Ci sono disastri e disastri. Ci sono quelli naturali, a volte imprevedibili e quelli provocati dall’uomo.
Tra questi rientra anche una delle più gravi tragedie italiane del Novecento, avvenuta in una valle veneta, quella del Piave, il fiume sacro alla Patria.
É mercoledì 9 ottobre 1963, un mercoledì di coppa dei campioni con i bar di Longarone pieni di tifosi che seguono la partita tra i Rangers di Glasgow e la fantastica squadra del Real Madrid di Puskas e Di Stefano. La partita finisce 6 a 0, ma nessuno di quegli avventori conoscerà il risultato finale. All’inizio del secondo tempo la luce se ne va, pochi minuti dopo se ne vanno anche le loro vite.
Cosa succede? Cos’è quel rumore che sembra quello di un temporale amplificato cento volte? Cos’è quella polvere che arriva? Da dove viene? Da quella valle che si inerpica in Friuli … oddio! La diga … la diga del Vajont!
E poi … arriva un’onda, altissima, terribile. Non è solo acqua, è fango che cammina, c’è terra, rade tutto al suolo, si porta via case, boschi, negozi, bar, e la vita dei poveri abitanti. Scappano, quelli che possono, quelli che riescono a reagire, scappano verso l’alto, lungo i prati che salgono ai lati del paese, sperando di riuscire a stare più su di quell’onda. Cosa diavolo è successo?
Ce lo racconta, con un pathos che ti crea un nodo alla gola, un grande attore, nato da quelle parti, Marco Paolini. Qui seguiamo il suo racconto.
C’è una frana sul monte che sovrasta la diga del Vajont, una frana che si stacca, parte piano poi sempre più veloce. Scende a 100 km all’ora verso il lago artificiale, lo colpisce, rimbalza e torna indietro. Una montagna a forma di “M” si porta dietro il bosco, le stalle, il bestiame, le case e piomba sul lago del Vajont. Il lago è pieno d’acqua e questa schizza via, verso l’alto dall’altra parte. Un’onda alta 250 metri si dirige verso Casso, il paese più in alto sulla montagna. Sbatte contro la roccia e perde velocità, ma riesce a raggiungere il piano terreno della scuola elementare, dove per fortuna non c’è nessuno: le maestre sono al piano di sopra, si salvano. A Casso non muore nessuno: l’onda scavalca il paese, lo sorvola. Gli schizzi sono come dei macigni e sfondano i tetti delle case. Tutti salvi, ma gli altri? Quelli che vivono più sotto lungo il pendio? C’è Erto là sotto, ma anche qui un po’ di fortuna. C’è una roccia che protegge il paese e lo salva. Ma nelle frazioni più a valle, a S. Martino, alle Spesse, a Frasèn, un muro di 60 m d’acqua fa piazza pulita.
L’altra mezza onda corre verso la diga, la scavalca, la sfiora, la lascia intatta. É un’onda pazzesca, alta 250 m nel punto più alto, 150 in quello più basso. E corre verso il Piave, laggiù dove c’è Longarone. Si muove un lago alto 170 metri, che scende a 80 km all’ora, Ci vorranno quattro minuti per arrivare al paese. Sono usciti tutti dai bar, sentono quel rumore fortissimo, poi arriva il vento, un vento umido, appiccicoso. Che si porta dietro terra e sabbia. Ma prima dell’acqua arriva l’aria, spinta dall’onda come un pistone in uno stantuffo, un’aria assassina che strappa i vestiti, strappa la pelle e quello che c’è dentro. Ed ecco l’onda che arriva al Piave, raccoglie tutto quello che trova, terra, sassi, detriti e rade al suolo Longarone. Ma non basta, perché nell’urto una parte dell’onda sbatte contro i pendii e torna indietro, risalendo contro corrente il Piave per due chilometri. Altri paesini, altre abitazioni, altre persone, scompaiono da questa terra.
Intanto l’onda principale prosegue la sua corsa dentro, o meglio sopra il Piave. A Ponte nelle Alpi, 20 chilometri più giù, è ancora alta 12 metri.
E poi ripassa, per dove c’era Longarone, l’onda di reflusso e, come al mare sul bagnasciuga, spiana tutto, rende tutto liscio, come se là non ci fosse mai stato nulla, solo una enorme distesa di fango e di ghiaia.
Pochi minuti, poi un irreale silenzio di morte.
Il 10 ottobre lungo il Piave ci sono centinaia di persone, civili, militari, volontari, con pertiche e rampini. Raccolgono e tirano a riva i cadaveri che il Piave trasporta verso valle.
Abbiamo voluto cominciare dalla fine, seguendo il pezzo di Paolini, perché si capisca fin da subito di cosa stiamo parlando: ci sono stati quasi 2000 morti, paesi spazzati via, un tessuto sociale scomparso e ci sono, come vedremo, altri drammi legati a quello che ci si ostina a chiamare la “disgrazia” del Vajont. Quello che mostreremo con questo video è che si è trattato di una strage, non diversa da tante altre, una strage provocata dall’uomo, dalla sua ingordigia e dalla sua infamia.
Il libro più bello scritto su questa storia, è di una donna straordinaria, Tina Merlin.
“Sulla pelle viva” comincia con questa frase: “Resterà un monumento a vergogna perenne della scienza e della politica.”
Per raccontare tutto, occorre fare un passo indietro, un passo bello lungo, fin dentro il ventennio fascista.
Che l’Italia non sia ricca di materie prime non è un problema dei nostri giorni. É sempre stato così. In particolare la dipendenza dalle fonti primarie energetiche è sempre presente. Figuratevi in un periodo in cui la politica autarchica la fa da padrone. Bisogna arrangiarsi con quello che si ha e una cosa da noi non manca: montagne a rotta di collo. Una lunga “T”, formata da Alpi e Appennini, pieni di laghi, di corsi d’acqua, di torrenti e di fiumi, attraversa lo stivale. Ed ecco allora la possibilità e l’esigenza di utilizzare questo ben di dio, ovunque sia possibile trovare un “salto d’acqua” sufficiente a far girare le pale di una turbina per produrre energia elettrica. Bisogna realizzare dighe e invasi per produrre sempre più energia, che servirà, eccome, per la guerra che deve venire, dieci anni più tardi. Nel 1930 le strutture idroelettriche sono, in tutto, 600, di cui 300 pubbliche o gestite da enti pubblici come ENEL e 300 private, gestite da società che su quelle costruzioni speculano il possibile.
Servono torrenti o fiumi ricchi d’acqua perenne, in valli un pochino abbandonate, con pochi paesi lungo le rive. Tra il Veneto e il Friuli ce n’è una perfetta. É solcata dal torrente Vajont, che nasce a 1900 metri nei pressi della Forcella col de Pin, e si tuffa nel Piave a Longarone, qualche decina di chilometri a Nord di Belluno sulla strada che porta a Cortina d’Ampezzo.
Nel 1929 lungo le sponde che costeggiano il Vajont passeggiano due individui, che discutono, tastano il terreno, osservano la valle e i monti circostanti: le Prealpi Carniche a Nord e il Monte Toc a ridosso della valle a Sud. Cosa ci facciano lassù non è chiarissimo, però sono due personaggi importanti per la nostra storia. Uno è un ingegnere di 36 anni, specializzato nella costruzione di dighe. Si chiama Carlo Semenza è di Milano, ma si è trasferito a Padova, dove si laurea. L’altro è più vecchio, ha 54 anni ed è un professore dell’Università di Padova, già famoso, un geologo: si chiama Giorgio Dal Piaz ed è di quella zona. É nato a Feltre, un bel paese che si raggiunge in 60 km da lassù, basta accompagnare le acque del Piave.
