Riassunto
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Blue economy 3Partiamo dal fatto che la società in cui viviamo non è in grado (se volete non è “più” in grado) di porre rimedio al disastro che il suo sviluppo ha provocato. Il discorso si muove sia sulla strada dell’ambiente che di quello economico. Da un lato abbiamo sovraccaricato il nostro pianeta pretendendo enormemente più di quello che è in grado di offrire e dall’altro abbiamo basato tutto su un’economia che da diversi anni mostra tutte le sue crepe. Questa trasmissione si occupa di ambiente ed è quindi chiaro che ad esso mi rivolgo preferibilmente, lasciando ad altri il compito di raccontarvi perché l’economia occidentale è in crisi e lo sarà sempre di più. Non è però un mistero che la fissazione sulla crescita dei consumi, avendo a disposizione solo materie prime a termine, rappresenti un difetto non da poco anche da un punto di vista logico. Lo stesso modo lineare di progettare la produzione, dalle materie prime al consumo al rifiuto, quando il prodotto non serve più è, alla lunga, perdente. Un processo lineare infatti produce profitti immediati per molti, ma è in realtà il modo più rapido per accumulare debiti nei confronti della natura, dell’umanità e dei suoi abitanti. Il problema dei rifiuti è forse quello più grave e di più difficile soluzione, se si rimane all’interno dell’economia attuale, basata sul consumismo. Nessuna soluzione è ragionevole. Non lo è quella delle discariche, nelle quali vengono perse quantità immense di preziose risorse; non lo è quella degli inceneritori per lo stesso motivo e chi ci racconta la frottola che in quel modo recuperiamo energia o è coinvolto nei profitti o è uno sciocco che non sa niente dei principi basilari della fisica, come quello di conservazione dell’energia. La realtà, quella vera intendo, è che l’energia contenuta nei prodotti bruciati se ne va in fumo e cenere per almeno il 90%. I cosiddetti termovalorizzatori insomma non valorizzano proprio nulla (se non i conti correnti di chi li gestisce); sono in realtà delle macchine che sperperano quantità immense di energia e materie prime, producendo, tra l’altro, gli stessi problemi di ogni altro centro di produzione in cui vengono bruciate materie contenenti inquinanti, come ad esempio la plastica. Insomma, dal punto di vista della medicina, non c’è differenza tra una fonderia, un cementificio e un inceneritore: da tutti escono sostanze potenzialmente dannose per la salute dei cittadini.
A questa situazione cerca di rimediare la green economy, scegliendo, soprattutto, di usare fonti energetiche non inquinanti, rinnovabili come il sole o il vento. E’ una buona prospettiva e non si può negare che questa nuova visione del mondo abbia prodotto risultati considerevoli, se oggi ci sono paesi, come la Svezia, in cui oltre la metà dell’energia è prodotta con fonti rinnovabili. Se vogliamo trovare un difetto alla green economy, questo sta nella necessità di usare tecnologie sempre più avanzate e, come tali, sempre più costose. Insomma per salvare la nostra possibilità di restare su questo pianeta occorre cacciare più soldi. C’è un passaggio, nel libro di Pauli, che riassume bene, a mio avviso, questa situazione. E’ quando dice:
Ottenere gli stessi risultati che non si riusciva ad avere in periodo di vacche grasse, quando le cose non vanno per niente bene è cosa terribilmente complicata. Come si può mai apprezzare la green economy se tutto quello che va bene per noi e per l’ambiente è molto costoso? Si potrà mai apprezzare una economia in cui tutto quello che danneggia noi e l’ambiente costa poco? E’ questa l’economia di mercato?”.
Ma c’è un altro aspetto da sottolineare a questo proposito ed è forse quello più importante. Lo sviluppo in senso consumistico non ha riguardato il mondo intero. Dal momento che le risorse non potevano bastare per tutti, c’è stata una divisione delle popolazioni in quelle che avevano tutto e anche di più, quelle che avevano meno ed infine quelle che non hanno avuto proprio niente. Questo aspetto, diciamo così, sociale o se preferite etico e morale della nostra società, nasce direttamente dal modo in cui essa si è evoluta.
Prendiamo un altro esempio. Oggi con alcuni cereali e altre piante facciamo combustibili per i motori delle automobili. In Brasile, le macchine non usano benzina o gasolio, ma alcool, ricavato dalle loro immense coltivazioni di cereali come il mais. Purtroppo, questo porta ad una competizione tra il mais destinato alle automobili e quello destinato alla polenta, con conseguente aumento dei prezzi, che diventa pesante soprattutto nei paesi non sviluppati. E’ un altro caso di una buona idea, che tuttavia ha conseguenze che non sono desiderate.
E allora arriviamo alla blue economy. Potremmo dire che all’inizio ci sono i rifiuti, che rappresentano, come detto, l’emblema della nostra società, contro cui la green economy ha innalzato il vessillo del riciclo e del recupero e anche, specie da movimenti come quello della decrescita, della non produzione di beni in eccesso o inutili per la nostra vita di tutti i giorni. Guardatevi attorno nelle vostre case e provate a fare un elenco degli oggetti che sono superflui, il che significa che senza di essi potreste vivere bene lo stesso. Poi contateli, valutateli e pensate a quanto pane e salame avreste potuto comprare al loro posto. La differenza è tra gli elementi che garantiscono la sopravvivenza e quelli che invece non lo fanno.
