PecorelliÉ il 20 marzo 1979, quando Mino Pecorelli viene brutalmente assassinato in via Orazio, a Roma, di fronte alla sede della sua rivista, O.P. verso le nove di sera.
Nella scorsa puntata ho cercato di raccontare come sono andate le cose, quali contatti aveva avuto Mino nell’ultima giornata della sua vita e come erano procedute le indagini, subito dopo.
Ci sono alcune cose strane, come del resto in quasi tutte le storie di questo tipo. Come l’avviso alla pattuglia che arriva per prima sul posto. Si sono sentiti quattro colpi di arma da fuoco, viene detto. La stranezza è che l’arma che spara è dotata di silenziatore. La stessa arma, secondo alcuni pentiti, è in possesso di Enrico De Pedis, il super boss della banda della Magliana, che la tiene come un trofeo. Le armi di questa banda, che entra in ogni losca vicende del periodo che va dal 1975 in poi, vengono trovate dagli investigatori in uno scantinato del Ministero della Sanità. Qui ci sono anche proiettili, abbastanza rari e esattamente dello stesso tipo, di quelli trovati a terra vicino all’auto di Pecorelli il 20 marzo del 1979. Un omicidio da parte della malavita? Difficile da credere, anche perché in quel deposito entrano, con la massima libertà, uomini dei NAR, come Massimo Carminati, e uomini legati alla mafia siciliana come Danilo Abbruciati. Terrorismo, cosa nostra, che a sua volta richiama la politica che conta in quel periodo, come Franco Evangelisti, che confesserà prima di morire la sua vicinanza con i boss siciliani. Ma Franco Evangelisti è il braccio destro di Giulio Andreotti … ecco dunque che tutto è possibile: chiunque può aver deciso che Mino Pecorelli deve morire.
E allora il discorso si sposta sul movente, o sui possibili moventi che portano gli assassini e soprattutto i mandanti a volere la morte del giornalista. Non lo sappiamo con precisione, ma è certo che le indagini e le inchieste giornalistiche di Pecorelli smuovono parecchia polvere nelle alte sfere della politica, dell’imprenditoria, delle forze armate, compresi i servizi segreti. E Mino ha occhi e voci nei punti nevralgici di questi ambienti, tanto da poter pubblicare notizie in anticipo rispetto alle altre agenzie di stampa e, spesso, da poter essere l’unico a farlo. Va dunque cercato in queste pubblicazioni il motivo che scatena l’odio per il giornalista e, di conseguenza, la necessità di farlo fuori.
Quali sono state queste inchieste? E cosa c’era di tanto pericoloso per lo Stato o per i vertici di organizzazioni importanti, come la mafia o la loggia P2 di Gelli o i servizi segreti?
Proviamo a ripercorrere quanto successo.
Dopo l’assassinio i carabinieri svuotano la sede di O.P. La cassaforte è aperta, altra stranezza per un giornale che fa della riservatezza la sua arma fondamentale. Tornano nella sede  altre due volte nei giorni successivi. Anche l’abitazione di Pecorelli viene perquisita. Alla fine le forze dell’ordine portano via molti scatoloni pieni di documenti.
Prima di continuare è bene sottolineare un fatto. Pecorelli è un giornalista, uno bravo e la sua rivista, che nessun cittadino comune legge, pubblica fatti che investono il potere. Lui lo fa come giornalista, non come politico o come aderente ai servizi segreti. Questo almeno è quanto emerge dalle indagini che per molti anni si succedono dopo la sua morte.
Altra cosa da sottolineare è lo stupore che certamente proverà l’ascoltatore che sa poco sulla vicenda, nel chiedersi come diavolo faccia Pecorelli ad avere quelle documentazioni così scottanti, perché, dentro quegli scatoloni, di roba pericolosa ce n’è davvero un sacco.
Tanto per cominciare ci sono documenti classificati, vale a dire coperti dal segreto di Stato: fascicoli sul golpe Borghese del 1970, appunti sulla cospirazione Rosa dei Venti del 1973, fotocopie di corrispondenze confidenziali dei servizi segreti, il rapporto della Banca d’Italia sullo scandalo Italcasse, di cui parleremo stasera, il fascicolo COMINFORM con valutazione dei servizi di un certo Licio Gelli, il dossier Mi.Fo.Biali sul contrabbando di petrolio e una documentazione, mai autorizzata dalla magistratura, fatta dai Servizi Segreti su richiesta di Andreotti su Mario Foligni, segretario del Nuovo Partito Popolare.
Questo dossier e lo scandalo è stato il tema principale della scorsa puntata.
C’è anche un foglio, riservatissimo e battuto a macchina. É arrivato a Pecorelli pochi giorni prima del 20 marzo. C’è scritto:
Telefoni controllati. Silenzio totale per un paio di settimane. Per qualche novità, in cassetta e non di sera. È da ritenersi da non escludere di essere seguiti in tutti i movimenti. Arriverà il seguito per i 500. Nessuna urgenza per un eventuale seguito all’incontro di ieri sera. Escludere con tutti, anche l’amico di Arezzo: una partecipazione ad esaltare la nota persona indebolisce la posizione nell’eventuale discussione e crea notevoli e inutili difficoltà.
Un testo misterioso, per questo degno di nota. L’amico di Arezzo è Licio Gelli.
Pecorelli rivista OPMino Pecorelli, quando muore, ha una lunga esperienza di scoop alle spalle. Tra tutti, quello pubblicato nel 1967, l’anno prima che il suo giornale di allora, Nuovo Mondo d’Oggi, venga chiuso dal Ministero dell’Interno per le notizie riportate.
Dunque nel 1967, Mino scrive un articolo dal titolo “Dovrei uccidere Aldo Moro”, dove riferisce che, nel 1964, Randolfo Pacciardi, capo dell’UDNR, il partito da lui stesso fondato: Unione Democratica per la Nuova Repubblica, commissiona al tenente colonnello Roberto Podestà, l’incarico di preparare un commando per uccidere la scorta di Aldo Moro, rapirlo e condurlo in un luogo segreto. É una delle mosse del Piano Solo, ideato dal generale De Lorenzo, piano al quale Noncicredo ha dedicato la puntata dell’11 settembre scorso e che trovate in audio e testo sul mio sito: noncicredo.org.
Podestà finge di accettare, consegna il piano e poi ne parla con Pecorelli. All’uscita dell’articolo, intitolato “Dovevo uccidere Moro”, Podestà viene arrestato, trasferito a Regina Coeli per “irregolarità amministrative”, poi trasferito in una zona di confine e dimenticato.
Mancano più di 10 anni al rapimento e all’uccisione di Moro da parte delle Brigate Rosse, ma la somiglianza tra quanto avverrà in via Fani e l’articolo di Pecorelli lascia basiti.
