Introduzione
Ci occupiamo di un personaggio che è diventato, forse suo malgrado, un eroe popolare, un vero mito, una icona di un certo modo di intendere la politica e la lotta per i diritti e la giustizia. Che questo sia avvenuto al di là dei suoi meriti è un dibattito aperto e, come sempre quando c’è di mezzo lo schierarsi politicamente, ci sono quelli che lo incensano come un santo e i detrattori che ne fanno un diavolo maledetto.
Qui cerchiamo di raccontare la storia dell’uomo, i suoi pregi e i suoi difetti, sempre attenendosi a quanto accaduto, che, come sempre dico, non può essere modificato da nessuno. Ma l’uomo è chiuso all’interno di un personaggio politico che tutti conoscono: qui vorrei raccontare la storia di Ernesto Guevara della Serna, per tutti, semplicemente “el Che”.
Se entrate in un negozio di magliette estive, vedrete che difficilmente ne manca una con sopra l’effige di un uomo adulto, di bell’aspetto, barba e sguardo fiero. In testa ha un basco con disegnata una stella gialla. Quell’uomo è Ernesto Guevara, ma nessuno lo chiama così da molto tempo. Per tutti è semplicemente el Che.
É morto, ammazzato, nel 1967. Sono passati più di 50 anni, ma il suo ricordo non ha mai avuto una flessione e ancora oggi se chiedi a qualcuno quale guerrigliero conosce, il suo nome è sempre il primo della lista. Dovremo essere bravi a capire il perché di tutto questo. Ma cominciamo dal principio.
Rosario, Argentina: il giovane Ernesto
14 giugno 1928, Rosario, Argentina. Nasce un bambino: si chiama Ernesto Guevara de la Serna. É fortunato, Ernesto, perché in un continente dove la povertà è di casa, viene al mondo in una famiglia benestante. Suo padre è un imprenditore che non fa mancare nulla ai figli, anzi. La madre proviene da una ricca famiglia di allevatori di bestiame, è una donna colta, ai passi col tempo. Femminista e atea, interessata all’arte e alla letteratura. I genitori hanno tutti antenati europei, baschi e irlandesi il padre, spagnoli la madre. É un ambiente in cui chiunque vorrebbe nascere. Si respira libertà, possibilità di viaggiare, libri a non finire, di ogni genere, compresi quelli legati al marxismo e al leninismo, ma non solo.
Passa dalla poesia di Pablo Neruda alle pagine che raccontano le gesta eroiche del rivoluzionario Jose Martì, eroe nazionale cubano, che nel XOX secolo si batte per l’indipendenza dalla Spagna
, un mito per tutta Cuba, anche quella castrista che verrà. Non mancano i testi di politica: Marx, Lenin per la teoria, ma è affascinato dai grandi condottieri popolari come Emiliano Zapata e Simon Bolivar.
Non sono anni in cui ti puoi distrarre da quello che accade nel mondo. Quando è ancora ragazzino scoppia la seconda guerra mondiale, compare il nazismo e il fascismo, la guerra civile in Spagna. Si delineano gli schieramenti politico-sociali, proprio come Marx aveva predetto: il capitalismo da un lato, le energie del proletariato dall’altro. Bisogna decidere da che parte stare, ma per il giovane Ernesto è ancora presto per una scelta così complicata.
Dall’altra parte ecco novità veramente grosse: nel 1948 l’Assemblea delle Nazioni Unite emana la dichiarazione dei diritti umani, che comincia così:
“Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”.
Le sue scelte cominciano a palesarsi un po’ alla volta. Tutti quegli avvenimenti indirizzano il suo pensiero verso sinistra. Vuole contare, aiutare l’umanità, soprattutto quelli che non sanno difendersi da soli. Decide così, anche per questo: diventerà un medico.
Come ragazzo ha un temperamento molto forte. La sua salute non è il massimo, con l’asma che non gli dà pace, ma anche questa difficoltà contribuisce a convincersi che non si può e non si deve cedere alle difficoltà, gli ostacoli vanno semplicemente superati senza abbattersi mai. Questo spirito lo accompagnerà lungo tutta la sua vita.
Sì, viaggiare …
Ernesto si rende presto conto che un conto sono gli studi e altro la vita reale. Come è fatto il suo paese, quali dinamiche si sono sviluppate nel suo interno, quali popolazioni lo abitano, che desideri hanno e, soprattutto, quali disagi devono sopportare?
Non c’è che un modo per saperlo: andare di persona, fare dei viaggi. Ne farà parecchi nella sua vita, a cominciare dal primo, nel 1950. Parte da solo, diretto a Nord verso le zone rurali dell’Argentina. Percorre circa 4 mila chilometri, visitando città, piccoli villaggi, chiedendo alla gente del posto, imparando da loro. É interessato non certo alla bellezza del paesaggio, ma alla situazione sociale e organizzativa. Chiede se le scuole funzionano, se ci sono ospedali, quali prospettive abbiano i giovani, come viene retribuito il lavoro dei campi. É il periodo del peronismo in Argentina, quando ci sono accese discussioni sulla tutela dei lavoratori, sulla giustizia sociale. Comincia a capire che le disuguaglianze ci sono, spesso sono molto profonde, con zone di grande povertà e con approfittatori. Il seme di una cultura di sinistra cresce ad ogni passo.