Certo, siamo coinvolti in tutto questo e difficilmente rinunceremmo alle comodità eccessive di casa nostra, alla tecnologia che ci permette di accedere alle informazioni o di accendere gli oggetti da remoto e così via, ma questo non toglie che non sia sbagliato, quando vediamo che miliardi di persone non hanno di che sostenersi.
I rifiuti dunque. La blue economy parte da questo presupposto: i rifiuti non esistono. Sono solo materie prime che scartiamo perché siamo ignoranti. E se siamo ignoranti allora dobbiamo imparare da chi è migliore. Il miglior produttore in assoluto è la natura, i cui cicli di produzione sono sempre circolari, non sfruttano energie prodotte, ma solo quella del sole, non sprecano risorse e non producono mai rifiuti.
Blue economy 3Questa ultima frase non è esatta, in quanto i rifiuti vengono prodotti: forse potremmo chiamarli scarti di lavorazione. Ma essi vengono riutilizzati da qualche altro processo. Ogni ecosistema si è evoluto in modo da diventare autosufficiente, sfruttando quello che ha a disposizione localmente e sfruttano gli scarti di altri ecosistemi. Questo modo di procedere è detto economia a cascata, nel senso che gli elementi scartati dall’ecosistema A vengono usati come materie prime dall’ecosistema B e gli scarti di quest’ultimo sono materie prime per l’ecosistema C e così via. Ecco dunque l’idea di Pauli: copiamo la natura, scopriamo le leggi fisiche, chimiche e biologiche che essa utilizza e applichiamole nella nostra società. Sfruttiamo gli scarti (o se volete i rifiuti) di un processo di lavorazione A come materie prime per un altro processo B, esattamente come avviene in natura.
La blue economy non li chiama né rifiuti né scarti, li chiama nutrienti e in questo termine c’è molto della filosofia di questa strategia.
Gunter Pauli ha fondato l’associazione ZERI, in cui centinaia di tecnici, professionisti, imprenditori, scienziati cercano di trovare la strada per applicare nella realtà i progetti studiati a tavolino. Lo ha fatto per alcune centinaia di essi, molti dei quali sono realtà che riducono drasticamente l’impatto della società sull’ambiente e, frequentemente lo azzerano. Ma sono anche processi che producono profitto per chi ha investito e una quantità molto grande di posti di lavoro.
Nell’ultima puntata abbiamo visto di sfuggita alcuni esempi, oggi ne vedremo degli altri, che analizzeremo più a fondo e, ne sono certo, rimarrete stupiti e affascinati da quelle che non ho paura a chiamare avventure fiabesche.

Paolo Lugari il creatore di foreste

Questa storia l'ho già raccontata, ma vale la pena ripeterla, perchP è la più eclatante della Blue economy.Oggi vi voglio raccontare una di quelle storie, storie di uomini e donne, che hanno saputo prendere quello che di buono il pianeta è ancora in grado di offrire e di aumentarne la portata, condividendolo con tutto il popolo della zona in cui queste persone, queste associazioni e queste aziende operano. É, per farla breve, in questo periodo di incertezza sanitaria causata dal Corona Virus, una boccata di aria buona, in un clima così triste, fatto di isolamento in casa, di uffici e negozi chiusi, di amici lontani, di coppie spezzate dalle distanze.
Di azioni positive in questo senso possiamo contarne moltissime. Spesso però non arrivano alle orecchie della gente comune o perché è meglio non si sappia che ci sono modi alternativi a quello delle multinazionali di far girare l’economia o perché sono confinate in zone del mondo che non hanno lo stesso appeal degli stati che ci sono vicini. Ed è sicuramente più semplice parlare delle partite di calcio sospese che dei vantaggi che un’idea, per geniale che sia, sa produrre.

La storia che sto per raccontarvi, si svolge in Colombia e ha come protagonista un discendente di emigranti veneti, di Belluno per la precisione. Lui si chiama Paolo Lugari e questa avventura, perché di una incredibile avventura si tratta, comincia alla fine degli anni 60.
Un giorno il giovane Paolo, in compagnia di suo padre, sta costeggiando il fiume Orinoco, un corso d’acqua molto importante, il secondo per portata dell’America Latina. Attraversa la Colombia e il Venezuela, e finisce la sua corsa nell’Oceano Atlantico un po’ più a Sud di Trinidad e Tobago. Il terreno sui quale cammina Paolo è di quelli aridi, molto acidi, privi di acqua potabile, una specie di savana. A nessuno verrebbe in mente di fermarsi proprio là.
Che ci stai a fare?
Eppure quel pazzo di Lugari chiede alle autorità locali se il terreno è in vendita e quanto costa. Ovviamente il prezzo è coerente con la qualità della terra: solo 6 dollari all’ettaro, molto meno del pane o di qualunque altra merce vi possa venire in mente. Così ne compra una bella fetta, con in testa una visione: trasformare quella landa deserta e inabitabile in un luogo da sogno, pieno di alberi e di vita, con pozzi e falde piene d’acqua e coltivazioni ovunque.
A questo punto, chiunque segue questo racconto, si aspetta che il nostro bravo Paolo si svegli tutto sudato, scuota la testa e se ne vada per la sua strada, maledicendo il caldo, la siccità, la polvere e le zanzare.
Ma non è così, si tratta di una storia vera, che ha dell’incredibile, questo sì, ma che è certificata da cima a fondo.
Dunque il visionario Paolo decide di mettersi all’opera.