Nel 1968 nasce l’agenzia di stampa Osservatorio Politico internazionale, conosciuta semplicemente come O.P. Pecorelli ne è proprietario, direttore, giornalista: fa tutto lui. E manda ai quotidiani comunicati che raccontano le logiche interne ai servizi segreti e della politica, come se lui le vivesse da dentro. Si saprà più tardi che il suo informatore privilegiato è Vito Miceli, capo dell’ufficio D del SID, cioè dell’ufficio che si occupa degli affari interni dello Stato, in una divisione che ricorda un po’ quella tra FBI e CIA negli Stati Uniti. E poi ecco apparire sulla scena Licio Gelli e la sua loggia P2.

Lui, Licio Gelli e i politici democristiani

PecorelliNel 1972, Mino Pecorelli si iscrive alla loggia Propaganda 2 di Licio Gelli. Il maestro massone sta creando una specie di task force per manipolare l’informazione nel paese a proprio vantaggio, che è poi quello di istituire un governo forte, di destra per sconfiggere i comunisti che stanno sempre più prendendo piede grazie ad elezioni democratiche. E Moro, fin dai primi anni ’60, da anni sta aprendo loro la strada
Vede in Pecorelli un uomo di grande prospettiva e cerca di usarlo per i suoi scopi. Ma Mino non è il tipo che si lascia manipolare, anzi. É lui che lo fa, sfruttando i molti contatti importanti, che grazie proprio a Licio Gelli, riesce ad avere.
Tra questi, ma è solo un esempio dei tanti, c’è Romolo Dalla Chiesa, fratello del generale Carlo Alberto, che avrà un ruolo importante nelle informazioni che Pecorelli riceve nel 1978 sul caso Moro, ma di questa storia parleremo la prossima volta.
Le informazioni fioccano, grazie a questi contatti importanti. Come la campagna di stampa che svela il contrabbando del petrolio in cambio di armi fornite all’Africa, in particolare alla Libia (parte dal rapporto Mi.Fo.Biali, di cui ho già detto). Ma quello che stupisce è che Pecorelli pubblica un elenco delle armi, dei veicoli, delle aziende coinvolte così preciso da far rimuovere i vertici della Guardia di Finanza. Inoltre prevede il crack della Tomellini Fassio, uno scandalo enorme che, negli anni 70, coinvolge armatori, aziende, persone. Poi prevede e pubblica articoli sullo scandalo Lockheed, mettendo sotto mira, con pesanti e ingiustificate accuse, anche il presidente della repubblica Giovanni Leone, che risulterà del tutto estraneo alla vicenda.
É abbastanza ovvio che questo essere sempre dentro notizie, che solo lui conosce, lo classifichi come il braccio dei Servizi Segreti. In realtà Pecorelli è semplicemente ben informato, ha gli agganci giusti e pubblica inchieste che sono in anticipo di almeno dieci anni rispetto ai suoi colleghi. Che poi usi un modo di scrivere piuttosto grossolano è tutta un’altra questione.
Dal 1977 O.P. pubblica articoli contro Licio Gelli, svela una lista di 121 cardinali, vescovi e prelati iscritti alla loggia. Scopre, molto prima dell’archivio Mitrokhin, altra puntata di Noncicredo del 23 ottobre scorso, che i palestinesi sono arruolati dal KGB.
Gelli cerca di limitarlo, di farlo ragionare, ma ormai Pecorelli è lanciatissimo e fermarlo a parole è diventato impossibile.
Nel 1978, mentre sta documentando un giro si strozzini, prostitute minorenni, spacciatori e mafiosi, si imbatte in una storia davvero impressionante, una vicenda legata a Sindona, lo IOR, la banca del Papa, e la Democrazia Cristiana.
É un caso clamoroso, come ben sappiamo per averlo già raccontato, in cui entrano Cosa Nostra italiana e americana, il Vaticano e la DC, che ha al Sud in suo grande bacino elettorale. Pecorelli sospetta che la chiave di tutti sia Giulio Andreotti e qui nasce la sua avversione per lo statista romano, contro il quale scrive innumerevoli articoli, spesso criptati, sibillini, ma che lasciano trasparire che lui di cose sul senatore ne sa … e ne sa tante.
Poi c’è il sequestro Moro e, ancora una volta, le sue informazioni sono di primissima mano. É il solo a ritenere falso il comunicato numero 7 delle Brigate Rosse, quello scritto da Chichiarelli della Banda della Magliana, che indica il lago della Duchessa come luogo dove c’è il cadavere di Moro.
Capisce presto che per Moro non c’è speranza e si scaglia contro i partiti, segnatamente DC e PCI, che, secondo lui hanno già deciso che Moro deve morire. Anche di questo argomento sono presenti, nei podcast, due puntate di Noncicredo.
Pecorelli rivista OPE poi c’è tutta la vicenda del memoriale, che racconterò nei particolari la prossima volta. Gli articoli di O.P. sono pesanti, ancora una volta. I titoli sono “Non c’è blitz senza spina”; “Caso Moro: memoriali veri, memoriali falsi, gioco al massacro”, ad indicare che i memoriali pubblicati sono solo una piccola parte di quelli che lo statista pugliese ha scritto durante la prigionia. Perché mai, infatti, le Brigate Rosse fanno domande di cui tutti conoscevano già le risposte, avendo a disposizione una fonte così importante, che sa tutto quello che è successo negli ultimi decenni? Il capitano Arlati, che guida il blitz nel covo di via Monte Nevoso, racconterà che il memoriale viene raccolto dal colonnello Umberto Bonaventura, capo del controspionaggio, per consegnarlo al governo, cioè ad Andreotti. Quando torna indietro il pacchetto dei fogli è sensibilmente più leggero. Dunque mancano molte pagine. Ne verranno consegnate 49, quante ne manchino nessuno lo sa.
Nei primi mesi del 1979, Pecorelli si reca spesso in carcere a Cuneo. Il generale Dalla Chiesa lo viene a sapere e lo incontra. Poi si rivolge al capo degli ispettori del carcere, Incandela, chiedendo di leggere la corrispondenza e registrare i colloqui privati dei detenuti. Incandela risponde che la stessa richiesta l’ha avuta dai servizi segreti e che non può accontentare Dalla Chiesa. Questi allora gli chiede un colloquio faccia a faccia, che avviene in una stradina di campagna. Quando Incandela arriva, trova il generale seduto sui sedili posteriori di un’automobile, al volante della quale c’è Mino Pecorelli. Questi avverte Incandela che un pacchetto con documenti riguardanti Andreotti e Moro diretti al bandito Francis Turatello, uno dei collaboratori nelle prime ricerche della prigione di Moro.
I fogli, comunque saltano fuori; sono appunti di Aldo Moro che parlano di Giulio Andreotti.
Il 6 marzo, seguendo questa pista, Pecorelli incontra il colonnello Antonio Varisco, collega di Dalla Chiesa e l’avvocato Giorgio Ambrosoli, commissario con l’incarico di procedere alla liquidazione della banca Privata di Michele Sindona.
