Consumare gas senza inquinare: si può?

ccs1In questi anni diventa sempre più evidente che l’abbandono delle fonti fossili sia un passaggio obbligato nella lotta all’emergenza climatica. Il fatto è che le decisioni in merito sono state prese così tardi che quella che tutti oggi chiamano transizione energetica appare sempre più come una bella favola, senza alcun supporto realistico.
In sostanza, se togliamo le attività supportate dalle fonti fossili, sostenere l’economia mondiale attuale è impresa impossibile. Se, per di più, consideriamo che enormi paesi emergenti (Cina e India su tutti) stanno crescendo come consumi interni in maniera davvero importante, si capisce che abbandonare il petrolio, il gas e, proprio nel caso dei due paesi asiatici citati, il carbone, è impossibile.
Come fare allora, per mantenere validi i principi della lotta all’emergenza climatica e, contemporaneamente, continuare ad usare, magari in misura minore rispetto a prima, le fonti fossili?
É un bel problema, la cui soluzione sembra non esistere. In effetti da un lato sappiamo che i problemi climatici sono legati alla presenza troppo massiccia di gas serra, soprattutto anidride carbonica, nell’atmosfera. Ormai si sono raggiunte le 420 parti per milione, un valore che non si osservava da migliaia di anni. La crescita della concentrazione di CO2 corrisponde alla crescita della produzione e, di conseguenza, del consumo, in ogni angolo del pianeta. Dall’altro, per mantenere un’economia come quella attuale, occorre bruciare combustibili fossili. Così, il risultato è una sempre maggiore emissione di gas serra. Insomma si tratta di due eventi incompatibili.
Eppure, qualcuno, anzi ben più di uno, sostiene non solo che la soluzione esiste, ma che è anche conveniente e, in alcuni casi, può essere utile per combattere i cambiamenti climatici.
La tecnica cui sto facendo riferimento si chiama CCS, vale a dire Carbon Capture & Storage, in italiano Cattura e Stoccaggio della CO2.
Vedremo questa sera di cosa si tratta, se questa tecnica è applicata da qualche parte e con quali risultati.
Ho pensato di ascoltare favorevoli e contrari: da un lato grandi major dell’energia come ENI e Exxon e dall’altra le associazioni ambientaliste e i commentatori, per così dire, neutrali.
Cominciamo però da uno sguardo generale sulla faccenda. Come si fa a catturare la CO2? Come viene stoccata? E dove viene stoccata? E, una volta stoccata, se ne sta là buona buona per molti anni o ci sono dei problemi?
Se riusciremo a rispondere a tutte queste domande, avremo un quadro più chiaro della situazione e potremo così farci un’opinione se questa idea è valida o strampalata.
Naturalmente il consiglio è sempre quello di approfondire questo tema per proprio conto, attingendo alle molte fonti disponibili, soprattutto in rete.
Prima di cominciare, un avvertimento importante. Qui non si tratta di una nuova fonte rinnovabile di energia, come qualcuno in modo molto birichino vuol far credere. Si tratta, invece, di ripulire dalle schifezze, quello che impianti a fonti fossili producono.
Cominciamo dalla cattura.
La CO2 è un gas e, come tale, se lo lasciamo libero, occupa tutto lo spazio a disposizione e quindi si disperde nell’atmosfera un po’ dappertutto, sfuggendo quindi ad una rincorsa tipo placcaggio del rugby.
Ci sono vari sistemi di cattura.
Il primo sistema è quello di intervenire dopo la combustione, sui fumi prodotti dalla stessa. Questi fumi vengono assorbiti e fatti passare su opportuni solventi. Da questi la CO2 viene separata, compressa opportunamente (vedremo tra poco perché) per poter essere trasportata nei luoghi di stoccaggio. Ci sono anche altri sistemi post-combustione, anche se questo è il più utilizzato.
Un altro sistema è quello che avviene prima della combustione, quando il combustibile viene convertito in una miscela di idrogeno e anidride carbonica attraverso un processo chiamato gassificazione. Poi l’anidride viene trasportata e l’idrogeno, miscelato con l’aria, viene usato come combustibile per produrre elettricità.