Qual è la prima mossa da fare? É sicuramente quella di piantare degli alberi e lasciarli crescere. Lui sa che creare delle zone d’ombra potrebbe cambiare anche il clima in quella zona. L’ombra renderebbe il terreno più fresco e la differenza di temperatura a qualcosa potrebbe portare.
Se ci pensate è come andare a ritroso nel tempo, sovvertire completamente il ciclo della vita altrove, dove il cambiamento del clima trasforma terreni fertili in terreni desertici o quanto meno secchi e aridi. Forse ha avuto ragione Gabriel Garcia Marquez a chiamare Paolo Lugari “l’inventore del mondo” … ma torniamo alla sua storia e vediamo cos’ha combinato questo ecologista colombiano.
Chiama a raccolta un gruppo di studiosi, professori, tecnici, agronomi e li ascolta.
Il risultato finale, che oggi chiunque può ammirare, si chiama Las Gaviotas, letteralmente “i gabbiani” ed è una foresta rigogliosa, ricca di vita e di attività, che hanno davvero dell’incredibile. Lo racconterò, ma per stuzzicare la vostra curiosità, pensate che da quel deserto arido e acido, oggi escono bottiglie di acqua che vengono vendute nelle città vicine.
La domanda che noi ci facciamo è “come diavolo ci è riuscito?”. Siamo talmente abituati ad assegnare alla moderna tecnologia i risultati straordinari che ogni giorno leggiamo sui giornali specializzati che pensiamo a quale investimenti abbia dovuto fare Lugari in apparecchiature, tecnici, scienziati e così via. Ne ho parlato anche nell’ultima puntata di questa trasmissione a proposito delle nuove tecnologie per la gestione dell’irrigazione dei terreni in difficoltà. Sono serviti satelliti, droni, sensori a terra, tecnici e scienziati. Insomma qualcosa di complesso e, cosa che non è secondaria, un bel po’ di soldi.
Bene. Niente di tutto questo.
Prima di entrare nei dettagli di questa storia, voglio sottolineare una cosa importante. Le Nazioni Unite hanno definito questo incredibile sistema, un “modello di sviluppo sostenibile”, il che esclude il ricorso a metodologie invasive dell’ambiente o che abbiano prodotto un aumento dei gas serra, anzi …
Il percorso di Lugari è citato come uno dei migliori risultati di quella Blue economy, di cui Noncicredo vi ha parlato molte volte e che pone alla base dello sviluppo processi naturali, interpretati e fatti propri dall’uomo per un qualunque tipo di produzione. Gunther Pauli, scrittore belga, ne è il riferimento principale, con i suoi libri che contengono centinaia di esempi pratici di come, in molte parti del mondo, questa metodologia abbia saputo superare problemi gravi, legati alla produzione di cibo, all’eliminazione di inquinanti e alla bonifica di zone decisamente poco salubri. Se seguirete il discorso, capirete, dall’esempio di Las Gaviotas, di cosa si tratta.
Dunque, per usare una terminologia cui ci siamo abituati, Paolo Lugari ha fatto un “copia-incolla”, prendendo come origine la natura con i suoi processi fantastici, tutti perfettamente sostenibili, tutti senza mai un solo fallimento, tutti senza produrre mai disoccupazione. Basta guardarli, studiarli, capirli e poi applicarli.
Certo che ci voleva tutta la testardaggine di un figlio delle Dolomiti e l’incosciente pazzia visionaria di un giovane ambientalista per immaginare che quel deserto potesse trasformarsi in qualcosa di diverso. La zona presa in considerazione fa parte dei Llanos, una vasta depressione che si estende tra Colombia e Venezuela ed è caratterizzata da grande siccità, terreno arido e acido: insomma una zona in cui non vorresti vivere nemmeno se fossi pagato.
Un terreno così mal ridotto non poteva che avere un prezzo molto abbordabile. Come detto si parla all’epoca (il progetto parte ufficialmente nel 1971) di circa 6 dollari all’ettaro. Non che Lugari possa permettersi molto, ma interviene un professore della più antica università colombiana e membro di quel Club di Roma, di cui tante volte ho parlato qui a Noncicredo. Il professore è Mario Calderon Rivera, umanista e grande personaggio colombiano, morto a 81 anni nel 2014. É lui a finanziare l’acquisto dei terreni, forse avendo anch’egli una visione un po’ pazza del progetto di Paolo Lugari.
Certo che, a pensarci, all’inizio c’è da farsi cadere le braccia, perché nessuna delle colture messe a dimora riesce a resistere: niente di niente. Troppo sole, niente acqua, un disastro. E per di più un terreno molto acido: qualsiasi cosa si pianti, muore.
Poi, quasi per caso, la soluzione.
Un agronomo venezuelano suggerisce a Paolo Lugari di piantare un albero particolare, un pino (Pinus caribea) che attecchisce ma quell’albero non porta nessun vantaggio: non ha un ruolo che possa far pensare alla produzione di cibo o di qualsiasi altra sostanza da destinare al commercio. Poi, però, le osservazioni fanno notare qualcosa di molto strano. Tra tutti i pini piantati, qualcuno cresce più in fretta di altri. Sono quelli alla base dei quali cresce un fungo, il Pisolithus Tinctorius.
Un caso? o forse no? Sembra che ci sia una specie di scambio di favori tra i funghi e le radici delle piante. Se cercate sul vocabolario il termine “micorriza”, troverete definizioni piuttosto complesse. La Treccani dice: “Combinazione strutturale e funzionale del micelio di un fungo con la radice di una pianta.”