Come sappiamo, Mino Pecorelli viene ucciso, pochi giorni dopo, il 20 marzo, per mano, secondo quanto rivelato dai pentiti, Buscetta in primis, da uomini di Tano Badalamenti e di Stefano Bontate, su commissione di Giulio Andreotti.
Giorgio Ambrosoli viene ammazzato il 12 luglio sotto casa da Joseph Aricò, per ordine di Michele Sindona.
Il colonnello Varisco viene freddato il giorno dopo, il 13 luglio, da cinque brigatisti: Savasta, Algranati e tre ignoti.
Vi racconterò nelle prossime puntate quello che accade dopo: le indagini, l’incriminazione di Andreotti, la condanna e poi l’assoluzione e, come anticipato, la questione del memoriale Moro, che sembra essere, ad oggi, la più probabile causa della decisione di eliminare lo scomodo giornalista Mino Pecorelli.

Le vicende Italcasse e IMI-SIR

Tra i possibili moventi che hanno portato alla decisione di eliminare un testimone scomodo, un possibile divulgatore di notizie che è meglio non si sappiano, c’è anche quello legato allo scandalo Italcasse.
PecorelliNe ho già accennato nella prima puntata parlando degli “assegni del presidente”, ma dobbiamo saperne di più e vedere quali erano i personaggi coinvolti.
Italcasse è il nome che viene dato negli anni ’70 ad una banca. Una banca particolare, perché è una sorta di consorzio di istituti di credito, precisamente di Casse di Risparmio italiane, con in testa quella delle province lombarde, che detiene quasi un quarto delle azioni. Ogni banca investe il denaro che i suoi clienti le affidano. Per farlo con la liquidità in eccesso che arriva da tutti gli istituti dello stesso genere (cioè da tutte le casse di risparmio) ecco nascere Italcasse, nel 1921. Lo scandalo di cui ci occupiamo emerge nel 1977. Successivamente l’istituto viene ricapitalizzato e riprende la sua attività normale, diventando tra l’altro, la prima ad investire, verso la fine degli anni ’80, su varie attività online che oggi fanno parte dell’home banking.
Nel 1998, la Lega Nord di Umberto Bossi, presenta un disegno di legge, numero 4508, che prevede l’istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta sull’Istituto di credito delle casse di risparmio italiane. É firmato praticamente da tutti i parlamentari del partito e, rileggerlo, completandolo nei riferimenti, credo ci permetta di capire gli elementi essenziali della vicenda.
Che sia un partito come la Lega a presentare il progetto è dovuto, anche, al fatto che all’epoca a governare il paese c’è un governo di sinistra, retto prima da Romano Prodi e, successivamente da Massimo D’Alema, dopo la famosa “staffetta” del 1998.
L’accusa è che l’Italcasse abbia elargito migliaia di miliardi alla Democrazia Cristiana, ai partiti del centro sinistra, e alla P2.
La sostanza della vicenda è tutta in finanziamenti, per così dire, “allegri”. Finanziamenti che seguono strade ed hanno indirizzi di destinazione ben precisi. Si tratta, tra l’altro, di un mucchio di soldi.
Questi arrivano da un lato ad industriali insolventi, che tradotto significa pieni di debiti, come Nino Rovelli, proprietario della SIR, Società Italiana Resine. Negli anni ’70, SIR è il terzo gruppo chimico italiano (dopo ENI e Montedison) e conta 13 mila dipendenti. Per far crescere l’azienda in questo modo, Rovelli si avvale di cospicui finanziamenti agevolati, arrivati dallo Stat attraverso banche come IMI e ICIPU, l’Istituto di credito per le imprese di pubblica utilità. Vengono investiti, in particolare, in Sardegna, dove l’industriale crea il polo petrolchimico di Porto Torres. Questa espansione non fa piacere ai due colossi della chimica già citati, ENI e Montedison, tanto da portare ad una vera battaglia che si sviluppa sia sul piano dell’informazione (Rovelli è all’epoca proprietario della Nuova Sardegna e L’Unione Sarda) che su quello politico. Rovelli è molto vicino alla Democrazia Cristiana e in particolare alla corrente di Andreotti, vantando amicizia con quest’ultimo, oltre che con Giovanni Leone e con Giacomo Mancini, già segretario del Partito Socialista Italiano.
Nel 1979, la SIR ha un sacco di problemi economici e così cede la proprietà ad un consorzio bancario, incaricato del salvataggio dell’azienda. É in questo periodo che Rovelli si rivolge alla magistratura, accusando l’IMI di non aver rispettato i patti. Nasce così il caso conosciuto come IMI-SIR, che finisce in tribunale nel 1982, mentre Rovelli ripara in Svizzera. La sentenza del tribunale di Roma del 1990 dà ragione a Rovelli e condanna l’IMI a versare 800 miliardi all’imprenditore, che, però è morto da poco, lasciando alla moglie e al figlio, ormai emigrato negli Stati Uniti, l’incombenza di chiudere la faccenda.
Ma la storia è ben lontana dall’essere terminata. Gli inquirenti milanesi ripercorrono tutta la vicenda. Sono Ilda Boccassini e Gherardo Colombo, due del famoso pool Mani Pulite, a scoprire che la famiglia Rovelli ha comprato a suon di bustarelle la sentenza decisiva contro IMI. A ricevere l’incarico truffaldino sono gli avvocati della famiglia: Cesare Previti, Attilio Pacifico e Giovanni Acampora. Per corrompere i giudici Renato Squillante, Vittorio Metta e Filippo Verde (questo assolto in primo grado) a Previti arrivano 21 miliardi, 33 a Pacifico e 13 ad Acampora. Soldi inviati sui conti esteri degli imputati due anni dopo la sentenza definitiva, nel 1994. Nel frattempo, l’inchiesta IMI-SIR viene riunita con quella del cosiddetto Lodo Mondadori, una causa scatenata per il controllo della casa editrice milanese, tra Silvio Berlusconi e Carlo De Benedetti. Il tribunale dà ragione a quest’ultimo, che prende il controllo dell’azienda. Ma Berlusconi impugna la sentenza e il lodo viene annullato. Ma, ecco il legame con il caso IMI-SIR, anche questa sentenza è aggiustata a suon di mazzette.
Nel 2006 la corte di cassazione condanna pressoché tutti gli imputati 'protagonisti' di corruzione in atti giudiziari.
Gli altri industriali insolventi, come recita la proposta di legge della Lega, sono nomi che abbiamo già incontrato in questa nostra storia sul delitto Pecorelli e precisamente i fratelli Caltagirone.
