L'omicidio di WIlma Montesi Premessa Il caso "metanolo"

Simonetta Cesaroni

Qomicidi15uesta storia è lunga e complicata. Si tratta di un altro delitto, avvenuto nell’estate del 1990, che ha appassionato a lungo gli italiani, reduci dalle “notti magiche” del campionato mondiale di calcio, che si è giocato in quei giorni nel nostro paese.
La vittima è ancora una giovane donna, di 21 anni, una bella ragazza, Simonetta Cesaroni, letteralmente massacrata da 29 pugnalate nell’ufficio dove lavorava due volte la settimana. Quell’ufficio si trova in un condominio di via Poma, a Roma, tanto che la vicenda viene subito ribattezzata dalla stampa il delitto di via Poma.
É il 7 agosto 1990, quando, accompagnata dalla sorella maggiore Paola e dal fidanzato di questa, Antonello Baroni, arriva alla stazione “Subaugusta” della metropolitana. Qui si lasciano. Simonetta procede verso il quartiere Prati, per entrare nel condominio di via Poma 2, dove si trova un ufficio della “Redi”, società che lavora per il comitato regionale degli ostelli della gioventù. Sono due mesi che ogni martedì e giovedì Simonetta è là, per registrare su un computer i dati dell’azienda.
Arriva, come sempre alle 15,30, poi alle 17,30 telefona alla collega Daniela per sapere una password, che peraltro è scritta all’interno dell’ufficio in cui si trova.
Daniela è l’ultima a sentirla.
A sera, poco prima delle 21, i famigliari cominciano a preoccuparsi. Simonetta è sempre puntuale, alle 20 è a casa tutte le volte. Così si rivolgono a Salvatore Volponi, il datore di lavoro della ragazza per cercarla nel suo ufficio. E qui cominciano le stranezze di questo caso che di stranezze è pieno zeppo.
Il Volponi dice di non sapere dove sia quell’ufficio, del quale è pur sempre il titolare e riferisce di una stranezza. Simonetta avrebbe dovuto chiamarlo verso le 18,20, come sempre, cosa che questa volta non è avvenuta. Finalmente risalgono all’indirizzo, partono in 4 per via Poma: la sorella Paola e il suo fidanzato, il capo di Simonetta, Salvatore Volponi e il figlio di questi, Luca.
Arrivano alle 23,30, si rivolgono alla portiera, Giuseppa De Luca, che si lamenta dell’ora tarda. Volponi le dice “Non mi riconosce?” e così questa prende le chiavi e apre la porta.

L’inquietante scena del crimine

Simonetta è nell’ultima stanza dell’appartamento, seminuda, il corpo crivellato di colpi da arma da taglio, il viso tumefatto, ma, cosa strana, sul pavimento non c’è sangue.
Ha addosso solo il reggiseno e la canottiera, arrotolati in vita. Il resto dei vestiti non c’è: l’assassino se li è portati via, assieme ai gioielli che indossava e ai soldi che aveva nella borsetta. L’autopsia rivela particolari inquietanti. Simonetta viene rincorsa per tutto l’appartamento, poi viene colpita con un pugno al volto e morsa sul seno. Le coltellate, 29 in tutto, sono profonde 11 cm e sono inferte sul corpo già nudo, perché in nessuna delle ferite si trovano frammenti di stoffa. I colpi mortali sono 4: al cuore, all’aorta, al fegato, alla giugulare. Ma non c’è sangue. L’assassino ha fatto pulizie: il tagliacarte, i vestiti imbrattati di sangue, il pavimento. Nello sgabuzzino si trovano gli stracci con cui ha pulito, ben sciacquati, strizzati e rimessi in ordine.
Vicino al computer un foglietto con un disegno inquietante: un corpo disteso con le gambe aperte e la scritta “CE Dead O.K.”.
L’assassino dunque ha lavorato con calma e lucidità, cercando di rendere difficile l’identificazione delle prove da parte degli inquirenti.
Poi è uscito, chiudendo a 4 mandate la porta, probabilmente con le chiavi di Simonetta, chiavi che non saranno più ritrovate.
Cerchiamo di cominciare a fare il punto. Con ogni probabilità la ragazza aveva aperto al killer ed essendo diffidente ed avendo l’ordine di non aprire mai la porta e di rispondere solo al numero riservato dell’ufficio centrale, lo conosceva. Oppure l’energumeno aveva le chiavi di casa. Come movente un tentativo di aggressione sessuale, fallito perché Simonetta non subisce alcuna violenza di questo tipo.
La pista del maniaco si sgonfia subito, per la meticolosità nell’occultamento delle prove: troppo razionale. Un amante respinto o un tentativo di violenza sono in cima alla lista delle ipotesi degli investigatori fin da subito. In questo modo la cerchia dei sospettati non è così grande: servirà a risolvere il caso? É quello che vedremo di seguito.

