p201La fonte che oggi utilizzo è un libro molto bello, che consiglio vivamente. É scritto da Sandra Bonsanti, già deputata del partito repubblicano negli anni della caduta della prima repubblica. Il titolo è “Il gioco grande del potere”, edito da Chiarelettere nel 2013. Di questo libro cercherò di riassumere alcuni capitoli, i quali, secondo me, rappresentano bene il tema di questa puntata.
Oggi parliamo, infatti, del potere, quello vero, non quello che esce dalle urne di una elezione. Spesso (non sempre si intende) i politici sono solo uomini devoti ad una causa o a qualche capo o a qualche associazione che preme su di loro perché si comportino in un certo modo. Succede, ad esempio, negli Stati Uniti, dove concorrere alle elezioni è molto costoso e, se non sei un miliardario, devi avere alle spalle una serie di sostenitori che finanzino la tua impresa. Il risultato è la nascita dei lobbisti, termine che noi diciamo con un certo disprezzo, ma che, oltre oceano, viene utilizzato in senso neutro, senza dare ad esso alcun peso negativo. La maggior parte dei senatori e dei deputati statunitensi sono lobbisti e quindi gestiscono il potere per conto terzi.
E in Italia? Le cose sono un pochino diverse, ma che dietro molti politici figurino associazioni, imprenditori, società per azioni o qualcosa di peggio come organizzazioni criminali è storia alla quale tutti credono, fin da bambini.
La storia della nostra Repubblica è avvolta da tutto questo. Uso questo verbo, avvolgere, perché quasi mai ci sono le prove di questi legami. Spesso si tratta di dicerie, oppure di dichiarazioni di questo o quel magistrato, dichiarazioni non rilasciate di fronte ad un organo ufficiale come un tribunale, ma ad un giornalista amico, il quale, magari, successivamente viene ammazzato … se avete pensato a Mino Pecorelli ci avete azzeccato in pieno. Ci sono stati, nella storia della prima repubblica, molti uomini che sapevano e hanno taciuto e altrettanti che hanno agito alle spalle della giustizia. Questi uomini appartenevano alla magistratura o alle forze dell’ordine. Il caso dei vertici della guardia di Finanza nello scandalo dei petroli del 1980, che ho raccontato in questa trasmissione ne è un esempio evidente. Non si può tuttavia fare di ogni erba un fascio. Ci sono persone perbene in ogni categoria. Molte di queste hanno cercato di sciogliere quella matassa di informazioni, supposizioni, indizi, per regalarci, se non altro dei brandelli di verità. Questa sera incontreremo entrambe queste tipologie, quelle che nascondono i fatti e quelle che cercano di smascherarli.
Ecco, di questo si occupa questo articolo, del potere nascosto, quel potere che ha fatto la storia, senza apparire sulla scena. Un potere occulto di cui si è avuta testimonianza solo più tardi, quando gli altarini sono stati scoperti o quando qualcuno ha voluto raccontare i fatti.
Molte volte queste confessioni vengono dai cosiddetti pentiti o, se preferite, collaboratori di giustizia. Sono sempre dei criminali, a volte pluriassassini, come quelli di mafia, camorra e ‘ndrangheta. C’è da fidarsi? Non esiste una risposta a questa domanda. Tocca alla magistratura, in quei casi, capire se le rivelazioni sono vere o false, ma quelle dichiarazioni costituiscono sempre un punto di partenza per ulteriori indagini, che a volte riescono a dipanare la matassa. Per questo non possono essere semplicemente lasciate perdere.
Eh già … perché nel nostro paese le cose non sono mai semplici e una storia di crimine si intreccia sempre con un’altra ed un’altra ancora, portando alla convinzione che il marcio è un po’ dappertutto e rimuoverlo riesce troppo complicato. A volte ci si imbatte in nomi o situazioni che è meglio non toccare, perché portarle alla luce creerebbe un danno allo stato, maggiore del delitto su cui si indaga. É successo più di una volta nel nostro paese.
Uno può dire: sì, ma ci sono i processi, quelli danno alla fine una sentenza definitiva, che rappresenta la verità. Anche questo è discutibile per due motivi fondamentali. Se andate in internet e cercate il sito errorigiudiziari.com, scoprirete che gli innocenti condannati in Italia sono circa mille, a volte con la verità che salta fuori dopo molti anni di detenzione e ci sono poi molte altre situazioni per niente chiare. Il secondo motivo ha un nome preciso: prescrizione. Moltissimi processi non sono arrivati a termine perché è scattato il vincolo della prescrizione. Significa che esiste un certo tempo entro il quale il procedimento giudiziario deve arrivare al suo esito finale, altrimenti l’imputato, anche se palesemente colpevole, non può essere dichiarato tale. Uno dei casi più eclatanti è quello del politico Giulio Andreotti, riconosciuto colluso con la Mafia, ma lasciato libero di fare il senatore per prescrizione del reato. E anche il cavaliere di Arcore ha usufruito a piene mani di questo procedimento nei suoi numerosi processi.
Uno dice: ma sono morti entrambi. Vero, ma anche Napoleone è morto eppure si studiano le sue gesta, i suoi meriti e i suoi demeriti, perché questa è la Storia, quella con la S maiuscola. Si cerca di capire cosa è successo, di spiegarne le motivazioni, di capire l’evoluzione che da quei fatti il paese ha avuto e magari si finisce anche per comprendere meglio la situazione attuale.
É tutto, come premessa, adesso possiamo cominciare e ci trasferiamo in Sicilia, ma con un occhio ben aperto sui palazzi romani. La storia che sta per cominciare ha protagonisti eccellenti, nomi molto conosciuti e altri forse meno. L’intreccio di malaffare di cui ci occupiamo è davvero uno dei più grandi bubboni che la nostra repubblica ha dovuto superare, ammesso che l’abbia davvero superato. Parleremo infatti di Antistato, cioè di una organizzazione che ha cercato di sovvertire le regole democratiche da dentro le istituzioni, creando un potere occulto, segreto, poderoso, con associati eccellenti, come vedremo tra poco.

