Premessa

Vi sto raccontando in queste pagine le storie che hanno riempito di mistero la nostra storia recente. Alcune di queste sono conosciutissime, come quella relativa ad Ilaria Alpi, allo scandalo Lockheed, l’incendio della Moby Prince e così via. Altre invece sono poco conosciute, spesso del tutto sconosciute al grande pubblico, perfino a quello nella cui zona le vicende si sono verificate. Un esempio è l’abbattimento dell’elicottero della Guardia di Finanza Volpe 132 e un altro esempio è il fatto di cui vi voglio parlare adesso. É conosciuto come la strage di Alcamo Marina. Ci sono stati due morti, due carabinieri, ma il caso è estremamente intricato e quindi vi consiglio di seguire tutta la puntata con attenzione. In ogni caso potrete riascoltarla con calma visitando il mio sito noncicredo.org, dove trovate tutte le puntate trasmesse negli ultimi anni da questa emittente. E adesso possiamo cominciare.
Alcamo è un paese a metà strada tra Trapani e Palermo. Si affaccia sul mar Tirreno. Oggi parleremo di un fatto avvenuto il 27 gennaio 1976 nella frazione Alcamo Marina, località balneare grazie ad una bella spiaggia sabbiosa sul golfo di Castellamare, quella in provincia di Trapani.
Nella caserma dell’arma, la Alkamar, quella notte stanno dormendo due militari, l’appuntato Salvatore Falcetta di Castelvetrano (TP) e un ragazzo di 19 anni, il carabiniere Carmine Apuzzo, di Castellamare di Stabia (NA). É una notte di temporale con tuoni e molta pioggia. Del resto siamo in pieno inverno e la località balneare è praticamente deserta di turisti.
Verso le 7 della mattina del 27 gennaio, la scorta di Giorgio Almirante, che passava di là, si accorge che qualcosa non va nella caserma. Il portoncino è stato scassinato, usando la fiamma ossidrica. Fanno intervenire i carabinieri di Alcamo, i quali, entrando, si trovano di fronte ad una scena raccapricciante. Carmine è steso nella sua branda crivellato di colpi: non si è neppure accorto di quello che stava accadendo. Salvatore invece i rumori li sente, cerca di prendere la sua pistola, ma non fa in tempo: viene assassinato come il suo collega. Dalla caserma sono sparite pistole, divise e altri oggetti.
Perché dedicare un articolo ad un fatto che con ogni probabilità nessuno ricorda, forse nemmeno conosce se non chi è rimasto coinvolto direttamente: i familiari delle vittime, quelle uccise e quelle ritenute colpevoli?
In fondo – si potrà dire - si tratta di due morti che non hanno nomi importanti e quindi passano inosservati nell’insieme delle storie che vi sto raccontando.
Ma questa vicenda è allucinante per le conseguenze che ha avuto e per il fatto che, ancora oggi a così tanti anni di distanza nessuno sa chi sia stato né il motivo di questo eccidio. Certo, si sono fatte ipotesi e qualche racconto è emerso ed è proprio di questo che voglio parlare questa sera, perché qualche colpevole è stato riconosciuti e sbattuto in galera con sentenze durissime.
Peccato che quelle persone fossero innocenti.