Le indagini e i primi sospetti

Le indagini cominciano, ovviamente, dentro l’edificio, interrogando i condomini e gli inquilini. Nessuno, però, ha sentito nulla; la portiera conferma di aver visto Simonetta arrivare da sola alle 15,30.
omicidi16Tre giorni di indagini portano al fermo di uno dei portieri dello stabile, Pietrino Vanacore, 57 anni, marito di Giuseppa. Il suo alibi ha un buco dalle 17,30 alle 18,30 di quel martedì. E, secondo i dati autoptici, Simonetta muore tra le 18 e le 18,30 dello stesso giorno.
Per di più, sui pantaloni della divisa ci sono alcune macchioline di sangue. Le giustificazioni che dà sono un pochino fumose ed inoltre il suo atteggiamento freddo e distaccato, a fronte di un delitto così efferato, lo rendono il primo sospettato.
Vanacore aveva dormito nell’appartamento di un condomino in vacanza e nel pomeriggio, secondo la testimonianza della moglie, era andato a fare fisioterapia, poi a comprare qualcosa dal ferramenta e infine aveva innaffiato le piante di due appartamenti con i proprietari in vacanza. Le cose per il portiere non si mettono bene. Ci sono elementi pericolosi nella sua storia. Nessuno lo ha visto e, per di più, il fantomatico uomo che usciva dal palazzo verso le sei non si trova. L’uomo col motorino citato da Vanacore come suo supertestimone arriva solo alle 20 e poi, lui ha le chiavi dell’appartamento in cui Simonetta viene ammazzata. Ma la questione fondamentale sono quelle macchie di sangue. Basta esaminarle per vedere se è o non è della vittima. Così viene fatto: il sangue è di Vanacore e la pista si sgonfia, ma non viene abbandonata, come vedremo.
C’è poi il foglietto con quella strana scritta CE Dead OK. La fantasia porta ad immaginare una folle firma dell’assassino (Cesaroni morta, OK), ma i tecnici dell’azienda smentiscono tutto. Si tratta di un comando del computer, che appare a schermo quando viene richiesta una password. Cosa peraltro più che probabile vista la telefonata di Simonetta alla sua amica Daniela, proprio per avere una password.
Torniamo a Vanacore. Lui esce di prigione dopo 20 giorni di fermo. E dichiara, visibilmente scosso:
Lo so che, anche se sono uscito di prigione, resto l’indiziato numero uno. Ribadisco la mia innocenza. La mia coscienza è pulita. Ora sono felice. Resta l’amaro perché mi immedesimo nel dolore dei genitori di Simonetta. Sono un padre anch’io... Ho avuto sempre fede in Dio. Questa esperienza la ricorderò a lungo. [Simonetta] non la conoscevo neanche né l’ho mai vista, chiamerò i suoi genitori. Chi può essere stato a ucciderla? Magari potessi pensare a qualcuno...”.
Gli inquirenti, però, insistono e cercano ancora. Alla fine, nella guardiola, trovano due scale con alcune macchie, forse di sangue.

Altri sospetti e dichiarazioni interessate?

