Premessa
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La grande utilità dei gelsi

GelsoLa storia che sto per raccontarvi ha diversi protagonisti straordinari: il baco da seta, un ragno e materiali particolari, come il titanio. Sembra sicuramente curioso questo accostamento: come entreranno in una stessa storia il timido bruco, che si nutre di gelso prima di trasformarsi in farfalla, e uno dei metalli più resistenti che conosciamo?
Un po’ di pazienza e lo scopriremo. Ma, come sempre, è meglio cominciare dall’inizio.
Il gelso cresce rigoglioso in molte zone della Cina. Il bombice del gelso, che chiamiamo “baco da seta”, si nutre delle sue foglie.
Ora torniamo indietro nel tempo, di quasi cinquemila anni, quando sulla Cina regna un imperatore mitico e mitologico, Huang Di, considerato un Dio, un uomo straordinario a cui si devono molte invenzioni e innovazioni, fondatore della civiltà e dell'arte medica cinese.
Tra le innovazioni, una è dovuta alla moglie dell’imperatore, Si Ling Chi, la quale, per puro caso, scopre la seta e ne fa un tessuto.
La curiosità adesso diventa questa. Noi tutti pensiamo che il prodotto per cui il baco da seta è importante sia proprio la seta, ma gli antichi cinesi hanno la vista lunga e ne sanno davvero una più del diavolo.
Loro si accorgono che qualcosa di straordinario avviene sotto i gelsi dove sono presenti i bachi. Gli escrementi di questi, infatti, cadendo a terra, attirano batteri e microrganismi che producono nutrienti, i quali arricchiscono il terreno. In questo modo si viene a creare un soprassuolo sano, anche nelle regioni aride dove il gelso cresce, accumulando ogni anno 1 mm di spessore. Per ogni ettaro si vengono a formare dalle 6 alle 12 tonnellate di ricco materiale organico.
Magari gli antichi cinesi non hanno questi dati precisi, ma si accorgono che quel materiale serve per far crescere in modo molto migliore le coltivazioni ed è quindi molto utile per l’agricoltura e, in ultima analisi, per la sopravvivenza della popolazione
E così mettono a dimora moltissime piante, scoprendo la simbiosi tra due ecosistemi differenti, quello animale del baco e quello vegetale della pianta.
Noi sappiamo che il gelso ha altre proprietà, come le sue more (bianche, nere o rosse) che si possono mangiare, per le foglie da cui si estraggono oli per cosmetici naturali e, addirittura, per le sigarette elettroniche. Anche il legno, buono da ardere ma anche da modellare per ottenere, ad esempio, cesti di vimini, con i resti della potatura.
Insomma una pianta di tutto rispetto e non abbiamo ancora parlato del baco e della seta.
La pratica di piantare i gelsi viene avviata successivamente anche in Occidente. In Italia, ad esempio, i gelsi venivano piantati sui bordi dei terreni a vigneto per controllarne l’erosione.
Poi succede qualcosa.  Nasce la società dei consumi e, con essa, la monocoltura, che sposta l’attenzione, per quanto concerne il gelso, dalla produzione di terreno fertile alla produzione della seta, che rende molto di più.
Viene perso il senso originario dei cinesi, ai quali importava molto più riuscire ad avere un’agricoltura naturale, che bei mantelli variopinti e leggeri.
Arriviamo coì all’introduzione dei tessuti derivati dal petrolio. Questo provoca danni in una catena impressionante.
Tanto per cominciare ha sostituito un bene rinnovabile, la seta, con uno non rinnovabile. Poi ha cancellato il ricordo del ruolo fondamentale originario dei gelsi. La mancanza di fertilizzante naturale dato dall’attività dei bachi, ha indotto la società ad inventare fertilizzanti chimici basati sul petrolio per aumentare la produzione alimentare. E questo ha significato maggior consumo di energia, maggior uso di combustibili fossili, un aumento del gas serra e quindi dell’emergenza climatica. Vi basta per considerare una vera sciocchezza l’aver abbandonato una pratica così saggia come quella della coltura dei gelsi?
É vero che forse queste ultime considerazioni sono un tantino esagerate. Non possiamo, in effetti, attribuire alla sparizione dei gelsi il fatto che la nostra società ha mandato in vacca l’ambiente in cui cerchiamo di sopravvivere. Ma la storia è davvero interessante e, credo, merita di essere raccontata per i suoi sviluppi, come vedremo.
In questa trasmissione ho spesso parlato del problema della terra arabile. E’ legato alla società consumistica, a quella forma di neo colonialismo conosciuta come landgrabbing, l’arraffamento delle terre dei paesi poveri da parte di grandi nazioni e potenti multinazionali. E dalle scarse difese che un paese povero può offrire alle disavventure anche naturali.
Prendiamo l’Etiopia. Ogni anno perde circa un miliardo di tonnellate di soprassuolo, spazzato via dalle piogge e dal vento. Per questo appare sempre sull’orlo di una carestia, mai in grado di accumulare abbastanza riserve di grano per avere un minimo di sicurezza alimentare.
Ogni anno in Africa le tempeste di sabbia si portano via 2-3 miliardi di tonnellate di terriccio compromettendo la fertilità del suolo. Quella sabbia finisce poi nel mar dei Caraibi, intorbidendo le acque e danneggiano la barriera corallina. I contadini africani ormai hanno sostituito la natura con la chimica, usando fertilizzanti e pesticidi che sono sempre un’arma a doppio taglio.
Facciamo la conoscenza con il professor George Chan, nato molti anni fa alle Mauritius e morto nel 2016, ingegnere ambientale con un curricolo lungo così, pieno di incarichi importanti e di premi vinti, nonché colonna portante della fondazione ZERI di Gunter Pauli. Una volta andato in pensione ha passato cinque anni in Cina, al termine dei quali, ha detto di aver imparato là molto più di quanto appreso durante gli studi universitari.
Bene, questo signore ha studiato per molti anni proprio il ruolo dei gelsi che ho descritto prima; poi ha assistito le comunità di agricoltori in 80 paesi, introducendo gelsi e bachi da seta per generare terreno fertile. L’applicazione di queste tecniche completamente naturali ha ispirato industrie che dipendono dall’agricoltura sia in paesi più poveri come la Namibia che in quelli cosiddetti avanzati come Germania, Giappone e perfino gli Stati Uniti.