I fatti

alcamo2Cominciamo con il racconto formale dei fatti, quello che scrive Wikipedia, una fonte semplice, ma che può essere controllata dai diretti interessati. Poi entreremo nelle pieghe della storia e cercheremo di capire meglio.
Prima di cominciare è bene ricordare in che clima vive il paese in quel periodo a metà anni ’70. Sono anni difficili, anche e soprattutto in Sicilia: il pericolo terrorismo, le brigate rosse, la mafia, i servizi segreti “deviati” presenti in provincia. E poi d’inverno non c’è nessuno su quelle spiagge del Golfo di Castellammare proprio dove si trova la casermetta di Alkamar: un luogo ideale per interi sbarchi di sigarette di contrabbando, di droga e forse anche di armi.
Il primo sospetto cade sulle Brigate Rosse, anche se, a dire il vero, c’è una rivendicazione di un gruppo mai sentito prima. Poche ore dopo l’eccidio, infatti, il Nucleo Sicilia Armata, diffonde questo messaggio telefonico con una voce priva di inflessioni al centralinista de La Sicilia.
La giustizia della classe lavoratrice ha fatto sentire la sua presenza con la condanna eseguita alle 1.55 ad Alcamo Marina. Il popolo e i lavoratori faranno ancora giustizia di tutti servi, carabinieri in testa, che difendono lo stato borghese. Il bottone perso da uno dei componenti del nostro commando armato che ha operato ad Alcamo Marina è una traccia inutile perché l’abbiamo preso da una giacca tempo addietro a Orbetello. Carabinieri e polizia fanno meglio a difendersi e a dedicare le loro energie ad altro.  Fanno meglio a difendersi assieme ai loro padroni fascisti e americani. Sentirete ancora molto presto parlare di noi. Possiamo agire ad Alcamo, a Roma, ovunque”.
Di questo fantomatico gruppo, di evidente matrice rossa, nessuno sentirà mai più parlare, segno che il messaggio aveva una funzione di depistaggio. Ma è altrettanto certo agli inquirenti che chi telefonava era stato sulla scena del crimine o, quanto meno, ne era molto ben informato.
Del resto in quegli anni ad Alcamo erano stati ammazzati due altri personaggi pubblici: l’assessore ai lavori pubblici di Alcamo Francesco Paolo Guarrasi (ex sindaco DC) viene ucciso nel maggio del 1975 con 4 colpi di pistola, mentre scende dalla sua auto proprio sotto casa. La pistola che lo uccide è la stessa calibro 38 che soltanto un mese prima aveva ucciso ad Alcamo il consigliere comunale Antonio Piscitello. E poi di spari contro i carabinieri in piena notte ce n’erano già stati, ma senza provocare feriti. Anche in quell’occasione il responsabile non era stato trovato.
Passano solo tre giorni quando, il 30 gennaio, le Brigate Rosse emettono un comunicato, negando con fermezza di aver partecipato ai due assassinii. Nonostante questo la pista che viene seguita è sempre quella del terrorismo rosso.
Le indagini sono guidate da Giuseppe Russo, allora capitano del nucleo operativo di Palermo, braccio destro del generale Dalla Chiesa.
Mentre si cerca tra i vari gruppi e gruppuscoli dell’estremismo di sinistra, ecco il colpo di scena.

Il colpevole?

alcamo41Qualche settimana più tardi, è il 13 febbraio, ad un posto di blocco viene fermato Giuseppe Vesco, di Alcamo su una fiat 127 verde. É un tipo stravagante, tanto che in paese lo chiamano “Giuseppe il pazzo”. La targa della sua automobile è falsa. Gli manca la mano sinistra, amputata dopo che, un paio di anni prima, aveva fatto brillare un ordigno esplosivo forse trovato in un prato. Lo perquisiscono: ha addosso una pistola calibro 7,65, dello stesso tipo di quella usata per l’eccidio dei due carabinieri. Poi, salta fuori un’altra pistola: una Beretta in dotazione ai carabinieri. La conclusione è quasi immediata: è una delle armi rubate dalla casermetta: Il colpevole è stato trovato.
Giuseppe, o Pino, come molti lo chiamano, si chiude in un silenzio ostinato, rotto solo da frasi del tipo: “Mi considero un prigioniero di guerra”, giocando il ruolo del terrorista come quelli veri delle Brigate Rosse. Si dichiara colpevole, ma al processo ritratta. I giornali dell’epoca non danno risalto a questo cambiamento di strategia. Cosa è accaduto tra l’arresto e il processo?
Abbiamo la possibilità di usare due fonti. La prima è l’insieme di lettere che Pino scrive dal carcere, anche se a volte non si conosce l’identità dei destinatari. la seconda è la deposizione di un ex carabiniere, che aveva partecipato all’interrogatorio dopo il quale Vesco aveva confessato tutto.
Cominceremo ad esaminare la prima fonte. Trovare quelle lettere non è facile. Un paio di esse vengono pubblicate nel 1978 dalle riviste “Controinformazione” e “Anarchismo” e vengono poi raccolte da un’associazione, alla quale si rivolge Roberto Scurto, giornalista che tiene un blog chiamato “Liberi di informare”.
Ho già detto all’inizio che seguiamo la vicenda con le informazioni che sono state pubblicate. In ogni caso si tratta di una storia scottante, a volte cruda e pesante, in cui intervengono sevizie e torture e altre questioni poco chiare. Il racconto del carabiniere, avvenuto nel 2007, a 32 anni dai fatti, coincida in larga misura con il contenuto delle lettere non fa che confermarne la veridicità.
Dunque cominciamo.
Nella prima lettera Pino assume l’atteggiamento di un guerrigliero che fa della lotta di classe a difesa del proletariato la sua bandiera. Inneggia alla lotta armata ed è chiaro che l’eccidio di Alcamo in questa lotta armata ci starebbe benissimo. Dunque è giustificato che gli inquirenti seguano la pista del terrorismo rosso.
alcamo20Ma il ragazzo ha anche a preoccupazione che vogliano farlo passare per pazzo e rinchiudere in un manicomio, per poi eliminarlo fisicamente. Quello dell’eliminazione è un chiodo fisso come vedremo tra poco. La parte più dura degli scritti di Giuseppe è quella in cui descrive la tortura subita perché si decida a far sapere dove si trova il materiale rubato nella casermetta e a dire i nomi dei suoi complici. La descrizione è di una lucidità estrema, descrivendo non solo il male subito, ma anche gli stati d’animo che mano a mano egli ha attraversato. Immobilizzato su due casse gli viene versato con un imbuto in gola un liquido che lui, perito chimico, stabilisce essere acqua con molto sale, olio di ricino e terra. L’effetto è quello del soffocamento. Resiste un po’ ma poi deve cedere. Tra l’altro non è uno con un fisico bestiale e non ci vuole molto perché quella tortura produca i suoi effetti. Così i carabinieri riescono a trovare quello che cercano: pistole, divise e quant’altro. Poi ritornano e adesso vogliono i nomi dei complici. La tortura riprende e Pino a quel punto fa dei nomi a caso, coinvolgendo quattro amici con i quali è solito passare parte del suo tempo libero.
alcamo4Dalle lettere non si capisce bene se Giuseppe sia coinvolto o meno negli omicidi. Da un lato c’è tuttavia il ritrovamento della refurtiva, dall’altro il fatto che lui continui a dichiarare di non aver avuto niente a che fare con quel fattaccio.
Già al processo Giuseppe Vesco dichiarerà che tutte le confessioni gli sono state estorte con la tortura, il che, per la legge, rende inutile qualsiasi deposizione.
I nomi coinvolti da Pino sono: Giovanni Mandalà, fabbricante di fuochi di artificio: Vincenzo Ferrantelli, Getano Santangelo, Giuseppe Gullotta. Quattro amici, un paio ancora minorenni che di politica e di lotta armata non sanno proprio nulla. Eppure anche loro confessano. Poi al processo diranno che le loro deposizioni sano il risultato di torture pesanti subite durante gli interrogatori.
Si va verso il processo, ma Pino Vesco non fa in tempo a raccontare la sua storia. Lo trovano impiccato nella sua cella. “Suicidio” sentenziano gli inquirenti, ma come abbia fatto a fare il nodo scorsoio con una sola mano resta davvero un grande mistero. Proprio di questo scriveva alla madre: il timore di essere suicidato.
La prima sentenza è di assoluzione. Nell’attesa dell’appello, i due minorenni, Ferrantelli e Santangelo fuggono in Brasile, chiedono e ottengono asilo politico. L’appello darà sentenze durissime: ergastolo per i due rimasti in Italia, 20 anni per gli altri. Nel 1995 Santangelo tornerà in patria a disposizione della magistratura, mentre l’altro rimarrà latitante. Mandalà muore in carcere nel 1998 di malattia, mentre Gullotta sconta l’ergastolo, finché …

