione e un popolo che ha fatto del capitalismo e del consumismo la propria bandiera. Insomma, se Russia, Cina, Cuba e gli altri stati comunisti hanno avuto i loro torti, anche gli americani non sono da meno. Ed ho citato solo un esempio dei molti che potevo fare … a partire dalla tragica fine di Salvador Allende.
Conclusioni
Nella lunga storia del comunismo sono nati molti stati, retti da governi marxisti o leninisti. La maggior parte di questi hanno adottato una politica economica assai lontana da quella proposta da Marx o da Lenin o da Mao. L’economia di mercato, la globalizzazione, il consumismo hanno fatto piazza pulita del respiro comunista originario.Ma ci sono ancora alcuni paesi a guida comunista, o perlomeno che si dichiarano tali, perché, come visto, non è semplice parlare della Cina di Xi Jinping come rappresentazione delle teorie marxiste. A volte l’aspetto comunista è rimasto solo sulle pagine delle varie costituzioni.

Siamo alla fine di questo lungo discorso sul comunismo. Dalla sua storia sembra piuttosto evidente che il fallimento quasi completo delle esperienze pratiche farebbe concludere che le utopie dalle quali siamo partiti, sono rimaste tali e che nessuno è mai riuscito a costruire quella società di “Liberi ed Uguali”, preconizzata da Rosa Luxemburg.
Se pensiamo alle aspirazioni del comunismo ideale, non possiamo che rammaricarci che non si siano realizzate. Possiamo farlo leggendo un brano di Norberto Bobbio, che certo non si può considerare uno studioso di sinistra. Lo scrive nel 1995 in “L’Utopia capovolta”:
“In un mondo di spaventose ingiustizie, com’è ancora quello in cui sono condannati a vivere i poveri, i derelitti, gli schiacciati da irraggiungibili e apparentemente immodificabili grandi potentati economici, da cui dipendono quasi sempre i poteri politici, anche quelli formalmente democratici, il pensare che la speranza della rivoluzione sia spenta, e sia finita soltanto perché l’utopia comunista è fallita, significa chiudersi gli occhi per non vedere [...]. Il comunismo storico è fallito [...]. La democrazia ha vinto la sfida del comunismo storico, ammettiamolo. Ma con quali mezzi e con quali ideali si dispone ad affrontare gli stessi problemi da cui era nata la sfida comunista?”
Come non essere d’accordo?
Premessa
Su questo testo il canale Youtube Nova Lectio ha realizzato un bellissimo video che trovate qui: VAI AL VIDEO
Introduzione
Oggi parliamo di razzismo, ma non citando Vannacci e i suoi sproloqui, ma andando alle origini di questo fenomeno, affrontando il tema da un punto di vista storico, anche se non generale, perché parleremo di cosa è stato e di cosa è oggi il Ku Klux Klan, l’associazione statunitense che incarna le idee di molti americani, che vedono minacciata dalla società multietnica quello che siamo abituati a definire suprematismo bianco, vale a dire la convinzione che la razza bianca abbia qualche marcia in più rispetto alle altre.Che poi, il razzismo degli statunitensi, nell’arco dei secoli, non ha guardato in faccia nessuno, neanche i bianchi, perché comunisti, anarchici, ma anche solo italiani o ebrei, hanno avuto le loro disavventure, a volte drammatiche, molto drammatiche.
Ma torniamo al Ku Klux Klan. Quando e dove nasce? Ma soprattutto perché nasce? Infatti limitarsi a parlare dei cavalieri coperti dai bianchi lenzuoli come di sempliciotti razzisti è un errore imperdonabile. La storia ci insegna che qualcosa di molto più profondo ha messo in moto questa macchina. Che cosa? Ascoltiamo una canzone e poi ne parliamo.
Introduzione
E così eccoci arrivati al 2025.
Introduzione

Ora non vorrei essere troppo drastico. É sicuramente un rito fantastico, che riunisce le famiglie, quando ci si scambiano i doni e si mangia il panettone con lo spumante. Tutto bellissimo, ma questo non è quello che mi interessa condividere con voi. Vorrei cercare di capire, grazie alle fonti storiche che abbiamo oggi, cosa è stato davvero il Natale, perché si festeggia il 25 dicembre, a cosa sono dovute le narrazioni collaterali, come la venuta dei tre re magi, che oggi sappiamo non erano tre e neppure re. Dico subito che non sempre si riesce a risalire a fonti attendibili o addirittura certe dei fatti, che ci sono molte stranezze, relative alle date e agli avvenimenti in quel pezzetto di Medio Oriente, di 2 millenni fa, anno più anno meno.