Carmelo Spagnuolo, la Sicilia, Cosa Nostra

Cominciamo la nostra storia con una frase che andrà spiegata nel corso della puntata. La pronuncia il procuratore generale Carmelo Spagnuolo, intervistato da Sandra Bonsanti nel 1975 e dice: “Tutte le storie italiane cominciano in Sicilia”.  Carmelo Spagnuolo è stato un magistrato tra i maggiori conoscitori delle cose di mafia e dei legami tra questa e i poteri politici dello stato. Lui, si diceva, ne sapeva tante di cose, anche su alcuni omicidi eccellenti, quello di Enrico Mattei, anche se all’epoca si pensava fosse stato un incidente e quello del giornalista Mauro de Mauro, al quale ho dedicato una puntata di questa trasmissione. De Mauro viene ucciso, con ogni probabilità, dalla banda della Magliana su incarico forse della politica o forse della mafia o forse di tutte e due, perché aveva scoperto che la fine di Mattei non era affatto dovuta ad un incidente aereo molto misterioso. E conosceva, Spagnuolo, molti intrecci innominabili all’epoca. Nel gennaio del 1974 suscita enorme scalpore una sua intervista al “Mondo”, uno dei giornali importanti del periodo. Ecco le sue frasi più significative: “Stavamo per emettere un mandato di cattura contro il questore Angelo Mangano e per far saltare il castello di interessi e coperture che lo proteggono. Bisogna far pulizia nella polizia .. La corruzione ha cominciato a prendere piede alla fine degli anni Cinquanta, all’epoca del governo Tambroni. Adesso non è facile estirparla. Perché aver creato al Viminale un ufficio Affari riservati e affidare a esso la trattazione di materie delicate significa allestire un meccanismo di ricatti. Non solo il vertice, ma gli uffici intermedi prima o poi non sfuggono alla lusinga di servirsene.
Lp202Ufficio Affari Riservato era stato creato molti anni prima, anche se nel tempo aveva avuto denominazioni diverse. Si trattava, in soldoni, di un ufficio di spionaggio interno. Mussolini lo aveva voluto per contrastare i sovversivi, nome che i fascisti attribuivano praticamente a tutti gli antifascisti. Ci operava l’OVRA, la polizia segreta del regime e proprio dall’OVRA arrivano i primi dirigenti dell’Ufficio nell’Italia Repubblicana. Già perché chi pensa che alla fine del ventennio i gerarchi fascisti siano semplicemente scomparsi dalla scena è molto, ma molto ingenuo. Tra i ministri che governano nel dopoguerra l’Ufficio ci sono Scelba, Tambroni e Taviani, tutti nomi che chi conosce la storia della repubblica non fatica a catalogare come reazionari. Forse meno conosciuto, Taviani è tra i fondatori di Gladio, tanto per gradire.
Le accuse di Spagnuolo a Mangano, arrivate in Cassazione, portano ad una inchiesta della procura di Firenze, che assolve Mangano da ogni addebito e punisce invece Spagnuolo spostandolo in altra sede, meno importante. Mangano non ci sta e minaccia di fare nomi e cognomi di politici corrotti, sostenendo che il tribunale di Roma è infestato di cimici. Poi le acque un pochino si calmano ed è in questa calma apparente che avviene l’intervista di Bonsanti a Spagnuolo. Siamo a metà degli anni ’70, in piena strategia della tensione, guerriglia tra bande di sinistra e di destra e altre cosucce di cui parleremo tra poco.
Spagnuolo parla di Cosa Nostra come se ci fosse vissuto da sempre. A Palermo, racconta, si dice che tutti i guai italiani cominciano dalla lotta di potere tra due uomini della Democrazia Cristiana: Amintore Fanfani e Giulio Andreotti. Il primo è il segretario del partito, il secondo è da sempre uomo forte di ogni stagione. Nel 1975 è ministro del bilancio nel governo Moro, con l’incarico speciale per gli interventi nel Mezzogiorno. Il divo Giulio ha la splendida idea di nominare come sottosegretario Salvatore Lima, palermitano, entrato in varie inchieste per la sua vicinanza alla mafia, a cominciare dal ruolo giocato come amministratore durante il famigerato sacco di Palermo degli anni ’50 e ’60.
p203Un altro dei nomi citati da Spagnuolo è quello del veneto Graziano Verzotto. Negli anni ’60 è in Sicilia, mandato da Fanfani a riorganizzare la DC locale. Assieme a imprenditori certo non trasparentissimi come Vito Guarrasi e Domenico La Cavera, costituisce una società pubblica, la Sofis, gestita direttamente dalla Regione autonoma Sicilia. Diventa poi presidente dell’Ente Minerario Siciliano. Compare in molte sporche faccende del periodo che va dai primi anni ’60 al 1975 e che coinvolgono vari boss mafiosi, che frequenta. Secondo molti è accostato alla morte di Enrico Mattei e a quella del giornalista de L’Ora, Mauro De Mauro. Amico di Cefis, subisce vari processi per peculato ed è costretto a rifugiarsi all’estero, prima in Libano e poi a Parigi. Dopo 16 anni torna in Italia ed entra nei processi dei delitti citati. Muore nel 2010.
La fuga di Verzotto, secondo Spagnuolo, è dovuta all’intenzione della mafia di rapirlo e forse di farlo fuori. Probabilmente i soldi sottratti all’Ente Minerario Siciliano, di cui era presidente, non sono arrivati nel posto giusto. La mafia sta cambiando, i vecchi padrini piano piano invecchiano e perdono potere a favore di una nuova generazione, più interessata ai soldi che alle vendette trasversali. Per cui i faccendieri che i soldi a Cosa Nostra invece di consegnarli se li tengono, sono davvero nei guai. Toccherà a molti negli anni seguenti, come ad esempio al banchiere Roberto Calvi. Ma di questo parleremo più avanti.
Spagnuolo ha le idee chiare, in quel 1975, sia sulla morte di Mattei, voluta dai francesi perché credevano fornisse armi agli algerini in rivolta, che su quella di De Mauro, per i motivi già detti. In realtà le cose non erano andate proprio così, perché a fornire le armi agli algerini era Vito Guarrasi. Comunque, le inchieste che si svolgeranno circa un decennio più tardi daranno ragione a molte ipotesi e teorie di Spagnuolo, dimostrando quanto dentro quest’uomo fosse nelle segrete cose di politica e malaffare.
Spagnuolo si spinge addirittura indietro di un quarto di secolo, all’uccisione del bandito Giuliano. Anche della sua vita ho raccontato in questa trasmissione. All’epoca si pensava ad un conflitto a fuoco tra lui e i carabinieri, ma Spagnuolo sa che, in realtà, è stato Luciano Liggio ad ammazzarlo di persona, mentre dopo viene organizzata una messinscena che serve a depistare ogni indagine e costruire una verità falsa, ma di comodo per tutti.
Gli anni passano e la domanda legittima è: chi comanda in quegli anni ’70 alla mafia? Secondo Spagnuolo è un uomo, chiamato “il ragno”, che ha poteri infiniti, quell’uomo è proprio Vito Guarrasi. É la nuova mafia, che sostituisce quella ammirata da Spagnuolo, quella delle regole d’onore, ormai andate a farsi benedire.
Come detto mancano i grandi capi in quel periodo. Il vecchio boss Gambino, quello che ha ispirato i film di Puzo “Il Padrino”, muore a New York nel 1976 e non ci sono luogotenenti all’altezza di un compito così delicato e complesso come la guida di Cosa Nostra.
Le collusioni di Cosa Nostra con appartenenti all’amministrazione dello stato ci sono e arrivano anche molto in alto. Secondo Spagnuolo anche il capo della polizia, Angelo Vicari, ha legami coi boss mafiosi, ma questa è un’altra storia che noi non seguiamo.
Cosa usciva dunque dall’intervista della giornalista Beltrame al procuratore Spagnuolo? Quali scenari potevano essere dipinti o riassunti?.

Gelli, Sindona, Andreotti … che intrecci!