Nel 1956, gli stessi due personaggi, un pochino invecchiati, si ritrovano nella stessa valle. Ma questa volta hanno un ruolo diverso, non più di esploratori. Rappresentano una società importante, la SADE (Società Adriatica Di Elettricità), che è proprietaria di un certo numero di dighe nella zona. La storia di questa società è importante, quasi decisiva, per capire cos’è successo.
Nasce nel 1905, fondata dal Conte di Misurata, al secolo Giuseppe Volpi, personaggio dalle molte sfaccettature. É lui a volere la realizzazione di Porto Marghera sulla laguna di Venezia, dove fa costruire una centrale termoelettrica a carbone, che serve a sopperire i tempi di magra d’acqua e quindi di scarso apporto delle centrali idroelettriche. Già, perché la SADE ne ha già fatte di dighe e centrali nelle Dolomiti. Si servono dell’acqua del Cordevole, del Boite, del Maè, dello splendido Mis e dello stesso Piave. Gli invasi sono sotto la Marmolada, a Fedaia, ad Alleghe, lungo il Mis a Sospirolo, lungo il Maè a Pontesei, le centrali stanno più giù, a Cencenighe, Agordo, Fadalto, Nove. Il 15% dell’energia elettrica italiana è fornito, in quel periodo, dalla SADE, che però non è contenta, vuole di più, vuole realizzare un grande bacino d’acqua. Vedremo tra poco dove e perché.
Giuseppe Volpi, che tra l’altro apre anche la mostra del cinema di Venezia, tanto che la coppa destinata ai migliori attori, ancora oggi è intitolata a lui, dopo la marcia su Roma si iscrive al partito di Mussolini. É un fascista convinto, talmente convinto che dopo un solo anno diventa ministro delle Finanze. Dopo qualche anno è quello che oggi chiamiamo presidente di Confindustria.
La SADE ha idee molto chiare in testa: vuole un grande impianto idroelettrico. Prepara un progetto, cerca la valle giusta, il torrente giusto, la posizione geografica giusta. Trova tutto questo nella valle del Vajont. La diga sarà costruita là dove quella valle si affaccia sul Piave, a pochi passi dal comune di Longarone.
Perché proprio là?
La risposta è complessa, ma sicuramente conta molto il fatto che le acque del Piave sono poco affidabili in quanto a continuità di portata, mentre quel torrente di montagna è costante, ha sempre acqua e formerà un lago che sarà continuamente alimentato. E poi la valle è quasi disabitata. Ci sono solo due piccoli paesi, Erto, sul versante Nord e Casso, molto più in alto. Verso Sud, sul monte Toc, gli ertani hanno costruito delle case in pietra dove passano l’estate a lavorare i campi e a pascolare le mucche, perché andare e venire da Erto/Casso è lungo e faticoso. Per il resto solo boschi, prati e campi.
Ma c’è dell’altro nelle intenzioni dell’azienda veneziana. Si vuole fare del futuro lago del Vajont una specie di banca d’acqua, che raccolga i contributi di tutti gli invasi e i corsi d’acqua dove la SADE ha già costruito le dighe. Nel futuro lago arriveranno le acque del Boite, del Cordevole e dei fiumi che sono più alti della quota del lago del Vajont. Alla fine, dice il progetto, avremo un invaso con 58 milioni di metri cubi d’acqua, poco meno di quella complessiva di tutti gli altri impianti SADE messi assieme. Vedremo poi che questo valore è destinato a moltiplicarsi. Un progetto semplicemente grandioso: ci sarà acqua e quindi energia tutto l’anno, non importa se in alcuni periodi pioverà poco.
Questo progetto, che era nella testa di Semenza e Dal Piaz fin dal 1929, viene presentato al ministero dei Lavori pubblici il 22 giugno 1940: si chiama “Grande Vajont”.
Eh già … il 1940: non è un anno qualsiasi. Il 10 giugno Mussolini dichiara guerra alla Francia e all’Inghilterra. Si prospettano tempi difficili, molto difficili, come fai a pensare ai progetti?
Poi arriva l’armistizio di Cassibile e l’8 settembre. L’Italia cambia nemico e cambia anche Volpi, il quale improvvisamente diventa sostenitore della Resistenza, dopo essere fuggito in Svizzera. Del progetto del grande Vajont non parla nessuno. Ma la SADE insiste e mette in campo tutta la sua potenza politica. Il 15 ottobre 1943, mentre l’Italia intera è sottosopra e nei ministeri ci sono praticamente solo gli usceri, riesce a far convocare la Quarta Sezione del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, riesce perfino a farla votare, nonostante siano presenti solo 13 commissari su 34. Viene approvato tutto, compreso l’esproprio dei terreni demaniali.
L’ultimo atto formale tocca al presidente della Repubblica. Luigi Einaudi convalida, con la sua firma, il progetto il 21 marzo 1948.
Nasce così il “Grande Vajont”, illegalmente.
Adesso si può programmare il da farsi, studiare come intervenire, scegliere le priorità e tutto il resto.
Come prima cosa serve il terreno dove costruire la diga e l’invaso. Erto e Casso formano un unico comune. Rappresentanti della SADE si presentano in municipio per far presente le loro esigenze. É il 5 ottobre 1948. C’è una giunta democristiana, che alla fine è costretta a cedere i terreni demaniali a meno di 4 lire al metro quadro. L’incasso, circa 3 milioni e mezzo, deve però essere girato al Ministero dell’Agricoltura e delle Foreste. Al comune non rimarrà niente.
I contadini di quell’angolo sperduto di mondo imparano una nuova parola, che non c’era nel loro vocabolario: esproprio. Non c’è niente da fare. Se una società ha vinto un appalto, ricevuto l’approvazione del governo, la vendita dei terreni demaniali è obbligatoria. Tanto loro, lassù, mica sanno come l’autorizzazione è stata ottenuta. Pur essendo demaniali, quei terreni da secoli permettono a quella gente di avere mais, patate, verdure e latte dalle mucche che vi pascolano.
Ma, di fronte allo Stato, come puoi controbattere? Uno Stato che qui non è mai esistito e diventa visibile solo quando arriva la SADE, perché si apre una stazione dei carabinieri, che faranno ben poco per tutelare quei contadini e montanari, ma garantiranno l’ordine a tutto beneficio dell’azienda. Così il comune cede e vende gli appezzamenti, ma c’è un errore, perché tra i terreni demaniali ci sono anche quelli che un’antica trattativa aveva ceduto ai cittadini di Casso. Sono circa cento famiglie, che si sentono prese per il collo, perché quei boschi e quei prati servono al loro mantenimento.
Nel frattempo il Ministero vuole i suoi soldi, quei tre milioni e mezzo che la SADE ha versato al Comune. Ma quei soldi non ci sono più, sono stati usati per “questioni urgenti e inderogabili”. Preso tra due fuochi, i suoi cittadini e il ministero, alla fine il Sindaco è costretto ad accettare un prestito dalla SADE, che sarà anche senza interessi, ma è un grosso vincolo di sudditanza verso l’azienda di Volpi.
…
Nel 1957 il cantiere del Grande Vajont viene aperto. Ci sono 400 posti di lavoro tra operai, cantonieri, manovali e quant’altro. Le prospettive cambiano: un posto fisso è un sogno e poi ci sarà lavoro anche dopo la fine dei lavori, quando la diga sarà terminata. Servirà controllare, sistemare, adeguare …
E poi, dai: una diga. Quante se ne sono costruite anche qui vicino, cosa potrà mai succedere? Siamo all’inizio del boom economico, ci sono euforia e ottimismo a volontà … ma, c’è un “ma” in questa storia, un “ma” che diventerà sempre più grande, fino ad essere gigantesco, un “ma” che ha un nome e un cognome.