Anche sul datore di lavoro, Volponi, la polizia nutre seri dubbi. C’è discordanza tra il non sapere nemmeno dove si trovi quell’ufficio e l’aver chiesto alla portiera se si ricordava di lui. La stessa portiera dichiara di averlo già visto quel martedì, mentre Volponi sostiene di aver passato tutta la giornata nella sua tabaccheria. Del resto la portiera è la moglie del principale sospettato e una dichiarazione che allenti la morsa attorno al marito potrebbe indurre anche a qualche confessione non propriamente veritiera.
Nonostante questo, il PM titolare dell’inchiesta, Pietro Catalani, chiede al giudice l’archiviazione per Volponi. Questa mossa viene aspramente criticata dalla stampa, anche in diretta televisiva. Catalani chiede di uscire dall’inchiesta, ma il procuratore Giudiceandrea, respinge la richiesta e mantiene Catalani al suo posto.
Nei tre mesi seguenti tutte le piste cadono, le macchie di sangue trovate qua e là, non rivelano nessun legame con l’omicidio di via Poma e tutti gli imputati vengono scagionati. Anche il fidanzato di Simonetta, Raniero Busco, ha un alibi di ferro per quel pomeriggio e quindi non è sospettabile. Ricordate questo nome, Raniero Busco. Tornerà alla ribalta alla fine della nostra storia.

… un anno dopo

Il mistero rimane. Un anno più tardi, mentre ci si avvia ad archiviare il caso tra gli insoluti, la polizia continua ad avere forti sospetti su Vanacore e su alcune delle affermazioni che costui aveva reso. Un testimone inesistente, un inquilino visto entrare nello stabile mentre invece quello si trovava all’estero, le macchie di sangue osservate da un giornalista sul muro dell’abitazione del portiere, misteriosamente scomparse all’arrivo della polizia. Tutte questioni senza alcuna spiegazione. Resta viva, ancora, la voglia del PM Giudiceandrea, di venire a capo di questo rebus. Poi, nel 1992, ecco il solito e classico colpo di scena.

Entra in gioco anche Federico Valle

Il PM Catalani recapita un avviso di garanzia a Federico Valle, nipote dell’architetto Cesare Valle e figlio dell’avvocato Raniero, che ha lo studio legale proprio nel condominio di via Poma 2.
omicidi15Perché mai questa mossa? Tutto nasce dalle dichiarazioni di un commerciante austriaco, Roland Voller, non una bellissima persona, un condannato per truffa, che aveva l’obbligo di presentarsi tre volte la settimana al comando di polizia Flaminio Nuovo. La storia che racconta proprio in quel comando è questa. Usando un cellulare si verifica uno strano contatto con la signora Giuliana Ferrara, moglie dell’avvocato Valle. Una parola tira l’altra e i due decidono di incontrarsi per un caffè. La donna racconta a Voller di essere preoccupata perché il figlio, quel fatidico giorno, è uscito per trovare il nonno e quando è ritornato, molto più tardi, aveva i vestiti sporchi di sangue.
Attenzione: questa è la storia di Voller, che induce Catalani a chiedere alla famiglia di sottoporre il ragazzo al test del DNA, volontariamente, quindi senza clamore. Ma la famiglia non ci sta. Il clamore va benissimo, così ci sarà una smentita ufficiale e leggibile da tutti sull’innocenza del ragazzo. Ed è proprio quello che avviene. Il sangue sul ragazzo e Simonetta hanno codici genetici non compatibili. Come spesso accade quando si scoperchia un pentolone, saltano fuori telefonate e minacce al padre del ragazzo, l’avvocato Raniero Valle. Ma di quelle telefonate non esiste alcuna registrazione e poi, diciamolo tra noi, le minacce ad un avvocato possono avere un sacco di motivi diversi, compresi i clienti non soddisfatti della difesa in tribunale.
Nonostante l’accanimento del PM Catalani, alla fine anche Federico Valle sembra uscire dall’inchiesta, ma ecco una ulteriore novità. Il ragazzo – suggerisce Voller - ha sul braccio una specie di cicatrice, dovuta probabilmente ad una ferita con arma da taglio. Che sia la stessa che ha ucciso Simonetta? Alla fine si scopre che la ferita era sul braccio di Filippo, il fratello di Federico, che Voller aveva incontrato in un supermercato scambiandolo per il fratello. Voller dunque aveva parlato del figlio di Giuliana Ferrara, senza fare nomi e Catalani era piombato su Federico. Filippo, per di più, quel giorno si trovava in Danimarca, con tanto di testimoni a suo favore. Una bruttissima figura per il PM Catalani, che mette in piedi un teorema che si sbriciola come sabbia sotto la pioggia.
Anche se i dubbi, sia su Federico che su Pietrino Vanacore, restano, i due vengono prosciolti da ogni addebito.