Dalle parole di Carmelo Spagnuolo, che abbiamo appena riportato, esce un quadro dell’Italia di quegli anni assai sconsolante. La repubblica è gestita da mafiosi che contendono ad altri mafiosi le amicizie di Fanfani e Andreotti, i quali a loro volta si battono per il sopravvento nel partito di maggioranza. E questo avviene in Sicilia a colpi di tessere, ma anche di affari, traffici di droga, morti ammazzati. E nessuno sa nulla di queste tresche, che arrivano a coinvolgere poteri legali e illegali anche al di là dell’oceano.
Un paese, il nostro, che Spagnuolo dipinge come retto da un lato da un potere abbastanza evidente e dall’altro da un potere oscuro, nascosto, segreto, di cui si verrà a conoscenza solo parecchi anni più tardi, negli anni ’80, quando si scoperchierà il bubbone della loggia P2 di Licio Gelli, alla quale lo stesso Spagnuolo è iscritto. Ma non un iscritto qualunque, uno importante, almeno nella visione di Licio Gelli. Nel 1973 a Villa Wanda, la residenza di Gelli nei pressi di Arezzo, il Venerabile Maestro aveva radunato i suoi per un’analisi della situazione. In quella occasione aveva prefigurato un n uovo governo, a capo del quale doveva esserci proprio Carmelo Spagnuolo, supportato dai militari. Insomma un vero e proprio golpe, simile a quello che nel 1967 aveva portato i colonnelli al comando della vicina Grecia. Può darsi che all’epoca dell’intervista, due anni più tardi di quell’incontro con Gelli, l’ipotesi del governo piduista sia tramontata o messa in un cassetto in attesa di tempi migliori.
I piduisti di metà anni ’70 hanno altri pensieri. In cima alla lista c’è la salvezza economica di Michele Sindona, in grave crisi con le sue banche, in primis quella statunitense, la Franklin di New York e poi il crack della Banca privata italiana. Si danno da fare, i piduisti, con Giulio Andreotti in prima linea, per convincere il ministro del tesoro Ugo La Malfa a sostenere il banchiere siciliano, banchiere che aveva rapporti strettissimi con il Vaticano, attraverso lo IOR di Marcinkus, e con la mafia. Ma La Malfa è uno di quei politici strani per il nostro paese, di quelli tutti di un pezzo e rifiuta ogni aiuto a Sindona.
La P2 le tenta tutte. Tra le varie azioni, ecco ritornare da protagonista proprio Carmelo Spagnuolo, il quale vola a New York per evitare l’estradizione del banchiere. Il procuratore dichiara: “Le accuse non sono fondate [..] e Michele Sindona è stato accanitamente perseguitato soprattutto per le sue idee politiche. [..] La situazione politica in Italia è tale per cui non è esagerato pensare che le sinistre non si fermeranno davanti a nulla pur di mettere Sindona con le spalle al muro. [..] L’estradizione non deve essere concessa. […] Data la tensione che oggi regna sono indotto a pensare che Michele Sindona, tornando in Italia, potrebbe correre seri rischi per la sua incolumità personale”.
Concetti simili vengono espressi anche dall’ex capo del controspionaggio inglese in Italia John McCaffery, il cui vero scopo della presenza a Roma è di organizzare una lotta che impedisca la salita dei comunisti nella gestione politica del paese.
Anche Gelli, ovviamente, si prodiga per evitare il ritorno di Sindona in Italia.
Questo insieme di personaggi e tutti i loro adepti e affiliati, rappresentano la destra oscura, quella antidemocratica, che si era venuta formando fin dal primissimo dopoguerra, quando i fascisti di Salò erano stati arruolati dai servizi americani in funzione anticomunista. É la destra di Gladio, delle bombe, degli attentati, della strategia della tensione. Piano piano, si trasforma in qualcosa di altro: una macchina di voti, all’interno della quale si consumano i più feroci duelli per il potere, per i fondi in arrivo dalla CIA, dal Dipartimento di Stato americano. E sullo sfondo, c’è sempre la Sicilia.
Non ci sono solo questi uomini, ce ne sono altri, che fanno domande, che chiedono di capire, di sapere la verità. Questa è ben nascosta e le risposte non ci sono. Ci vorranno anni perché qualcosa trapeli e si cominci a chiarire una parte di quello che è successo. Ma questo lo vedremo tra poco.
Chi è a capo di quella organizzazione illiberale? Lo si scopre proprio quando Licio Gelli si fa avanti per difendere Sindona. Quando il banchiere siciliano si trasferisce in America, cresce, in Italia, l’importanza di un altro banchiere, Roberto Calvi, che diventa il braccio operativo della P2 nel settore degli affari. La storia di Roberto Calvi, che ho raccontato in questa trasmissione, è la prova evidente dei legami tra politici, P2, mafia e delinquenza comune, nel caso specifico la banda della Magliana.
Nel 2012 Totò Riina, il capo dei capi di Cosa Nostra, finisce sotto processo per l’uccisione di Mauro De Mauro e viene assolto perché non ci sono prove sufficienti a condannarlo. Sul Corriere della Sera, Felice Cavallaro scrive: “Trame, congiure e misteri internazionali che nel sequestro De Mauro hanno uno snodo con figure ambigue come quella di Verzotto e di alcuni suoi amici eccellenti, a cominciare da un altro Mister X, Vito Guarrasi, l’avvocato che per se stesso immaginò un epitaffio, perfetto anche per il manager venuto da Padova, Graziano Verzotto: ‘Fu un uomo intelligente e chiacchierato’”.
É un po’ poco per quel ragno malefico, di cui parla Spagnuolo nell’intervista, poco e troppo tardi.

Francesco Cosentino

p204Il prossimo personaggio che incontriamo è decisamente sconosciuto alla maggior parte degli italiani. Anche lui è siciliano ed è figlio di quell’Ubaldo Cosentino, partigiano, nominato segretario della Camera nel primo dopoguerra e come tale anche segretario della Costituente. Francesco, suo figlio, appare la prima volta nella fotografia di un momento storico, indimenticabile per il nostro paese. É il giovanotto di 25 anni che si trova tra Alcide De Gasperi, il padre della ricostruzione post bellica, ed Enrico De Nicola, primo presidente della neonata Repubblica Italiana, mentre si accinge a firmare la nuova Carta Costituzionale.
Ritroviamo Francesco Cosentino nel 1955, come consulente del capo dello stato Giovanni Gronchi. Uno dei suoi compiti principali è quello di tenere i rapporti con l’ambasciata americana a Roma. Questa, come detto, è impegnatissima a scegliere e sostenere ora questo ora quel politico democristiano, facendo ben attenzione che sia decisamente anticomunista.
Terminato il settennato di Gronchi, Cosentino torna fare il segretario generale a Montecitorio e molti lo ricordano come un uomo che tenta di ridurre i tempi del dibattito, di snellire le pratiche delle assemblee dei deputati.
Ma dieci anni più tardi eccolo in un’altra veste, anche questa molto importante, ma decisamente non più nello stato, ma in quello che si è soliti definire l’Antistato. É infatti il consigliere più fidato di Licio Gelli. Si sussurra, anche se la questione non è certa, che ci sia la sua mano nella stesura del famoso “Piano di rinascita” il documento programmatico con il quale Licio Gelli voleva rivoltare le carte in tavola e realizzare un governo di destra, come abbiamo già visto nel racconto su Spagnuolo. Anche se Gelli sosterrà che il Piano è stato solo opera sua, non c’è dubbio che Cosentino abbia avuto un ruolo importante nella sua scrittura.
É così che un uomo, vissuto a fianco dei vertici dello Stato, partecipando a momenti storici della nostra storia repubblicana, si trova dall’altra parte, a progettare un colpo di stato, una rivoluzione partita dal cuore stesso delle istituzioni.