La fabbrica della seta

Qualcuno potrebbe cominciare a spazientirsi e chiedere. “Ma insomma, a cosa può mai servire la seta se non a fare sciarpe e vestiti per ricchi con quello che costa?”.
Un po’ di pazienza che ci arriviamo.
Cominciamo dai gas serra.
Abito di setaLa seta contiene almeno il 30% di carbonio. Vuol dire che in essa sono conservate le quantità di carbonio che non possono così entrare in atmosfera ad alimentare l’effetto serra. Sostituirla con derivati del petrolio elimina questi “bacini naturali” con conseguenze evidenti a tutti. Ma il danno più grave non è questo, bensì la perdita di fertilità dei terreni, perché l’uso di fertilizzanti chimici azotati sono una delle principali fonti di Protossido d’azoto, N2O, che è un gas serra molto potente, molto più dell’anidride carbonica, 310 volte di più. Quando Wallace Carother inventò il nylon non poteva sapere che questa fibra, derivata dal petrolio, avrebbe mandato a rotoli un sistema di produzione industriale che viveva in armonia con le coltivazioni agricole e il terreno da cinquemila anni. Ma Carother lavorava per la Dupont, che aveva ben altri progetti in testa che quelli di salvaguardare il pianeta e l’ambiente. Che poi è il discorso che facciamo anche oggi: come si può pretendere che governi e industriali possano risolvere le sfide del cambiamento se non sanno e non capiscono o non vogliono capire le connessioni tra sistemi diversi, connessioni con le quali la natura ha sostenuto i miliardi di forme di vita che la abitano?
Baco da setaMa torniamo alla seta. Noi siamo abituati ad associare questo tessuto solo ai bachi del gelso, ma in realtà ci sono centinaia di specie che producono un filo dello stesso tipo: formiche, vespe, api, mitili, ragni. Ma uno solo è stato addomesticato, appunto il baco da seta cinese.
Con l’avanzare della tecnologia (anche della nanotecnologia) è possibile cominciare a valutare le caratteristiche delle varie sete per scoprire che questi polimeri naturali possono surclassare alcuni dei loro equivalenti sintetici e addirittura di metalli come il titanio che è quello che ha il rapporto resistenza/leggerezza più elevato di tutti i metalli (nel senso che è leggerissimo e resistentissimo).
Ed ecco la sfida lanciata dalla blue economy: se riuscissimo a produrre polimeri come questi usando le tecniche delle specie viventi, una serie di problemi verrebbero automaticamente risolti.

Un ragno molto speciale: il Nephila clavipes

C’è un ragno che vive in America Centrale e si chiama Nephila clavipes. Fa una tela di un metro di diametro di color oro. Serve per catturare le prede e per mimetizzarsi. Fritz Vollrath è uno studioso dell’Università di Oxford, dipartimento di Zoologia, dove dirige un team di 11 ricercatori e 30 collaboratori esterni, che si occupa in particolare delle questioni legate alle sete. Il plurale è d’obbligo per quanto appena detto sui ragni e sugli altri animali produttori di questo tessuto. Se cercate in rete il suo nome, troverete traccia dei suoi numerosi titoli al riguardo. E’ stato proprio lui, dopo lunghi studi, a determinare le qualità impressionanti di questa seta del ragno per quanto riguarda resistenza e flessibilità. Il motivo è legato alla struttura geometrica del filo prodotto dal ventre del ragno, il quale, modificando pressione e umidità dell’addome è in grado di produrre sette tipi differenti di seta, con resistenze e flessibilità diverse. Una vera e propria fabbrica della seta.
La domanda adesso diventa: cosa ne facciamo delle sete prodotte da bachi, ragni e formiche?
Abito di setaTorniamo al ragno studiato da Vollrath, che si è rivelato pieno di sorprese.
Se andate su Wikipedia e cercate la voce “Ragno”, trovate questa frase: “La seta secreta dai ragni può essere considerata superiore a qualsiasi materiale sintetico finora elaborato per leggerezza, tenacia ed elasticità.” Dunque non è un mistero se anche una fonte di informazione così popolare come Wikipedia lo dice a chiare lettere. Ma torniamo al Nephila studiato da Vollrath.
Il ragno ha una gestione delle risorse, sarebbe meglio dire delle proprie risorse davvero pazzesca. Pensate che, quando si accorge che, per un motivo qualsiasi, una parte della tela non va più bene, la distrugge e la ricicla. Il ragno la ingerisce, trasforma i polimeri negli aminoacidi originali e ne produce un’altra, secondo il bisogno del momento. C’è di che rimanere sbigottiti da tanta perfezione da parte di un insetto al quale la maggior parte di noi non darebbero alcun credito. Altro che la plastica che ha creato isole immense negli oceani modificandone le proprietà: temperatura, capacità di riciclo della CO2, oltre ad intervenire certo non in modo positivo sulla catena alimentare.
Purtroppo i ragni sono aggressivi e non si lasciano addomesticare come i bachi da seta. Inoltre sono perfino troppo efficienti per entrare in un ciclo produttivo; il fatto stesso che riciclino gran parte della seta non aiuta certo ad accelerare né ad aumentare la produzione. Dunque è terribilmente complicato trasformare le sue abilità in processi produttivi e quindi remunerativi. Ricordate sempre che quando, in questi casi parliamo di reddito, dobbiamo associare ai soldi anche la creazione di posti di lavoro.
Comunque, di fronte a questi inconvenienti, Vollrath non si è arreso e ha cominciato a confrontare la struttura della seta dei bachi del gelso con quella del ragno dorato. Utilizzando gli aminoacidi come elementi costitutivi, alla fine è riuscito a sviluppare un polimero che ha le stesse proprietà straordinarie alla tela dorata del Nephila clavipes.