In realtà ci sono anche altri sistemi di cattura. Quello che a noi interessa è che queste tecniche esistono e quindi la CO2 può essere separata o all’origine o dai fumi della combustione.
Per il trasporto è necessario rendere liquida la CO2 e questo si realizza attraverso una forte compressione, di almeno 73 atmosfere, ad una temperatura di circa 30 gradi.
Pertanto la CO2 deve essere messa in luoghi che rispettino queste condizioni, che si verificano ad una profondità di almeno 800 m dal suolo.
Cominciamo a vedere che tipo di siti potrebbero accogliere la CO2 da tenere da parte per un tempo molto lungo, parliamo di secoli, non di weekend.
Ce lo dice il National Energy Technology Laboratory, che è il centro studi tecnologico del dipartimento dell’Energia statunitense (il corrispondente al nostro ministero dell’ambiente ma più specificamente interessato all’energia). Dunque questo laboratorio suggerisce cinque tipologie di depositi per l’anidride carbonica. Ovviamente devono essere tali da impedire alla CO2 di fuoriuscire oggi e in futuro; vedremo poi quali conseguenze una eventuale fuga può provocare. Sembrano andare meglio di altre, le formazioni saline, porose e imbevute di acqua, che sono anche le più diffuse.
Dunque ci sono i giacimenti esauriti di petrolio e gas, i quali lasciano un terreno poroso ideale. I vantaggi, ragionando secondo i canoni attuali, è anche quello che, immettendo la CO2 in questi buchi, il petrolio e il gas che non sono stati estratti potrebbero risalire ed essere utilizzati.
Osservo che in questo modo non solo si confina la CO2, ma si favorisce un’ulteriore produzione di gas serra. La questione è economica. In effetti, dicono negli States, con quel petrolio o gas, si potrebbero coprire i costi della cattura e dello stoccaggio dell’anidride carbonica.
Ci sono poi le miniere di carbone. Non tutte, si intende, perché molte, soprattutto in paesi come Cina, India, Australia vengono oggi utilizzate al massimo per produrre energia. CI sono però miniere molto profonde o abbastanza piccole da usare come deposito. Mescolandosi al carbone, la CO2 produce metano, che potrebbe venire utilizzato, ad esempio per produrre energia elettrica. Osservo anche qui che il metano è un forte gas serra, molto più forte della CO2, circa 25 volte di più.
Nelle formazioni di basalto, l'anidride carbonica reagisce formando carbonati solidi, come calcite e dolomia, e rimane quindi intrappolata in questi. Trattandosi di una roccia vulcanica, il basalto è presente in molte zone del mondo. In particolare l’India, il Brasile, gli Stati Uniti. Anche noi abbiamo formazioni basaltiche in Italia, ad esempio una famosissima è quella di Aci Trezza in Sicilia, località ben nota a chi ha letto “I Malavoglia” di Giovanni Verga.
Ed infine ci sono le rocce di scisto che possono assorbire la CO2 e rilasciare metano. Sulle formazioni scistiche abbiamo speso, qui a Noncicredo, un sacco di puntate, parlando del gas di scisto e del fracking, un brutto modo di inquinare le falde d’acqua per estrarre gas dal sottosuolo. Sul mio sito, trovate tutte le informazioni che servono al riguardo. Tra le varie proposte di utilizzo della CO2, una volta catturata, c’è anche quella di utilizzarla per produrre carburanti, prodotti chimici, materiali da costruzione. Questi utilizzi tuttavia non esistono e rimangono semplici suggestioni. Tra l’altro l’Agenzia internazionale per l’Energia (la IEA ai i ei) ha calcolato che questi sistemi potrebbero consumare appena poco più del 10% della CO2 stoccata e quindi non vale la pena perderci troppo tempo. Suggerisce pertanto ai governi di studiare il miglior sistema possibile per lo stoccaggio del gas in depositi sicuri.