A Trichiana, pochi chilometri a Sud di Belluno, nasce, nel 1926, una ragazza, che diventerà una delle giornaliste più toste del periodo. Lavora a Belluno, il suo nome è Tina Merlin. Lei vede oltre quell’entusiasmo, comincia a scrivere pezzi che dicono che c’è qualcosa che non la convince, che ci sono sotto intrallazzi e misteri, attacca la SADE e quello che rappresenta: la tracotanza democristiana. Lassù, nella valle del Vajont, la lettura dei quotidiani non è proprio l’attività più diffusa. Se poi quegli articoli appaiono su L’Unità, organo ufficiale del Partito Comunista Italiano, la loro lettura è ancora più rara e certo non diventano “popolari”. Quelli della SADE però, gli articoli li leggono e il termine più gentile usato per Tina è “rompicoglioni comunista”.
Si comincia a preparare la costruzione, si costruisce una strada vera, non quella bianca che fa il giro del mondo per salire a Erto da Longarone. La si scava dentro la roccia, una galleria dopo l’altra. Le mine esplodono vicino alle abitazioni e qualche conseguenza sulla natura la provocano. Gli ertani, oltre alla rabbia cominciano a provare paura. Paura per quelle fessure che si formano nel terreno e nelle case sul Toc, paura per quei sassi che ogni tanto rotolano a valle, paura per le loro vacche, che sono così spaventate da rendere meno del solito. Paura che quell’opera sia l’inizio della fine.
E cominciano a protestare, a scrivere lettere, a sporgere denunce.
Nel frattempo i carabinieri, portano a termine il loro primo ingrato compito: eseguire gli espropri. E si avvia anche l’acquisto dei terreni privati. La SADE offre prezzi decisamente bassi, anche tre, quattro volte inferiori a quelli di mercato.
C’è una rivolta ad Erto e si forma, cosa decisamente eccezionale nella valle, un comitato per contrastare le acquisizioni. A capo di questo comitato c’è il medico del paese, che è anche, cosa ben più importante, il marito del sindaco, Caterina Filippin, per tutti semplicemente “La Cate”, a capo di una giunta di sinistra.
La Cate è un personaggio unico nel paese: nipote di Domenica Flippin, morta per le torture delle SS hitleriane, socialista e benvoluta senza condizione da tutto il paese. Anche lei ha terre che devono essere sequestrate, anzi ne ha parecchie, più di tutti gli altri. Se c’è lei – dicono i paesani – che ha più interesse di noi a resistere, possiamo stare tranquilli.
Poi però, ecco il classico colpo di scena. La Cate, l’emblema della resistenza alla SADE, vende i suoi terreni, riuscendo a spuntare un prezzo molto conveniente, più alto di quello offerto agli altri. Un colpo basso, che rende la SADE più forte e che adesso si presenta agli ertani con discorsi di questo tipo: “nessuna contrattazione, questo è il prezzo, prendere o lasciare”. Arrivano i tecnici e a chi resiste più per principio che per convinzione, si rivolgono più o meno così: Questi sono i soldi che vi offriamo. Voi li potete rifiutare ma noi le vostre terre le prendiamo lo stesso e vi mettiamo i soldi in banca. Poi potete fare ricorso, prendere un avvocato, andare da un notaio, forse finire in tribunale e alla fine avrete speso molti più soldi di quelli che vi stiamo offrendo e le terre non le avrete comunque indietro.
Tutto a posto dunque: ci sono i terreni, ottenuti come sappiamo, ci sono le autorizzazioni, ottenute come sappiamo: la costruzione della diga può cominciare.
É a questo punto che alla SADE viene un’idea temeraria, che farà del grande Vajont un grandissimo Vajont. Chiede una variante, che significa modificare i termini del progetto iniziale. Ma non si tratta di una variante qualsiasi, perché la richiesta è di aumentare l’altezza della diga di 61 metri, arrivando così al valore di oltre 261m. Sarà la diga più alta del mondo. Ancora oggi la più alta diga italiana in funzione è 100 metri più bassa. Ancora oggi la diga del Vajont è la settima diga per altezza al mondo. Questa variante, dunque, cambia tutto, a cominciare dal livello a cui arriverà l’acqua, 725 metri sul mare, per proseguire con l’invaso: un lago enorme che conterrà circa 150 milioni di metri cubi d’acqua, quasi tre volte quelli previsti dal progetto iniziale. Un’opera sensazionale, un vero gioiello, un biglietto da visita luccicante delle capacità dell’industria italiana. Larga 190 metri, spessore alla base 22 metri, in cima 3,40 metri. Il progetto porta la firma di Carlo Semenza, ma serve l’autorizzazione di un geologo. Dal Piaz, vecchio amico di Semenza, è in pensione, ma si presta, dietro compenso, a fare delle perizie, come in questo caso. Tuttavia, come lui stesso dice, la variante gli fa “tremare i polsi e le vene” e non sa cosa scrivere. Si rivolge a Semenza, chiedendogli di redigere lui la relazione, che poi firmerà senza cambiare nulla. Così una variante di quelle dimensioni vede il progettista diventare anche giudice di se stesso e della sua opera. Il ministero approva, anche se qualche mugugno c’è, perché nella richiesta si parla della diga ma non dell’invaso. Ma da Roma non parte nessun tecnico per verificare cosa succede lassù lungo la valle del Vajont. Non solo, ma sono anche contenti che, finalmente i lavori possano cominciare. Certo che, se quel tecnico fosse stato spedito lassù, avrebbe visto che i lavori approvati erano un bel pezzo avanti, iniziati circa un anno prima.
Il grande progetto va avanti con una approvazione postuma.
La variante ha, però, un impatto anche sui cittadini di Erto. Servono altri terreni da confiscare, da espropriare, da acquisire. Ma adesso la musica è ben conosciuta e le reazioni dei contadini, che si vedono portar via altri pascoli, altro bosco, altri campi è di un odio feroce. Così la SADE cerca di arrivare ad un compromesso. In cambio delle terre, costruirà a proprie spese una passerella che colleghi le due sponde della valle, una specie di circonvallazione che permetta agli ertani di arrivare sulle pendici del monte Toc. Quest’opera non rientra nel progetto, non ha alcuna autorizzazione né locale né nazionale. La SADE si rifà ad un cavillo che permette la costruzione di qualsiasi cosa serva al cantiere purché sia “provvisoria”. Provvisoria quanto? Un anno? Dieci anni? Un secolo? Già … ma che ne sanno gli ertani? La costruzione della passerella sarà un punto importante della nostra storia, come vedremo tra poco.
Tina Merlin continua la sua battaglia e trova un alleato in Renzo Desidera, capo ingegnere del genio civile di Belluno. Va fino a Erto, si accorge che per la passerella non c’è alcuna relazione sulla tenuta del Toc. E blocca i lavori.
All’epoca è in fase sperimentale la regionalizzazione del genio civile, ma, alla fine, ad avere l’ultima parola è sempre il ministero dei Lavori pubblici. Nel 1957 in Italia c’è il governo Segni, un monocolore democristiano, eletto con i voti decisivi di missini e monarchici, che vede al ministero dei Lavori Pubblici, Giuseppe Togni. Costui impiega 24 ore a risolvere la questione. A Renzo Desidera arriva l’ordine di trasferimento ad altra sede, sostituito da un passacarte del ministero, Almo Violin. E i lavori riprendono immediatamente.