Dal laboratorio all’azienda

Abito di setaSulla base di questa ricerca, che sembra più un romanzo di fantascienza che un resoconto universitario, il professore di Oxford ha fondato aziende che producono questi polimeri e li immettono nei mercati dove questi prodotti biocompatibili, ottenuti da risorse completamente rinnovabili, possono sfondare ed essere venduti ad un prezzo inferiore rispetto a quelli ricavati dal petrolio e alle costose leghe metalliche. Con l’aggiunta, grazie ai gelsi, della fertilizzazione del terreno e del sequestro della CO2. Quello vero, non quello di cui la propaganda di chi ancora si ostina a raccontarci la storiella che non c’è da preoccuparsi per l’uso del carbone, tanto la CO2 poi la chiudiamo in qualche miniera, propaganda fine a se stessa, dal momento che finora risultati in questo senso non se ne sono mai visti.
Prima di arrivare alle applicazioni, permettetemi di approfondire il discorso sulle proprietà di questo straordinario filo, riprendendo alcuni articoli recenti, che riguardano appunto la seta prodotta da insetti e bachi.
In uno di questi, del novembre 2019, si comparano le proprietà meccaniche delle tele di ragno e del baco da seta con il Kevlar e l’acciaio. Il kevlar è considerato il campione in quanto a trazione, avendo una resistenza alla rottura ben 5 volte superiore a quella dell’acciaio. Parliamo quindi di confronti con strutture di primissimo piano.
Bene, cominciamo dalla elasticità. Le due sete, rispettivamente del ragno e del baco da seta sono più elastiche di 13 e 19 volte del Kevlar e addirittura di 20 e 30 volte di quella dell’acciaio.
La tensione di rottura è il valore del massimo sforzo che un materiale riesce a sopportare prima di rompersi. Anche qui i dati sono inequivocabili: i valori delle sete sono nettamente migliori di quelle dei materiali creati dall’uomo. Nel caso del baco, addirittura 6 volte migliore del kevlar e tre volte dell’acciaio.
Allungamento a rottura: seta è 27 e rispettivamente 18 volte più allungabile dell’acciaio. Non c’è nessuna proprietà in cui le sete sono inferiori ai due materiali presi per confronto.
Ora, provate a pensarci: se qualcuno vi dice che quella ragnatela è di gran lunga più efficiente dell’acciaio, voi siete disposti a crederci? Penso proprio di no, eppure i dati che vi ho appena elencato derivano da studi importanti e non sono il risultato di qualche fake news riportata in facebook.
Perché mai dovremmo preoccuparci di tutto questo, se, comunque abbiamo la seta?
Vale la pena, a questo punto, di cercare di capire cosa è successo alla seta da un punto di vista commerciale.
La produzione mondiale di seta è crollata, negli ultimi cento anni, da un milione di tonnellate l’anno a sole 100 mila. Oggi serve solo per confezionare costosi capi alla moda. E il futuro non sarà certo nell’abbigliamento, perché non può competere economicamente con i polimeri tratti dal petrolio … certo se poi il petrolio finisce o rincara o non potrà essere usato per nuove leggi antiinquinamento, anche questo settore dovrà cercare altrove le proprie materie prime.
Se la strada dell’abbigliamento sembra per il momento chiusa, la seta può competere con metalli come acciaio e titanio risultando molte volte più economica e con un rendimento decisamente migliore. Anche questa sembra una boutade, ma, come abbiamo visto poco fa, è la semplice verità.
Nel 2002 l’Università di Aarhus in Danimarca ha realizzato un filmato in cui si parlava proprio di questi aspetti. La domanda che veniva fatta era. “Preferiresti attraversare un ponte d’acciaio o fatto con la seta dei ragni?” Tutti scelgono l’acciaio: sono sicuro lo fareste anche voi. Chi ha mai visto un ponte di seta? E poi sulle tele del ragno si fermano corpi minuscoli, mosche, api, niente di pesante. Ma nel filmato si mostra come l’ipotetico ponte di seta sarebbe due volte più resistente di quello in acciaio, con tutti i vantaggi della sostenibilità, eco compatibilità e le altre cose detta finora. L’Università di Aarhus è un altro centro di ricerca per le sete naturali.