Io c'ero ...

Prima di continuare con la storia, passiamo alla seconda fonte, l’ex brigadiere Giuseppe Olindo, che nel 2008 si presenalcamo5ta ai magistrati per fare le dichiarazioni che tra poco ascolteremo. Quelle che ascolteremo di seguito sono le voci tratte da un documento filmato che è facilmente reperibile in rete. Si tratta, tra l’altro anche di alcune deposizioni durante il processo per la revisione della posizione dei condannati, oltre che di interviste e filmati su altri temi che toccheremo. Derivano anche da trasmissioni radiofoniche e televisive, come ad esempio Blu Notte e La storia siamo noi. Ringrazio gli autori di questi documenti che sono fondamentali se non altro per dubitare di quello che viene passato per verità e ci induce ad indagare ancora per cercare di capire, anche se spesso purtroppo non ne siamo oggettivamente capaci.
Dunque nel 2008 l’ex brigadiere dei Carabinieri Giuseppe Olindo si presenta alla magistratura e racconta quanto segue.
Insomma in quella caserma vengono inflitte tremende torture e vengono condannati all’ergastolo degli innocenti; la vita di quattro ragazzi, privati della libertà e condannati ad atroci sofferenze, è rovinata per sempre. Perché i carabinieri usano tanta violenza e tanta ingiustizia? Da chi hanno l’ordine di procedere in quel modo? Perché la squadra antiterrorismo ha così fretta di chiudere il caso?
Lo stesso Olino riferisce che quando arrivano ad Alcamo, non hanno alcuna idea di come muoversi, non hanno una pista da seguire. Ma ad essi viene imposto di indagare nei gruppi dell’estrema sinistra e solo in quelli. Lo stesso Peppino Impastato si interessa della vicenda e raccoglie documentazioni importanti, ma di questo parleremo tra poco. Adesso ascoltiamo di nuovo Olindo.