La tecnologia e l'opportunità

Prima di continuare mi scuso se alcuni concetti verranno ripetuti, ma, affrontando il tema da vari punti di vista, diventa quasi inevitabile tornare su cose già dette. Mi difendo con il detto latino “repetita juvant” sperando che sia vero. Impianti di CCS, lo ripeto di Cattura e Stoccaggio della CO2, ce ne sono in giro per il mondo. I risultati sono decisamente altalenanti. Le preoccupazioni riguardano l’alto costo energetico e il pericolo di piccoli terremoti. Tuttavia l’amministrazione Biden li considera indispensabili per alcuni settori industriali. La realizzazione di questi impianti va sotto il nome di tecnologie a emissioni negative. A queste si ricorre, credo sia più che ovvio, perché il mondo non è stato in grado di attivare un piano di mitigazione decisivo. É, insomma, come mettere una bella toppa su un buco dei calzoni, sperando che la toppa regga. Ma questa toppa deve reggere per un bel po’ di tempo.
Perché parliamo di costo energetico, anche se forse sarebbe meglio parlare di costo tout court? Il fatto è che quando il gas naturale viene estratto non c’è solo metano, ma si tratta di una miscela che contiene anche CO2. Come abbiamo già visto questa può essere separata, poi bisogna decidere cosa farne. Può essere sparata per aria, rendendo l’atmosfera ancora più ricca di gas serra oppure può essere iniettata nel terreno, in località adatte, come già visto in precedenza. Questa operazione costa energia e quindi costa denaro e riduce di conseguenza l’efficienza della produzione energetica attraverso il gas estratto. Quello che si vorrebbe fare è costruire impianti di stoccaggio vicino alle fonti inquinanti, ad esempio ai camini di una centrale a carbone. Anche qui ci sono problemi, di due tipi. Il primo è quello economico: serve molta energia per realizzare lo stoccaggio del carbonio e il secondo è il cosiddetto gap ingegneristico. Significa che al momento non ci sono molte soluzioni innovative. Si usa un metodo abbastanza antiquato, che utilizza l’ammoniaca, poco efficiente e pericoloso per la salute dell’uomo. E dove va a finire la CO2 catturata. L’idea di chi sostiene questa tecnica è quella di creare una rete, simile a quella del gas, un carbon-dotto se mi passate il termine, che porti la CO2 nelle stive adeguate come abbiamo vista in precedenza.
Quali rischi e problemi ci sono alla base di questo procedimento?
Secondo gli ambientalisti, in particolare Greenpeace, i rischi riguardano la possibilità di microsismi e il problema della fuoriuscita del carbonio dal sottosuolo, magari tra anni o decenni. Un comunicato di Greenpeace è molto chiaro al riguardo e cita il caso di Petra Nova in Texas. Nel 2020 un impianto collegato ad una centrale a carbone dell’azienda NRG è stato bloccato per via dei costi esorbitanti, valutati per questo singolo impianto in un miliardo di dollari. Critiche molto aspre anche contro ENI che vorrebbe aprire un impianto CCS a Ravenna, il cui obiettivo è la produzione di idrogeno blu. Anche qui le critiche riguardano sia i costi e la spesa di energia che le emissioni di gas serra durante il processo di separazione della CO2. C’è però un processo che incontra il favore di tutti. Si chiama BECCS, vale a dire Bioenergy with carbon capture and storage. Come sentite, l’unica differenza è quel Bioenergy, energia biologica. Cerchiamo di capire di cosa si tratta. Per avere una cattura efficace contro l’emergenza climatica, la CO2 non va tolta dal gas che brucio, ma direttamente dall’atmosfera. Come si può fare? Bruciando materiali bioenergetici, come la legna o i residui materiali. Gli alberi assorbono normalmente CO2 per il loro sviluppo (abbiamo spiegato molte volte come avviene la fotosintesi clorofilliana). Ora, se io produco energia attraverso la legna di questi alberi, ma invece di restituire all’atmosfera l’anidride carbonica prodotta, la catturo, alla fine avrò un bilancio netto negativo: avrò cioè tolto dall’atmosfera una certa quantità di CO2. É comunque chiaro l’obiettivo di queste tecnologie. In un modo o nell’altro occorre arrivare al cosiddetto Net Zero Emission. Questo non significa che nel 2050, secondo i piani europei e mondiali nessuno produrrà più emissioni e non si useranno più i combustibili fossili. Significa che, al netto della produzione, la parte prodotta e quella sottratta o compensata saranno uguali. Dunque l’atmosfera non subirà più aumenti di gas serra e le condizioni, quanto meno si consolideranno e non peggioreranno ulteriormente. Certo che con questi termini è chiaro che nei prossimi trent’anni i gas serra in atmosfera continueranno ad aumentare, forse, molto forse, ad un ritmo minore, ma continueranno a crescere, con tutte le conseguenze che non è poi così difficile immaginare.