Schema R e Piano di Rinascita

Le vicende di Francesco Cosentino non finiscono con la P2. Sarà coinvolto nello scandalo Lookheed, un giro di mazzette che arrivano dall’azienda americana per vendere i suoi Hercules C130. Alla Camera all’epoca c’è come presidente Sandro Pertini, il quale vuole spiegazioni pubbliche. Non ottenendole, Cosentino viene licenziato e al suo posto arriva Antonio Maccanico, che seguirà Pertini anche durante i suoi sette anni come presidente della repubblica. É il 15 aprile 1976.
Dopo l’uscita di scena da Montecitorio, Cosentino viene supportato – a sentire le sue stesse dichiarazioni - da Licio Gelli che gli è molto vicino. Diventa presidente dei CIGA Hotels, che fanno parte del circuito di Michele Sindona. In questa veste riserva a Gelli due suite a Roma, all’hotel Excelsior, la 126 e la 127, dove avvengono le iniziazioni dei nuovi adepti della P2 e gli incontri del Venerabile con i politici romani.
A Roma, la mafia ha come esattore Pippo Calò, uomo di Stefano Bontate, ma dopo la guerra di mafia passato nelle fila di Totò Riina. Francesco Cosentino ha buoni rapporti con i boss mafiosi, ma di questo si viene a sapere solo anni dopo la morte di Cosentino, avvenuta nel 1985, grazie alla deposizione di un pentito, Angelo Siino.
Ma torniamo al cuore della faccenda, il Piano di Rinascita, scritto probabilmente da Cosentino con l’approvazione di Licio Gelli. Il documento salta fuori nel 1981, quando Maria Grazia Gelli, la figlia del Venerabile, viene perquisita. Ha una valigia e la valigia ha un doppio fondo. Ed eccolo là il documento originale. In realtà, la stampa italiana non prende la questione molto sul serio o, per meglio dire, non dà a quel ritrovamento il peso che avrebbe dovuto avere. Parliamo di giornali importanti e schierati decisamente a sinistra, come Repubblica di Eugenio Scalfari.
p205Solo molto più tardi, in piena seconda repubblica, durante i governi Berlusconi, quel piano assume il suo vero connotato, quello di una linea politica di destra, vagamente golpista, e tutto il suo rilievo. Eh già … perché alcune delle riforme proposte dalle destre al governo, altro non erano se non le riproposizioni del famigerato Piano di Licio Gelli. Anche su questo avremo modo di tornare.
In realtà il famoso piano del 1976 non è il primo, preceduto com’era dal cosiddetto Schema R, dove la lettera R poteva stare per rivoluzione o risanamento a seconda di chi lo leggeva.
E dunque nel biennio 1974-1976, le idee della P2 sono molto più radicali di quelle successive. Lo Schema R prevede infatti una repubblica presidenziale sostenuta dall’esercito. E, tra le norme, alcune sono davvero notevoli, come ad esempio: la limitazione dei poteri della Corte Costituzionale, la limitazione del diritto di sciopero col divieto totale per pubblici dipendenti, magistrati, studenti e la limitazione dei poteri dei sindacati subordinandoli a un ispettore del lavoro. Infine, che può sembrare una boutade: la “riduzione del numero di quotidiani, settimanali, riviste e altre pubblicazioni a carattere frivolo e scandalistico allo scopo di evitare eccessivi sperperi di cellulosa”.
Prima di proseguire facciamo mente locale al periodo. Sono gli anni in cui il Partito Comunista di Berlinguer ottiene i suoi risultati più clamorosi e il rischio che passi davanti alla Democrazia Cristiana e diventi così papabile per governare non è tanto peregrino. Sono anche gli anni di Moro e dei suoi tentativi di aprire alla sinistra, compreso il Partito Comunista, il governo del paese. É, insomma, il periodo del compromesso storico, così temuto e odiato da destre e americani. Lo Schema pertanto, ha un senso storico, segue un suo schema logico: è la difesa contro l’avanzata importante del Partito Comunista che ormai conta un terzo dei voti.
Entra un nuovo personaggio nel nostro racconto, perché le idee contenute nello Schema R coincidono quasi alla perfezione con quelle di Edgardo Sogno. Lui prima combatte contro i nazifascisti, ma poi cambia bandiera e vuole, se non proprio una monarchia, qualcosa che le assomigli da vicino. Nasce così, assieme al repubblicano Pacciardi, il famoso golpe bianco, una specie di golpe basato non sull’insurrezione armata, ma sul convincimento dei poteri istituzionali di modificare le carte in tavola, Costituzione, assetto governativo, organizzazione del parlamento e così via. Edgardo Sogno suona a molti campanelli, ma non se ne fa niente. É il magistrato Luciano Violante di Torino a scoprire ogni cosa. Di questo golpe, o presunto golpe, non si registra alcuna traccia nei documenti della magistratura. Insomma, è come se non fosse successo nulla. Edgardo Sogno fa parte della P2 ed è questa loggia che appoggia il progetto. Il presidente della repubblica, Giovanni Leone, interpellato da Gelli, non avvalla del tutto le richieste dello Schema. Moro, che avrebbe dovuto controfirmare le decisioni, invece, rifiuta categoricamente ogni coinvolgimento e tutto si ferma là.
Sappiamo che Leone è costretto a dimettersi per i violenti attacchi, soprattutto dei radicali e di Camilla Cederna, per presunte irregolarità nella gestione del suo incarico. Queste irregolarità non sono mai esistite e i radicali si scuseranno molto più tardi di quello che avevano fatto. Leone, che pure non ci sta simpatico per altri fatti, ad esempio il suo comportamento in occasione della tragedia del Vajont, è una vittima di quegli attacchi. Ma la cosa più triste per lui, e anche per noi che commentiamo a decenni di distanza, è la totale indifferenza dei suoi amici di partito, a cominciare dal segretario Zaccagnini e dall’onnipresente Andreotti. Secondo alcuni storici, quelle dimissioni hanno origine più lontane e precisamente nel rifiuto di accettare le idee di Licio Gelli e della P2.
Detto dello Schema R, passiamo adesso ad esaminare il Piano del 1976, quello più famoso.
Molto diverso dal precedente, il Piano di Rinascita si dichiara non violento e intenzionato a rimanere all’interno dei confini della democrazia. Invita tutti, in particolare partiti, sindacati, associazioni a prendere atto che alcuni cambiamenti nella costituzione vanno fatti. Ma quello che il piano non dice è il metodo che sta dietro le intenzioni. La corruzione, le bombe e l’affiliazione dell’intera popolazione che conta nelle liste della P2. Quando nel 1980, Maurizio Costanzo intervista Gelli, questi parla del “fascino discreto del potere nascosto”. Pochi mesi più tardi, nel marzo 1981 i magistrati scoprono e requisiscono gli elenchi e là si capisce la vastità dell’iniziativa, notando come cariche apicali di ogni genere figurino in quell’elenco, dai militari ai politici, dagli imprenditori ai giudici e ai giornalisti. Il giudice Giuliano Turone che, assieme a Gherardo Colombo, sequestra le liste, sottolinea già allora la presenza insistita del termine “sollecitare e sollecitazione”. Con questi termini non si intende evidentemente convincere con le buone maniere. Ma mettere i soggetti nelle condizioni di non poter rifiutare a cuor leggero le avances della P2. É proprio in occasione di quella intervista, da parte di un giornalista peraltro iscritto alla sua loggia, che Gelli si propone, mostra i muscoli, parla tranquillamente di repubblica presidenziale, trovando, tra l’altro, facile terreno in alcuni tra i politici importanti del tempo, come Francesco Cossiga e i vertici socialisti Bettino Craxi e Giuliano Amato. Del resto è quello il momento di forzare i tempi, perché le cose cominciano a scricchiolare anche al di là dell’oceano, con le disavventure bancarie di Sindona.
Le idee di Gelli sono chiaramente esposte in quella terza pagina del Corriere, firmata da Costanzo. Ci vuole una repubblica presidenziale, come quella francese di De Gaulle, una profonda revisione della Costituzione, perfetta per quando era stata redatta subito dopo la guerra, ma ormai lisa e obsoleta. E una spartizione dei poteri tra democristiani e socialisti, uno al Quirinale e l’altro a palazzo Chigi. E non è un caso se i seguaci di Berlusconi, durante il suo regno, abbiano più e più volte cercato di dare una svolta alla De Gaulle alla repubblica e i partiti reazionari, oggi al potere, cerchino di fare altrettanto.
Dunque il Piano di Rinascita è solo un insieme di fogli scritti da Cosentino, ma le intenzioni vere sono quelle di infiltrare ovunque, nei poteri della repubblica, propri uomini: nei servizi segreti, nell’esercito, nella politica, nell’informazione, tutti pronti in attesa del via libera per la conquista del potere vero, quello vero, palese, alla luce del sole. Che questo non sia riuscito è un bene, che non possa succedere ancora è tutto un altro discorso.