Peppino Impastato

In effetti Peppino Impastato si occupava in quel periodo delle molte illegalità che avvenivano in Sicilia e quell’omicidio non era certo cosa da poco. Fa uscire un volantino molto duro nel quale sostiene che i carabinieri stavano cercando di depistare l’azione investigativa e che a lui sembrava strano questo accanisrsi contro le organizzazioni di sinistra, non prendendo neppure lontanamente in considerazione un’origine mafiosa della strage. Ascoltiamo Giovanni, il fratello di Peppino Impastato:

Che i depistaggi di cui Peppino parla ci siano stati è abbastanza evidente. I carabinieri che conducono le indagini vengono dal nucleo anti-crimine di Napoli. Li comanda il capitano Gustavo Pignero, che diventerà generale e dirigerà una sezione dei Servizi segreti militari (il SISMI). Quando il caso viene riaperto, i carabinieri che avevano partecipato alle torture e che facevano capo al colonnello Giuseppe Russo, finiti tutti sotto inchiesta, sono ormai ottentenni e si avvalgono della facoltà di non rispondere.
Resta in piedi la domanda senza risposta: chi ha guidato i depistaggi e per quale motivo? Cosa è successo realmente quella notte di gennaio ad Alcamo?

I dubbi e le nuove inchieste

Le ipotesi sono diverse, alcune coinvolgono direttamente lo stato, altre la mafia, altre ancora dei contrabbandieri di armi o di altra merce. Ma quello che emerge è che in tutta la storia ci sono tante, troppe cose che non tornano o che sono, quanto meno, molto, ma davvero molto strane.
In effetti c’è il suicidio di Pino Vesco che suona di falso lontano un miglio. C’è il ritrovamento dei corpi che fa storcere in naso. Come è possibile che le guardie del corpo di Almirante passino per caso la mattina seguente l’eccidio e si fermino in una stradina di nessun conto, vedano il portoncino divelto e scoprano i cadaveri? Come mai il tribunale condanna senza mezzi termini quattro balordi che non hanno precedenti di un delitto così atroce e, a ben vedere, effettuato con estrema efferratezza e, passatei l’espressione, mestiere.
E allora partiamo quasi dalla fine, quando succede questo:

Eh già, Gullotta, dopo aver passato 21 anni in carcere, viene riconosciuto innocente, viene liberato e il fatto di aver passato gran parte della vita dietro le sbarre viene compensato con 6 milioni e mezzo di euro. Credo non sia difficile immaginare quanto poco quel denaro abbia alleviato le sofferenze di un uomo che non aveva fatto niente e si è trovato privato del bene più prezioso che abbiamo, la propria libertà.
peppinoE questa assoluzione si porta dietro altre conseguenze importanti. Prima di entrare nel merito mi sento di fare una considerazione. É curioso che serva un riesame di questa portata per capire che le conclusioni su molti delitti, dei quali la storia del nostro paese è piena, sono state falsate. La gente lo sa, ma servono sempre prove e documentazioni per poter procedere e soprattutto ci volgiono decenni per venirne a capo, le rare volte in cui questo succede.
Ecco dunque che la sentenza Gullotta spinge il sostituo procuratore Antonino Ingroia, che lavora nella procura di Trapani, a riaprire due inchieste: quella sulla strage di Alcamo Marina e quella su Peppino Impastato, ucciso il 9 maggio 1978. E, di conseguenza, salta fuori anche una terza inchiesta, quella sul suicidio di Pino Vesco.
Secondo la procura tutto quello che è avvenuto è stato fatto con il preciso scopo di evitare che le indagini arrivassero a svelare l’esistenza e soprattutto le opere (certo non benemerite) di un esercito segreto, la struttura segreta Gladio.
Certo, Peppino è stato ucciso dalla mafia, dal clan Badalamenti. Per questo il processo ha condannato Tano Badalamenti all’ergastolo e il suo vice, Vito Palazzolo, a 30 anni. É il 2002 e Tano muore due anni più tardi.
Il corpo di Peppino viene ritrovato lo stesso giorno in cui le BR (o chi per loro) riconsegnano quello di Aldo Moro. La sentenza è immediata. Per i carabinieri si tratta di suicidio o quanto meno di un incidente mentre il giovane sta mettendo dell’esplosivo sui binari. Un’ipotesi assurda per chiunque conosca Peppino. Lui è un militante di Democrazia Proletaria e soprattutto è responsabile di una radio di denuncia contro la mafia, la radio Aut. Quello che qui interessa è che, in quell’occasione, viene eseguita una nuova perquisizione nella casa di Impastato. Si trova un dossier, con scritto sulla copertina “Giuseppe Vesco”. Questa notizia è certa, perché il ritrovamento dell’incartamento compare nel rapporto redatto dai carabinieri. Ma del dossier o di notizie sul suo contenuto non c’è alcuna traccia, da nessuna parte. Il materiale è semplicemente sparito.
E totniamo ancora e sempre alle stesse domande su chi è stato e perché. Sappiamo che sono domande che restano senza risposta. Nel caso appena esaminato è anche evidente come la mafia abbia partecipato direttamente alla strategia.
Carabinieri, Servizi segreti, mafia, probabilmente Gladio … ecco la strada indicata da Peppino.
I due carabinieri, secondo la sua ipotesi, avevano fermato quella sera un carico di armi che la mafia doveva consegnare a Gladio o viceversa. Per questo vengono fatti fuori e poi viene inscenata tutta la faccenda della casermetta ad Alcamo Marina. E c’è anche la scorta di Almirante che, per caso, passa per una stradina di nessun conto, sperduta nel nulla e scopre il portoncino divelto e tutto il resto … ma dai!