C’è un sistema ancora più sofisticato ed efficace ed è quello di costruire degli impianti di estrazione diretta della CO2 dall’aria. In questo settore, che, meglio dirlo subito, non è ancora sviluppato a sufficienza e sta muovendo i primi passi, in questo settore, dicevo, la Svizzera è all’avanguardia. L’azienda Climeworks di Zurigo sta lavorando a questo tipo di progetti e ha aperto un impianto in Islanda. Detta in parole molto povere, si usa una serie di ventole dotate di filtro per catturare la CO2 direttamente dall’atmosfera. Certo, anche qui i costi sono alti. Tuttavia i responsabili dell’azienda fanno presente che non fare nulla e veder crescere i disastri ambientali costerebbe molto di più. Del resto il tempo lavora a favore dell’emergenza climatica, per quanto detto fin qui, e la prospettiva è quella di lasciar crescere la percentuale di gas serra in atmosfera fino al 2050. La Svizzera ci crede ed è fermamente decisa a rimanere all’avanguardia con questi progetti.
Anche l’amministrazione Biden ha dato questo indirizzo: muoversi verso la cattura della CO2 con qualunque mezzo. Naturalmente gli ambientalisti temono, come hop ripetutamente sottolineato anche questa sera, che questo fervore verso i vari progetti CCS, metta in disparte quello che rimane l’obiettivo principale per un mondo nuovo: eliminare i combustibili fossili o quanto meno ridurne l’uso drasticamente. Il professor Talati è a capo dello staff che si occupa di questi problemi. Recentemente alla rivista ufficiale del MIT (il Massacchussets Institut of Technology) ha dichiarato “Dove possiamo passare alle rinnovabili, vogliamo fare quelle scelte. Ma dove non possiamo, la cattura e lo stoccaggio del carbonio hanno un ruolo davvero importante da svolgere. Con industrie come il cemento, sappiamo che la Ccs è essenziale per ridurre le emissioni.” E aggiunge un’altra cosa che appare ovvia per tutti noi: non è pensabile di chiudere tutte le centrali elettriche entro il 2035, per cui avremo negli Stati Uniti centrali a gas per circa 200 gigawatt. Per fare in modo che questa produzione risulti pulita l’unica opzione è la cattura e lo stoccaggio della CO2. Chiudo questa parte con una riflessione di Toni Federico, coordinatore del Comitato scientifico che raggruppa gli esperti della Fondazione per lo sviluppo sostenibile. A proposito della CCS, dice: “Ho un pensiero laico a riguardo: bisogna vedere quello che si può fare e quello che si deve fare. La Ccs non deve essere una giustificazione per costruire nuove centrali. Sono comunque sempre meglio le rinnovabili. I combustibili fossili non hanno futuro.”

Cosa dicono i petrolieri?