Pertini e le liste della P2

p206Parliamo adesso di Sandro Pertini. Il presidente più amato dagli italiani ha vissuto il suo settennato in mezzo a guasti incredibili della nostra repubblica. Da un lato le brigate rosse, che avevano ucciso uomini importanti della politica e della società, come Moro, Bachelet, Alessandrini, Casalegno fino al sindacalista operaio Guido Rossa. Dall’altro gli stragisti fascisti, sostenuti e finanziati dai servizi segreti, i quali, dopo le stragi si preoccupano anche di depistare le indagini. Perfino la natura si mette di traverso, con un terribile terremoto in Irpinia, che causa miglia di morti e una quantità sterminata di sfollati. Pertini reagisce a queste sciagure con fermezza, predica la necessità di una nuova resistenza, proprio lui che era stato a capo della resistenza milanese prima della fine della guerra, proprio lui che aveva fatto 14 anni tra carcere e confino per il suo genuino e irriducibile antifascismo.
Tutto questo potrebbe bastare a colmare di preoccupazione la sua vita di presidente, ma la cosa forse più grave che avviene nei primi anni ’80 è la scoperta di un Antistato, una organizzazione segreta che cerca di rubare forze alla repubblica, per indirizzare diversamente la società italiana. Sì, è vero, ne ho parlato fino ad ora. Si tratta dei progetti eversivi di Licio Gelli, del suo Piano di rinascita, dei legami sottobanco tra varie forze del paese, militari, politiche, amministrative, legate all’informazione, alla produzione industriale e così via.
Un bubbone da estirpare, ma come? Lasciando campo libero ad una DC, in cui sono presenti molti sospettati di essere iscritti alla loggia di Gelli? Affidando ad un laico l’onere di formare un nuovo governo che riesca a spazzare via quella porcheria? Scelte complicate e difficili, in un paese che si regge su equilibri partitici sottili e delicati, nei quali basta spostare una pedina perché tutto il castello crolli.
Pertini non è mai stato uomo dalle mezze misure, non si è mai tirato indietro di fronte a decisioni scomode. Ad esempio aveva rifiutato, da presidente della camera, di firmare un aumento di stipendio degli onorevoli in un momento di crisi economica legata ad una forte inflazione. Da capo dello stato non convalida alcune nomine, ad esempio quella di Umberto Ortolani a Cavaliere del lavoro. Il banchiere Ortolani è stato uomo di vertice di molte operazioni legate sia a Licio Gelli, di cui era il confidente finanziario, che allo IOR di monsignor Marcinkus, insomma legato mani e piedi a una feccia più feccia dell’altra.
Ora arriviamo a marzo 1981, quando, come già detto, nei pressi di Arezzo, nella villa di Gelli, saltano fuori i famosi elenchi degli affiliati alla loggia massonica Propaganda2, cioè P2.
In quei giorni Pertini è in Messico, per una visita ufficiale, ma anche per godere delle bellezze artistiche di quella terra, scalando, con la noncuranza dei suoi 84 anni, le piramidi maya. Le notizie arrivano in America centrale col contagocce, per cui né il presidente, né i diversi giornalisti al seguito, tra cui Ezio Biagi e Sandra Bonsanti, il cui libro sto seguendo, possono chiaramente capire cosa stia accadendo a Roma e di che portata sia la scoperta appena fatta.
Le prime ipotesi parlano di 500 clienti di Sindona, quei clienti privilegiati che hanno trasportato in Svizzera montagne di denaro, fatto illecito grave, da codice penale. Che sarebbe già stata una scoperta notevole. Solo un mese più tardi si viene a sapere la verità e cioè che quei 500 eletti sono in realtà i nomi più importanti degli affiliati alla loggia segreta di Licio Gelli. Ho già ricordato che i giudici responsabili dell’inchiesta sono Gherardo Colombo e Giuliano Turone. Loro sì sapevano tutto, ma ancora le informazioni ai mezzi di comunicazione si basano solo su indiscrezioni dal palazzo di giustizia di Milano o dalla commissione Sindona, che però non conosce ancora gli ultimi elementi che i due giudici hanno scoperto.
A proposito di anni difficili, anche il 1981 non se la cava male. Nel mese di maggio Alì Agca spara al papa polacco; a Napoli le brigate rosse rapiscono Ciro Cirillo e riempiono la stampa di ultimatum. Come nei casi Moro e D’Urso, il fronte politico si spacca tra quelli che vogliono trattare con le BR per salvare la vita di Cirillo e quelli che “non se ne parla nemmeno”. In particolare a muoversi verso un accordo coi brigatisti è la Democrazia Cristiana, rappresentata, nel caso, dal trentino Flaminio Piccoli e dal napoletano Antonio Gava. Uno dice: che c’è di male? Di male ci sono due cose. La prima è la resa dello stato di diritto di fronte a degli assassini e la seconda che come intermediario viene scelto nientemeno che don Raffaele Cutolo, il capo della Camorra. Ed è, inoltre, curioso come il partito di maggioranza sia disposto a concedere per un assessore alla pubblica edilizia molto più di quello che poteva concedere per Aldo Moro, il che testimonia, una volta di più quanto poco la DC tenesse a riavere tra le sue fila lo statista pugliese.
Il presidente del consiglio è Arnaldo Forlani. Lui riceve gli elenchi il 25 marzo 1981, ma non li pubblica, ha paura, evidentemente quei nomi possono provocare un terremoto nella politica del paese. Così continuano ad essere resi noti piccoli brandelli, qualche nome qua e là, senza alcuna documentazione certificatoria. Licio Gelli è latitante, probabilmente in Argentina, ospite dell’ammiraglio Massera, uno degli assassini a capo della giunta militare, quella delle migliaia di desaparecidos, di cui anche qui a NSSI abbiamo parlato. Gelli tenta depistaggi e fa nomi improponibili, come quello di Berlinguer e di altri comunisti, che con la loggia niente hanno a che fare. La storia non finisce qui, ma la storia non finisce certo qui: di cose da raccontare ce ne sono ancora tante.