Cinquant’anni prima, il 23 agosto 1927, a Charlestown, la sedia elettrica toglie la vita a Ferdinando Nicola Sacco, 36 anni, e a Bartolomeo Vanzetti, 39 anni, dopo che un tribunale ha decretato la loro condanna a morte. Perché? Quali tremendi reati hanno commesso? Che ci fanno quei due negli Stati Uniti d’America, il paese della giustizia e della libertà. Già … giustizia e libertà … i due italiani, uno pugliese di Torremaggiore, l’altro piemontese di Villafalletto, queste parole le conoscono bene, sono anarchici e quindi … avete visto il video sull’anarchismo?

Oggi parliamo, infatti, del potere, quello vero, non quello che esce dalle urne di una elezione. Spesso (non sempre si intende) i politici sono solo uomini devoti ad una causa o a qualche capo o a qualche associazione che preme su di loro perché si comportino in un certo modo. Succede, ad esempio, negli Stati Uniti, dove concorrere alle elezioni è molto costoso e, se non sei un miliardario, devi avere alle spalle una serie di sostenitori che finanzino la tua impresa. Il risultato è la nascita dei lobbisti, termine che noi diciamo con un certo disprezzo, ma che, oltre oceano, viene utilizzato in senso neutro, senza dare ad esso alcun peso negativo. La maggior parte dei senatori e dei deputati statunitensi sono lobbisti e quindi gestiscono il potere per conto terzi.

Ripercorrere la storia di Sandro Pertini significa rivivere la storia d’Italia del Novecento fino agli albori della caduta della prima repubblica, un periodo lungo, ricco di eventi che hanno stravolto il mondo, a molti dei quali lui ha partecipato da protagonista.

Introduzione
Carissimi amici di NSSI, benvenuti a questa puntata della trasmissione, l’ultima prima della sosta estiva. Credo sia abbastanza chiaro quale sia il tema di oggi. La canzone introduttiva è uno dei canti più famosi dell’anarchismo e ricorda l’espulsione di un gruppo di anarchici dalla Svizzera. Tra questi c’era l’autore del testo che abbiamo appena ascoltato, Pietro Gori. Si era rifugiato in Svizzera perché accusato di complicità nell’omicidio del presidente francese Sadi Carnot nel 1894, ad opera di un altro anarchico, amico di Gori, Sante Caserio.
Da questa introduzione può sembrare che gli anarchici siano tutti bombaroli, per usare un’espressione cara a Fabrizio De Andrè, anche lui anarchico. Questa puntata vuol dimostrare che le cose sono enormemente più complesse e che parlare per sentito dire fa, sempre, fare brutte figure.
Avviso subito che la puntata è bella tosta, piena di riferimenti storici, spesso poco conosciuti dal grande pubblico.

Tanto per chiarire: dopo la sua morte, è stato chiesto a molti suoi contemporanei importanti, politici, giornalisti, intellettuali, di definirlo. Non ci sono due definizioni uguali, ciascuno ha privilegiato un suo aspetto, positivo o negativo che fosse, perché Pannella è così: il bene e il male, la luce e l’ombra. Ma resta una figura centrale, anzi centralissima, della politica italiana. Diverso da tutti gli altri, una figura leggendaria per la sua unicità rispetto a quanti lo hanno circondato con affetto o lo hanno respinto con sdegno. Un alieno per metodi non convenzionali, spesso inventati perché ancora non esistenti.

Introduzione
Oggi ci occupiamo di avvenimenti, molti avvenimenti, che hanno coinvolto un sacco di gente durante gli anni della prima repubblica, diciamo dalla metà degli anni 70 fino a …In realtà alcuni dei personaggi di cui parliamo sono ancora oggi citati nella cronaca, nella cronaca nera, quindi una data di scadenza proprio non esiste. E tuttavia le vicende che maggiormente ci interessano fanno parte di quel grandissimo casino degli anni che finiscono verso la fine del secolo scorso.
Di cosa parliamo? E quali sono i personaggi di cui ho detto? Oggi vi racconto la storia di un gran numero di delinquenti. Questa volta però non è solo un modo di dire, come quando, per fare un esempio, parliamo di qualche politico birichino. Anche se qualcuno di loro entra nel nostro racconto. Si tratta di delinquenti veri, di banditi, tra i più crudeli ed efferati che gli anni dal 1975 in poi abbiano conosciuto. Oggi voglio raccontarvi le vicende legate ad una banda criminale romana, nata in un quartiere degradato, la Magliana. L’argomento di oggi è la banda della Magliana.