Come anticipato all’inizio, è interessante ascoltare tutte le parti in causa. Adesso cercherò di riassumere quello che due grandi aziende del settore sostengono, a proposito della Cattura e Stoccaggio della CO2: l’ENI e l’Exxon-Mobil. É evidente che non possiamo aspettarci una visione critica della questione. Sarebbe un p o’ come se l’oste della trattoria vi accogliesse dicendo “Il mio vino fa schifo ma ve lo do lo stesso”, quindi è importante tenere ben presente chi è il soggetto che dichiara quanto segue. Aggiungo che le dichiarazioni di ENI sono del luglio scorso (2021). ENI comincia a dire che molti organi di informazione hanno dato una visione distorta di quello che l’azienda sta facendo e quindi è necessario mettere un po’ di puntini sulle “i”. Il riferimento è soprattutto al progetto CCS di Ravenna. Recentemente, in dicembre 2021, il M5S ha fatto un’interrogazione al ministro dell’ambiente, Roberto Cingolani sulla posizione del governo al riguardo. Il Ministro è stato quanto mai evasivo e praticamente non ha risposto nulla, dicendo che in futuro si deciderà se appoggiare o finanziare i progetti CCS. Sapete che io non ho una grande simpatia per il ministro, per le sue posizioni riguardo nucleare, inceneritori e centrali a gas, ma delle sue opinioni occorre sempre tenere conto. Il fatto che non abbia una posizione sui CCS non è una buona cosa, mi pare. Ma torniamo all’ENI e a Ravenna. L’azienda del cane a sei zampe comincia offrendo i dati (che sono elaborati solitamente da ISPRA, quindi ufficiali) sule emissioni che le cosiddette situazioni “difficili da abbattere” inviano in atmosfera nel nostro paese. Si tratta non solo delle centrali elettriche, ma degli impianti siderurgici, chimici, dei cementifici, delle industrie di carta e vetro e di altri ancora. Questi comparti, nel 2019, hanno emesso qualcosa come 70 milioni di tonnellate di gas serra, su un totale di 34° milioni, vale a dire il 20% del totale, il 42% del settore industriale. Ora, l’impianto previsto a Ravenna di CCS secondo ENI dovrebbe rimuovere o catturare se preferite, 4 milioni di tonnellate di CO2 all’anno. Probabilmente non sembra molto, visto dai nostri occhi esterni, ma ENI considera questo come uno dei più importanti contributi alle riduzioni di emissioni in Italia, secondo i piani europei e internazionali (leggi COP di Parigi del 2015 e di Glasgow del 2021). Il secondo punto toccato da ENI, riguarda la tecnologia e la sicurezza del futuro impianto. Qui si dice che la tecnologia non solo esiste, ma è applicata da moltissimi anni e si fa riferimento all’impianto di Sleipner in Norvegia, di cui ENI è partner, che ha già stoccato 16 milioni di tonnellate di CO2 dal 1996 ad oggi. A fare due conti significa circa 615 Kg in media l’anno che, francamente, non ci sembra un valore da fare festa. Sulla sicurezza, ENI basa la propria convinzione sul fatto che nessun incidente è mai avvenuto da quando la tecnologia è stata applicata. Osservo, sottovoce, ma con convinzione che è lo stesso che dicevano i tecnici di Fukushima prima del 2011.
Ma, senza essere cinici, va considerato che nel resto d’Europa ci sono progetti importanti, anche sostenuti economicamente dallo Stato. Accade in Gran Bretagna e in Olanda. In questi paesi la CCS viene considerata un ramo fondamentale di quella rivoluzione verde che dovrà portare agli obiettivi fissati per il 2030 e per il 2050. Credo che su questo ENI abbia ragione sempre che questi progetti siano fattibili e non comportino dispersione delle risorse economiche e rischi per le popolazioni. Un fatto è certo, dice ENI, lo sviluppo di questa tecnologia aprirà la strada a nuove filiere e quindi a novi sbocchi professionali. Anche questo è vero. Quando, a metà del 1700, Newcomen e Watt, fornirono alle fabbriche di maglioni inglesi le loro macchine a vapore, la produzione ne guadagnò e si formarono nuove figure professionali, come i tecnici delle macchine a vapore. Ma questo non consolò affatto tutte le magliaie che si trovarono senza un impiego. Questo è il destino di tutte le rivoluzioni industriali, non c’è niente da fare.