Cosa significa? Il fungo si preoccupa di recuperare dal terreno acqua e sali che fornisce alle radici della pianta; questa cede al fungo i carboidrati che riesce ad elaborare.
Micorriza infatti è composto dalle parole greche mykos (fungo) e rhiza (radice). Si tratta di una specie di catena di montaggio che funziona alla perfezione. E questo è quello che avviene anche a Las Gaviotas tra il Pisolithus e il Pinus caribea.
Sembra una storia incredibile, per cui cerchiamo di capire meglio cosa è successo. É lo stesso Paolo Lugari a raccontare questa storia, la storia della sua piantagione di pini.
Cominciamo dai semi del pino tropicale, raccolti in due foreste: in quella Mosquitia, che si estende tra Nicaragua e Honduras e in quella Maya del Peten in Guatemala.
Ma il risultato è pessimo; le piante non attecchiscono e dopo poco muoiono. Un anno dopo Pietro Lugari torna nella foresta Mosquitia e osserva che ci sono alcune piante che sono nettamente più vigorose delle altre. Sono quelle circondate alla base da funghi. Così Pietro raccoglie non solo le sementi dei pini, ma anche le spore dei funghi, che finiscono sotto terra, assieme alle sementi delle piante. Ed ecco il miracolo fatto dalla natura: bastano pochi anni per trasformare 8 mila ettari di terreno arido in un giardino di pini.
Il risultato è molto più straordinario di come sembra e si fa fatica a credere che stiamo parlando della realtà e non di un romanzo di fantascienza. In effetti, però, l’unione simbiotica tra queste due specie (il fungo e il pino) non solo ha garantito la sopravvivenza del 92% delle sementi, ma ha addirittura cambiato le caratteristiche fisiche della regione.
Va anche tenuto presente dove ci troviamo, “nel tropico del tropico”, per usare un’espressione di Lugari, dove i raggi del sole sono a picco durante tutto l’anno e quindi dove appare difficile per le piante crescere e sopravvivere. Evidentemente il nutrimento garantito dal fungo, consente alla pianta di raggiungere in fretta la sua maturità. Il resto è una concatenazione di effetti meravigliosi.
La foresta che si è sviluppata protegge con la sua ombra una zona molto estesa, che risulta così protetta dai raggi ultravioletti del sole. Il caldo c’è e fa cadere gli aghi dei pini a terra, dove quindi si forma un tappeto di foglie, che aumenta l’umidità del terreno e trattiene anche i detriti in decomposizione. La temperatura del terreno così si abbassa e l’acqua che cade viene assorbita. É una trasformazione consequenziale e, anno dopo anno, l’arida savana dei Llanos si trasforma in una foresta, ricca di acqua potabile, con terreno fertile e, adesso sì, adatto a sostenere altre coltivazioni, altre piante.
Come accennato prima, Gunter Pauli è il giornalista belga che ha raccolto e spiegato moltissime tecniche della blue economy, tra queste anche la sorprendente vicenda di Las Gaviotas. Ecco cosa racconta Pauli al riguardo:
Una troupe giapponese arriva a Las Gaviotas per realizzare un documentario su questo fenomeno così strano e meraviglioso. Osservano delle nuvole che si muovono in cielo. Una volta giunte sopra la foresta comincia a piovere. E’ come se la natura stessa si mostrasse grata a Paolo Lugari perché quando piove nelle Llanos (e adesso piove molto più spesso di prima) l’acqua cade su Las Gaviotas. La nuvola di Fantozzi? Un miracolo per strani agganci celesti? Niente di tutto questo. Le nubi scaricano la pioggia su terreni più freschi perché il punto di condensazione dell’acqua si abbassa. E attorno alla foresta il terreno non protetto dai pini è decisamente torrido. L’idea di mettere assieme un fungo e un pino ha dunque trasformato perfino la meteorologia e, una volta tanto, il cambiamento climatico è decisamente molto vantaggioso. 
Gunter Pauli ha fondato un’associazione, chiamata ZERI, che sta per Zero Emission Research and Initiatives, (cioè Ricerca e Iniziative a Zero Emissioni) ed è una rete internazionale di 3000 tecnologi ed economisti, che intendono sviluppare nuovi processi produttivi, in cui gli scarti di un processo possono essere utilizzati come materie prime per un altro, in modo da ridurre drasticamente, se non evitare completamente, la produzione di scarti da eliminare in modo improduttivo e dannoso per l'ambiente.  Lo slogan è: "L'obiettivo è lo zero: zero incidenti, zero sprechi, emissioni zero”. La sua filosofia non è quella che vede il progresso e la scienza come mali da estirpare, ma quella di incorporare nel progresso sia il rispetto per l'ambiente, sia le tecniche usate dalla natura stessa, di fatto rendendo il processo produttivo parte di un ecosistema. E questa, in fondo, è la base di quella economia circolare di cui sentiamo parlare sempre più spesso.
L’idea geniale di Lugari è un esempio dei più classici di questa filosofia: usare i processi e i segreti della natura (proprio come la micorriza) per produrre benessere, di quello vero, a partire dalla lotta alla fame, alla malnutrizione, alla desolazione delle popolazioni locali. Lugari e Las Gaviotas entrano dunque di diritto e con grande merito nella Blue Economy. Lo ripeto: Lugari si è avvalso della consulenza di scienziati, specialisti, tecnici, che hanno dato una grande mano nella progettazione di questo fantastico sogno, come la maggior parte dei processi realizzati all’interno della Blue economy.