Il più importante dei fratelli è Gaetano, che prende in mano l’azienda immobiliare di famiglia, aperta dal nonno a Bagheria nel lontano 1905. I problemi cominciano nel 1979, quando una ventina di sue aziende falliscono per l’intervento di Italcasse. Gaetano è accusato di peculato. L’ordine di cattura non viene eseguito perché i tre fratelli Caltagirone sono rifugiati negli Stati Uniti. Solo nel 1988 la corte d’Appello lo ritiene innocente e condanna Italcasse a risarcirlo. I Caltagirone sono molto legati a Giulio Andreotti e a politicamente alla sua corrente. In quegli anni è ben conosciuta una frase che circola come un mantra negli ambienti romani: “A Fra’ che te serve?”, che Gaetano Caltagirone rivolgeva al braccio destro di Andreotti, Franco Evangelisti. Di questo parleremo alla fine della puntata. Ora un po’ di musica.>

Italcasse, il grande elemosiniere della Democrazia Cristiana e non solo

Continuiamo l’analisi che la Lega fa, nel 1998, sullo scandalo Italcasse. Oltre a finanziare imprenditori che certo non hanno un’immagine limpidissima, arrivano soldi, molti soldi, anche ai politici. In particolare ai partiti di centro sinistra all’epoca al governo e, a quanto pare, in particolare alla corrente forte della DC dell’epoca, la corrente andreottiana. Per fare questo, vengono creati dei fondi neri, destinati ai partiti, in un momento in cui il finanziamento occulto è un grave reato. Ci sono altre questioni che Italcasse si trascina dietro, come, ad esempio, il trattamento economico dei suoi dirigenti, pagati davvero uno sproposito. Tra questi spicca il nome dell’ex direttore generale Francesco Arcaini.
Pecorelli rivista OPIl bubbone scoppia nel 1977, a seguito del dissesto della banca finanziaria di Michele Sindona. I fondi neri consistono in centinaia di miliardi di vecchie lire, destinati, come detto, soprattutto alla Democrazia Cristiana, ma non solo. A beneficiare della benevolenza della super-banca sono anche, oltre a segretari amministrativi dei partiti di governo, giornali, cooperative, società sia di area democristiana che comunista. Il tutto finisce su conti correnti ben protetti, ma, evidentemente, non troppo.
Le indagini individuano come responsabili di questo giro enorme di soldi sia Italcasse, ma anche l’ENI, che di mazzette ne sa più di qualcosa, fin dal tempo di Mattei, che ne aveva fatto una strategia industriale.
Quando lo scandalo diventa pubblico, Arcaini si dimette e, al suo posto, viene nominato Giampaolo Finardi. Vediamo come, prendendo spunto dagli appunti che Aldo Moro scrive dal carcere delle Brigate Rosse. Secondo Moro la successione ad Arcaini viene trattata dai fratelli Caltagirone, con il beneplacito della Presidenza del Consiglio, cioè di Andreotti. Lo stesso Finardi dichiara di essere stato nominato perché “pressato da autorevoli intermediari.” A spingere perché salga ai vertici della banca sono, in particolare Flaminio Piccoli, della corrente di Aldo Moro, e Franco Evangelisti.
Finardi dura pochi mesi a capo di Italcasse, giusto il tempo per sistemare gli enormi debiti dei fratelli Caltagirone, con un giro di soldi tale, che alla fine quel debito risulta di gran lunga ridotto ad appena (chiedo scusa, ma il termine “appena” è usato dallo stesso Finardi) ad appena 100 miliardi di lire.
Questo però non basta a salvare Italcasse. Interviene infatti la Banca d’Italia che comincia una serie di controlli che portano a risultati sorprendenti.
C’è la questione delle obbligazioni ENEL. Per ogni obbligazione venduta dall’ente elettrico, Italcasse fa guadagnare ai partiti di governo una certa percentuale.  Non si tratta di pochi spiccioli. La prima emissione del 1965 frutta una mazzetta di 5 miliardi, l’ultima, quella del 1974, altri 2 miliardi e mezzo.
Gli ispettori della Banca d’Italia riescono a certificare anche i particolari. Nel periodo 1972-1974, arrivano: 510 milioni alla DC, 340 milioni all’organo di stampa del partito Repubblicano (la Voce Repubblicana), 230 milioni al partito socialista e 60 al socialdemocratico. Poi ci sono i privati. Arcaini incassa, nello stesso periodo, 180 milioni, 10 milioni a Gina Saccardo Aumiller, stretta collaboratrice di Arcaini, quasi 18 milioni alla FRANCIS Spa, società gestita dalla famiglia Arcaini, quasi 73 milioni alla Unione petrolifera, 589 milioni alla SOFID, la finanziaria del gruppo ENI, 168 milioni all'ICCRI, l’istituto di credito delle casse di risparmio e l'elenco potrebbe continuare a lungo.
Insomma un fiume di soldi.
Queste indagini provocano una strana reazione. La stampa mette sotto accusa la Banca d’Italia, per non aver esercitato un controllo sufficiente sulle attività illecite di Italcasse. nasce così un’inchiesta e vengono ascoltasti alcuni funzionari, tra cui Mario Sarcinelli, vicedirettore generale della Banca d’Italia.
Il governatore, all’epoca, è Paolo Baffi, da tutti ritenuto un galantuomo, preparato e competente, oltreché onesto, tutte qualità che possono dare grande fastidio. Forse è per questo che la sua vicenda, come quella di Sarcinelli, appare oggi torbida e guidata da vendette e schifose porcherie. Proviamo a ricordarla.
Tre giorni dopo l’uccisione di Pecorelli, il segretario generale del presidente Pertini, Antonio maccanico, scrive nei suoi diari: «Ho ricevuto Giovanni De Matteo, il quale mi ha informato della proposta di un suo sostituto di procedere contro Baffi e Sarcinelli… Sono rimasto allibito… Ho informato il presidente, La Malfa e Baffi… Ho un gran sospetto che vi sia un legame con l’Affare Caltagirone, cioè che si voglia premere su Baffi e Sarcinelli perché questi divengano più arrendevoli di fronte al caso Caltagirone-Italcasse».
Giovanni De Matteo è il capo della procura di Roma.
Il giorno dopo Sarcinelli viene arrestato e Paolo Baffi viene incriminato per interesse privato in atti d’ufficio e favoreggiamento, per non aver trasmesso all’autorità giudiziaria una relazione degli ispettori, che ci stavano lavorando dall’anno precedente.
É come una bomba, perché si tratta del personaggio più importante nel panorama bancario italiano del momento. A tutti risulta chiaro che l’azione arriva dai vertici politici, affaristici e giudiziari e il motivo vero è che i due hanno appena fatto sciogliere il consiglio di amministrazione di Italcasse, il più importante istituto di credito, dominato dal potere democristiano.
Baffi e Sarcinelli, infatti, si accorgono che ci sono istituti di credito che sono dei veri e propri covi di malfattori. Gli ispettori vengono spediti ovunque per raccogliere prove di queste malversazioni. L’ispezione forse decisiva per le sorti dei due alti dirigenti della Banca d’Italia avviene poco prima di ferragosto del 1977. Una breve pausa e ne parliamo. (70)>

Italcasse: Baffi, Sarcinelli capri espiatori "de che?"

PecorelliIl settimanale Panorama, nel 1990, riprende la vicenda Sarcinelli-Baffi e riporta un virgolettato di quest’ultimo: “7 febbraio 1978. Un alto esponente dell’amministrazione finanziaria viene a chiedermi con una incredibile insistenza di approvare la sistemazione del debito dei Caltagirone.”