C’è un altro passaggio del documento di ENI che condivido perfettamente. Dal momento che la rivoluzione, che oggi chiamiamo transizione energetica (o ecologica), si fonda sulla sostenibilità, non possiamo mai dimenticare che per essere sostenibile un processo non basta che lo sia da un punto di vista ambientale. Deve esserlo anche da un punto di vista sociale (quindi della tutela dei lavoratori) ed economico. Questo significa che l’attuale situazione produttiva non può essere smantellata da un giorno all’altro, ma va progressivamente sostituita con quella nuova, che possiamo individuare, in prima battuta, nell’energia da fonti rinnovabili. Per questo serve tempo e dunque, ribadisce ENI, attuare progetti come il CCS di Ravenna, che può essere pronto nel 2026, è cosa buona e saggia. Alla corsa verso i CCS si sono iscritte anche le grandi Major dell’energia. Exxon e Shell hanno messo il naso in alcuni progetti di questo tipo. Un esempio è quello che succede nel porto di Rotterdam, in Olanda, uno dei porti più grandi al mondo. Qui lo Stato Olandese mette la differenza tra quello che le aziende coinvolte ricevono attraverso gli ETS e il costo dello stoccaggio. Ne abbiamo parlato l’ultima volta: gli ETS sono sovvenzioni dell’Unione Europea per progetti di mitigazione e volti a garantire la sostenibilità. In questo momento la differenza per tonnellata di CO2 è di 30 €, che lo stato olandese fornisce al consorzio di cui fanno parte, appunto Exxon e Shell. Si tratta di cifre sostanziose. La scorsa primavera sono arrivati due miliardi di euro per stoccare CO2 sotto i fondali del mare del Nord. Credo non sia difficile capire il grande interesse delle multinazionali delle fonti fossili per la cattura della CO2. É il modo più sicuro per poter continuare a fare quello che già stanno facendo. Tra poco vedremo le reazioni al progetto di Ravenna. Quello che mi pare si possa dire è che questa rincorsa affannosa verso soluzioni di ripiego è figlia di un ritardo pazzesco nel prendere coscienza del problema climatico e quindi nell’avviare pratiche virtuose.

Progetto ENI: bocciato!

Sul progetto dell’ENI a Ravenna di Cattura e Stoccaggio della CO2, trovate in rete una quantità enorme di documenti. Dopo aver visto come la pensa ENI, che, giustamente, difende il proprio punto di vista, vediamo come la pensa la fazione opposta, che troviamo nei numerosi siti ambientalisti o che si occupano di energia. Gli articoli sono tutti molto recenti, dell’inverno 2021/2022. Cominciamo con Re Common. Se non la conoscete, ecco come lei stessa si definisce sul proprio sito: “ReCommon è un’associazione che lotta contro gli abusi di potere e il saccheggio dei territori per creare spazi di trasformazione nella società, in Italia, in Europa e nel mondo. Crediamo che le persone vengano prima del profitto, ma siamo testimoni di devastazione sociale, di continue violazioni di diritti umani e di disastri ambientali che sono frutto di una logica esattamente inversa.” Vediamo cosa scrivono il 23 novembre scorso. L’ENI, come tutte le aziende che hanno progetti avanzati, ha fatto richiesta di sovvenzione al Fondo Europeo per l’Innovazione. Ma il CCS di Ravenna è stato scartato e non è finito neppure nella lista B, quella dei 15 progetti assistiti dalla Banca Europea per gli Investimenti. Questa bocciatura, della quale ENI si è ben guardata di parlare, mette in discussione la stessa credibilità dell’operazione di cattura e stoccaggio dell’azienda italiana. D’altra parte il governo, che, come abbiamo visto in una recente puntata di questa trasmissione utilizza il patrimonio pubblico e l’esercito per tutelare gli interessi di una società che è ormai largamente privata, il governo, dicevo, ha inserito un articolo nella legge di bilancio che consentirebbe al progetto di ottenere finanziamenti pubblici. Ora che è arrivata la bocciatura europea si è curiosi di sapere cosa farà Draghi. Le considerazioni generali sul processo CCS di RECommon sono nettamente sfavorevoli, in quanto dice, come ho affermato poco fa, che è un ottimo sistema per continuare ad usare fonti fossili e ad inquinare l’atmosfera. Intanto è finito al centro delle polemiche anche un altro potenziale progetto di CCS di Eni, questa volta in Australia, legato ad uno dei più costosi e inquinanti impianti di gas liquefatto al mondo, il Barossa LNG della società Santos, una delle dieci più birichine nel Greenqashing, come abbiamo visto nell’ultima puntata di Noncicredo. Il coinvolgimento di Eni deriva da un accordo quadro siglato con la Santos lo scorso maggio, che prevede lo sviluppo di progetti comuni tra cui il riutilizzo di giacimenti esausti come pozzi di anidride carbonica.