Pubblicare gli elenchi? Questo è il dilemma!

p205Arriviamo al 20 maggio 1981: le BR rapiscono l’ingegner Giuseppe Taliercio, ex direttore del petrolchimico di Marghera. Duemila operai scendono in piazza per chiedere la sua liberazione, ma di Taliercio torna soltanto il corpo senza vita due settimane più tardi. Intanto a Milano la magistratura arresta Roberto Calvi per esportazione di denaro e altri crimini finanziari. Calvi è amico di Sindona e di Gelli e questa potrebbe essere l’occasione per divulgare finalmente quelle liste. Forlani non se la sente: dice che non spetta al governo farlo, ma alla magistratura. I giudici si guardano bene dal muovere passi che potrebbero rovinare tutto il loro lavoro. Alla fine le liste arrivano alla commissione Sindona e qui nasce nei giornalisti la speranza che qualcosa di serio possa finalmente filtrare. E così avviene, prima qualche nome importante, quello di tre ministri del governo in carica: Enrico Manca, Adolfo Sarti e Franco Foschi. Poi altri, finché arriva l’autorizzazione dalla magistratura e gli elenchi interi vengono diffusi.
Anni più tardi, Flaminio Piccoli, racconterà che il timore più grande era legato alla presenza di un nome in particolare, quello di Giulio Andreotti, carissimo amico di Licio Gelli. É il presidente del Senato Amintore Fanfani a spingere il premier a pubblicare gli elenchi, benché tutti o quasi i notabili democristiani avevano là dentro amici o collaboratori.
La reazione dei politici è curiosamente costante nel tempo, come accaduto durante il regno di Berlusconi e ora con le strane novità legali di Nordio. Anche allora, anziché prendersela con quei mariuoli che fanno parte di una associazione eversiva, se la prendono con i giudici, adducendo motivi i più vari, infondati e spesso ridicoli. I più scandalizzati sono i socialisti: per loro lo scandalo non è la P2, ma la magistratura. A ben guardare hanno ragione di reagire così, visto cosa poi è successo circa dieci anni più tardi con tangentopoli e mani pulite.
Pochi personaggi rilasciano dichiarazioni preoccupate, come il liberale Bozzi, che si rivelerà una colonna della commissione parlamentare. Lui dice: «Tra terrorismo, illeciti e corruzione la Repubblica scricchiola».
La stampa non è da meno. In una assemblea al Corriere della sera, qualcuno dice “Abbiamo il 40% della proprietà in galera, l’altro 60% nelle liste della P2”. Il riferimento è a Calvi in carcere e ai piduisti Franco Di Bella, direttore, Angelo Rizzoli, presidente e maggior azionista e Bruno Tassan Din direttore generale.
L’esercito è ben rappresentato: 54 generali, 41 colonnelli, 57 ufficiali superiori, 46 capitani sono iscritti alla loggia. La decisione finale su di loro spetta a Pertini, nella sua veste di capo supremo delle forze armate.
Ci sono smentite, come quella di Cicchitto, socialista. La DC ha 19 parlamentari nelle liste. Il loro destino è demandato ad una commissione di cinque saggi. Il settimanale del partito anticipa la sentenza: ci vuole fermezza e severità, per recuperare un po’ di dignità.
Il segretario socialdemocratico Pietro Longo fa fuoco e fiamme, ma anche lui è iscritto, come 5 dei suoi parlamentari. Ci sono 9 socialisti, 3 del Partito Repubblicano, 3 del partito liberale e 4 del Movimento sociale di Giorgio Almirante.
É un guazzabuglio del quale non si riesce a capire il senso. Là dentro ci sono tutti: vecchi nemici, alleati temporanei, sostenitori da sempre e questo impedisce di dare una risposta alla domanda principale: “A chi serve tutto questo?”.
Dalle mille pagine dei documenti trovati nella villa di Arezzo, saltano fuori, oltre ai nomi, anche le modalità di iscrizione, le domande curiose e soprattutto due elementi fondamentali: la richiesta di denaro per finanziare l’organizzazione e la citazione “il silenzio è d’oro”, emblema della assoluta segretezza che doveva regnare.
Cosa succede poi? Occorre cambiare registro, subito e in modo ben visibile. Lo vuole il popolo, e anche quella parte di politica che crede nelle istituzioni e nella democrazia. Si chiede al presidente Pertini di intervenire … quante volte lo ha fatto, anche al di là dei suoi effettivi poteri. Cosa può fare Pertini? Ad esempio cambiare il dominio secolare della Democrazia Cristiana, toglierle il monopolio, il diritto inalienabile di avere il primo ministro, come se fosse una legge critta da qualche parte. Nominare un laico alla presidenza del Consiglio. In quegli anni sembra quasi una bestemmia!.

Un laico a palazzo Chigi

Il 28 giugni 1981, Sandro Pertini nomina primo ministro il repubblicano Spadolini, che guida per 17 mesi un pentapartito. É la prima volta che, nella storia della Repubblica, a palazzo Chigi entra un laico, vale a dire un non democristiano.
A proposito del Corriere della Sera, il direttore Di Bella, durante un’assemblea coi suoi giornalisti cerca di spiegare come sono andate le cose. Dei tre incontri avuti con Gelli, ricorda l’ultimo, durante il quale il Venerabile lo minaccia di fargli perdere il posto se non avesse licenziato Enzo Biagi, reo di aver fatto una trasmissione sulla massoneria. Biagi resterà al suo posto, Di Bella dovrà dimettersi. É curioso il fatto che molti anni più tardi, ci sarà il famoso editto bulgaro, quando Berlusconi da Sofia, accusa Biagi di aver fatto un “uso criminoso”, queste le testuali parole, della televisione. E i servi della RAI provvedono a licenziare Enzo Biagi, il più illuminato giornalista che l’Italia moderna possa annoverare. Retaggio della P2? Vendetta di un uomo piccolo che si crede un gigante? Altro capitolo di un potere occulto?.
Chissà? Ma resta il fatto che non si riesce a capire chi ha vinto e chi ha perso … poi però incontriamo un altro personaggio, un filosofo, Norberto Bobbio e il prossimo capitolo è dedicato a lui. .