Come accennato, il debito dei costruttori romani supera i 300 miliardi di lire, prestati a 158 società, investiti solo in parte, spesi anche per fini personali e mai restituiti. É il famoso debito che Italcasse cerca di nascondere con il direttore Finardi. A leggere le cronache degli storici (ad esempio di Alfredo Gigliobianco) Baffi e Sarcinelli appaiono come due sceriffi buoni, in un mare di maleodoranti affari loschi, che cercano di portare alla luce e di contrastare.
Anche Mino Pecorelli scrive della faccenda, parlando di Arcaini e dei banchieri suoi simili, nominati dalla politica, come di “foche ammaestrate” con significato ovvio del termine.
Il mastino a cui Baffi si affida è Vincenzo Desario, che successivamente diventerà Direttore e poi Governatore della Banca.
Ecco cosa scrive Desario a Baffi in un suo rapporto dell’epoca:
Sono stati trascurati i più elementari principi di organizzazione aziendale…Si era fatto frequente ricorso a ‘frenetici’ movimenti contabili, interni o in contropartita con altre aziende di credito, allo scopo di far disperdere ogni traccia di operazioni irregolari, di cui ovviamente non si rinveniva in atti alcuna documentazione probante…
Incredibilmente estesa e ricorrente è risultata l’emissione di assegni Iccri o la richiesta di circolari all’ordine di nominativi di ‘pura fantasia’ per corrispondere senza motivo a terzi somme di pertinenza dell’Istituto’. Il presidente di Italcasse, Giuseppe Arcaini, in modo surreale, cercò di giustificarsi in modo maldestro, scrivendo un appunto per gli Ispettori, dove i movimenti intervenuti nei fondi interni sono ‘Operazioni da me ordinate nell’interesse dell’Istituto e senza alcun onere per lo stesso’. Emergono – conclude Desario - tutte le irregolarità e gli abusi che si sono concretizzati in un danno a carico dell’Iccri a tutto vantaggio di terzi”.
I ‘nomi di fantasia’ dei conti che servono per i traffici del direttore generale sono indicativi del pressapochismo e della poca immaginazione: ‘Pentola Vecchia’, ‘Pentola Calda’, ‘Francis’, ‘Mario Ferrari’, ‘Carlo Sassi’, ‘Taddeo Villa’, ‘Silvio Colli’, ‘Primo Landi’; ‘Micheli Rivelli’, ‘Luigi Fantozzi’. Neanche Ugo Fantozzi – prima apparizione nel 1975 - sarebbe riuscito a fare così tanti danni. Desario scrive ancora:
Si evince con immediatezza che, in un arco di tempo pari a poco più di due anni (1972-1974), l’Iccri ha erogato – mediante artifizi contabili – notevoli disponibilità a persone e organizzazioni che formalmente non avevano alcun titolo per introitare le somme ricevute”.
Baffi, ricevuta la relazione, dopo aver consultato gli uffici legali della Banca, chiede al Ministro del Tesoro il commissariamento dell’Italcasse.
Non c’è solo Desario che scrive dell’Italcasse. Lo fa anche Aldo Moro nelle sue lettere dalla prigione. Leggiamo un passaggio:
«E lo sconcio dell’Italcasse? E le banche lasciate per anni senza guida qualificata, con la possibilità, anche perciò, di esposizioni indebite, delle quali non si sa quando ritorneranno e anzi se ritorneranno. È un intreccio inestricabile nel quale si deve operare con la scure. […] E a proposito d’Italcasse, o, come si è detto, grande elemosiniere della D.C., è pur vero che la trattativa in nome dei pubblici poteri per la scelta del successore dell’On. Arcaini è stata fatta da un privato, proprio l’interessato Caltagirone, che ha tutto sistemato in famiglia».
La vicenda scatena anche la stampa, quella generalista, come il Corriere della Sera, che pubblica un articolo di Renzo Martinelli, che dice: «Dalla pentola sono usciti gli assegni del ministro Evangelisti, quelli dei fratelli Caltagirone, le elargizioni ai partiti, i finanziamenti a Rovelli e a Ursini, i prestiti alle immobiliari. E ancora: i miliardi per i “fondi neri”, quelli fuori bilancio utilizzati per gratifiche e regalie, per investimenti folli, per parcelle favolose, ma soprattutto per ungere le ruote del sistema politico. Per trent’anni l’Italcasse è stato il forziere del palazzo, la cassaforte dei potenti».
Le accuse contro Baffi e Sarcinelli sono mosse, con un astio particolare, da Antonio Alibrandi, il padre del terrorista dei NAR Alessandro, morto in uno scontro a fuoco con la polizia nel 1981 e probabile responsabile della morte di Water Rossi e legato alla sempre presente Banda della Magliana. Ma lui in questa storia non c’entra. Quel che è certo è che il padre non è meno fascista del figlio.
A difendere la Banca d’Italia dalle accuse di Alibrandi padre c’è Giuliano Vassalli, che sarà anche ministro di Grazia e Giustizia dall’87 al 91. E lui dice: “Il desiderio di Alibrandi di voler fare l’inquisitore del governatore della Banca d’Italia era certamente legato a una procedura, credo quella dell’Italcasse, che doveva essere stroncata e non andare avanti. L’Italcasse era una specie di fondo della Democrazia Cristiana, a capo della quale c’era Arcaini. La faccenda dell’Italcasse dava noia e questo processo doveva essere smontato: siccome il principale accusatore era Sarcinelli, tutto si orientò per trovare qualche cosa a carico di Sarcinelli. Qualcosa fu trovato, ma a carico di Baffi. […] Baffi era consigliere di un ente, l’IMI, che aveva commesso non so quale presunto errore. Insomma vollero scoprire Baffi: quanta pena ci passammo, mamma mia!
Chi c’è dietro questo attacco disperato contro Baffi e Sarcinelli? É una bella domanda ...>

Italcasse, Banca d'Italia e i mandanti

Per scoprire chi c’è dietro questo attacco disperato contro Baffi e Sarcinelli, forse possiamo dedurre qualcosa dal comportamento dei principali protagonisti della vicenda.
Pecorelli rivista OPCominciamo con il Divo Giulio, appellativo, lo ricordo, creato da Pecorelli per Andreotti.
Il senatore non dice mai una parola in difesa dei due rappresentanti della Banca d’Italia. Eppure dovrebbe essendo lui il rappresentante più importante dello Stato in quel momento. In compenso si incontra molte volte con l’avvocato Rodolfo Guzzi, per discutere del salvataggio delle banche di Michele Sindona, di cui Guzzi è l’avvocato. Ha un rapporto strettissimo con i fratelli Caltagirone. Va anche considerato che la DC, di cui è in quel momento il massimo esponente, una caduta dalle vicende Italcasse la riceve e neanche troppo lieve. Ci sono poi i molti incontri del suo braccio destro, Evangelisti, con Sarcinelli per trovare una soluzione alla vicenda Caltagirone. Sono tutti elementi che portano a pensare che Andreotti abbia un forte interesse ad allontanare quei due rompiscatole dalla Banca d’Italia.