Gladio ... che roba è?

gladioHo accennato a Gladio. Di cosa si tratta? Quando è nato? Come è organizzato e, soprattutto, a cosa serve? Di questo parleremo dopo una breve pausa. 
A partire dall’esplosione di una bomba nella banca dell’agricoltura in piazza Fontana a Milano nel 1969 si susseguono una serie di attentati che spesso non hanno alcuna ragione, come quello in Belgio dove un commando perfettamente addestrato fa una strage di clienti sparando senza alcuna remora anche sui bambini. Non esiste ancora una matrice di terrorismo pseudo-religioso come ai giorni nostri e non si era mai visto prima un bandito uccidere senza pensarci su dei bambini. Gli occhi degli inquirenti, di quelli che riescono a capirci qualcosa, puntano su un’organizzazione militare segreta, che ha sedi in tutta Europa e negli Stati Uniti e ci chiama “Stay behind”, che significa sostanzialmente di rimanere dietro, ma dietro a che cosa?
Dopo la seconda guerra mondiale il mondo si spacca in due: da una parte l’Occidente, guidato (il verbo è un eufemismo) dagli Stati Uniti e dall’altro il blocco orientale socialista guidato (anche questo è un eufemismo) dall’Unione Sovietica. Le due superpotenze si fronteggiano in ogni settore della vita pubblica e si armano come se stesse per cominciare una nuova guerra, la terza guerra mondiale, di cui in quel periodo si parla continuamente con grande terrore. Noi italiani viviamo nel blocco occidentale e, anzi, siamo un paese di confine e per questo da tutelare in modo particolare contro il pericolo più grande: l’invasione delle truppe comuniste che arriveranno per mangiare i nostri bambini e fare delle nostre chiese stalle per i cavalli dei cosacchi. Detta così è sertamente sarcastica, ma il fatto è che l’esercito sovietico è probabilmente il più potente in quel momento e quindi arrestarne una eventuale avanzata sarà impossibile. Ecco allora l’idea. Creare dei gruppi di specialisti che operino dietro le linee nemiche (di qui il nome Stay behind = stare dietro) e servano da appoggio per azioni da parte delle forze alleate inglesi o americane che arriveranno a salvarci come nei film americani sui cowboy. L'organizzazione di questo esercito è della NATO, l’alleanza atlantica. Ci sono mezzi enormi messi adisposizione sia come addestramento (che avviene a Sud di Londra) che come mezzi in ogni senso: trasporto, armi, e qualsiasi altra cosa. Le formazioni assumono nomi diversi a seconda della nazione. In Italia Stay Behind si chiama Gladio. Ecco un estratto da una trasmissione di History Channel di 8 anni fa.

É chiaro che qualcuno degli ascoltatori a questo punto si chiederà cosa diavolo c’entri Gladio con Alcamo Marina, gli eserciti segreti con i due carabinieri ammazzati nella casermetta siciliana. Arriveremo a rispondere anche a questa domanda: ci vuole solo un po’ di pazienza. Ci sono sicuramente indizi che lasciano pensare che non sia poi così assurdo pensare ad un coinvolgimento di Gladio. I depistaggi e le modalità con cui i carabinieri eseguono le indagini non sono quelle solite dell’arma. E poi, negli anni ’90, viene scoperto ad Alcamo un nascondiglio di armi dentro un seminterrato di una villa. Lo custodiscono due carabinieri. Siano in Sicilia, si può pensare ad un convo della mafia, ma il deposito è davvero molto particolare. La quantità di armi presenti è impressionante e anche la loro tipologia lascia perplessi gli inquirenti. Non solo: c’è anche il materiale e gli strumenti per fabbricare proiettili di vario genere. La procura si affida ad un consulente esterno, il quale certifica che la possibilità della costruzione di munizioni da guerra è la stessa che potrebbe rifornire la polizia di un intero piccolo stato. I due guardiani, Vincenzo La Colla e Fabio Bertotto, si giustificano con la loro passione per le armi e per esercitarsi al tiro, giustificazione del tutto improbabile visto il tipo di arsenale. Tra l’altro il Bertotto faceva parte (anche mentre si occupava dell’arsenale) dei Servizi segreti, come responsabile della sicurezza delle ambasciate estere.
Le armi sequestrate sono 422, tra cui un centinaio di armi da guerra, mmitra statunitensi, armi degli eserciti dell’Est europeo, duecento pezzi da assemblare, perfino una munizione per contraerea. É piuttosto ingenuo pensare a semplici collezionisti. L’indagine deve adesso scoprire a quale rete tutto questo fa riferimento. In quel periodo è procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia. Anche lui indaga su questi fatti ed esclulde categoricamente che quell’arsenale sia in qualche modo legato alla mafia. Quelli della mafia – dice Ingroia – non solo sono molto diversi come tipologia di armi, ma vengono protetti da profili completamente diversi di guardiani. Insomma c’è dell’altro, ci sono organizzazioni nascoste, come si evidenzierà con l’omicidio Rostagno, di cui parleremo tra poco. Che poi ci siano interazioni tra queste organizzazioni e la mafia è molto probabile ma che sia la mafia ad agire ad Alcamo è, per Ingroia, del tutto fuori discussione.