Norberto Bobbio

p206Quando la documentazione viene resa pubblica, resta da capire il senso di quella organizzazione: cosa voleva fare, cosa ottenere in concreto, a chi poteva essere utile? Sia il mondo politico che quello giornalistico sono confusi, lo sono un po’ tutti, tranne uno, il filosofo torinese Norberto Bobbio. Di famiglia fascista è stato un antifascista, dal 1939 con attività clandestine, pur ricoprendo ruoli importanti di docente in varie università tra cui quella di Padova.
Ma torniamo agli anni ’80. Lui scrive per La Stampa e ha pubblicato articoli sul “potere invisibile” e parla in termini molto preoccupati del segreto, come di qualcosa che può danneggiare la democrazia italiana.
Ecco, sono proprio gli articoli di Bobbio, quelli che rendono più chiaro di ogni altro, cosa sta succedendo al paese. Nei giorni in cui le liste della P2 vengono rese note, Bobbio scrive un articolo che sembra scritto da uno che è dentro le cose segrete che nessuno conosce. Lui parla di due livelli di sottogoverno, in due livelli diversi di segretezza. Quello più profondo è popolato dai servizi segreti, dal controspionaggio, da affaristi di ogni genere, il cui scopo non è tanto quello di rovesciare il governo legittimo del paese, quanto quello di usare metodi non leciti per aggirare o violare impunemente le leggi. É letteralmente schifato, Bobbio, leggendo tutti quei nomi importanti, uniti solo dal desiderio di acquisire potere, un potere segreto. Questo tipo di organizzazioni, dice, sono quelle che vogliono controllare lo stato, senza essere controllate. La cosa più grave, tuttavia, non è nell’esistenza di questo potere occulto, ma nel fatto che le forze sane, che pure ci sono, non facciano niente e la scoperta venuta a galla venga nascosta sotto il tappeto come la polvere. Un’indicazione chiara, chiarissima mandata direttamente alle forze politiche e alle commissioni parlamentari perché si decidano a prendere la strada giusta.
Il 25 maggio dalla riunione dei garanti della DC, arriva il messaggio che o si è democristiani o massoni. Il risultato finale è che Forlani, ancora presidente del consiglio, rimette nelle mani di Pertini il suo mandato. Si parla di un governo istituzionale, che però trova la strada sbarrata da Giovanni Spadolini, che lo definisce “una bara per la repubblica”, ma soprattutto dal leader socialista Bettino Craxi, del quale vengono riferite frasi poco concilianti verso i vertici DC e decisamente ostili alla magistratura. La lettura che viene data da molti storici dell’atteggiamento di Craxi, riguarda i suoi rapporti con alcuni dei personaggi di queste vicende. Lo stesso Licio Gelli non si farà scrupolo di indicare proprio nel politico milanese l’uomo giusto da mettere al comando. Inoltre Craxi è preoccupato per l’arresto di Calvi, che potrebbe raccontare molte vicende legate a finanziamenti occulti e pertanto proibiti al suo partito e anche a se stesso. Tutto questo ha uno scopo piuttosto chiaro: Bettino vuole per se stesso l’incarico di formare il governo da parte di un suo compagno di partito, quel Sandro Pertini, che non ha mai visto di buon occhio la carriera rampante di Craxi, dal quale lo dividono metodi e anche posizioni politiche all’interno del Partito Socialista. Nel partito, tuttavia, ci sono uomini che ne combinano di tutti i colori, come De Michelis e Formica, che sparano ai quattro venti il desiderio non tanto nascosto di un governo Craxi. Dunque la faccenda è nelle mani di Pertini, il cui percorso politico è sempre stato osteggiato da Craxi. Il presidente aveva poi rapporti frequenti con Enrico Berlinguer, il quale chiedeva semplicemente la fine di quell’andazzo, perché “ … si sono ormai consumati tutti i margini per la permanenza alla guida del paese di un tipo di personale politico gran parte del quale non dà più garanzie. Ci si deve convincere che ciò che è durato per più di trent’anni non può più durare ancora. È necessario un governo di alternativa democratica”.
Mentre Forlani cerca di ripristinare un proprio governo, Norberto Bobbio cala altri assi, scrivendo che non è ammissibile che, di fronte a questa scoperta, i ministri non vengano subito cacciati e si provveda immediatamente ad un governo di galantuomini, che sappiano difendere la costituzione e il paese.
…  Subito, immediatamente … ma ancora non è cambiato niente.
Quello che invece succede è che tutti cercano di correre ai ripari, di inventare scuse, come Piccoli che accusa l’intera massoneria di chissà quali delitti, soprattutto di voler far fuori la Democrazia Cristiana.
A Sandra Bonsanti viene richiesto un articolo su Licio Gelli: facci capire chi è, le chiede il direttore. La Stampa pubblica a nove colonne il suo pezzo dal titolo: “La storia di Gelli, da Salò alla Loggia P2”. E dentro c’è tutto, anche cose che ancora non si conoscono come alcuni nomi trovati tra i centomila foglietti nella villa ad Arezzo. Ad esempio quello di Ugo Zilletti, vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura, con a fianco un’indicazione: Unione delle Banche Svizzere e una cifra: 850 milioni. É solo un esempio, uno dei tanti, che dimostra come la classe non solo politica ma dirigente del nostro paese sia dentro una rete che non si sa quanto sia vasta, perché nessuno sa se quegli elenchi siano completi o solo una parte di quelli reali.
Così si arriva all’assegnazione da parte di Pertini del mandato a Spadolini. É il segretario di un partito che non conta nulla, ha appena il 3% dei voti, ma è sempre stato fedele alla DC, non ha mai creato fastidio. C’è molta attesa, anche da parte dei Comunisti. Gerardo Chiaromonte lo scrive su Rinascita: il nostro tipo di opposizione potrà essere diverso a seconda di come il governo verrà formato, di quale programma intende adottare. C’è insomma la disponibilità ad essere sempre fieri avversari, ma più morbidi, vista la melma maleodorante che imbratta la nostra classe politica.
Poi si arriva alla fiducia e ci si accorge che il governo è formato soprattutto da democristiani e che il famigerato manuale Cencelli, che divide le cariche in base alla forza delle correnti, è stato perfettamente seguito. Non è cambiato niente, solo la forma di un presidente non democristiano, mentre il potere, quello vero, non ha mai cambiato padrone.
La sola consolazione è che nel governo non ci sono ministri piduisti, che torneranno, oh se torneranno, ministri che giurano nelle mani di un uomo onesto e baluardo della democrazia e della sacralità della repubblica.