... e l'economia circolare?

Adesso ci rivolgiamo ad un altro sito molto bello: economiacircolare.com. L’economia circolare in due parole è quella che non prevede rifiuti. Quelli di ogni processo devono diventare nutrienti, se preferite materie prime, per un secondo processo e così via. Lo so che detta così è poco comprensibile, ma anche su questo argomento, Noncicredo ha speso tempo e puntate non molte settimane fa e trovate tutto sul mio sito, se vi interessa: noncicredo.org. L’articolo che ci interessa è un tantino più datato di quelli esaminati finora. É di circa un anno fa, gennaio 2021, ma i concetti che il suo autore, Andrea Turco, espone credo siano attuali e molto interessanti. Andrea Turco è un giornalista freelance siciliano, molto attivo nella sua terra nella lotta alla mafia e appassionato ed esperto di temi ambientali. Insomma uno che vale la pena ascoltare. L’ENI ha interessi, come già detto in altre parti d’Europa, come ad esempio nella baia di Liverpool in Gran Bretagna, dove si lavora a qualcosa di molto simile al progetto di Ravenna. Alcune organizzazioni non governative hanno diffuso una ricerca che analizza l’impatto climatico del CCS. É stata eseguita dal Tyndall Center, struttura dell’Università dell’Anglia Orientale che si occupa specificamente di valutare come effettuare una transizione ecologica sostenibile. Bene, questa ricerca si concentra sulle recenti scelte del governo di Londra, che prevede per il CCS uno stanziamento di 200 milioni di sterline. Nel documento tuttavia non ci si riferisce solo alla situazione locale, ma a quella generale. Vi si legge che non è il caso di fare affidamento sul CCS, perché questa mossa metterebbe in pericolo gli obiettivi di sicurezza climatica. A livello globale ci sono 26 impianti in funzione, che non sono molti se, come dichiara ENI l’inizio di questa tecnologia si fa risalire a 25 anni fa e questo dimostrerebbe che la tecnologia non è ancora matura e, almeno per ora troppo costosa. In questo documento il CCS viene classificato come una pericolosa distrazione (queste le esatte parole usate) da soluzioni climatiche che sappiamo funzionare, come le energie rinnovabili e l’efficienza energetica. C’è un altro punto interessante che l’articolo di Andrea Turco evidenzia. Può il CCS far parte di una strategia che porti ad una economia circolare? Ecco le sue parole: “Inevitabile, dunque, chiedersi quanto ci sia di circolare in una tecnologia e in un progetto, quello ravennate, così fortemente sostenuto dalla multinazionale energetica. È sufficiente l’obiettivo dichiarato di voler dare nuova vita ai giacimenti di gas non più attivi mettendo in campo una sorta di azione di riuso? Il notevole dispendio di suolo e di risorse energetiche, a partire dall’elettricità necessaria per l’impianto di cattura, non è incompatibile con il concetto di circolarità? In più, come sottolineato dal chimico Vincenzo Balzani, questa tecnologia richiede “l’uso di grandi quantità di prodotti chimici che poi debbono essere recuperati, riciclati, con grande consumo di energia (fossile)”. Col paradosso che “spesso la CO2 prodotta dall’energia che si usa per l’impianto è in quantità maggiore rispetto a quella che l’impianto recupera”, esattamente il contrario del principio di rigenerazione e prevenzione alla base dell’economia circolare.”