A Las Gaviotas, dal 1971, si procede per gradi, si fanno passi in avanti, magari piccoli ma sempre decisivi. L’energia che viene usata è poca, ma sufficiente. Si tratta di energia eolica, ottenuta da impianti che sarebbe meglio chiamare mulini invece che pale e, ovviamente, energia solare.
Una volta capito che la strada è quella giusta e che le prospettive potrebbero essere buone, ecco la domanda chiave: “Cosa ne facciamo di tutto questo ben di dio?
Sapete, come si dice: l’appetito vien mangiando e anche gli obiettivi di Lugari diventano sempre più ambiziosi, mano a mano che nuovi risultati vengono ottenuti.
Le risposte a questa semplice domanda vengono mano a mano, quasi in un concatenarsi di cause ed effetti. É perfino difficile stare dietro a tutto quello che è accaduto in quel lembo di terra. La cosa migliore da fare per capire cos’è nato nel deserto dei Llanos è collegarsi con il sito della fondazione, in spagnolo. L’indirizzo è centrolasgaviotas.org. La prima volta che vi sono entrato ho fatto fatica a credere a quello che vedevo: una foresta tropicale meravigliosa, piena zeppa di attività delle persone che vi vivono stabilmente.
Partiamo dagli alberi. Sono usati per estrarre la resina, che poi viene trasformata in loco in colofonia, una materia prima ricercata, che serve per produrre cosmetici, profumi, vernici. La quantità estratta dai pini è piuttosto elevata: circa 3 kg l’anno per 10 anni. Poi quelle piante vengono lasciate riposare per alcuni anni, quando la produzione può riprendere. Nel frattempo altre piante forniscono la resina, a rotazione.
C’è una fabbrica, targata ZERI, alimentata da pannelli solari, piccoli impianti eolici e una centrale a biomasse che usa il legname che non viene utilizzato per altri scopi, preso dalla foresta di Las Gaviotas, dunque a chilometro zero.
Una parte dell’area è riservata a vivaio. Là i pini vengono seminati e fatti crescere per circa un anno con la tecnica della micorriza, descritta prima. A quel punto vengono trasportati, a migliaia, nelle aree dove la foresta cresce ancora. Le foto aeree, presenti nel sito, mostrano le varie zone, quelle con alberi ancora giovani e quelle con alberi già maturi e pronti per entrare in produzione. É uno spettacolo incredibile.
Nel frattempo una pista di atterraggio per aerei è stata realizzata in mezzo alla foresta.
  • La merce prodotta a Las Gaviotas, che lascia davvero senza parole, è rappresentata dalle bottiglie di acqua. Sembra una boutade, una balla colossale, visto le condizioni di partenza del terreno. Eppure è tutto vero. L’aumento della piovosità, dovuto al raffreddamento del terreno causato dalla presenza degli alberi, ha rifornito le falde sotterranee, protette dall’ombra della foresta. Dunque in quella zona dei Llanos, si produce, incredibilmente, acqua in bottiglia, l’acqua “Las Gaviotas”, che ci assicurano essere di ottima qualità. Non viene solo bevuta dagli abitanti, ma anche venduta nelle città vicine, perfino nella capitale Bogotà, a 500 km di distanza.
  • Per rifornire i camion che vanno e vengono, sono state piantate delle palme che forniscono l’olio con cui si produce un bio-combustile in un impianto appositamente costruito in loco. Il tutto in un ambiente perfettamente sterile, così da garantire una qualità elevatissima del prodotto. E qui non si tratta di aver sostituito foresta con palme da olio: il biodiesel è assolutamente a zero emissioni.
Ci sono varie curiosità attorno a questa impresa. Ad esempio quella che l’azienda che imbottiglia l’acqua sorge dove, fino ai primi anni ’90, era attivo un ospedale molto particolare. In quanto veniva raffrescato con tecniche naturali, basate anche sulla realizzazione di gallerie sotterranee come fanno le termiti per le proprie costruzioni (questo delle termiti è un altro capitolo delle iniziative fantastiche documentate da ZERI all’interno della Blue Economy). Poi la politica sanitaria colombiana ha portato, per questioni burocratiche, alla chiusura della struttura medica. Ma le sale sterili sono rimaste, solo che adesso servono ad altro.
E già che c’erano, in questa specie di isola che non c’è, dove evidentemente i sogni sono costretti a diventare realtà, hanno cominciato a produrre tecnologie verdi per sostenersi. Specchi solari per riscaldare l’acqua prodotti nei laboratori di Las Gaviotas sono oggi in bella mostra nelle città colombiane. E poi pompe idrauliche, e impianti eolici nelle colline a nord di Bogotà. Interi quartieri di Bogotà, Medellin, Calì scaldano l'acqua o la pompano dalle falde con tecnologia "made in Las Gavoitas".
Pescicolura e allevamento di capre completano il cerchio.
Tutto questo consente, oltre che di tutelare l'ambiente, di produrre in modo completamente sostenibile, assorbire CO2 come quella prodotta da un paio di nazioni industrializzate dell'Europa, ridurre la deforestazione e le aree di siccità, procurare da bere e mangiare a centinaia di migliaia di persone (così è stimato l'indotto colombiano), aver indicato una strada per iniziative simili che si stanno già sviluppando in altre aree del mondo. Oltre a tutto questo (che basterebbe e avanzerebbe di per sè) ... consente di stipendiare gli abitanti-lavoratori di Las Gaviotas (ad esempio quelli che estraggono la resina dai pini) con paghe di circa 300 $ al mese, oltre al vitto e all’alloggio. Poco? É più del doppio di quello che prende un operaio nella capitale colombiana.