Togni è un politico navigato e così, per tutelarsi, istituisce una “commissione di collaudo”, con il compito di certificare la regolarità del progetto e della sua realizzazione. E poi, ma questo non viene detto ufficialmente, di non rompere le scatole a quell’opera magnifica che tanto serve al paese.
Ne fanno parte alcuni ingegneri e un geologo … due degli ingegneri, Pietro Frosini e Luigi Greco, sono quelli che hanno approvato il progetto. Il geologo è Francesco Penta, che ha certificato tutte le precedenti opere della SADE. La commissione è dunque legata mani e piedi all’azienda da controllare … bello no? Il risultato è che nelle occasioni in cui la commissione si sposta a Erto, non saprà granché dei lavori in corso, ma conoscerà a fondo le feste veneziane, farà meravigliose gite sulle dolomiti di Cortina e apprezzerà molto la cucina della zona. Va tutto bene … che problemi ci sono?
….
Che il dramma del Vajont non fosse prevedibile è una sciocchezza enorme. Prima di quel tragico 9 ottobre, di segnali ce n’erano stati e anche molto chiari.
Si comincia nel 1959, quando in un altro invase della SADE, a Pontesei, 20 chilometri più a Nord di Longarone, 9 chilometri in linea d’aria dal Vajont, si verificano fenomeni strani: macchie giallastre sull’acqua del lago, alberi tutti inclinati, fessure nel terreno. Non ci vuole molto a capire che c’è una frana sul monte che sovrasta quella diga, progettata da Carlo Semenza e approvata dal geologo Francesco Penta (sempre quello della commissione). Cosa fare? La prima idea è di togliere l’acqua dal lago, ma, mano a mano che il livello scende, la frana accelera. É come se fosse proprio l’acqua a tener ferma la massa di terra che rischia di scivolare giù. La SADE risolve ogni cosa monitorando la situazione. Con un esercito di tecnici? Con qualche squadra di operai specializzati? No! Ci manda il solo Arcangelo Tiziani, un carpentiere, zoppo, che, alle sei di mattina della domenica delle palme del 1959, sta salendo lungo i pendii a ridosso del lago. É il giorno in cui la frana si stacca dai monti Castellin e Spitz e corre verso il lago, sempre più veloce. Tre milioni di metri cubi di montagna si tuffano nell’acqua. L’onda che si forma è alta 20 metri, scavalca la diga e si porta via il povero Arcangelo, seppellendolo in fondo al lago, in mezzo ai detriti. Il suo corpo non sarà più ritrovato.
Pensate - comincia a dire la gente - se una cosa del genere succedesse al Vajont. Siamo proprio sicuri che sia tutto a posto? In fondo, le montagne della Val Zoldana, dove si trova Pontesei, non sono diverse da quelle che circondano la valle del Vajont.
126 famiglie di Erto e Casso prendono il segnale molto sul serio e si riuniscono nel “Consorzio per la difesa e la rinascita della valle ertana”. Le firme per il rogito notarile, a testimonianza di quanto avvenuto, sono del deputato comunista Giorgio Bettiol e di Tina Merlin. Si comincia a ragionare anche sui nomi: Vajont in friulano significa “che viene giù” e Toc deriva da “patoc” che significa marcio. Non sono buone sensazioni!
A quella riunione partecipa anche la stampa. A dire il vero sono presenti, oltre a Tina Merlin, solo alcuni giornalisti dal Gazzettino di Venezia. Mentre Tina Merlin continua la sua battaglia contro l’impresa che giudica azzardata a maggior ragione dopo i fatti di Pontesei, il Gazzettino non scriverà mai nulla che possa adombrare la SADE. Perché? É molto semplice. Dopo essere stato di proprietà del conte Volpi, il quotidiano è pappa e ciccia con la Democrazia Cristiana, che è di fatto lo sponsor del Vajont.
Un altro allarme scatta quando si cerca di realizzare la passerella tra le due sponde del Vajont. Non se ne fa nulla, perché i tecnici della SADE non riescono ad ancorarla al monte. I punti d’appoggio si sgretolano.
Si sgretolano? E il resto della montagna? Non è che quell’instabilità sia presente su tutto il monte? L’azienda tranquillizza tutti: il monte Toc è sano, non c’è alcun pericolo. Del resto, con tutti i soldi in ballo, cos’altro volete che dicano? Ma quello che pensano è molto diverso. Si convincono che va fatto uno studio geologico approfondito, con uno specialista di alto profilo, indipendente e non stipendiato da loro. Il più importante geologo del momento arriva dall’Università di Salisburgo, in Austria, dove dirige una scuola all’avanguardia. Si chiama Leopold Müller. Lavora due anni e, alla fine, ecco il suo verdetto: «A mio parere non possono esistere dubbi su questa profonda giacitura del piano di slittamento o della zona limite. Il volume della massa di frana deve essere quindi considerato di circa 200 milioni di metri cubi.»
Tradotto in termini che tutti capiscano, significa che sul Toc c’è una frana enorme, che può scivolare verso il lago in presenza di piccoli terremoti o di lubrificazione del suo appoggio. Questa lubrificazione può avvenire se si immette molta acqua nel bacino. La frana è 70 volte più grande di quella di Pontesei: 200 milioni di metri cubi! E il suo fronte ha una forma strana, una “M”, la “M di Müller”, che ancora oggi è ben visibile per chi sale alla diga. Una sentenza terribile, che imporrebbe la chiusura del cantiere e la sospensione dei lavori, ma, come detto, non se ne parla. La relazione la firma uno degli aiutanti di Müller, Edoardo Semenza. il figlio di Carlo, geologo laureato a Padova. Lui conferma tutto e aggiunge che quei 200 milioni di metri cubi di terra con sopra boschi, prati, case, è attaccata al Toc con lo sputo, una bava di ragno, come dice Marco Paolini nel suo pezzo teatrale. Il padre Carlo cerca, senza successo, di far addolcire la relazione al figlio. In fondo c’è di mezzo la sua reputazione e anche la possibilità di passare alla storia. É, tuttavia, in questo momento che tutte le sue sicurezze cominciano piano piano a vacillare.
La SADE è avvertita: più alto sarà il livello dell’acqua dentro il lago, più probabile sarà il distacco della frana.
Viene chiesto un parere di confronto non ad un geologo, ma ad un geofisico, Pietro Caloi, che, dopo aver esplorato la valle, il monte Toc e tutto il resto, scrive una relazione che è l’esatto opposto di quella di Müller. La frana c’è, dice, ma è antichissima, una paleofrana, ed è una piccola cosa: i lavori possono proseguire tranquillamente.
La SADE ha investito un mucchio di soldi nell’impresa, che è già a buon punto. Inoltre riceve ingenti sovvenzioni dallo Stato. Come si fa ad abbandonarla proprio adesso che c’è di mezzo la nazionalizzazione dell’energia? L’azienda veneziana sceglie la tesi di Caloi.
Il destino della valle del Vajont e di Longarone si decide qui.
Marco Paolini, Gabriele Vacis – Il racconto del Vajont – Garzanti
Marco Paolini – Vajont (spettacolo teatrale) – Youtube
Lucia Vastano - “Vajont, l'onda lunga: quarantacinque anni di truffe e soprusi contro chi sopravvisse alla notte più crudele della Repubblica”- Ed. Ponte alle grazie – (1^ ed. 2008)
Comitato sopravvissuti Vajont - http://www.sopravvissutivajont.org/
Il portale di Erto e Casso - http://www.ertoecasso.it/vajont.html
RAI Cultura – vari documenti
Tra questi rientra anche una delle più gravi tragedie italiane del Novecento, avvenuta in una valle veneta, quella del Piave, il fiume sacro alla Patria.