Un’altra delle colpe attribuite a Baffi e Sarcinelli è l’ispezione fatta al Banco Ambrosiano di Roberto Calvi. Non è forse un caso che l’arresto di Sarcinelli avvenga subito dopo la fine di quella ispezione.
E poi, ancora, l’opposizione ai piani di salvataggio delle banche di Sindona, il cui commissario liquidatore è Giorgio Ambrosoli, che finisce ammazzato da un sicario di Sindona l’11 luglio del 1979.
Il figlio Umberto, a proposito delle interferenze sulla liquidazione delle banche, scrive: “Queste sollecitazioni mirano a far sì che alla liquidazione sia data una soluzione fantasiosa ... il buco lasciato dalle condotte criminose di Sindona sarebbe stato ripianato con i soldi della collettività. Di fatto, sarebbe stato annullato il provvedimento di commissariamento e messa in liquidazione della banca, Sindona sarebbe stato restituito vergine alla sua capacità di continuare a fare affari in Italia, sarebbe venuto meno il processo penale: tutto grazie ai soldi della collettività”.
Le sollecitazioni, di cui parla il figlio di Ambrosoli, sono quelle che arrivano da Andreotti, Evangelisti e dal già citato avvocato Guzzi, a Sarcinelli, il quale si stupisce e risponde: “Noi non guardiamo cose che ci provengono dagli avvocati di persone che secondo noi sono dei bancarottieri, perché dobbiamo guardarle?
C’è anche di mezzo la Loggia P2 di Licio Gelli. É Francesco Pazienza a parlarne durante il processo a suo carico. Pazienza è un faccendiere, condannato a 13 anni, che entra ed esce dalle inchieste più oscure di quel periodo, dalla vicenda Alì Agca, al rapimento di Ciro Cirillo, alla strage di Bologna. Secondo il faccendiere sarebbe stato proprio Licio Gelli a decidere l’incriminazione dei due funzionari della Banca d’Italia.
Se questo sia vero non lo sappiamo, sappiamo però che pochi giorni dopo l’arresto, il 2 aprile 1979, i migliori economisti italiani firmano una dichiarazione a favore di Baffi e Sarcinelli, definendo un “ignobile attacco” quello della magistratura nei loro confronti. Qualche settimana dopo vengono tutti convocati in massa a Palazzo di giustizia da Alibrandi e, secondo le cronache, trattati malissimo dal giudice istruttore, con frasi denigratorie e accusatorie. Davanti a lui c’è il gotha dell’economia italiana: robe da non credere. É evidente che si sente sicuro e protetto.
Si arriva così al 1981, quando Baffi e Sarcinelli vengono scagionati da tutte le accuse. Il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, proporrà, dieci anni dopo questa vicenda a Paolo Baffi di riprendere il suo ruolo di Governatore. Ma l’economista rifiuta per paura che il suo ruolo venga in qualche modo ostacolato dalle vicende giudiziarie passate.
Chiudo questa storia con un commento di Marco Vitale, economista, professore, coscienza critica e feroce degli affari milanesi. Il 30 marzo 1979 scrive:
“Ho sempre sostenuto che la nomina di Baffi a governatore della Banca d'Italia è stata l'unica riforma di struttura degli anni '70. Non è dunque un caso che Baffi e Sarcinelli siano trattati come malfattori. Così come non è un caso che tutta l'Italia seria, quella che guarda al futuro e non al passato, ha subito compreso, al di là del merito giuridico, il significato politico dell'episodio e dice a Baffi ed a Sarcinelli: resistete. La realtà è che questa Banca d'Italia seria dava fastidio e meritava una lezione. Così come merita una lezione tutta questa Italia seria che sta cercando, con tanta fatica, di ricostruire il proprio tessuto economico e il proprio volto di paese civile.”
Come entra Pecorelli in questa vicenda così intricata? Ne ho accennato nella scorsa puntata. Il giornalista in effetti sostiene di essere in possesso delle matrici degli assegni elargiti, in quest’affare, al senatore Andreotti e di stare preparando una copertina che non lascerà dubbi e articoli che raccontano tutta la vicenda.
Dagli estratti degli interrogatori nei vari processi per la morte di Mino, emergono alcuni fatti davvero inquietanti.
É il 24 gennaio del 1979, due mesi prima dell’assassinio, quando Mino Pecorelli viene invitato a cena. Ha appuntamento presso la Casa Piemontese, un locale molto scic a Roma, facente parte di un club privato molto esclusivo, che conta tra i suoi soci i nomi più importanti dell’epoca, perfino Oscar Luigi Scalfaro, deputato per tutta la vita nelle file della Democrazia Cristiana, ministro un gran numero di volte e futuro presidente della Repubblica. Lui in questa storia non c’entra nulla, è solo per capire il tipo di personaggi che frequentano il locale.
Ad invitare Pecorelli è il vicepresidente del circolo, Walter Bonino, che fa accomodare i suoi ospiti in una saletta riservata. Non ci sono altri avventori: il circolo per chiunque altro è chiuso. Alla sua destra l’anfitrione fa sedere il personaggio più importante della serata, Claudio Vitalone, il magistrato di cui ho già parlato nella scorsa puntata.
Seguono Pecorelli, Adriano Testi, altro magistrato invitato da Vitalone e il generale della guardia di finanza Donato Lo Prete, quello coinvolto nello scandalo petroli, nella faccenda Isomir e in altre losche questioni, di cui ho parlato, sempre nella prima puntata su questo argomento. Cos’hanno in comune queste persone, a parte Pecorelli? Che sono tutti legati a doppio filo a Giulio Andreotti.>

La cena alla Famiglia Piemontese

Dopo la morte di Pecorelli, quella cena diventa un motivo di indagine piuttosto serio, visto i personaggi che vi hanno partecipato. All’inizio nessuno parla, nessuno spiega il perché di quell’invito. Poi però succede qualcosa. É Testi il primo a parlare. Racconta di una serata movimentata. Che Pecorelli si lamenta di un sacco di cose: del ritiro del suo passaporto, degli attacchi che ha rivolto alla finanza, della mancanza di fondi per la rivista e poi della copertina di O.P., che sarebbe uscita quella settimana. Una copertina sugli assegni Italcasse presi da Andreotti, assieme ad un articolo sul presidente. Vitalone è molto agitato e insiste perché quelle informazioni non escano sul giornale. Pecorelli però non assicura nulla e, in quel momento, è convinto che pubblicherà tutto, anche se poi all’ultimo momento la copertina verrà cambiata.
PecorelliA quel tavolo ci sono due magistrati importanti e un generale della Guardia di Finanza. Per 15 anni nessuno svelerà il segreto di cosa si sia davvero detto quella sera.