Ah sì ... adesso i terreni valgono 3000 volte più di quando sono stati acquistati, ma non sono in vendita.
Questa terra fiabesca si estende oggi su 12 mila ettari, come l’intera provincia di Rovigo, conta quasi 10 milioni di pini e, meraviglia delle meraviglie, ha visto nascere 250 specie autoctone, tipiche dei tropici umidi, che, ovviamente all’inizio non c’erano. Questo fa crescere la biodiversità oltre che il volume delle biomasse.
Ci vivono e lavorano dalle 300 alle 400 persone; nessun motore a scoppio, ma 250 biciclette a disposizione della popolazione. Un sogno!
Paolo Lugari, il guru, fa il modesto sostenendo che tutto il merito è della natura e dice: “Ciò che abbiamo fatto a Las Gaviotas è consentire alla diversità di fare il suo corso e produrre i suoi effetti: nulla di più. E dicendo diversità, intendo quella biologica ma anche quella culturale”.
Già … perché anche l’uomo e la sua cultura primordiale fanno parte della natura, solo che molti, con l’andare del tempo, l’hanno dimenticato

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Sicurezza alimentare in Africa

Dal SudAmerica ci spostiamo in Africa per capire come la Blue economy è intervenuta nel tentativo di sanare i due problemi più gravi: la sicurezza alimentare e la sopravvivenza da malattie. Vicino alla Nigeria c’è il piccolo stato del Benin, meno di 9 milioni di abitanti, superficie pari ad un terzo di quella italiana. La capitale è Porto Novo, 180 mila abitanti. Qui è nata, nel 1985, l’idea che ha portato alla realizzazione del Songhai Center, gestito da un prete domenicano, Godfrey Nzamujo. Obiettivo: risolvere il problema della fame in Africa. (maggiori informazioni qui)
Direte: nientemeno!?! E quando mai potrà riuscirci? In effetti lo avevamo detto anche prima del racconto su Las Gaviotas. Tutte le prove sono impossibili se non si prova ad affrontarle. Blue economy 3Vediamo com’è andata.
25 anni fa al sacerdote è stata regalata una piccola zona paludosa dall’allora presidente dello stato. Seguendo le logiche della blue economy padre Nzamujo si è inventato una straordinaria cascata di nutrienti.
Si parte dalle acque di scolo di umani e animali … per capirci si tratta di quelle acque nere che da noi finiscono nelle fognature, quando queste ci sono, altrimenti vanno a inquinare fiumi, laghi e mari. C’è una pianta che cresce in africa e viene da tutti considerata invasiva e quindi da eliminare. Si tratta del Giacinto d’acqua (nome latino Eichhornia crassipes). Se leggete la descrizione di questa pianta in rete, ad esempio in Wikipedia, resterete inorriditi, perché appare come un nemico mortale dell’ambiente, tanto che in alcuni ambiti dove è stata introdotta dal Rio delle Amazzoni, si studiano sistemi biologici per combatterne la diffusione. Nzamujo ha ragionato diversamente: da problema il giacinto è diventato una risorsa.
Raccolte le acque di scolo in una grande cisterna a tre scomparti, si è aggiunto il giacinto triturato con il risultato di avviare una produzione di metano, che offre energia per uso locale. Il materiale che rimane, mineralizzato, diventa mangime per zooplancton, fitoplancton e bentos. Scusate un attimo che vediamo cosa sono queste strane cose. Si tratta di quell’insieme di vegetali e animali che costituiscono il plancton, insomma il cibo per i pesci. Ecco dunque che si interviene su uno degli ultimi gradini della scala alimentare e a beneficiare, ovviamente, sono tutti gli altri, compreso l’uomo.
E siamo a due stadi della cascata.
Ma padre Nzamujo non si è fermato qui. Un altro problema tipico dei paesi caldi come il Benin sono le mosche. Ora credo sia lecito chiedersi come si fa a addestrare le mosche a diventare dei nutrienti per un qualsiasi processo. Ascoltate e vedrete.
E’ chiaro che si potevano usare degli insetticidi chimici, come quelli che utilizziamo nelle nostre case quando, delitto gravissimo, qualche mosca vola sotto i nostri lampadari. Ma in un ambiente adibito alla produzione alimentare che ambiva alla etichettatura biologica, proprio non si potevano liberare prodotti di quel genere. Serviva un’altra genialata, che la blue economy ha messo a disposizione. Gli scarti che diventano nutrienti questa volta sono quelli dei mattatoi di Songhai. Si tratta di materiali che nessuno utilizza né per mangiare né per altro. Vengono raccolti in una zona apposita dove centinaia di quadratini di cemento profondi 20 cm sono circondati da canali popolati da carpe. L’area viene ricoperta con un’enorme rete, di modo che gli uccelli non riescano a passare. Chi può passare sono le mosche, che si trovano davanti un banchetto al quale non sanno resistere. Depositano le loro uova nelle carni e così quella zona diventa un vero e proprio allevamento di larve, con una produttività straordinaria di circa una tonnellata al mese. Si cosparge di acqua il tutto facendo affiorare le larve che possono così essere recuperate. La domanda adesso diventa: cosa ce ne facciamo di una tonnellata di larve di mosca al mese?