A cosa serve la seta?

Prima di parlare di applicazioni pratiche della seta, cerchiamo di capire perché usandola faremmo un buon servizio all’ambiente in cui viviamo e, di conseguenza alle nostre vite.
Abbiamo citato il titanio. Questo metallo è ormai entrato nel ciclo produttivo di molte categorie di oggetti: dai motori a reazione alle navicelle spaziali, dagli articoli sportivi ai telefoni cellulari, dalle protesi mediche agli impianti ortopedici e dentali e così via. Il titanio va estratto da uno dei minerali che lo contengono, il che comporta l’impiego di notevoli quantità di magnesio, cloro e argon. Dev’essere saldato in atmosfera inerte perché rimanga puro e non venga contaminato da Ossigeno, Azoto, Idrogeno. Insomma è un procedimento complesso e invasivo per l’ambiente, con grande dispendio di energia e di altre risorse primarie. I clienti sono disposti a pagarlo molto caro senza badare (come avviene per moltissimi altri prodotti) al costo sociale e ambientale che ne deriva.
Credo sia più che evidente che il confronto con il ciclo produttivo della seta dal gelso non regga da un punto di vista della sostenibilità. Se poi aggiungiamo che gli scarti del baco diventano nutrienti per l’agricoltura la differenza è ancora più abissale.
E’ proprio qui, grazie alle ricerche del gruppo di Fritz Vollrath, che è possibile individuare un cambiamento decisivo facendo sviluppare le industrie verso la sostenibilità.
Una strada questa percorsa da ZERI e dalla blue economy. Così, per fare un altro esempio che con la seta ha sempre a che fare, nel Novembre 2011 veniva pubblicata sulla rivista tedesca Naturwissenschaften, la notizia che il gruppo di ricerca di Zeri aveva scoperto anche un gamberetto produttore di una seta che funziona come il cemento e combina le proprietà della seta dei ragni con le sostanze usate da certi crostacei per rimanere incollati alle chiglie della barca o alle rocce. Un’altra delle straordinarie meraviglie della natura da inquadrare nelle conoscenze e, soprattutto, nelle prospettive offerte dalla blue economy.
Fantasie? Per niente.
Certo che con quelle proprietà straordinarie, non è difficile immaginare i campi in cui quelle sete potrebbero essere utilizzate. Si va dai vestiti leggeri e resistenti (come del resto quelli di seta già in commercio) alla medicina. Si potrebbero costruire tendini, materiali per riparazione ossea, legamenti artificiali, che sarebbero 100 volte più resistenti di quelli che abbiamo in dotazione nel nostro corpo e, per di più, del tutto biocompatibili.
E poi nel rilascio controllato dei farmaci, per suture, come scaffold, particolari impalcature tridimensionali, usate in ingegneria tissutale.
Questo oggi. Ma un domani le proteine della seta del ragno potrebbero diventare veri e propri muscoli bio-mimetici: vale a dire muscoli robotici sfruttando la contrazione di questa seta. Insomma si aprirebbero strade che oggi sembrano appartenere solo ai film di fantascienza.
Del resto alcune di queste azioni sono già presenti nella nostra società. La seta è già impiegata per suturare tagli e ferite, ma può trovare una infinità di altre applicazioni.
Ma torniamo al nostro amico ragno. I ragni sono animali aggressivi, predatori, spesso cannibali e quindi addestrarli per la produzione di seta risulta impossibile. Quello che serve è essere in grado di estrarre le proteine della seta del ragno. Grazie agli sviluppi recenti della biologia molecolare e dell’ingegneria genetica sono stati trasferiti i geni dei ragni, responsabili della produzione della seta, in altri organismi di più facile gestione. Senza entrare nei dettagli, quello che è successo è che con questo sofisticato sistema si è riusciti a creare delle sete aventi struttura e massa desiderata.
I geni sono stati trapiantati in batteri, lieviti, piante, cellule di mammiferi ed insetti, ottenendo per ciascuno di questi risultati diversi.
Tra i risultati più soddisfacenti ci sono quelli sviluppati da un’industria canadese, la Nexia Biotechnologies Inc. che, venti anni fa produce una seta con caratteristiche simili a quella del ragno, chiamandola Biosteel (che tradotto significa acciaio biologico con ovvio significato). La storia è piuttosto curiosa. Gli scienziati dell’azienda canadese inseriscono i geni dei ragni tessitori (il nostro amico Nephila clavipes) nel DNA delle cellule mammarie, responsabili della produzione del latte delle capre. Quel latte viene poi raccolto e trattato per purificare le proteine costituenti la seta. Quindi quelle proteine vengono essiccate in opportuni solventi e trasformate in microfibre.
Vi sembra tutto fantastico o addirittura poco credibile? Volete delle prove?