Insomma, una bocciatura in piena regola e questa volta da un punto di vista scientifico. Chiudo l’argomento con una dichiarazione di Gianni Silvestrini, direttore del Kyoto Club e da decenni impegnato sui temi delle energie rinnovabili. Eccola: “Intanto diciamo che la tecnologia Css ha sempre goduto di finanziamenti pubblici e il vero dato è che non si è riusciti a utilizzarli. Il discorso dunque è da ribaltare: perché, nonostante gli ingenti contributi, questa tecnologia non si è mai sviluppata in Europa? E perché la stessa Europa, che già ci ha provato negli scorsi anni, dovrebbe tornare a finanziare il Ccs italiano? La situazione degli Stati Uniti è diversa, perché lì la CO2 viene iniettata nei giacimenti di petrolio e gas quasi esauriti per aumentare la produzione di combustibili fossili.” E conclude: “Io sono piuttosto laico su questo tema, ma mi pare evidente che il Ccs è una soluzione che le compagnie petrolifere scelgono per prolungare la vita dei giacimenti oil&gas, mentre sarebbe più utile e più circolare spingere sulla transizione energetica attraverso le rinnovabili”. Già che ci siamo, ascoltiamo ancora il breve intervento di Massimo Scalia, uno dei padri dell’ambientalismo scientifico in Italia, che a proposito di ENI dice: “Il vento sta cambiando. Eni rischia di rimanere fuori campo, al contrario di Enel. L’esclusione del progetto Css è la seconda batosta nel giro di poco tempo per il cane a sei zampe. Penso ad esempio al caso dell’Arabia Saudita, che si candida a diventare un hub mondiale per l’idrogeno verde tramite la società Acwa Power. Qualche mese fa la società ha varato un progetto per realizzare 5 gigawatt di elettrolizzatori: cioè nel Paese del petrolio ci si dà da fare per produrre idrogeno verde. E allora, un po’ per provocazione, ho suggerito che forse bisognerebbe sostituire qualche dirigente Eni con l’amministratore delegato di Acwa Power

La parola agli esperti

Il 12 dicembre 2021, 53 personaggi della scienza e della tecnologia energetica hanno scritto al presidente della Repubblica Mattarella e al presidente del consiglio Draghi una lettera, che si conclude con queste parole:
"In un Paese in cui la partita energetica la giocano in pochi (Eni, Snam, Terna ed Enel), con il placet di Governo, Parlamento, ARERA, Autorità per la concorrenza e Cassa Depositi e Prestiti; in cui il mancato insediamento della Commissione Pniec-Pnrr sta causando gravi ritardi nel processo di autorizzazione di centrali solari con potenza maggiore di 10 MW; in cui Stato e Regioni non riescono a trovare la quadra sul permitting di impianti per la produzione di energia da fonte rinnovabile; in cui appare sempre più inverosimile raggiungere l’obiettivo, tanto caro al Ministro Cingolani, di 114 gigawatt rinnovabili al 2030, il CCUS si candida ad essere una comoda scorciatoia (in attesa del nucleare, ovviamente!) e rischia di compromettere seriamente un serio percorso di decarbonizzazione del sistema di produzione e consumo che dovrebbe avere invece nella razionalizzazione/taglio selettivo dei consumi energetici, nella ricerca dell’efficienza e nella crescita della generazione distribuita i pilastri di un modello energetico realmente sostenibile."

Concludendo

Con questo spero di aver suscitato un po’ di curiosità nei lettori, così che possano approfondire il tema secondo le loro esigenze e anche la loro impostazione politica sull’argomento. Quello che credo si possa dire, al di là dell’appartenenza al partito dei catturatori o a quello contrario, è che la CO2 dall’atmosfera in un modo o nell’altro va rimossa. Come ho detto ormai un sacco di volte, limitarsi a ridurre le immissioni è un trucco per continuare a far crescere l’effetto serra e con esso tutti i danni legati ai cambiamenti del clima. Questo lo sanno perfettamente tutti, ma molti sono ancora convinti che sia meglio difendere i profitti e il lavoro, andando verso la fine della società come oggi la concepiamo. Questo sarebbe legittimo se riguardasse solo loro, ma con le loro azioni, determinano il futuro di miliardi di persone e questo non è né bello né tantomeno giusto.