Le risposte sono più d’una.
A livello locale vengono date alle carpe e alle quaglie che vengono così allevate senza mangimi chimici o schifezze così frequenti nei nostri allevamenti. Le uova delle quaglie e i pesci sono diventati un emblema per battere, in quella zona, la fame e garantire sicurezza alimentare.
Ho però detto più volte che la blue economy vuole essere una economia a tutto tondo e produrre profitti a chi si lancia in queste iniziative così … come dire? romanzesche!Blue economy 3
In effetti il potenziale economico maggiore delle larve sono i loro enzimi, che possiedono proprietà medicinali soprattutto per la cicatrizzazione delle ferite. Ma come si fa a estrarre questi enzimi da larve che devono rimanere vive per essere poi mangiate da quaglie e pesci? Anche qui la soluzione è semplicissima: le larve rigurgitano se immerse in acqua salata. La terapia a base di larve è approvata da tutti i governi del mondo, specialmente per pazienti diabetici. Effetti nel mondo?
Sì. A nord di Città del Capo in Sud Africa, David e Jason Drew hanno raccolto milioni di dollari per replicare l’iniziativa di Songhai. Oggi dirigono un’azienda, la AgriProtein, che nel 2014 ha superato come produzione Songhai. Potete, se volete visitare il loro sito: agriprotein.com: non spaventatevi ad accogliervi nella home page c’è una grande mosca. In fondo è da lei che tutto è cominciato.
.La stessa Università di Bogotà, in Colombia, sta seguendo questa strada sotto la guida del professor Hilderman Pedraza Vargas. Una dozzina di nuove imprese sono state aperte nel 2015. Facendo una proiezione, secondo l’associazione ZERI, questa attività potrà produrre solo in Africa oltre mezzo milione di posti di lavoro.
Ah sì, l’ultima cosa: a Songhai, al di là della zona di produzione, non vola una mosca.

Le carote di Gotland

Bravi, dice uno: avete preso le zone più disastrate del mondo dove non è certo difficile migliorare la situazione. Potrà magari essere vero, anche se il passo avanti non è di quelli piccolini, ma adesso cambiamo continente e ci trasferiamo in Europa, poi negli Stati Uniti per tornare infine in un’isola piena di sole nell’Oceano Atlantico.
Cominciamo recandoci a Gotland, una piccola isola nel Mar Baltico, in territorio svedese. Un’isola bellissima, ricca di chiese e abitazioni pittoresche, richiama circa un milione di turisti l’anno, tutti concentrati nel breve periodo estivo, dopo di che Gotland torna ad essere un mortorio. Lo diventa anche economicamente, se tutta la produzione di benessere è concentrata sul turismo. Così all’inizio del millennio il professor Carl Goeran Heden invita ogni cittadino dell’isola a immaginare assieme possibili soluzioni che sollevino le sorti di questa meravigliosa contrada. Un secolo fa era stata introdotta la barbabietola da zucchero, ma poi la globalizzazione aveva spazzato via le colture assieme alle speranze di un miglioramento. L’agricoltura non è incentivata per niente, fatta eccezione per le carote, ma carote speciali, dal gusto sopraffino grazie al pH del terreno, molto alto, decisamente alcalino. I problemi della produzione di carote sono di duplice natura. Da un lato i trasporti: essere in mezzo al Mar Baltico pone qualche difficoltà e poi c’è la questione delle dimensioni del prodotto. Spesso parte del raccolto viene perduto perché le carote non sono conformi alla rigida normativa sulle loro dimensioni.
Blue economy 3Ed è qui che interviene un banchiere locale, certo Hakan Ahlsten, particolarmente goloso di torta di carote. La cittadinanza è chiamata a partecipare alla definizione della migliore ricetta possibile per la torta più squisita. Il dolce viene surgelato appena sfornato e può viaggiare ovunque. Oggi le torte di Gotland hanno un enorme mercato non solo in Svezia, ma viaggiano oltre confine fino in Asia. Nei primi cinque anni di attività, i posti al forno locale sono passati da 5 a 30.
E non è tutto qui: occorre fare in modo di sfruttare l’intero raccolto. Yngve Andersson ha dei soldi da parte e li investe nella progettazione e realizzazione di un centro di calibrazione delle carote. Magari vi farà ridere gestire un prodotto agricolo come i tondini di ferro di un’acciaieria, ma l’idea funziona. Adesso quasi tutto il raccolto può essere utilizzato alla faccia di lunghezza, rotondità e diametro. Così anche le carote più piccole hanno avuto il loro momento di gloria: sono state mandate sul mercato come “carote baby”, raccogliendo consensi e quindi introiti. D’altro canto quelle più grosse che non avevano mercato vengono trasformate in succo, un prodotto di nicchia, ma molto remunerativo. Ricordo sempre che ove ci sono profitti e non si rovina l’ambiente crescono posti di lavoro in attività sostenibili.
La polpa scartata diventava mangime per suini. Ci risiamo con la cascata dei nutrienti, non vi pare?
Ma, sapete come si dice, l’appetito vien mangiando e il passo successivo è quello di mettere sul mercato i prodotti per dodici mesi l’anno e non solo nel periodo di maturazione delle carote. Per questo serve un magazzino con temperature attorno a 0°C e per mantenere quella temperatura serve una grande quantità di energia. ll nostro amico Andersson allora si assume il rischio di alimentare lo stabilimento con la sola energia eolica. E’ la mossa vincente: torte, carote, baby e succo, viaggiano da un capo all’altro del mondo e la spesa per gli impianti sono presto ammortizzati. Inoltre i posti di lavoro passano a 250, che per la piccola isola in mezzo al mar Baltico non è un risultato da poco.