Biosteel, scarpe e Adidas

Abito di setaEravamo rimasti alle prove reali dell’uso commerciale del Biosteel. E allora, proviamo a rivolgerci ad una grande azienda, come la tedesca Adidas. Alla fine del 2016, ecco la prima scarpa in Biosteel, in vendita dal 2018, perfettamente biodegradabile, tanto che alla fine del suo uso diventa polvere in tre giorni.
L’idea canadese è stata ripresa dalla società tedesca, AMSilk, con sede vicino a Monaco in Baviera, che è oggi il più grande produttore di Biosteel al mondo.
Come vedete sono dati concreti, non favole. Potete controllare, se credete, il sito di questa azienda: amsilk.com.
Magari non vi appassionano le scarpe da ginnastica o da tempo libero e allora vediamo altre applicazioni fantastiche della seta.
Uno degli oggetti più usati è il rasoio per farsi la barba o depilarsi gambe e ascelle. La famosa lametta è stata introdotta nella nostra società dal signor King Camp Gilette, un imprenditore statunitense che, dopo il rasoio usa e getta, inventò anche la maschera antigas che poteva essere indossata solo dopo rasatura. E l’esercito comprò entrambe le merci, dando una buona spinta alla futura enorme fortuna del signor Gilette.
Le lame dei rasoi si sono affinate nel tempo, diventando sempre di più un prodotto di tecnologia sofisticata, sempre più sottili e sempre più taglienti. Vengono però realizzate con materiali particolari sia per la loro presenza nel prodotto, che durante la lavorazione: su tutti acciaio (ottenuto con ferro, cromo, molibdeno, manganese e carbonio) e titanio. Entrambi fanno parte di un modello di produzione e consumo decisamente non sostenibile. Il complicato procedimento di costruzione delle lamette le rende buone solo per essere usate alcune volte per poi essere buttate via. Tra l’altro le lame sono racchiuse in un supporto di plastica e di metallo per tenerle dentro la cartuccia. E quindi diventa estremamente difficile riciclarle.
Proprio il fatto di aver usato sempre meno metallo per costruirne una ha prodotto un effetto rimbalzo. Invece di ridurre complessivamente le risorse impiegate, i rasoi da due lame hanno cominciato ad averne sempre di più fino alle sei attuali, per cui alla fine quello che si risparmia su una lametta è ampiamente recuperato dal numero che ogni rasoio contiene. Si stima che ogni anno 10 miliardi di rasoi monouso finiscano in discarica e con essi 250 mila tonnellate di metallo prezioso e costoso. Sento qualcuno mormorare là in fondo: “Adesso non verrai a raccontarci che la morbida seta possa sostituire un metallo come il titanio, vero?”.
Certo il dubbio è più che legittimo, ma solo perché una cosa non è comune, non è detto che non esista. Siamo dunque di fronte al dubbio se sia possibile sostituire i rasoi di titanio con rasoi di seta. In effetti è proprio così: l’industria dei rasoi, come tante altre, è di fronte ad un bivio che può portare ad un consumo di risorse che sono sempre meno numerose e sempre più care, oppure imboccare la strada della seta, non nel senso della famosissima via cinese percorsa quasi mille anni fa da Marco Polo.
Il rasoio di seta a cui ZERI ha lavorato è in sostanza una copia in miniatura del tosaerba a mano. Un numero molto grande di sottilissimi fili roteano sulla pelle estirpando i peli e lasciando intatta la pelle. A 200 dollari il chilo di seta lavorata, secondo Pauli ogni rasoio costerebbe meno di 1 $, con un rendimento identico a quello delle moderne versioni industriali e un impatto ambientale di gran lunga inferiore.
Se è un po’ complicato convincere la gente ad attraversare un ponte in seta o ad usare un rasoio in seta, la sua morbidezza può rendere più facile pensarla dentro creme per la cura della pelle o dei capelli.
La seta contiene polimeri che possono sostituire quelli sintetici che oggi vengono utilizzati come agenti filmogeni, fissanti, addensanti, emulsionanti, ammorbidenti, antimicrobici e così via. Il loro valore di mercato è di circa 15 miliardi di $ e continua a crescere. Questi polimeri sintetici sono andati a sostituire molti ingredienti naturali nei prodotti cosmetici di vario genere. Il ritorno a ingredienti naturali derivati dalla seta potrebbe cominciare dalle creme solari ed estendersi poi a tutta la gamma di prodotti di cosmesi usati dall’uomo. 
Certo ci vorrebbe una spinta iniziale. Pensate ad esempio cosa succederebbe se una azienda tipo Shisheido o Clarins mettesse in commercio creme con su scritto: solo prodotti naturali al 100%, derivati dalla seta. Non pensate che avrebbero un enorme successo dal momento che nessun consumatore può essere felice di sentirsi dire che con i prodotti che compra devasta l’ambiente? Serve solo un piccolo passo.
Altri esempi di applicazione della seta li troviamo in campo medico. Ho già detto del filo per suturare ferite e tagli. La seta ha tutte le caratteristiche che la rendono ideale a questo scopo: è morbida e resistente alla trazione, è facile da annodare ma difficile da sciogliere; grazie alla sua composizione proteica è biocompatibile con il corpo umano per cui non occorre rimuoverla chirurgicamente. In commercio ci sono altri oggetti che rientrano nel campo medico: mascherine contro le allergie, tamponi di garza e bende per disturbi dermatologici.
La tecnologia che ha ricavato dalle proteine della seta una pellicola ha aperto strade nuove: pelle artificiale, vasi sanguigni, tendini, rigenerazione di nervi, lenti a contatto, cateteri, anticoagulanti. Tutte queste applicazioni sfruttano la biocompatibilità e la permeabilità della seta. E non è tutto.