Il criminologo

Catalani però non demorde: sembra abbia un conto in sospeso con i due e impugna la sentenza di assoluzione davanti alla Corte d’Appello di Roma. Prima che questa possa esprimersi, ecco un nuovo colpo di scena. Il criminologo Carmelo Lavorino accerta che a uccidere Simonetta è stato un mancino e le macchie di sangue sono di un gruppo sanguigno identico a quello del figlio di Pietrino Vanacore, Mario, abitante a Torino, ma proprio in quei giorni presente a Roma nell’abitazione del padre. Mario non è mancino, ma ha la mano destra menomata e quini non può che usare la sinistra.
Un’altra ipotesi, dunque.
Intanto la corte d’Appello conferma integralmente la sentenza di primo grado, di assoluzione dei due imputati, Valle e Vanacore padre. La corte lo fa con grande ricchezza di spiegazioni, smontando punto per punto tutte le riserve che il PM Catalani aveva avanzato. E però conclude, come riferisce l’ANSA dell’11 aprile 1995: “… per più di un verso, l’analisi contenuta nella sentenza impugnata si presenta molto più rigorosa e penetrante delle diverse valutazioni poste alla base del gravame»; in questo modo, continua, «non abbiamo voluto pregiudicare, né precludere nulla. Abbiamo voluto solo sottolineare l’inutilità di un rinvio a giudizio in assenza di prove».
Significa che non ci sono prove sufficienti a mandare sotto processo i due indiziati.

Altre ipotesi ancora

Nel calderone delle ipotesi, viene anche avanzata quella che a uccidere Simonetta siano stati i servizi segreti, perché l’Associazione alberghi per la gioventù è di fatto una copertura per i servizi stessi. Ma è difficile vedere un agente segreto, addestrato ad uccidere, comportarsi come quello che ha tolto la vita alla giovane Cesaroni, per cui l’ipotesi finisce presto in un cassetto.
omicidi18Ma scuote anche l’ambiente per cui la Procura di Roma decide di rivedere tutto da capo, a cominciare dal computer di Simonetta, che poteva contenere delle risposte interessanti.
Ed ecco una nuova pista, legata a Videotel. Siamo agli albori dell’informatica e questo servizio, gestito dalla SIP, la compagnia di telefonia unica all’epoca in Italia, permetteva agli abbonati di scambiarsi dati, specialmente file di testo e quindi di entrare in comunicazione tra loro. Insomma un nonno, forse un bisnonno, dei moderni social come Facebook o Twitter.
Dunque una testimone riferisce agli inquirenti che quel giorno, una persona di nome Simonetta l’aveva contattata per avere informazioni su un altro utente, il cui nickname era Death, proprio come era scritto sul famoso biglietto a fianco del computer della vittima. Questo Death si era presentato online in modo aggressivo, scrivendo: “Hai visto che l’ho fatto, ho ucciso Simonetta, tanto la firma c’e”.
Il “c’è” era scritto in modo scorretto, senza l’accento sulla e, proprio come riportato sul biglietto di cui sopra. Un’altra pista dunque, ma subito abbandonata, perché il computer di Simonetta non era neppure collegato alla rete Videotel quel giorno.
Questa storia sull’omicidio della povera Simonetta si potrebbe chiamare: gli sviluppi non finiscono mai. Ed eccone un altro di nuovo.
Infatti finisce a giudizio anche il datore di lavoro della ragazza, Ermanno Bizzocchi, per falsa testimonianza, per aver negato che Simonetta era una sua dipendente. E così viene fuori una furibonda lite tra i due, con minacce neppure tanto velate da parte dell’uomo. Ma anche questa pista non porta a niente e viene presto archiviata.
Come si vede una ridda di voci, di piste, di ipotesi, ma di fatti, nemmeno l’ombra. I parenti di Simonetta tuttavia non mollano mai: vogliono sapere cosa è successo quel maledetto pomeriggio del 1990.