É mercoledì 9 ottobre 1963, un mercoledì di coppa dei campioni con i bar di Longarone pieni di tifosi che seguono la partita tra i Rangers di Glasgow e la fantastica squadra del Real Madrid di Puskas e Di Stefano. La partita finisce 6 a 0, ma nessuno di quegli avventori conoscerà il risultato finale. All’inizio del secondo tempo la luce se ne va, pochi minuti dopo se ne vanno anche le loro vite.
Cosa succede? Cos’è quel rumore che sembra quello di un temporale amplificato cento volte? Cos’è quella polvere che arriva? Da dove viene? Da quella valle che si inerpica in Friuli … oddio! La diga … la diga del Vajont!
E poi … arriva un’onda, altissima, terribile. Non è solo acqua, è fango che cammina, c’è terra, rade tutto al suolo, si porta via case, boschi, negozi, bar, e la vita dei poveri abitanti. Scappano, quelli che possono, quelli che riescono a reagire, scappano verso l’alto, lungo i prati che salgono ai lati del paese, sperando di riuscire a stare più su di quell’onda. Cosa diavolo è successo?
Ce lo racconta, con un pathos che ti crea un nodo alla gola, un grande attore, nato da quelle parti, Marco Paolini. Qui seguiamo il suo racconto.
C’è una frana sul monte che sovrasta la diga del Vajont, una frana che si stacca, parte piano poi sempre più veloce. Scende a 100 km all’ora verso il lago artificiale, lo colpisce, rimbalza e torna indietro. Una montagna a forma di “M” si porta dietro il bosco, le stalle, il bestiame, le case e piomba sul lago del Vajont. Il lago è pieno d’acqua e questa schizza via, verso l’alto dall’altra parte. Un’onda alta 250 metri si dirige verso Casso, il paese più in alto sulla montagna. Sbatte contro la roccia e perde velocità, ma riesce a raggiungere il piano terreno della scuola elementare, dove per fortuna non c’è nessuno: le maestre sono al piano di sopra, si salvano. A Casso non muore nessuno: l’onda scavalca il paese, lo sorvola. Gli schizzi sono come dei macigni e sfondano i tetti delle case. Tutti salvi, ma gli altri? Quelli che vivono più sotto lungo il pendio? C’è Erto là sotto, ma anche qui un po’ di fortuna. C’è una roccia che protegge il paese e lo salva. Ma nelle frazioni più a valle, a S. Martino, alle Spesse, a Frasèn, un muro di 60 m d’acqua fa piazza pulita.
L’altra mezza onda corre verso la diga, la scavalca, la sfiora, la lascia intatta. É un’onda pazzesca, alta 250 m nel punto più alto, 150 in quello più basso. E corre verso il Piave, laggiù dove c’è Longarone. Si muove un lago alto 170 metri, che scende a 80 km all’ora, Ci vorranno quattro minuti per arrivare al paese. Sono usciti tutti dai bar, sentono quel rumore fortissimo, poi arriva il vento, un vento umido, appiccicoso. Che si porta dietro terra e sabbia. Ma prima dell’acqua arriva l’aria, spinta dall’onda come un pistone in uno stantuffo, un’aria assassina che strappa i vestiti, strappa la pelle e quello che c’è dentro. Ed ecco l’onda che arriva al Piave, raccoglie tutto quello che trova, terra, sassi, detriti e rade al suolo Longarone. Ma non basta, perché nell’urto una parte dell’onda sbatte contro i pendii e torna indietro, risalendo contro corrente il Piave per due chilometri. Altri paesini, altre abitazioni, altre persone, scompaiono da questa terra.
Intanto l’onda principale prosegue la sua corsa dentro, o meglio sopra il Piave. A Ponte nelle Alpi, 20 chilometri più giù, è ancora alta 12 metri.
E poi ripassa, per dove c’era Longarone, l’onda di reflusso e, come al mare sul bagnasciuga, spiana tutto, rende tutto liscio, come se là non ci fosse mai stato nulla, solo una enorme distesa di fango e di ghiaia.
Pochi minuti, poi un irreale silenzio di morte.
Il 10 ottobre lungo il Piave ci sono centinaia di persone, civili, militari, volontari, con pertiche e rampini. Raccolgono e tirano a riva i cadaveri che il Piave trasporta verso valle.
Abbiamo voluto cominciare dalla fine, seguendo il pezzo di Paolini, perché si capisca fin da subito di cosa stiamo parlando: ci sono stati quasi 2000 morti, paesi spazzati via, un tessuto sociale scomparso e ci sono, come vedremo, altri drammi legati a quello che ci si ostina a chiamare la “disgrazia” del Vajont. Quello che mostreremo con questo video è che si è trattato di una strage, non diversa da tante altre, una strage provocata dall’uomo, dalla sua ingordigia e dalla sua infamia.
Il libro più bello scritto su questa storia, è di una donna straordinaria, Tina Merlin.
“Sulla pelle viva” comincia con questa frase: “Resterà un monumento a vergogna perenne della scienza e della politica.”
Per raccontare tutto, occorre fare un passo indietro, un passo bello lungo, fin dentro il ventennio fascista.
Che l’Italia non sia ricca di materie prime non è un problema dei nostri giorni. É sempre stato così. In particolare la dipendenza dalle fonti primarie energetiche è sempre presente. Figuratevi in un periodo in cui la politica autarchica la fa da padrone. Bisogna arrangiarsi con quello che si ha e una cosa da noi non manca: montagne a rotta di collo. Una lunga “T”, formata da Alpi e Appennini, pieni di laghi, di corsi d’acqua, di torrenti e di fiumi, attraversa lo stivale. Ed ecco allora la possibilità e l’esigenza di utilizzare questo ben di dio, ovunque sia possibile trovare un “salto d’acqua” sufficiente a far girare le pale di una turbina per produrre energia elettrica. Bisogna realizzare dighe e invasi per produrre sempre più energia, che servirà, eccome, per la guerra che deve venire, dieci anni più tardi. Nel 1930 le strutture idroelettriche sono, in tutto, 600, di cui 300 pubbliche o gestite da enti pubblici come ENEL e 300 private, gestite da società che su quelle costruzioni speculano il possibile.
Servono torrenti o fiumi ricchi d’acqua perenne, in valli un pochino abbandonate, con pochi paesi lungo le rive. Tra il Veneto e il Friuli ce n’è una perfetta. É solcata dal torrente Vajont, che nasce a 1900 metri nei pressi della Forcella col de Pin, e si tuffa nel Piave a Longarone, qualche decina di chilometri a Nord di Belluno sulla strada che porta a Cortina d’Ampezzo.
Nel 1929 lungo le sponde che costeggiano il Vajont passeggiano due individui, che discutono, tastano il terreno, osservano la valle e i monti circostanti: le Prealpi Carniche a Nord e il Monte Toc a ridosso della valle a Sud. Cosa ci facciano lassù non è chiarissimo, però sono due personaggi importanti per la nostra storia. Uno è un ingegnere di 36 anni, specializzato nella costruzione di dighe. Si chiama Carlo Semenza è di Milano, ma si è trasferito a Padova, dove si laurea. L’altro è più vecchio, ha 54 anni ed è un professore dell’Università di Padova, già famoso, un geologo: si chiama Giorgio Dal Piaz ed è di quella zona. É nato a Feltre, un bel paese che si raggiunge in 60 km da lassù, basta accompagnare le acque del Piave.