… poi c’è il resto

L’equipe di Vollrth ha elaborato un supporto poroso in seta che potrà essere usato per sostituire le cartilagini del ginocchio, cosa che interesserà molto gli sportivi e che sostituirà le protesi in titanio, costose e dannose per l’ambiente per tutti i motivi già detti in precedenza.
Abito di setaNon si tratta di fantasie, perché alle spalle di questi oggetti c’è un apparato produttivo, un mercato molto grande che significa sì profitti ma anche posti di lavoro. 20 miliardi di $ l’anno è la stima del mercato globale degli oggetti biocompatibili in seta e cresce del 10% ogni anno.
Affari dunque, non solo chiacchiere.
Quando ai primi prodotti oggi presenti si aggiungeranno tutti gli altri (dalle bende alle protesi di articolazioni) la richiesta di seta crescerà esponenzialmente.
E basterà che una sola casa produttrice di oggetti che oggi inquinano il mondo, come ad esempio Gilette o qualunque altra, si rivolga alla seta per innescare una crescita che prevedere esponenziale non è certo fantasia.
Il riflesso non sarà tuttavia solo occupazionale, ma anche ambientale perché per avere sempre più seta serviranno sempre più gelsi e il terreno sottostante non potrà che essere grato per l’aumento della sua fertilità.
Scrive Pauli nel suo libro, a proposito di questo processo che vede la seta al centro:
La prerogativa vincente di questo metodo è che non elimina alcun posto di lavoro nel settore. Riduce solo la domanda di estrazioni minerarie, tagliando drasticamente i consumi di energia impiegata, il che ci trova tutti d’accordo nel considerarlo un contributo positivo. Il potenziale taglio di posti di lavoro nel settore energetico e minerario sarà di gran lunga superato dal numero di nuovi posti di lavoro creati: un totale di circa 15 milioni ogni 100 mila tonnellate di seta prodotta. L’applicazione di un modello sostenibile che usi la seta invece della plastica è più competitivo, è più interessante per il mercato, genera terreno fertile e taglia le emissioni di carbonio.
Certo questo processo di rinnovamento, che sembra una rivoluzione industriale al contrario avrà bisogno di due elementi decisivi. Prima di tutto della collaborazione dell’impianto industriale e politico che abbraccino la blue economy. L’importante è convincere qualcuno a partire e questo succederà presto, perché i vantaggi sono incomparabili rispetto agli svantaggi.
E poi, come sempre vado dicendo, c’è bisogno di informazione, che osservi i fenomeni da tutti i punti di vista. Il fatto è che pochi conoscono ZERI, i suoi progetti, gli studi che si svolgono in decine e decine di Università nel mondo; pochi sono informati di questi aspetti delle politiche ambientaliste, anche tra gli stessi ambientalisti. Potete fare un piccolo test tra i vostri amici chiedendo loro cosa sanno della blue economy. La risposta che i più informati vi daranno sarà: “Blue? Non esiste. Esiste solo la green economy.” Per gli altri sarà come parlare una lingua del tutto sconosciuta.
Ma noi siamo qui apposta per raccontare le storie di questo nostro pianeta e dei suoi abitanti. Ed è proprio da argomenti come quello di oggi che capiamo quanto strani siano gli abitanti di questo pianeta. Hanno a disposizione una tavola imbandita di risorse e si riducono a cercare nella spazzatura i resti di quelle che, tra l’altro, sono dannose alla loro salute.