Questo è, ovviamente, un esempio diverso dai precedenti. Qui non si tratta di salvare popolazioni dalla morte per fame o malattie, si tratta di fare affari. Ma questi affari seguono le regole precise della blue economy. Le risorse sono locali, alla portata, non hanno bisogno di far arrivare petrolio dall’Oriente o di scavare pozzi per cercare il gas di scisto. E’ la natura che offre la materia prima, all’uomo basta sviluppare un’idea semplice semplice: guardare quelle carote da un altro punto di vista che non sia quello tradizionale della brown economy, e il gioco è fatto.
Ora, che gli abitanti di Gotland siano un pochino dei pionieri è dimostrato dal fatto che questa non è l’unica genialata, anche se certamente la più clamorosa. Un’altra è la combinazione di pane e birra. La fabbrica di birra locale offre un’ottima birra, ma i residui dei cereali utilizzati per la lavorazione non vengono buttati. Vengono inviati al forno locale, che li usa per fare il pane. Un caso unico? No è solo il primo, perché questo sistema è stato emulato dozzine di volte dai produttori di birra in Giappone, Stati Uniti e Germania. Gesundheit, prosit, cin cin.

El Pueblo Picuri (New Mexico)

Ci sono molti altri esempi che attirano la curiosità di un osservatore attento.
Quello che è accaduto nel Pueblo Picuris è un altro chiaro esempio di blue economy.  Siamo negli Stati Uniti, in New Mexico: i Pueblo sono piccole comunità (il Picuris conta meno di 100 abitanti) che vivono con tradizioni ancestrali ben radicate. La zona è molto calda e il pericolo di incendi boschivi è molto elevato. Una legge dello stato prevede che vengano asportati i legni più piccoli in modo da ridurre i rischi. Invece di bruciarli semplicemente, vengono raccolti in un grande container e sottoposti ad un processo di combustione incompleta limitando così la produzione di fumi. Il risultato è un carbone vegetale.
Inoltre le tradizioni prevedono che nella foresta non possano rimanere i solchi tracciati dai veicoli che entrano per togliere i legni piccoli. Per eliminare le tracce è stato iniettato nel terreno la spora di un fungo autoctono. Due anni dopo le tracce erano completamente scomparse e, cosa certo non meno importante, i funghi diventano una importante risorsa alimentare. I resti della coltivazione di funghi, ricchi di aminoacidi, vengono usati come mangime per le mandrie di bufali che sono state reintrodotte e grazie alle quali si è sviluppato un mercato locale delle loro carni.
Ecco dunque che un processo incominciato per limitare il pericolo di incendi si trasforma in nutrienti ed energia per processi completamente diversi. Occorre ancora dirlo? Questa è la blue economy.

El Hierro autosufficiente (Isole Canarie)

Blue economy 3Così, per oggi, l’ultima fiaba della blue economy ci porta in Europa, precisamente in Spagna, alle isole Canarie, meta turistica frequentatissima, ma non per El Hierro a causa di una grave carenza d’acqua che ha indotto molti dei suoi abitanti, soprattutto giovani, ad andarsene in cerca di una condizione di vita migliore. Ad un certo punto il governo spagnolo vuole costruire un impianto radar sull’isola. I cittadini di El Hierro, la più piccola delle isole Canarie, si oppongono, ma si rendono conto che se non vogliono che l’isola non abbia alcun valore, devono renderla indipendente da un punto di vista energetico e idrico. L’inconveniente però è dietro l’angolo: ci vogliono 10 milioni di dollari l’anno solo per il carburante che faccia funzionare i generatori.
Di fronte a questa cifra, il vice sindaco Javier Morales pensa di destinare i soldi di dieci anni, cioè 100 milioni, per avviare un programma basato su energie rinnovabili. Anche il governo spagnolo dà una mano stanziando 54 milioni di dollari. Ci vogliono 17 anni per arrivare a realizzare questo progetto, ma alla fine del 2014 l’isola usa solo energia eolica, che produce in quantità così abbondanti da poterne destinare una parte per pompare acqua in un vecchio bacino vulcanico, usato come invaso per la produzione di energia con un impianto idroelettrico. Quando manca il vento c’è quella riserva di energia da usare. Ne avanza ancora e con quella si desalinizza l’acqua marina e anche la questione idrica è risolta. Oggi gli isolani hanno il doppio dell’acqua a metà prezzo e questo risparmio ha stimolato una ripresa delle attività produttive: il mattatoio ha riaperto, è sorta una fabbrica di formaggio e yogurth, che trasforma il latte di pecore e capre, che hanno ripopolato i pascoli. Banane e ananas biologici aumentano la disponibilità di cibo e gli oli usati vengono trasformati in biocombustibile. Una economia prosperosa, un tasso di disoccupazione tra i più bassi di Spagna, i giovani non emigrano più: la ricerca di lavoro è più facile sull’isola dove sono nati.
El Hierro è la prima isola al mondo ad essere energeticamente autosufficiente attraverso impianti ad energia pulita. (Articolo del 2014 su El Hierro qui)
Questi sono alcuni esempi di applicazione della blue economy. In tutti i casi ci sono problemi spesso gravissimi che vengono risolti. Non è questo il cambiamento che chiediamo?