Poi Pecorelli viene ammazzato e, dalle indagini, salta fuori anche la cena e qualcuno fa il nome di Vitalone, come possibile coinvolto nell’omicidio. Allora il magistrato si presenta spontaneamente per fare alcune dichiarazioni. Dice che proprio in quell’occasione ha appreso con stupore che Pecorelli veniva finanziato da Franco Evangelisti, il più stretto collaboratore, amico e fedelissimo di Andreotti. Pecorelli si lamenta che le sovvenzioni sono via via calate, fino a scomparire. É evidente agli inquirenti che Vitalone cerca di tirarsi fuori dalla questione, mettendo al centro il rapporto Pecorelli-Evangelisti. Nel contempo però con le sue dichiarazioni fa capire che durante la cena si è parlato di ben altro che delle piccole cose di cui aveva riferito Testi.
15 anni dopo la cena, il 24 febbraio 1994 Testi, Bonino e Lo Prete vengono raggiunti da un avviso di garanzia per il reato di aver reso false dichiarazioni al pubblico ministero di Perugia. É allora che gli illustri convitati alla cena alla Famiglia Piemontese, improvvisamente recuperano la memoria e ricordano che, sì … si è discusso di soldi, quelli che Evangelisti aveva dato a Pecorelli, ma che adesso non arrivavano più.
Il primo a parlare è Bonino, che in una lunghissima deposizione racconta come si sono svolti i fatti. E racconta di una strana, per lui, animosità del generale Lo Prete verso Pecorelli, con ogni probabilità legata alla conoscenza da parte di Pecorelli dei retroscena dello scandalo Italcasse e dello scandalo petroli. E poi saltano fuori i famosi soldi pagati da Evangelisti con Vitalone che casca dalle nuvole. Anche di questo Bonino si stupisce e ricorda che Vitalone gli aveva chiesto come fare a contattare Pecorelli. Al che, Bonino aveva risposto che, essendo lui un caro amico di Andreotti, non poteva avere difficoltà, visto che il braccio destro del presidente, l’onorevole Evangelisti, aveva colloqui costanti e duraturi con il giornalista molisano.
Ho già detto della copertina accusatoria nei confronti di Andreotti. Bonino è convinto che Vitalone abbia riferito, subito dopo la cena, i discorsi a Evangelisti e questi, al presidente.
Del resto lo stesso Vitalone è amico stretto di Andreotti, tanto da essere stato attaccato più volte per un uso strumentale della giustizia, in particolare in riferimento al Golpe Borghese. Ma di questo abbiamo già parlato nella scorsa puntata di Noncicredo. Bonino continua a raccontare e c’è un particolare interessante che rivela. L’impressione che ha Bonino, sia dagli incontri precedenti la cena, che durante la serata alla Famiglia Piemontese, è che l’interesse di Vitalone per Pecorelli non sia personale, ma attinente alla corrente andreottiana della Democrazia Cristiana e, ancora più in particolare, alle vicende di Gaetano Caltagirone, grande e intimo amico di Andreotti.
Il Pubblico Ministero chiede, ad un certo punto, perché mai Bonino se ne sia stato in silenzio per 15 anni, prima di vuotare il sacco. La risposta è netta: è Vitalone, che agiva per conto di Andreotti, a raccomandare il silenzio e l’omertà. Nessuna minaccia, ma Vitalone fa presente a Bonino che raccontare di quella cena e dei discorsi fatti (in particolare sui soldi, sulla copertina, sull’atteggiamento di Lo Prete), avrebbero messo in imbarazzo Andreotti e con lui le alte cariche dello stato. Insomma, secondo Vitalone, il silenzio era dovuto, per salvaguardare le istituzioni democratiche della repubblica. Se volete, potete aggiungere voi “Me cojoni!”, io non posso farlo per decenza.
Dopo che Bonino ha vuotato il sacco, tocca a Testi. Lui continua a negare fino al 24 marzo 1994, quando invia un memoriale alla Procura di Perugia, nel quale ritratta tutto e spiega che effettivamente:>
  1. Pecorelli si è lamentato degli scarsi contributi da parte di Evangelisti
  2. Pecorelli ha preannunciato un attacco ad Andreotti per la questione degli assegni (quelli legati agli scandali Italcasse e petroli)
  3. Vitalone ha invitato il giornalista a desistere dalla pubblicazione
  4. le ragioni vere della cena sono dovute all’intento di conciliare Pecorelli con Vitalone e Lo Prete, criticati sulle pagine della rivista O.P.
L’anno prima di queste dichiarazioni era stata sentita, sempre a Perugia, anche la sorella Rosita di Mino Pecorelli. Aveva raccontato quello che sapeva e le confidenze che tra fratelli si fanno. Il giorno della sua morte, dice Rosita, era contento perché aveva raggiunto un accordo con il gruppo di Andreotti, nella persone di Franco Evangelisti. Una promessa che la rivista, che non navigava affatto in buone acque dal punto di vista economico, sarebbe stata stampata da Ciarrapico a Cassino a prezzi decisamente inferiori.
Giuseppe Ciarrapico, oggi 85-enne, è stato un altro caro amico di Andreotti, anche se sempre molto vicino al movimento neofascista di Almirante, gestore delle terme di Fiuggi, poi senatore del Popolo della Libertà di Berlusconi.
Insomma si prospetta, alla data del 20 marzo, una soluzione per la rivista, con maggiori introiti pubblicitari e minori spese.
Nel febbraio dello stesso anno, il 1979, Mino fa venire a casa sua la sorella, perché è solo, non sta bene ed è molto preoccupato per un processo per diffamazione che il generale Roberto Jucci ha sporto contro di lui. Jucci, che ha compiuto 93 anni la settimana scorsa, ha alle spalle una carriera importante, anche se poi, da pensionato, riceve incarichi per i quali la sua condotta ha destato qualche malumore da parte della stampa del Sarno.
C’è anche un incontro con il giornalista Roberto Fabiani, che scrive un articolo molto duro contro Pecorelli. Alle rimostranze della sorella, il giornalista risponde testualmente: “Ma lei lo sa che la vipera morde quando ha paura?”.
Da tutto questo, si deduce che Mino Pecorelli, un po’ se l’aspettava che la sua vita fosse in grave pericolo, il pericolo magari di finire in galera, non quello di essere ammazzato.>

Altri personaggi in cerca d'autore.

Nell’ultima parte di questa puntata di Noncicredo, lasciamo a margine le vicende di Pecorelli per sapere qualcosa di più su alcuni dei personaggi citati più volte nella trasmissione: Andreotti, Evangelisti, Caltagirone, eccetera.
A proposito di Gaetano Caltagirone, ho già ricordato la frase famosa “A’ Fra’ che te serve?” rivolta a Franco Evangelisti e diventata, dagli anni ’80 in poi, un modo per indicare un sistema di corruzione e di potere.