Le alghe e i furanoni

Abito di setaCi sono storie fantastiche che raccontano come in un futuro post apocalittico l’uomo potrà nutrirsi solo di insetti e alghe. Non arriviamo a tanto: non è questo lo scopo di questa trasmissione, quella di inseguire racconti fantastici che non hanno alcuna base scientifica o provata. Anche se, va detto che molti studi prefigurano una tale carenza di cibo per via dell’emergenza climatica che i pasti di chi ci sarà tra cent’anni potrebbero essere di gran lunga diversi da quelli attuali e la braciola potrebbe essere sostituita da spiedini di grilli o di locuste e da minestre di alghe.
Ma che le alghe possano giocare e, in certe situazioni, già giochino un ruolo importante, è verissimo. Voglio presentarvi due situazioni molto diverse tra loro, ma entrambe inserite nei progetti ZERI della blue economy.
Cominceremo parlando di furanoni.
Già … chissà cosa sono? In effetti anche parlando con amici chirurghi non sapevano di cosa si trattasse, ma una volta entrati in argomento riconoscevano il tutto, dandomi conferma. Non che io ne sapessi nulla prima di imbattermi in Gunter Pauli e nei suoi libri. Ma, sapete come si dice, per imparare occorre documentarsi.
Cominciamo dall’inizio.
Tutti noi pensiamo di discendere dalle scimmie, ma i nostri antenati più antichi sono i batteri, le prime specie viventi sulla Terra. Le prime ad usare la fotosintesi molto prima che le piante popolassero la terra e i mari. Noi, che abbiamo sempre fretta, li chiamiamo indifferente microbi, batteri o germi. E non nutriamo verso di essi alcun sentimento di simpatia, anzi se potessimo li faremmo tutti fuori. Questo sentimento rimane anche quando scopriamo che senza batteri non potremmo digerire la pastasciutta o il brasato. Insomma è abbastanza curioso che cerchiamo di uccidere le specie che ci aiutano a vivere. Del resto la scienza e l’industria ci hanno convinto delle loro intenzioni malvagie e hanno costruito veleni chimici e potenti antibiotici per combatterli ed eliminarli. Ma loro, i batteri, sono molto più intelligenti di noi e, ogni volta che vengono attaccati, modificano le proprie caratteristiche diventando resistenti alle armi che usiamo contro di loro, così che noi dobbiamo farne di più potenti, più massicce. Il che non sarebbe un problema, anzi farebbe felici i CdA delle case farmaceutiche e delle industrie chimiche per motivi che sono più che ovvii. Ma l’uso di questi battericidi presentano effetti collaterali di cui tenere conto. La straordinaria rapidità di trasformazione dei batteri consente loro di trasformarsi progressivamente in super batteri, mentre le nostre difese restano le stesse se va bene, vale a dire se le cure usate per combattere i cattivi batteri aggressori non eliminano anche quelli benefici. E il guaio è fatto. Adesso torniamo indietro di molti millenni, quando la seconda forma di vita è comparsa sulla Terra: le micro-alghe, le antenate delle alghe marine, quelle, per capirci, che ancora oggi guardiamo con un certo ribrezzo quando vogliamo immergerci nei mari nostrani.
Loro, le micro-alghe si sono trovate immerse in un mondo dominato dai batteri e in qualche modo hanno dovuto conviverci. In realtà si sono dovute difendere, e lo hanno fatto con un trucco notevole dal momento che non disponevano di sostanze chimiche o farmacologiche.
Prima di vedere questo passo, analizziamo le strategie di battaglia dei batteri. Essi formano un biofilm, una specie di pellicola, come quella che riveste il nostro apparato digerente, la nostra lingua, il cuoio capelluto. Se i batteri si accorgono di avere la maggioranza, di essere insomma in condizioni superiori, ecco che possono decidere di conquistare l’ospite.
Magari faranno sorridere questi termini, perché parliamo di germi come se fossero intelligenti e potessero decidere di agire in un modo o nell’altro.
Beh, rassegnatevi, perché le cose stanno proprio così.
Visto che non possono permettersi una lotta uno contro uno, seguono alla lettera il proverbio “L’unione fa la forza”. Per questo costruiscono il biofilm che funziona come una rete in cui ogni batterio comunica con gli altri. Per farlo devono essere in grado di ricevere determinate molecole. Se si riesce a bloccare questa comunicazione il gioco è fatto. Invece di sterminare i batteri basta renderli “sordi”, cioè incapaci di ricevere le informazioni che servono loro per aggredirci.
Abito di setaLa Delicea pulchra, un’alga rossa che vive tra Giappone e Tasmania, ha imparato proprio questo. Produce una piccola molecola, detta FURANONE, che occupa i recettori dei batteri impedendo loro di comunicare. In questa situazione i batteri non riescono a sviluppare il biofilm, non possono diventare dominanti e sono inesorabilmente sconfitti. Addirittura la presenza dei furanoni ha come conseguenza la disgregazione del biofilm, senza il quale non si possono avere infezioni.
Tutta questa storia ci è stata raccontata dagli studi di due scienziati dell’Università del Nuovo Galles a Sidney (Australia): sono Peter Steinberg e Staffan Kjelleberg.
Il passo successivo è la produzione di questi furanoni in laboratorio in modo che possano sostituire gli antibiotici.
E’ abbastanza chiaro che il primo pensiero, in tema di applicazioni, è rivolto alla medicina, ma qui c’è l’intoppo enorme.
Credo sappiate bene quanto peso e importanza, anche politica, abbiano le case farmaceutiche, che spesso presentano dei bilanci che molte nazioni vorrebbero avere. I furanoni, insomma, non sono solo un pericolo per i batteri, ma anche per le case farmaceutiche e i loro antibiotici ad alta redditività. E poi l’iter di approvazione per introdurre sul mercato nuove tecniche farmacologiche è lunghissimo e, diciamo così, molto frastagliato.
Ma ci sono altre situazioni in cui questa novità potrebbe tornare molto utile. Cominciamo con i deodoranti. Il cattivo odore del corpo è causato da batteri che proliferano nel sudore. Un deodorante a base di furanoni ridurrebbe i batteri e quindi l’odore. 
Anche alcuni problemi dentali, come l’alitosi e le carie sono provocate da batteri che si nutrono dei residui di cibo che restano nella nostra bocca. Un colluttorio a base di furanoni sarebbe l’ideale.
Passiamo all’agricoltura. I semi potrebbero essere protetti usando una soluzione furanonica. Analogamente andrebbe per i fiori recisi, che rimarrebbero freschi più a lungo nei loro vasi, se immersi in acqua con furanoni.
E altre situazioni possono presentarsi come la corrosione dei condotti. Negli oleodotti la pulizia è necessaria frequentemente con chiusura degli impianti e spesa di energia e di denaro. Analogamente vanno le cose per gli impianti di desalinizzazione dell’acqua o quelli di depurazione della stessa. In quest’ultimo caso si potrebbe ridurre drasticamente l’impiego del cloro che riduce la durata degli impianti e fa aumentare i costi.
Secondo Pauli questo settore porterebbe migliorie sensibili alla qualità della vita delle persone, oltre che alla durata degli impianti.  Rinunciarci per difendere i privilegi di qualche multinazionale non fa di noi esseri più intelligenti dei batteri, anzi!