Nel 1956, gli stessi due personaggi, un pochino invecchiati, si ritrovano nella stessa valle. Ma questa volta hanno un ruolo diverso, non più di esploratori. Rappresentano una società importante, la SADE (Società Adriatica Di Elettricità), che è proprietaria di un certo numero di dighe nella zona. La storia di questa società è importante, quasi decisiva, per capire cos’è successo.
Nasce nel 1905, fondata dal Conte di Misurata, al secolo Giuseppe Volpi, personaggio dalle molte sfaccettature. É lui a volere la realizzazione di Porto Marghera sulla laguna di Venezia, dove fa costruire una centrale termoelettrica a carbone, che serve a sopperire i tempi di magra d’acqua e quindi di scarso apporto delle centrali idroelettriche. Già, perché la SADE ne ha già fatte di dighe e centrali nelle Dolomiti. Si servono dell’acqua del Cordevole, del Boite, del Maè, dello splendido Mis e dello stesso Piave. Gli invasi sono sotto la Marmolada, a Fedaia, ad Alleghe, lungo il Mis a Sospirolo, lungo il Maè a Pontesei, le centrali stanno più giù, a Cencenighe, Agordo, Fadalto, Nove. Il 15% dell’energia elettrica italiana è fornito, in quel periodo, dalla SADE, che però non è contenta, vuole di più, vuole realizzare un grande bacino d’acqua. Vedremo tra poco dove e perché.
Giuseppe Volpi, che tra l’altro apre anche la mostra del cinema di Venezia, tanto che la coppa destinata ai migliori attori, ancora oggi è intitolata a lui, dopo la marcia su Roma si iscrive al partito di Mussolini. É un fascista convinto, talmente convinto che dopo un solo anno diventa ministro delle Finanze. Dopo qualche anno è quello che oggi chiamiamo presidente di Confindustria.
La SADE ha idee molto chiare in testa: vuole un grande impianto idroelettrico. Prepara un progetto, cerca la valle giusta, il torrente giusto, la posizione geografica giusta. Trova tutto questo nella valle del Vajont. La diga sarà costruita là dove quella valle si affaccia sul Piave, a pochi passi dal comune di Longarone.
Perché proprio là?
La risposta è complessa, ma sicuramente conta molto il fatto che le acque del Piave sono poco affidabili in quanto a continuità di portata, mentre quel torrente di montagna è costante, ha sempre acqua e formerà un lago che sarà continuamente alimentato. E poi la valle è quasi disabitata. Ci sono solo due piccoli paesi, Erto, sul versante Nord e Casso, molto più in alto. Verso Sud, sul monte Toc, gli ertani hanno costruito delle case in pietra dove passano l’estate a lavorare i campi e a pascolare le mucche, perché andare e venire da Erto/Casso è lungo e faticoso. Per il resto solo boschi, prati e campi.
Ma c’è dell’altro nelle intenzioni dell’azienda veneziana. Si vuole fare del futuro lago del Vajont una specie di banca d’acqua, che raccolga i contributi di tutti gli invasi e i corsi d’acqua dove la SADE ha già costruito le dighe. Nel futuro lago arriveranno le acque del Boite, del Cordevole e dei fiumi che sono più alti della quota del lago del Vajont. Alla fine, dice il progetto, avremo un invaso con 58 milioni di metri cubi d’acqua, poco meno di quella complessiva di tutti gli altri impianti SADE messi assieme. Vedremo poi che questo valore è destinato a moltiplicarsi. Un progetto semplicemente grandioso: ci sarà acqua e quindi energia tutto l’anno, non importa se in alcuni periodi pioverà poco.
Questo progetto, che era nella testa di Semenza e Dal Piaz fin dal 1929, viene presentato al ministero dei Lavori pubblici il 22 giugno 1940: si chiama “Grande Vajont”.
Eh già … il 1940: non è un anno qualsiasi. Il 10 giugno Mussolini dichiara guerra alla Francia e all’Inghilterra. Si prospettano tempi difficili, molto difficili, come fai a pensare ai progetti?
Poi arriva l’armistizio di Cassibile e l’8 settembre. L’Italia cambia nemico e cambia anche Volpi, il quale improvvisamente diventa sostenitore della Resistenza, dopo essere fuggito in Svizzera. Del progetto del grande Vajont non parla nessuno. Ma la SADE insiste e mette in campo tutta la sua potenza politica. Il 15 ottobre 1943, mentre l’Italia intera è sottosopra e nei ministeri ci sono praticamente solo gli usceri, riesce a far convocare la Quarta Sezione del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, riesce perfino a farla votare, nonostante siano presenti solo 13 commissari su 34. Viene approvato tutto, compreso l’esproprio dei terreni demaniali.
L’ultimo atto formale tocca al presidente della Repubblica. Luigi Einaudi convalida, con la sua firma, il progetto il 21 marzo 1948.
Nasce così il “Grande Vajont”, illegalmente.
Adesso si può programmare il da farsi, studiare come intervenire, scegliere le priorità e tutto il resto.
Come prima cosa serve il terreno dove costruire la diga e l’invaso. Erto e Casso formano un unico comune. Rappresentanti della SADE si presentano in municipio per far presente le loro esigenze. É il 5 ottobre 1948. C’è una giunta democristiana, che alla fine è costretta a cedere i terreni demaniali a meno di 4 lire al metro quadro. L’incasso, circa 3 milioni e mezzo, deve però essere girato al Ministero dell’Agricoltura e delle Foreste. Al comune non rimarrà niente.
I contadini di quell’angolo sperduto di mondo imparano una nuova parola, che non c’era nel loro vocabolario: esproprio. Non c’è niente da fare. Se una società ha vinto un appalto, ricevuto l’approvazione del governo, la vendita dei terreni demaniali è obbligatoria. Tanto loro, lassù, mica sanno come l’autorizzazione è stata ottenuta. Pur essendo demaniali, quei terreni da secoli permettono a quella gente di avere mais, patate, verdure e latte dalle mucche che vi pascolano.
Ma, di fronte allo Stato, come puoi controbattere? Uno Stato che qui non è mai esistito e diventa visibile solo quando arriva la SADE, perché si apre una stazione dei carabinieri, che faranno ben poco per tutelare quei contadini e montanari, ma garantiranno l’ordine a tutto beneficio dell’azienda. Così il comune cede e vende gli appezzamenti, ma c’è un errore, perché tra i terreni demaniali ci sono anche quelli che un’antica trattativa aveva ceduto ai cittadini di Casso. Sono circa cento famiglie, che si sentono prese per il collo, perché quei boschi e quei prati servono al loro mantenimento.
Nel frattempo il Ministero vuole i suoi soldi, quei tre milioni e mezzo che la SADE ha versato al Comune. Ma quei soldi non ci sono più, sono stati usati per “questioni urgenti e inderogabili”. Preso tra due fuochi, i suoi cittadini e il ministero, alla fine il Sindaco è costretto ad accettare un prestito dalla SADE, che sarà anche senza interessi, ma è un grosso vincolo di sudditanza verso l’azienda di Volpi.
…
Nel 1957 il cantiere del Grande Vajont viene aperto. Ci sono 400 posti di lavoro tra operai, cantonieri, manovali e quant’altro. Le prospettive cambiano: un posto fisso è un sogno e poi ci sarà lavoro anche dopo la fine dei lavori, quando la diga sarà terminata. Servirà controllare, sistemare, adeguare …
E poi, dai: una diga. Quante se ne sono costruite anche qui vicino, cosa potrà mai succedere? Siamo all’inizio del boom economico, ci sono euforia e ottimismo a volontà … ma, c’è un “ma” in questa storia, un “ma” che diventerà sempre più grande, fino ad essere gigantesco, un “ma” che ha un nome e un cognome.