É il 1972 quando Giulio Andreotti diventa primo ministro. Il suo governo dura appena 9 giorni, poi ci sono le prime elezioni anticipate in Italia. Nel 1976 ecco il famoso governo della “non sfiducia”, quello legato al neonato compromesso storico, sullo sfondo di un paese in profonda crisi economica e in lotta col terrorismo.
Il governo cade alla fine del 1977, quando ci sono grandi manifestazioni contro Andreotti, ma anche violenze per le strade e attentati terroristici. La crisi dura circa due mesi, dopodiché un altro governo Andreotti viene insediato dal parlamento lo stesso giorno in cui le Brigate Rosse rapiscono Moro e ne uccidono la scorta.
A fianco di Andreotti c’è sempre Franco Evangelisti, definito il suo braccio destro, più volte sottosegretario, anche in governi non diretti dall’amico.
Mentre è ministro della marina mercantile nel governo Cossiga, il 4 marzo 1980, si dimette per il clamore suscitato da una sua intervista a La Repubblica di qualche giorno prima, intervista nella quale ammette di aver ricevuto finanziamenti illeciti da Gaetano Caltagirone. É in questa occasione che racconta della frase, che lo saluta all’inizio di ogni telefonata: “A Fra’ che te serve?”.
Entra in vicende importanti, come nel 1993, poco prima di morire, quando confessa di aver assistito ad un incontro tra Andreotti e Carlo Alberto Dalla Chiesa, durante il quale i due parlano del memoriale, quello completo, di Aldo Moro.
Nel 2003 la corte d’Appello di Palermo accerta “una autentica, stabile ed amichevole disponibilità dell'imputato verso i mafiosi fino alla primavera del 1980”, sentenza confermata l’anno successivo dalla corte di Cassazione.
Nell’intervista, rilasciata a Paolo Guzzanti, conferma di aver ricevuto soldi da Caltagirone, tanti soldi, in vent’anni e di averli usati per finanziare la corrente cui apparteneva, quella di Giulio Andreotti, per finanziare le proprie campagne elettorali, per finanziare il partito. E lo fa sostenendo che non sapeva certo di fare qualcosa di illecito, altrimenti non avrebbe mai ritirato personalmente assegni intestati a suo nome.
Ma Caltagirone non finanziava solo lui; di soldi ne arrivavano a tanti altri politici della DC e anche direttamente al partito.
Da qui in poi è meglio leggere le domande e le risposte:
Si rende conto della gravità di queste sue ammissioni?
«Io facendo quest’intervista è come se parlassi davanti al Parlamento: non posso dire il falso e non voglio tacere il vero. E nel vero c’è anche questo: che mai c’è stata la minima interferenza, la più piccola sovrapposizione fra l’affare dell’Italcasse e noi. Per “noi” intendo la corrente andreottiana»
Scusi, lei da dove pensava che venissero tutti i milioni che Gaetano Caltagirone tanto generosamente le metteva a disposizione?
«E che dovevo sapere io? lo pensavo che fossero soldi suoi, roba sua propria. Io non sapevo niente di tutte quelle società di Gaetano e neppure sapevo che l’Italcasse avesse erogato 205 miliardi a un solo uomo. Ma andiamo! Che cosa ci stavano a fare gli organismi di vigilanza?»
Che cosa le chiedeva Caltagirone in cambio dei suoi versamenti?
«Gaetano? Niente. Lui era, anzi è, un amico. Un amico della DC e non soltanto amico mio. Anzi, è amico di tanta altra gente che non è neppure democristiana. In fondo, a parte la provenienza dei soldi, di cui io non so niente, dove sta lo scandalo
Già: secondo lei dove sta lo scandalo?
«Posso dire? Guardi, me lo metta fra virgolette: io ero strasicuro che la questione sarebbe esplosa durante il congresso e che sarebbe stata strumentalizzata. È chiaro che qualcuno ha tirato fuori le carte e le ha fatte avere ai giornali. Ed è chiaro che è stato violato il segreto istruttorio e anche altri segreti. lo però vorrei sapere una cosa»
Dica.
«lo vorrei sapere perché, quando non ci sono di mezzo degli amici di Andreotti, non si va mai a fondo. Vorrei che finalmente si conoscessero i nomi dei 500 esportatori di capitali all’estero. Sugli altri non si rivela mai niente. E qui con la storia Caltagirone l’unico nome che esce fuori è il mio. Evidentemente gli altri o sono protetti, oppure sono nomi che non fanno cronaca.»
Come detto, subito l’intervista Evangelisti si dimette. Poi negli anni ’90 c’è una clamorosa rottura con Andreotti, raccontata, all’epoca, dalla stampa come un vero e proprio tradimento verso chi lo aveva portato così in alto nelle sfere politiche nazionali.
In realtà la separazione ha origini molto più attinenti la puntata di oggi. É durante le indagini sull’omicidio Pecorelli che esplode il bubbone. Evangelisti, infatti, rivela i suoi legami con Cosa Nostra e anche quelli di Giulio Andreotti con la mafia. Il Divo Giulio ha sempre negato sia il tradimento dell’amico Franco, sia, ovviamente, i suoi rapporti con Cosa Nostra. Ma la corte d’Appello di Palermo riconoscerà in pieno i rapporti tra Andreotti e la mafia fino al 1980, come chiaramente scritto nel dispositivo della sentenza. Il non luogo a procedere non è dovuto all’innocenza di Andreotti, ma solo all’intervenuta prescrizione.
É bugiardo, molto bugiardo, chiunque sostenga che Andreotti è innocente del reato di aver avuto rapporti organici con Cosa nostra almeno fino al 1980. Questa è la frase usata dai giudici di Palermo e confermata dalla Cassazione, altro che innocenza.
Nel 1993 Evangelisti entra in coma in seguito ad un’emorragia cerebrale. Il suo amico, o ex-amico, lo visiterà nella clinica di un altro amico della DC, Ciarrapico, con soste brevissime due volte: il primo giorno del ricovero e il giorno della sua morte.
Gaetano Caltagirone viene assolto nel 1988 da ogni addebito e muore nel 2010. Tre anni più tardi lo segue anche Giulio Andreotti, portando con sé una quantità impressionante di segreti, compreso quello di come sono andate davvero le cose con Mino Pecorelli.>
É tutto per ora. Dalla rievocazione dei fatti, che portano all’assassinio di un giornalista così scomodo e così chiacchierato come Mino Pecorelli, mancano ancora numerosi tasselli. La prossima volta parleremo del Memoriale di Aldo Moro e delle pubblicazioni su O.P. di parte di essi. Cercheremo anche di scoprire il ruolo di Licio Gelli nella vicenda e di come i tribunali hanno giudicato i possibili responsabili, in primo luogo quello che i pentiti hanno indicato come mandante e cioè Giulio Andreotti e gli esecutori, Tano Badalamenti e Stefano Bontate. Cercheremo anche di capire il ruolo di personaggi come Carminati, membro dei NAR e della banda della Magliana, di Danilo Abbruciati, servo fedele di Pippo Calò, in un intreccio complesso e articolato.