Un’alga molto comune: la Spirulina platensis

Abito di setaGià che siamo in tema di alghe, vediamo un altro esempio, prima di chiudere, per oggi, l’argomento della blue economy.
Jorge Alberto Vieira Costa è un biologo dell'università brasiliana di Rio Grande Do Sul. Dal 1998 sperimenta la coltivazione di un'alga, la Spirulina platensis, in alcune aree povere dell'entroterra. La sua crescita è accelerata dall'anidride carbonica ricavata dagli scarti della fermentazione di canna da zucchero. In particolare, le bollicine di CO2 hanno dimensioni adatte all'assorbimento da parte delle alghe: l'aumento di biomassa è quattro volte più rapido.
Tutti i processi di estrazione di petrolio o gas producono, come scarto, acqua salmastra. Essa viene spesso lasciata in bacini di raccolta che a lungo andare possono rilasciarla nel suolo circostante, rendendo il terreno tossico e sterile per secoli. Inoltre, visto che la temperatura ha un impatto sull’habitat della vita acquatica, anche le centrali a carbone devono avere dei bacini di raccolta dove far raffreddare l’acqua prima di riversar­la nei fiumi e negli oceani. Questi bacini sono stati imposti per legge, a quanto pare, per mitigare i danni collaterali delle centrali sull’ambiente. Non è necessario un grande sforzo di immaginazione per capire che al loro interno si potrebbero coltivare alghe in modo da trasformare una struttura dedicata allo smaltimento in un utile sistema che assorbe la CO2, aumenta l’ossigeno e produce un biocarburante a basso costo e rinnova­bile.  
La Spirulina platensis dunque produce non solo effetti immediati, ma crea anche un indotto economico per piccoli imprenditori. Contiene, infatti, nutrienti di qualità: proteine, ferro, vitamine. Pare che le proteine contenute nell’alga siano superiori a quelle dei legumi, anche se inferiori rispetto a carne, latte e uova. L'eventuale sovrapproduzione viene trasformata in fertilizzanti e biocarburanti. Le membrane delle alghe poi, sono fatte di esteri, che sono composti organici utilizzati nell'industria cosmetica. La Spirulina platensis, dunque, ha quattro funzioni: alimento, combustibile, concime e materia prima.
Altra fantasia della blue economy? Sembra proprio di no, dal momento che la questione delle alghe mangia-CO2 ha varcato i confini della sperimentazione e dei paesi poveri. Anche l’ENEL se ne occupa avendo avviato due progetti per la coltivazione della Spirulina a Brindisi e in Spagna.
Se cercate in rete troverete molte aziende italiane che producono Spirulina. Se volete, esiste anche un vademecum per produrle a casa vostra.
In Francia esiste la giornata della Spirulina. NASA e FAO sono interessate agli sviluppi per motivi diversi (nutrizione astronauti e malnutrizione, rispettivamente).
In Puglia, a Bitetto vicino a Bari, c’è un’azienda, Apulia Kundi, che, invitando i clienti a visitare la propria struttura, nel suo sito scrive:
Abito di setaConsiderata sin dall’antichità il “cibo degli dei”, la Spirulina è una microalga, appartenente alla famiglia dei cianobatteri che contiene principi di elevato valore nutrizionale tale da essere definita dalla FAO il “cibo del futuro” anche per il suo basso impatto ambientale. Per tali ragioni e per i suoi vasti campi d’applicazione nell’ambito della nutrizione umana ed animale, dell’energia rinnovabile, del trattamento delle acque, cosmetico e in generale per il benessere della persona, la Spirulina riscontra oggi un elevato interesse scientifico per lo sviluppo del green business. Il team Apulia Kundi accompagnerà i partecipanti nella scoperta dell’affascinante mondo della microalga attraverso un focus sulle proprietà nutritive, i benefici, i metodi di produzione e gli ambii di applicazione. Sarà possibile osservare la Spirulina viva, scoprirla più da vicino attraverso l’osservazione al microscopio e quindi osservare il prodotto finito: il supercibo. Apulia Kundi guiderà il visitatore attraverso tutti i passaggi dalla Spirulina viva al prodotto finito. Sarà infine possibile assaggiare il supercibo disidratato naturale, puro al 100% e di alta qualità.
Altro che fantasie.
Chiudo proponendovi la lettura di un breve articolo del 2009, pubblicato da Rinnovabili.it e ripreso all’epoca da Repubblica.
Ci racconta di un’azienda australiana, la MBD Energy, che ha avviato dei progetti mica male. Voleva usare gli scarti e le emissioni inquinanti per produrre nutrienti. Uno dice: toh! Ma questi sono i principi della blue economy. Esatto.
C’è anche un discorso sulla cattura della CO2, ma non nel senso cui siamo abituati con le centrali a carbone. Non servono caverne o siti sotterranei. Il procedimento è molto diverso.
A Melbourne è stato realizzato un impianto di 5000 mq pieni di micro-alghe verso le quali viene indirizzata la CO2. Come abbiamo già visto, le alghe aumentano la propria biomassa assai più rapidamente del normale. Le alghe selezionate raddoppiano il proprio volume in appena 48h. Giunte a maturazione vengono pressate: il 35% è trasformata in olio usato per la produzione di combustibile e plastiche, mentre il resto è convertito in farine ad alto contenuto proteico, destinate all’alimentazione animale o alla creazione di biomasse. Questo nel 2009. Oggi il sito della MBD Energy mostra con orgoglio i risultati raggiunti e scrive: MBD Energy sta cercando di costruire un futuro con energia più pulita riutilizzando gli scarti industriali.
Complimenti!