A Trichiana, pochi chilometri a Sud di Belluno, nasce, nel 1926, una ragazza, che diventerà una delle giornaliste più toste del periodo. Lavora a Belluno, il suo nome è Tina Merlin. Lei vede oltre quell’entusiasmo, comincia a scrivere pezzi che dicono che c’è qualcosa che non la convince, che ci sono sotto intrallazzi e misteri, attacca la SADE e quello che rappresenta: la tracotanza democristiana. Lassù, nella valle del Vajont, la lettura dei quotidiani non è proprio l’attività più diffusa. Se poi quegli articoli appaiono su L’Unità, organo ufficiale del Partito Comunista Italiano, la loro lettura è ancora più rara e certo non diventano “popolari”. Quelli della SADE però, gli articoli li leggono e il termine più gentile usato per Tina è “rompicoglioni comunista”.
Si comincia a preparare la costruzione, si costruisce una strada vera, non quella bianca che fa il giro del mondo per salire a Erto da Longarone. La si scava dentro la roccia, una galleria dopo l’altra. Le mine esplodono vicino alle abitazioni e qualche conseguenza sulla natura la provocano. Gli ertani, oltre alla rabbia cominciano a provare paura. Paura per quelle fessure che si formano nel terreno e nelle case sul Toc, paura per quei sassi che ogni tanto rotolano a valle, paura per le loro vacche, che sono così spaventate da rendere meno del solito. Paura che quell’opera sia l’inizio della fine.
E cominciano a protestare, a scrivere lettere, a sporgere denunce.
Nel frattempo i carabinieri, portano a termine il loro primo ingrato compito: eseguire gli espropri. E si avvia anche l’acquisto dei terreni privati. La SADE offre prezzi decisamente bassi, anche tre, quattro volte inferiori a quelli di mercato.
C’è una rivolta ad Erto e si forma, cosa decisamente eccezionale nella valle, un comitato per contrastare le acquisizioni. A capo di questo comitato c’è il medico del paese, che è anche, cosa ben più importante, il marito del sindaco, Caterina Filippin, per tutti semplicemente “La Cate”, a capo di una giunta di sinistra.
La Cate è un personaggio unico nel paese: nipote di Domenica Flippin, morta per le torture delle SS hitleriane, socialista e benvoluta senza condizione da tutto il paese. Anche lei ha terre che devono essere sequestrate, anzi ne ha parecchie, più di tutti gli altri. Se c’è lei – dicono i paesani – che ha più interesse di noi a resistere, possiamo stare tranquilli.
Poi però, ecco il classico colpo di scena. La Cate, l’emblema della resistenza alla SADE, vende i suoi terreni, riuscendo a spuntare un prezzo molto conveniente, più alto di quello offerto agli altri. Un colpo basso, che rende la SADE più forte e che adesso si presenta agli ertani con discorsi di questo tipo: “nessuna contrattazione, questo è il prezzo, prendere o lasciare”. Arrivano i tecnici e a chi resiste più per principio che per convinzione, si rivolgono più o meno così: Questi sono i soldi che vi offriamo. Voi li potete rifiutare ma noi le vostre terre le prendiamo lo stesso e vi mettiamo i soldi in banca. Poi potete fare ricorso, prendere un avvocato, andare da un notaio, forse finire in tribunale e alla fine avrete speso molti più soldi di quelli che vi stiamo offrendo e le terre non le avrete comunque indietro.
Tutto a posto dunque: ci sono i terreni, ottenuti come sappiamo, ci sono le autorizzazioni, ottenute come sappiamo: la costruzione della diga può cominciare.
É a questo punto che alla SADE viene un’idea temeraria, che farà del grande Vajont un grandissimo Vajont. Chiede una variante, che significa modificare i termini del progetto iniziale. Ma non si tratta di una variante qualsiasi, perché la richiesta è di aumentare l’altezza della diga di 61 metri, arrivando così al valore di oltre 261m. Sarà la diga più alta del mondo. Ancora oggi la più alta diga italiana in funzione è 100 metri più bassa. Ancora oggi la diga del Vajont è la settima diga per altezza al mondo. Questa variante, dunque, cambia tutto, a cominciare dal livello a cui arriverà l’acqua, 725 metri sul mare, per proseguire con l’invaso: un lago enorme che conterrà circa 150 milioni di metri cubi d’acqua, quasi tre volte quelli previsti dal progetto iniziale. Un’opera sensazionale, un vero gioiello, un biglietto da visita luccicante delle capacità dell’industria italiana. Larga 190 metri, spessore alla base 22 metri, in cima 3,40 metri. Il progetto porta la firma di Carlo Semenza, ma serve l’autorizzazione di un geologo. Dal Piaz, vecchio amico di Semenza, è in pensione, ma si presta, dietro compenso, a fare delle perizie, come in questo caso. Tuttavia, come lui stesso dice, la variante gli fa “tremare i polsi e le vene” e non sa cosa scrivere. Si rivolge a Semenza, chiedendogli di redigere lui la relazione, che poi firmerà senza cambiare nulla. Così una variante di quelle dimensioni vede il progettista diventare anche giudice di se stesso e della sua opera. Il ministero approva, anche se qualche mugugno c’è, perché nella richiesta si parla della diga ma non dell’invaso. Ma da Roma non parte nessun tecnico per verificare cosa succede lassù lungo la valle del Vajont. Non solo, ma sono anche contenti che, finalmente i lavori possano cominciare. Certo che, se quel tecnico fosse stato spedito lassù, avrebbe visto che i lavori approvati erano un bel pezzo avanti, iniziati circa un anno prima.
Il grande progetto va avanti con una approvazione postuma.
La variante ha, però, un impatto anche sui cittadini di Erto. Servono altri terreni da confiscare, da espropriare, da acquisire. Ma adesso la musica è ben conosciuta e le reazioni dei contadini, che si vedono portar via altri pascoli, altro bosco, altri campi è di un odio feroce. Così la SADE cerca di arrivare ad un compromesso. In cambio delle terre, costruirà a proprie spese una passerella che colleghi le due sponde della valle, una specie di circonvallazione che permetta agli ertani di arrivare sulle pendici del monte Toc. Quest’opera non rientra nel progetto, non ha alcuna autorizzazione né locale né nazionale. La SADE si rifà ad un cavillo che permette la costruzione di qualsiasi cosa serva al cantiere purché sia “provvisoria”. Provvisoria quanto? Un anno? Dieci anni? Un secolo? Già … ma che ne sanno gli ertani? La costruzione della passerella sarà un punto importante della nostra storia, come vedremo tra poco.
Tina Merlin continua la sua battaglia e trova un alleato in Renzo Desidera, capo ingegnere del genio civile di Belluno. Va fino a Erto, si accorge che per la passerella non c’è alcuna relazione sulla tenuta del Toc. E blocca i lavori.
All’epoca è in fase sperimentale la regionalizzazione del genio civile, ma, alla fine, ad avere l’ultima parola è sempre il ministero dei Lavori pubblici. Nel 1957 in Italia c’è il governo Segni, un monocolore democristiano, eletto con i voti decisivi di missini e monarchici, che vede al ministero dei Lavori Pubblici, Giuseppe Togni. Costui impiega 24 ore a risolvere la questione. A Renzo Desidera arriva l’ordine di trasferimento ad altra sede, sostituito da un passacarte del ministero, Almo Violin. E i lavori riprendono immediatamente.