Mauro Rostagno, Li Causi, la Somalia, le armi e ancora Gladio

E adesso entra in scena un nuovo personaggio, morto ammazzato nel 1993 in Somalia in un agguato per motivi mai accertati. Si chiama Vincenzo Li Causi, trapanese di nascita, militare di carriera e appartenente ai servizi segreti militari. É un nome importante: partecipa alla liberazione del generale Dozier, sequestrato dalla BR a Padova; viene inviato in molte missioni che richiedono abilità e competenza. Insomma è uno che conta. Dal 1987 al 1990 è a capo del Centro Scorpione, una sezione di Gladio a Trapani.
Dal 1991 viene mandato più volte in Somalia. In una di queste missioni viene ammazzato nel novembre 1993. La cosa più strana è che il giorno dopo è atteso a Roma per testimoniare su Gladio e sui traffici di armi e rifiuti tossici e radioattivi provenienti da mezzo mondo e di cui abbiamo parlato a lungo nelle puntate di Noncicredo. Tutto questo pochi mesi dopo la scoperta dell’arsenale vicino ad Alcamo. Il nome di Li Causi emerge un anno più tardi quando si indaga sull’uccisione di Ilaria Alpi, di cui egli sarebbe stato un informatore che ben conosceva i traffici sui quali la giornalista romana stava conducendo da anni la sua inchiesta.
Un ex appartenente a Gladio, protetto dall’anonimato ci dice quanto segue. La sua voce è contraffatta. 
I compiti di Gladio in Sicilia non sono tuttora molto chiari. Probabilmente fungeva da collegamento con la Gladio all’estero, che operava nei Balcani, nel Nord Africa e nel Corno d’Africa. Mauro RostagnoC’è anche la questione del traffico di armi che avviene nell’aeroporto militare di Chinisia, località a Sud di Trapani. Qui si trova il giornalista torinese Mauro Rostagno, uno dei fondatori di Lotta Continua, che in Sicilia vive e lotta contro la mafia nell’ultima parte della sua breve vita. Trasmette servizi importanti contro il potere di Cosa Nostra dall’emittente Radio Tele Cine. Uno di questi lo realizza proprio a Chinisia, quando atterra un aereo militare che viene subito circondato da camion militari e molti uomini in mimetica. Torna rapidamente in studio per montare il servizio che quella sera dovrà fare un botto. In effetti quell’aereo trasportava armi da consegnare evidentemente non tanto alla mafia quanto ad una organizzazione militare.
Quelle immagini spariranno la sera del 26 settembre 1988, giorno in cui Mauro Rostagno viene ammazzato nella sua auto. Chi è stato? La pista seguita è quella della mafia. Ma i dubbi sono enormi, soprattutto a causa dei modi di procedere con le indagini e degli evidenti depistaggi che avvengono. Questa è un’altra storia che si intreccia con quelle fin qui raccontate. Molte indagini sono state fatte e molte ipotesi sono state avanzate sulla morte di Mauro: la mafia, Gladio, i servizi, la massoneria deviata.
Restiamo semplicemente agli atti più recenti, che dicono che, nel maggio 2014, la Corte d'Assise di Trapani condanna in primo grado all'ergastolo i boss trapanesi Vincenzo Virga e Vito Mazzara.
I legami tra mafia e Gladio vengono rivelati in diverse indagini, di recente è saltato fuori che l’ex sindaco di Palermo, Vito Ciancimino, avrebbe potuto far parte della struttura segreta. Lo ha detto il figlio Massimo durante le rivelazioni sulla trattativa tra Mafia e Stato. Giovanni Falcone, mentre sta seguendo piste in merito all’uccisione di Pio La Torre da parte della mafia nel 1982, crede che sia importante confrontarsi con i colleghi romani, che stanno indagando su Gladio, ma si trova davanti un muro posto dal Procuratore Capo. Non si può e non si sa perché.