É Josè Alberto Mujica Cordano, per tutti semplicemente Pepe Mujica. Questa è la sua storia.
La sua salute, in queste ultime settimane è peggiorata, ma quando scrivo questo pezzo è vivo e vegeto e io spero rimanga tale ancora a lungo.
Il giovane Lorenzo

Nel 1930 la famiglia si trasferisce a Milano, dove, per l’aria che tira contro gli ebrei, i genitori si sposano in chiesa e battezzano i figli. Lorenzo decide di non iscriversi all’Università, ha altre cose in mente: vuole diventare pittore. Così si iscrive a Brera, ma, soprattutto, frequenta lo studio di un artista tedesco, Hans-Joachim Staude dal quale impara un sacco di cose al di là delle tecniche pittoriche, una filosofia che curi i particolari essenziali e punti all’essenziale. Un insegnamento che l’accompagnerà tutta la vita.


Muore da “eroe comunista”, subendo un ictus sul palco di Padova, durante un comizio elettorale nel 1984. Più di un milione di persone parteciperanno ai suoi funerali a Roma. L’effetto della sua scomparsa porterà, per la prima e unica volta, il suo partito ad essere il primo in Italia, anche se per una manciata di voti.


La società dei consumi, quella in cui viviamo, è fondata sui rifiuti. Senza di essi non esisterebbe.
La rivoluzione industriale del ‘700 ci ha regalato un sistema di produzione “lineare”. Si estraggono materie prime: quelle che servono per realizzare le merci, e quelle che servono per produrre l’energia necessaria alla loro lavorazione. Facendolo, si produce inquinamento e, spesso, devastazione dei territori.

I numeri sono importanti e dicono molto, ma non tutto, di questo periodo. Ci sono decine di migliaia di morti ma un numero molto minore di cadaveri, migliaia di prigionieri, cittadini fucilati per strada, un milione di esiliati. Questo orribile conteggio, che ancora oggi non ha spento il suo eco, va, in qualche modo, spiegato, perché la dittatura è stata, anche, un atto politico, una presa di potere per la quale occorre porsi alcune domande. Perché è avvenuta? Chi l’ha resa possibile e chi l’ha sostenuta? Quali novità ha portato nella vita sociale, associativa, economica del paese? E poi: perché e come è finita?

Oggi il discorso si allarga, perché vogliamo studiare il fenomeno più diffuso di tutti legato alla deforestazione. Ci chiediamo infatti cosa succede alle zone boschive devastate dalle ruspe e dalle motoseghe. A cosa servono i terreni liberati dagli alberi?

C’è un altro motivo per cui gli alberi vengono tagliati e questo è direttamente legato al tipo di legno con cui sono fatti. Se ci pensate, quante cose fatte in legno avete in casa vostra? Possiamo cominciare dai pavimenti per passare a molti mobili, soprattutto se questi hanno qualche decina d’anni alle spalle da quando sono stati costruiti. E poi librerie, tavoli, sedie e chi più ne ha ….

Prima però vorrei sottolineare un concetto che penso debba essere chiarito.
Le dichiarazioni dei potenti (lo faranno anche a Dubai non c’è dubbio) parlano da molto tempo di “ridurre” la deforestazione. In questo verbo, “ridurre”, c’è tutta la truffa della situazione. Cosa significa, infatti “ridurre”? Significa tagliare meno alberi, vale a dire che invece di eliminarne mille al giorno, ne elimineremo 750. Qual è il risultato? La deforestazione diminuisce? Per niente. Aumenta ancora, anche se ad un ritmo più lento. Altre foreste vengono distrutte, il contenuto di gas serra nell’atmosfera cresce ancora, così come la temperatura media del pianeta, con tutte le conseguenze che ben conosciamo … ma il solito idiota che si informa su Tik Tok sarà felice e contento di aver sentito che la deforestazione viene ridotta.
A chi conviene che le foreste diminuiscano, che si facciano grandi spazi liberi in Amazzonia, in Congo o nel Borneo? E perché?
8 miliardi! É il numero di persone che tra poco popoleranno questo nostro pianeta. 8 miliardi che hanno bisogno di cibo, che vogliono carburanti per le loro automobili, vestiti da indossare, legname per le costruzioni, vogliono avere a disposizione caffè, cacao, pellami, olio, bistecche. La società dei consumi vuole costruire sempre più abitazioni, strade, parcheggi e ipermercati. Per tutto questo serve spazio, terreno, spesso terreno fertile, ne serve sempre di più, e non si sa dove trovarlo. E allora? Allora si elimina una parte delle foreste, che non servono, così come sono, a fare denaro.