… concludendo …

p205Come finisce questa avventura, quella dell’antistato voluto da Licio Gelli e supportato dalle forze politiche, economiche, militari del paese?
Abbiamo visto la preoccupazione di Craxi per la pubblicazione dei documenti di Licio Gelli rinvenuti nella sua villa di Arezzo. E aveva ben ragione di essere preoccupato. Infatti … qui dobbiamo fare un piccolo passo indietro e mettere in mezzo di nuovo uno dei personaggi chiave della faccenda, Roberto Calvi.
Siamo all’inizio di luglio del 1981, quando tre giudici che seguono l’inchiesta sulla P2, incontrano Calvi e il suo legale in carcere per interrogare il banchiere. Ci stanno sei ore. Cercano di sapere sui finanziamenti illeciti al partito socialista. Si tratta di una apertura di credito di 21 milioni di dollari fatta dal piduista Umberto Ortolani attraverso una banca uruguaiana a favore del partito socialista. Ma per quale motivo? Per avere che cosa in cambio? E chi era, fisicamente, il beneficiario di tutti quei soldi?.
Calvi viene suicidato prima che si arrivi a conoscere tutti i particolari. Ne parla però la sua vedova, rivolgendosi con diverse telefonate proprio alla giornalista Bonsanti, il cui libro stiamo seguendo.
Quei soldi, le aveva confidato il marito appena uscito dal carcere, dovevano servire per la formazione del governo Cossiga. In sostanza ai socialisti va una cifra per permettere la formazione di un governo, nel quale sono presenti anche loro rappresentanti. É il famoso governo in cui ci sono tre ministri e cinque sottosegretari iscritti alla P2. I socialisti sono fuori dalla maggioranza da almeno sei anni. Sono questi i tempi delle tangenti, quelle dell’Eni che, attraverso una triangolazione Eni-Ambrosiano-Psi, vanno ad arricchire le casse di Bettino Craxi. Quella deposizione ha talmente turbato Calvi, che, nella notte, cerca di suicidarsi ingoiando un tubetto di barbiturici. Una mossa che qualcuno attribuisce al suo stato d’animo, altri parlano di una messa in scena per stimolare un po’ di pietà nei suoi confronti. Di amici ne sono rimasti davvero pochi: Gelli è latitante, gli restano pochi politici, come Flaminio Piccoli democristiano e il capo socialista Bettino Craxi. Attorno a lui una morsa si chiude sempre più, una morsa fatta di minacce e ricatti. Da un lato c’è il Vaticano, con i suoi sporchissimi affari: riciclaggio dei soldi più sporchi che mai che arrivano da rapine, spaccio di droga e altre cosette simili portate a termine dalla banda della Magliana e dalle mafie. Calvi, fino a poco prima gestore del Banco Ambrosiano, quelle vicende le conosce tutte e se avesse parlato ….
Dall’altro lato c’è la mafia, quella rappresentata a Roma da Pippo Calò, che si serve come manovalanza di avanzi da galera come quelli della Magliana, ma non disdegna di mandare a Londra due camorristi per far fuori il povero Roberto Calvi.
É proprio in occasione della discussione sul primo governo laico, quello di Spadolini, che in aula entra di forza la questione Calvi. Spadolini è un teorico, forse fuori dal grande giro delle mazzette, visto il minimo potere del suo piccolo partito. Presenta il lavoro che lo aspetta con quattro grandi temi. Il primo è la questione morale, all’interno della quale si colloca lo scioglimento della P2, con un provvedimento opportuno figlio dell’articolo 18 della Costituzione, che proibisce la costituzione di associazioni segrete. Ora, qualcuno potrebbe ribadire: “Ma come? Se le società segrete sono vietate dalla Costituzione, a cosa serve una nuova normativa al riguardo?” Il fatto è che in quel periodo ancora si discute, pensate un po’, se la P2 sia o non sia una società segreta.
A parlare di Calvi intervengono tre personaggi importanti di quell’aula: i due già citati Piccoli e Craxi ed il segretario dei socialdemocratici Pietro Longo. Da questi interventi si può estrarre: la preoccupazione per la sorte di Calvi e l’attacco ai giudici che non devono occuparsi di questione politiche, come se i ladri seduti in parlamento potessero essere diversi dai ladri della strada. L’intervento di Longo ha due scopi precisi. Il primo quello di tutelare tutti i piduisti che non sapevano cosa facevano (lui stesso è iscritto con la tessera 2223) e poi cala una domanda ai suoi colleghi: “Per conto di chi lavora questo signor Gelli? Vi sono palesi contraddizioni nel suo percorso».
L’intervento diventa allucinante quando paragona la situazione attuale a quella del codice Rocco durante il fascismo, con la proposta di Mussolini di sciogliere la massoneria tout court.
Ed infine si scaglia contro la magistratura, rivolgendosi direttamente a Spadolini, perché nel suo discorso non c’è niente che regolamenti le funzioni dei magistrati. Chiede la separazione delle carriere, come avverrà da allora fino ad oggi da parte di tutti gli schieramenti di destra. Vuole sapere quali accordi ci sono stati tra Spadolini e i vertici della magistratura prima di formare il governo. Ingrao, a nome dei comunisti, cade dalle nuvole: quali accordi? A che scopo? Quale regolamentazione dei giudici e dei pubblici ministeri?.
Ma il carico da 90 arriva dall’intervento seguente, quello di Bettino Craxi. É una filippica vera e propria contro i magistrati milanesi che hanno messo le manette ai polsi di uomini eccellenti della finanza, rischiando di creare un disastro nella borsa. Strana preoccupazione, che sarà evidente dieci anni più tardi quando le manette stringeranno i suoi polsi per quelle stesse procedure anomale di cui i magistrati parlano nei loro rapporti a proposito di Calvi, Sindona e compagnia bella.
É poi il turno di Piccoli, che ribadisce i concetti espressi da Craxi, arrivando a chiedere che sia il ministro della giustizia ad assumere poteri che possano evitare situazioni come quella attuale. Una specie di piccolo dittatore insomma a capo della giustizia.
A questo duro attacco rispondono Spadolini, parte della DC non dorotea e i comunisti, creando un asse di difesa della magistratura che durerà nel tempo, perché gli attacchi continueranno e saranno spesso sponsorizzati proprio da chi ha qualcosa da nascondere anche se siede tra i banchi del parlamento.
Ora attenzione! Qui non si tratta di dire chi ha ragione e chi torto. La Storia è storia, racconta fatti accaduti, passati, sui quali non si può tornare indietro e modificarli. Purtroppo in questi casi ognuno ha il proprio punto di vista, legato alla sua fede politica, alle sue personali esperienze di vita ed essere tutti d’accordo semplicemente non si può.
Quello che vale la pena di registrare è che i discorsi dei tre parlamentari seguono passo passo le indicazioni sulla giustizia contenute nel Piano di Rinascita di Licio Gelli, il vademecum, la bibbia di quella associazione, che tutti, anche loro tre, chiedono di eliminare.
Ci sono poi strane coincidenze su cui riflettere. La scoperta del Piano di Rinascita avviene il 4 luglio 1981, quando la figlia di Gelli viene fermata in aeroporto e si scopre il doppio fondo della sua valigia. Come mai proprio allora? E da chi era arrivata ai giudici Turone e Colombo l’informazione su Maria Grazia Gelli?  E come mai in un momento in cui il governo Spadolini è appena formato e ancora si discuteva sul da farsi a proposito della giustizia?.
Qualcuno, come Turone, sospetta che sia stata una mossa dello stesso Licio Gelli per serrare le fila dei suoi affezionati iscritti, per mandare un messaggio al nuovo governo, che quelle erano le linee da seguire.
Spadolini sa di non aver molto tempo, sa che la loggia P2 non è affatto sconfitta e che avrebbe in qualche modo deciso della sua fine come presidente del consiglio. Le sue priorità sono di sciogliere definitivamente la loggia e di far rientrare dall’Uruguay il corposo archivio di Licio Gelli. Riesce ad ottenere solo il primo risultato. Una parte degli incartamenti di Gelli arrivano solo quando a palazzo Chigi ci sono inquilini meno curiosi e sicuramente più benevoli nei suoi confronti. I premier successivi a Spadolini sono, nell’ordine, Amintore Fanfani e Bettino Craxi. Poi della P2 non arriva più niente