Togni è un politico navigato e così, per tutelarsi, istituisce una “commissione di collaudo”, con il compito di certificare la regolarità del progetto e della sua realizzazione. E poi, ma questo non viene detto ufficialmente, di non rompere le scatole a quell’opera magnifica che tanto serve al paese.
Ne fanno parte alcuni ingegneri e un geologo … due degli ingegneri, Pietro Frosini e Luigi Greco, sono quelli che hanno approvato il progetto. Il geologo è Francesco Penta, che ha certificato tutte le precedenti opere della SADE. La commissione è dunque legata mani e piedi all’azienda da controllare … bello no? Il risultato è che nelle occasioni in cui la commissione si sposta a Erto, non saprà granché dei lavori in corso, ma conoscerà a fondo le feste veneziane, farà meravigliose gite sulle dolomiti di Cortina e apprezzerà molto la cucina della zona. Va tutto bene … che problemi ci sono?
….
Che il dramma del Vajont non fosse prevedibile è una sciocchezza enorme. Prima di quel tragico 9 ottobre, di segnali ce n’erano stati e anche molto chiari.
Si comincia nel 1959, quando in un altro invase della SADE, a Pontesei, 20 chilometri più a Nord di Longarone, 9 chilometri in linea d’aria dal Vajont, si verificano fenomeni strani: macchie giallastre sull’acqua del lago, alberi tutti inclinati, fessure nel terreno. Non ci vuole molto a capire che c’è una frana sul monte che sovrasta quella diga, progettata da Carlo Semenza e approvata dal geologo Francesco Penta (sempre quello della commissione). Cosa fare? La prima idea è di togliere l’acqua dal lago, ma, mano a mano che il livello scende, la frana accelera. É come se fosse proprio l’acqua a tener ferma la massa di terra che rischia di scivolare giù. La SADE risolve ogni cosa monitorando la situazione. Con un esercito di tecnici? Con qualche squadra di operai specializzati? No! Ci manda il solo Arcangelo Tiziani, un carpentiere, zoppo, che, alle sei di mattina della domenica delle palme del 1959, sta salendo lungo i pendii a ridosso del lago. É il giorno in cui la frana si stacca dai monti Castellin e Spitz e corre verso il lago, sempre più veloce. Tre milioni di metri cubi di montagna si tuffano nell’acqua. L’onda che si forma è alta 20 metri, scavalca la diga e si porta via il povero Arcangelo, seppellendolo in fondo al lago, in mezzo ai detriti. Il suo corpo non sarà più ritrovato.
Pensate - comincia a dire la gente - se una cosa del genere succedesse al Vajont. Siamo proprio sicuri che sia tutto a posto? In fondo, le montagne della Val Zoldana, dove si trova Pontesei, non sono diverse da quelle che circondano la valle del Vajont.
126 famiglie di Erto e Casso prendono il segnale molto sul serio e si riuniscono nel “Consorzio per la difesa e la rinascita della valle ertana”. Le firme per il rogito notarile, a testimonianza di quanto avvenuto, sono del deputato comunista Giorgio Bettiol e di Tina Merlin. Si comincia a ragionare anche sui nomi: Vajont in friulano significa “che viene giù” e Toc deriva da “patoc” che significa marcio. Non sono buone sensazioni!
A quella riunione partecipa anche la stampa. A dire il vero sono presenti, oltre a Tina Merlin, solo alcuni giornalisti dal Gazzettino di Venezia. Mentre Tina Merlin continua la sua battaglia contro l’impresa che giudica azzardata a maggior ragione dopo i fatti di Pontesei, il Gazzettino non scriverà mai nulla che possa adombrare la SADE. Perché? É molto semplice. Dopo essere stato di proprietà del conte Volpi, il quotidiano è pappa e ciccia con la Democrazia Cristiana, che è di fatto lo sponsor del Vajont.
Un altro allarme scatta quando si cerca di realizzare la passerella tra le due sponde del Vajont. Non se ne fa nulla, perché i tecnici della SADE non riescono ad ancorarla al monte. I punti d’appoggio si sgretolano.
Si sgretolano? E il resto della montagna? Non è che quell’instabilità sia presente su tutto il monte? L’azienda tranquillizza tutti: il monte Toc è sano, non c’è alcun pericolo. Del resto, con tutti i soldi in ballo, cos’altro volete che dicano? Ma quello che pensano è molto diverso. Si convincono che va fatto uno studio geologico approfondito, con uno specialista di alto profilo, indipendente e non stipendiato da loro. Il più importante geologo del momento arriva dall’Università di Salisburgo, in Austria, dove dirige una scuola all’avanguardia. Si chiama Leopold Müller. Lavora due anni e, alla fine, ecco il suo verdetto: «A mio parere non possono esistere dubbi su questa profonda giacitura del piano di slittamento o della zona limite. Il volume della massa di frana deve essere quindi considerato di circa 200 milioni di metri cubi.»
Tradotto in termini che tutti capiscano, significa che sul Toc c’è una frana enorme, che può scivolare verso il lago in presenza di piccoli terremoti o di lubrificazione del suo appoggio. Questa lubrificazione può avvenire se si immette molta acqua nel bacino. La frana è 70 volte più grande di quella di Pontesei: 200 milioni di metri cubi! E il suo fronte ha una forma strana, una “M”, la “M di Müller”, che ancora oggi è ben visibile per chi sale alla diga. Una sentenza terribile, che imporrebbe la chiusura del cantiere e la sospensione dei lavori, ma, come detto, non se ne parla. La relazione la firma uno degli aiutanti di Müller, Edoardo Semenza. il figlio di Carlo, geologo laureato a Padova. Lui conferma tutto e aggiunge che quei 200 milioni di metri cubi di terra con sopra boschi, prati, case, è attaccata al Toc con lo sputo, una bava di ragno, come dice Marco Paolini nel suo pezzo teatrale. Il padre Carlo cerca, senza successo, di far addolcire la relazione al figlio. In fondo c’è di mezzo la sua reputazione e anche la possibilità di passare alla storia. É, tuttavia, in questo momento che tutte le sue sicurezze cominciano piano piano a vacillare.
La SADE è avvertita: più alto sarà il livello dell’acqua dentro il lago, più probabile sarà il distacco della frana.
Viene chiesto un parere di confronto non ad un geologo, ma ad un geofisico, Pietro Caloi, che, dopo aver esplorato la valle, il monte Toc e tutto il resto, scrive una relazione che è l’esatto opposto di quella di Müller. La frana c’è, dice, ma è antichissima, una paleofrana, ed è una piccola cosa: i lavori possono proseguire tranquillamente.
La SADE ha investito un mucchio di soldi nell’impresa, che è già a buon punto. Inoltre riceve ingenti sovvenzioni dallo Stato. Come si fa ad abbandonarla proprio adesso che c’è di mezzo la nazionalizzazione dell’energia? L’azienda veneziana sceglie la tesi di Caloi.
Il destino della valle del Vajont e di Longarone si decide qui.
FONTI:
Tina Merlin – Sulla pelle viva. Come si costruisce una catastrofe. Il caso Vajont – ed. CIERRE (ed. 2008)Marco Paolini, Gabriele Vacis – Il racconto del Vajont – Garzanti
Marco Paolini – Vajont (spettacolo teatrale) – Youtube
Lucia Vastano - “Vajont, l'onda lunga: quarantacinque anni di truffe e soprusi contro chi sopravvisse alla notte più crudele della Repubblica”- Ed. Ponte alle grazie – (1^ ed. 2008)
Comitato sopravvissuti Vajont - http://www.sopravvissutivajont.org/
Il portale di Erto e Casso - http://www.ertoecasso.it/vajont.html
RAI Cultura – vari documenti