Sono passati dodici anni, quando …

Così, dodici anni dopo l’omicidio, nel 2002, la Procura di Roma tira fuori il volume ormai diventato enorme e rilegge tutte le carte che contiene. C’è una lettera del padre di Simonetta al ministro di Giustizia che contiene queste parole:
in tutto il procedimento ci sono stati errori, omissioni e depistaggi che devono essere scoperti e chiariti.» Nella stessa dice di essere non rassegnato ma «sfiduciato per la mancanza di volontà da parte della magistratura e della polizia di trovare l’assassino, che è rimasto così ancora sconosciuto e libero di circolare.»
É il 2004, quando proprio queste parole certificano un altro fallimento della revisione romana. Quello che è mancato alle indagini lo ho raccontato questa sera: verifiche del DNA dei sospettati, l’aver aspettato troppo a lungo per gli esami delle impronte di sangue; non aver predisposto un esame istologico sul braccio ferito di Federico Valle e altre mancanze ancora.
L’allora datore di lavoro della ragazza, Salvatore Volponi, abbiamo già visto come faccia dichiarazioni confuse, tanto da rendere poco credibile la sua persona. Poi scrive un libro sul caso Cesaroni, nel quale sostiene, tra l’altro, che Simonetta era sentimentalmente legata ad un uomo. L’ipotesi, da sempre più credibile, è che l’assassino sia qualcuno che la ragazza conosceva, magari non da molto, ma verso il quale nutriva una certa fiducia. Del resto nella borsetta si trova una scatola nuova di contraccettivi e i versi di una poesia di Lucio Dalla, che fanno pensare ad un amore nuovo, dopo la rottura con il fidanzato, forse appena cominciato, ancora tenuto segreto e finito in modo tragico.
Poi vengono trovate tracce di sangue nei lavatoi all’ultimo piano del condominio. Le analisi dei RIS di Parma (carabinieri quindi non più polizia) dimostrano che quel sangue è sì compatibile con quello di Simonetta, ma anche di molte altre persone. Certo che, se quel sangue fosse della vittima, l’idea che l’assassino fosse salito fin lassù per lavarsi e lavare i panni, cambierebbe di molto la storia. Solo uno che conosca bene il palazzo avrebbe agito così.

É stato il fidanzato?

omicidi16I RIS non demordono e analizzano anche gli oggetti rinvenuti quel giorno: la borsetta, il reggiseno e la canottiera. Trovano un DNA da comparare con quello dei sospettati.
L’autopsia poi aveva trovato residui di cibo nello stomaco di Simonetta. Se, come confermato dai genitori, aveva pranzato alle 13,30, l’omicidio deve essere avvenuto ben prima delle 18,30, attorno alle 15,30, quando è arrivata in ufficio. Può essere, allora, che Simonetta abbia incontrato qualcuno che non doveva esserci.
E, finalmente, ecco il sospettato emerso da queste indagini: Raniero Busco, all’epoca dei fatti fidanzato della ragazza, ed uscito quasi subito dalle indagini, come abbiamo visto in precedenza. Ma il suo DNA è compatibile con quello trovato sulla borsetta e i suoi denti con il morso al seno.
Nel 2007 viene rinviato a giudizio. La stampa ne fa un mostro, ma sappiamo che i giornali sono fatti per essere venduti, quasi mai per raccontare la verità. Nel processo, che comincia nel 2009, Raniero viene condannato a 24 anni di carcere. Le “prove schiaccianti” stanno tutte nelle indagini del RIS e in un alibi non proprio di ferro, dal momento che vengono trovate alcune crepe e alcune bugie raccontate dall’uomo. Poi però si passa al secondo grado e qui, di fronte alla corte d’assise d’appello di Roma, ognuna delle “prove schiaccianti” viene smontata, e Raniero viene assolto per non aver commesso il fatto.
C’è un ulteriore appello dell’accusa e si finisce in Cassazione, tribunale che, nel 2014, dà ragione a Busco, che risulta, definitivamente innocente per la giustizia italiana.
Nel frattempo non tutti i protagonisti di questa incredibile vicenda sono ancora presenti.
Pietrino Vanacore, il custode dello stabile, si suicida nel 2010, lasciando un biglietto di questo tono: “Vent’anni di sofferenze e sospetti portano al suicidio. Lasciate almeno in pace la mia famiglia.” Avrebbe dovuto, due giorni dopo, testimoniare a Roma ancora sul delitto di via Poma.
Anche il padre di Simonetta muore nel 2005.
Dunque restiamo, ancora una volta con un morto, un omicidio efferato, brutale, di una giovane donna. Una vita che ancora non è cominciata, stroncata senza pietà. Ma l’aggettivo da usare, anche per questa storia è un altro: inspiegabile.
L'omicidio di WIlma Montesi Premessa Il caso "metanolo"