I pentiti di mafia

Sull’eccidio della casermetta nel tempo ci sono altre voci che intervengono.
Quella, ad esempio, di Giuseppe Ferro, un pentito della famiglia di Alcamo, che conferma che la strage non fu certo eseguita dai ragazzotti accusati e incarcerati. Nella sua testimonianza si legge: “Li ho conosciuti in carcere quei ragazzi arrestati. Erano solamente delle vittime, pensavamo che era una cosa dei carabinieri, che fosse qualcosa di qualche servizio segreto.
C’è poi Vincenzo Calcara, altro pentito di mafia di Castelvetrano, il quale racconta di essere stato compagno di cella di Pino Vesco. Quando arriva l’ordine da parte di Antonio Messina, boss di Campobello di Mazara del Vallo, di lasciare da solo il ragazzo senza una mano. “Fu ucciso da un mafioso con la complicità di due guardie carcerarie” dichiara il pentito.
É lo stesso Messina a spiegare la situazione a Calcara. Vesco deve morire perché è stato uno strumento e deve sparire. I due carabinieri sono stati ammazzati perché hanno visto cose che non dovevano vedere e è stato impedito loro di fare cose che potevano danneggiare non personaggi di cosa nostra ma anche collegati ad essa.
É dunque questa la pista: una connivenza tra mafia e Gladio (o comunque organizzazioni segrete all’interno dello stato) che nel trapanese si sono sempre incrociate e frequentate in un anomalo scambio di favori.
Ma l’invasione sovietica, come ben sappiamo, non c’è mai stata e quindi negli anni l’organizzazione Gladio viene utilizzata per scopi diversi. Tra questi un piano elaborato dalla CIA, l’intelligence statunitense, chiamato Demagnetize (Smagnetizzare). Il suo scopo è quello di togliere ossigeno e depotenziare il Partito Comunista Italiano, che negli anni ’70 comincia ad assumere l’importanza di un partito di governo. Questo coinvolge diversi movimenti di estrema destra, che diventano attivi nella strategia della tensione con numerosi attentati in tutta Italia. Abbiamo ricordato quello di Gorizia, per fare un esempio.
Ci sono stati anche tentativi di golpe, a dire il vero piuttosto velleitari, in uno dei quali interviene anche una delle famiglie mafiose di Alcamo, la famiglia Rimi. É il 1970 e il fallito attentato alle istituzioni italiane è quello di Junio Valerio Borghese, ex fascista, ex presidente del Movimento Sociale, frequentatore di Pinochet e del suo capo della polizia segreta … insomma un personaggino tutto pepe. Dopo la guerra viene condannato a due ergastoli, ma l’intervento dei servizi segreti americani fa sì che quella condanna si riduca a 12 anni, di cui nove condonati. Sfruttando l’amnistia voluta da Palmiro Togliatti viene rilasciato immediatamente. Muore nel 1974 in circostanze abbastanza strane in Spagna, dove si è rifugiato.
Nella provincia di Trapani le organizzazioni segrete sono ben radicate in quel periodo. In un ambiente in cui conta molto più la mafia dello stato, le attività sommerse sono all’ordine del giorno e può quindi accadere che due carabinieri in servizio si imbattano in un trasporto strano, in qualcosa di più grande di loro.
La presenza di Gladio nel trapanese viene certificata ufficialmente solo nel 1990, ma i vertici dell’organizzazione continueranno a ribadire la propria estraneità ai fatti di Alcamo Marina, e a tutte le nefandezze che la popolazione ha dovuto subire in quegli anni. Di questo parla Paolo Inzerilli, responsabile di Gladio dal 1974 al 1986. Ascoltiamolo.
Un altro personaggio, al quale ha accennato il giudice Casson nel suo primo intervento ha avuto una storia notevole. Si tratta di Vincenzo Vinciguerra, condannato all’ergastolo per la strage di Peteano, quella in cui sono rimasti uccisi tre carabinieri e feriti altri due.
Vinciguerra non si è mai tirato indietro, considerandosi un “soldato politico”, facendo rivelazioni e non chiedendo mai uno sconto di pena, anzi volendo rimanere in carcere per tutta la sua durata, ritenendolo un mezzo di protesta. Durante il processo, che vedeva come giudica Felice Casson, lo scontro è durissimo. Il giudice cerca in ogni modo di dimostrare che l’esplosivo usato nell’attentato proviene da un deposito di armi di Gladio, trovato vicino a Verona. Si tratta di C-4, il più potente esplosivo disponibile all’epoca, in dotazione alla NATO.
Nel 1984, a domanda dei giudici sulla strage alla stazione di Bologna, Vinciguerra dice:
« Con la strage di Peteano, e con tutte quelle che sono seguite, la conoscenza dei fatti potrebbe far risultare chiaro che esisteva una reale viva struttura, segreta, con le capacità di dare una direzione agli scandali... menzogne dentro gli stessi stati... esisteva in Italia una struttura parallela alle forze armate, composta da civili e militari, con una funzione anti-comunista che era organizzare una resistenza sul suolo italiano contro l'esercito russo ... una organizzazione segreta, una sovra-organizzazione con una rete di comunicazioni, armi ed esplosivi, ed uomini addestrati all'utilizzo delle stesse ... una sovra-organizzazione, la quale mancando una invasione militare sovietica, assunse il compito, per conto della NATO, di prevenire una deriva a sinistra della nazione. Questo hanno fatto, con l'assistenza di ufficiali dei servizi segreti e di forze politiche e militari
Una posizione personale, ma molto chiara, come quella che esprime a parole. Ascoltiamolo.