Già … “scomparso”!
É questo l’aggettivo chiave di questa nostra storia. “Scomparso” in questo caso non sappiamo neanche cosa voglia dire: scomparso perché morto o scomparso perché nascosto da qualche parte? E quali motivi avrebbe avuto per nascondersi? E chi lo avrebbe voluto morto? O è lui stesso ad essersi procurato la morte?
Non ci sono, neanche in questo video, risposte a queste domande. Semplicemente: non lo sappiamo noi, come non lo sa nessun altro. In moltissimi, scienziati di chiara fama, storici, scrittori, registi cinematografici, perfino fumettisti, hanno detto la loro. Le ipotesi avanzate sono molte e una diversa dall’altra. Non si riesce neppure a stabilire quale sia il giorno esatto di questa scomparsa: il 25 quando esce dal suo albergo a Napoli? Il 26 quando scrive l’ultimo messaggio? O uno o due giorni dopo, come qualche storico sostiene? É una storia piena zeppa di misteri. Che fine abbia fatto Ettore Majorana non si sa. Le molte fonti utilizzate per questo video sono spesso in disaccordo, alcune sono datate, altre molto recenti. Tutte fanno affidamento su due elementi: i racconti di chi l’ha conosciuto, i colleghi e i parenti, e le sue lettere, molte lettere.

2 novembre 1975, ore 6,30: la signora Maria Teresa Lollobrigida arriva da Roma all’Idroscalo di Ostia. É un quartiere periferico, povero, dove il Tevere si butta in mare. Si avvia verso la sua casa, ai margini di un piazzale in terra battuta, quando vede per terra un “mucchio di stracci”. Si avvicina per buttarli, ma si trova davanti ad un corpo umano, un cadavere, il cadavere di Pier Paolo Pasolini.
2 novembre ore 6,30: il giornale radio dà la notizia: “Hanno ammazzato il poeta Pasolini”. Una velocità impressionante. Nessuno, tranne Maria Teresa, sa ancora niente, anche se di cose ne sono già successe un bel po’.
Prima di continuare, un avviso importante a chi guarda questo video. Non fidatevi di quello che sentirete. Non perché vi si voglia imbrogliare, ma perché ci sono molte notizie date per vere, che diventeranno false, in una catena di conferme e smentite che, forse, avrà soluzione solo alla fine.

I numeri sono importanti e dicono molto, ma non tutto, di questo periodo. Ci sono decine di migliaia di morti ma un numero molto minore di cadaveri, migliaia di prigionieri, cittadini fucilati per strada, un milione di esiliati. Questo orribile conteggio, che ancora oggi non ha spento il suo eco, va, in qualche modo, spiegato, perché la dittatura è stata, anche, un atto politico, una presa di potere per la quale occorre porsi alcune domande. Perché è avvenuta? Chi l’ha resa possibile e chi l’ha sostenuta? Quali novità ha portato nella vita sociale, associativa, economica del paese? E poi: perché e come è finita?

É uno stato piccolo, molto piccolo, con pochi abitanti, un milione duecentomila secondo il censimento del 2015. Alla faccia del nome, non è nemmeno attraversato dall’Equatore, che si trova un po’ più a Sud.
La terraferma è chiamata Rio Muni; ci sono alcune isole. Tre piccole vicino alle coste e Bioko, ben più importante, dove, stranamente, si trova la capitale, Malabo, 300 mila abitanti, assai più vicina alle coste del Camerun che a quelle della madre patria. Era stata un rifugio per gli schiavi liberati e poi un avamposto navale inglese. Per questo si era popolata ed è stata scelta poi come capitale della repubblica.