Ma Gladio è stato davvero il demonio responsabile di ogni nefandezza che nel paese si veniva compiendo? Adesso ascoltiamo due testimonianza. La prima, brevissima, è di Francesco Gironda, capo della rete Gladio di Milano, mentre la seconda è ancora di Felice Casson, magistrato chioggiotto e più tardi politico dell’Ulivo e poi del Partito Democratico. Ascoltiamoli, poi chiuderemo il nostro racconto.

Conclusioni

Siamo partiti da un fatto particolare, quello dell’uccisione di due carabinieri nella casermetta di Alcamo Marina e siamo finiti a parlare di strategia della tensione, di attentati come quello di Bologna che apparentemente non hanno nulla a che fare con l’inizio della nostra storia. Questo dimostra quello che in questi mesi ho sempre cercato di sottolineare e cioè che le storie sono tutte legate tra loro, perché è periodo in cui esiste una strategia ben precisa che coinvolge lo stato e le sue istituzioni, per mantenere il potere e fare profitti.
Oggi Gullotta è un uomo libero e ricco, libero perché non ha commesso quel reato infamante, così come i suoi amici, quelli sopravvissuti per lo meno. Ma non è libero dagli incubi che nessuno di noi credo possa neppure immaginare di aver passato un terzo della sua vita rinchiuso in un carcere dove non doveva stare. Rinchiuso mentre altre persone e non una sola sapevano perfettamente che era innocente.
Prima di chiudere un’ultima osservazione su Gladio.
cossigaNell’estate del 2014 viene proposta una legge intitolata: “Riconoscimento del servizio volontario civile prestato nell’organizzazione nordatlantica Stay Behind”. La firma Luca Squeri di Forza Italia. In essa si sostiene che i volontari che hanno prestato servizio all’interno di Gladio devono essere trattati come i partigiani e quindi meritano una legittimazione per aver difeso la patria dal nemico. Nessun riconoscimento in denaro, si intende, un riconoscimento sotto il profilo politico e anche militare. Quindi nessun legame con le trame nere, con brandelli impazziti dell’eversione di stato. Sotto sotto la proposta porterebbe dritto al finanziamento pubblico dell’associazione. Il fatto che, una volta capito che il patto di Varsavia non aveva intenzioni di invadere l’Occidente, questa organizzazione si sia mossa in segreto, sfruttando le risorse dei servizi segreti semplicemente per impedire l’accesso al governo del Partito Comunista Italiano è un fatto riconosciuto anche da due dei politici più dentro le questioni delle segrete stanze, come Andreotti e Cossiga.  Del resto quella di Squeri non è la prima volta di una simile richiesta strampalata. La prima in assoluto è del 2004 e porta la firma, guarda caso, di Cossiga. Iniziativa seguita, pochi mesi dopo alla Camera, da un testo identico presentato dal forzista Paolo Ricciotti. Ma Cossiga torna alla carica ancora altre volte: nel 2006, nel 2007, nel 2008 e nel 2009. Sempre nel 2009 un testo identico viene presentato a Montecitorio da Renato Farina, quello famoso per aver partecipato coi servizi segreti alla diffusione di notizie false contro Romano Prodi. Condannato per vari reati e radiato dall’ordine dei giornalisti, oggi collabora con Il Giornale e sarebbe difficile pensare il contrario.
Insomma per la destra istituzionale (Forza Italia, PDL e tutte le altre sigle berlusconiane) Gladio è una organizzazione di eroi positivi, che hanno cercato di fare il bene del nostro paese. Non mi sembra il caso di aggiungere alcun commento.
Termino qui. É stato un articolo forse più faticoso del solito, che ha cercato di raccontare una storia poco conosciuta in cui, ancora una volta, si mescolano affari loschi, mafia e reparti deviati della repubblica, ma, in questo caso, ben conosciuti e sostenuti dallo stato. Alcamo Marina in fondo non è stata nulla come tributo di sangue rispetto a molte altre tragedie di cui vi ho raccontato: penso alle bombe della strategia della tensione: piazza Fontana, Brescia, l’Italicus, Bologna o alle tragedie di cui sappiamo poco o nulla perché occorre che non si sappia chi andava coperto, come nel caso dell’elicottero Volpe 132, della Moby Prince, di Ustica. Purtroppo si potrebbe continuare l’elenco.
Purtroppo ...