Abbiamo cominciato dalle navi che trasportano rifiuti ed armi verso paesi stranieri. Paesi che accoglievano volentieri rifiuti anche molto pericolosi, spesso radioattivi, in cambio di forniture di armi oppure di denaro. Lo smaltimento, se possiamo usare questo termine, avveniva spesso in maniera approssimativa, a volte semplicemente gettando le merci sulla riva dei fiumi o sulle spiagge. In Somalia questo è successo e nel paese africano cercavamo di capire cosa era successo Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Probabilmente avevano capito molto, collegando anche l’utilizzo delle navi della cooperazione, con i loro carichi di vestiario, medicinali e cibo, per trasportare armi e rifiuti tossici. E per questo sono stati assassinati il 20 marzo del 1994. Da allora sono passati quasi trent’anni, ma degli assassini e, soprattutto dei mandanti, ci sono solo indizi, ma nessuna certezza.
Premessa

Abbiamo seguito, nelle scorse puntate camion che interravano rifiuti tossici e radioattivi ovunque, in Italia ma anche all’estero, ad esempio nei paesi dell’Est europeo grazie all’intervento di Cosa Nostra. Abbiamo seguito le rotte così strane di quelle navi che improvvisamente si inabissavano: un sacco di navi forse 40 o forse 100 che ancora oggi riempiono i fondali marini lungo le coste della Calabria e della Basilicata, e anche della Sicilia e della Puglia. Abbiamo saputo, grazie alle indagini di molte procure, grazie alle investigazioni fatte eseguire da alcune commissioni parlamentari, che dietro quegli affari c’erano potenti coperture politiche e militari. Secondo il pentito Francesco Fonti i vertici del partito socialista di Bettino Craxi avevano in mano la situazione, che però lasciavano gestire ai Servizi Segreti, usando come manovalanza gli uomini della ‘ndrangheta, specie quella della famiglia di San Luca e del clan Iamonte.
In mezzo a questo andirivieni di rifiuti compaiono anche le armi, altro grande affare italiano. E armi e rifiuti tossici viaggiano spesso assieme su quelle navi della cooperazione che dovrebbero essere cariche solo di cibo e vestiti per le popolazioni più povere e disgraziate del pianeta.
Nella nostra storia manca un anello importante, che è forse quello che più ha suscitato clamore e sdegno nel paese, o meglio in una piccola parte del paese che sapeva di essere vivo. Gli altri erano troppo impegnati a seguire le gag di Drive In e la pubblicità nascosta di Berlusconi nelle sue televisioni.
L’anello che manca riguarda una giornalista del TG3, Ilaria Alpi, e il suo operatore, Miran Hrovatin, morti ammazzati il 20 marzo 1994 a Mogadiscio, in Somalia. Oggi voglio raccontare la loro storia.

“Le auto elettriche inquinano più dei motori endotermici, altro che sostenibilità!”
Sono queste le frasi che, se cercate in rete “sostenibilità auto elettriche”, saltano fuori, ma non una volta, bensì decine di volte, ciascuna condita di credenziali e presunte prove. “Presunte” per un semplice motivo: di fronte a due verità contrapposte, almeno una delle due dev’essere falsa, di sicuro non possono essere vere entrambe.
Questa è la fine che fanno tutti i dibattiti basati su dogmi o su quell’”ipse dixit” di aristotelica memoria, sostituito purtroppo dalla televisione, dai soloni che pontificano senza averne titolo, da quelli che sono sovvenzionati da questa o quella parte, da quelli che “ho sentito dire che”. Così si cade nei discorsi da ultras del calcio, i quali, di fronte alle stesse immagini, danno interpretazioni opposte, suffragate da quel fenomeno della mente, chiamato tifo. Ci finiscono mille discussioni, anche sulla politica, basta leggere le prime pagine dei quotidiani in una mattina qualsiasi. E viene da chiedersi come si fa a districarsi in questo ginepraio.
É un bel problema. Quello che possiamo fare è usare un metodo pragmatico, eliminando ideologie, posizioni precostituite, preconcetti e tutto il resto che gli va dietro.
Puntata 3: riassunto
So che avete già indovinato, ma la sua testimonianza è servita davvero a poco. Molte inchieste sono state frettolosamente chiuse, la quasi totalità dei documenti dichiarati segreti di stato e desecretati solo di recente (di questo parleremo alla fine del nostro racconto) e insomma la cosa si è protratta, segno evidente che le coperture del malaffare arrivavano in alto, molto in alto.
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