Il secondo viaggio, più breve, lo porta in Patagonia, una zona dove vivere e resistere sono verbi che stanno spesso nella stessa frase. Impara ancora e ancora, ma …
Non è soddisfatto, vuole saperne di più, perché, in fondo, l’Argentina è un paese latino americano e bisogna anche confrontare la sua vita con quella dei suoi vicini, gli stati confinanti.
Così, quando torna, nel 1951, organizza un viaggio che rimane storico, perché viene raccontato negli anni a venire da film, documentari, libri. “I diari della motocicletta”, nelle varie forme espressive, sono il diario di questo viaggio, ma non è solo questo. I racconti colgono gli aspetti socio politici di quella che sarà poi la fede politica di Guevara. Molti incontri saranno determinanti per il suo futuro di guerrigliero e, a volte, anche di medico.
Ma andiamo con ordine. Nel caldo estivo dell’Argentina, alla fine di dicembre 1951 si parte. Con lui c’è il suo grande amico Alberto Granado, suo grande amico, futuro biologo e testimone non solo degli anni giovanili di Ernesto, ma anche dell’avventura a Cuba, dove fonderà una Scuola Medica a Santiago.
Lui è importante anche perché possiede una vecchia motocicletta Norton 500, che sarà la loro compagna di viaggio finché ce la farà. Forse il nome assegnato al veicolo, “Poderosa II” non è il più azzeccato.
E comunque partono da Grenada e il 4 gennaio 1952 arrivano a Buenos Aires.
I diari della motocicletta
Il viaggio del 1952, quando Ernesto, studente di medicina, ha 23 anni, è quello sicuramente più formativo del suo carattere ma anche del suo modo di vedere le cose, di interpretare le vicende umane che incontra, di formarsi anche politicamente. Per questo, i suoi diari del viaggio, raccolti nel libro “Notes de viaje” forse più conosciuti come “Latinoamericana”, sono così importanti. Sono pubblicati a Cuba nel 1992 e un anno più tardi anche in Italia.
Alberto Granado è un po’ più grande di Ernesto, ha 29 anni, una laurea in biochimica e sarà prezioso, dopo la morte di Guevara per tracciarne l’immagine e raccontarne le gesta.
Dunque si parte. In sella alla mitica Poderosa II, moto del 1939, probabilmente non adattissima ad un viaggio che si prospetta lungo e con tratti di strada complicati. É un’avventura. Si portano dietro solo lo stretto necessario: medicine di base, carte geografiche una piccola tenda e l’immancabile macchina fotografica, perché quello che verrà loro incontro non sia soltanto l’eco di una sensazione passeggera. Nonostante la morto sia decisamente poco adatta, servirà anche ad incuriosire la gente che incontrano, a facilitare i contatti e di conseguenza le conoscenze che potranno acquisire. Poim anche la Poderosa non ce la fa più e bisogna lasciarla morire per strada e proseguire con altri mezzi, sempre di fortuna oppure a piedi.
DA Buenos Aires arrivano al mare a Miramar, poi seguono la costa fino a Bahia Blanca e di qui un taglio netto verso occidente verso il confine con il Cile. Vi arrivano a metà febbraio entrando a Paulla, nella Patagonia cilena. Ci arrivano attraversando le Ande, dove la vita è dura, dove incontrano popolazioni per le quali la sopravvivenza non è solo una parola del vocabolario.
La regione dei molti laghi è bellissima, ma li costringe ad usare barche non sempre all’altezza per procedere, caricandovi la moto. Attraversano la regione che era stata dominata dai “mapuche” prima che il governo li isolasse in “reducciones”, come i nativi americani erano finiti nelle riserve negli Stati Uniti.
Esperienze e incontri non si contano, ciascuno coi suoi lati allegri (in fondo sono due ragazzi) e riflessivi. Poi di nuovo verso Nord, senza la Poderosa II, ormai abbandonata, come clandestini su una nave, dove alla fine vengono scoperti e sono costretti a lavare latrine e pelare patate. Ci sono vari incontri con una vecchia ammalata e un ex operaio minatore che fanno conoscere a Ernesto la brutale politica del presidente Gonzales Videla, che aveva messo fuorilegge il partito comunista ed eliminato, anche in modo drammatico, chi si opponeva al regime e i minatori erano la classe più vivace in questo senso. Tra gli altri sotto le grinfie di Videla cade anche Pablo Neruda, poeta prediletto di Guevara, costretto all’esilio e in quel periodo in Italia.
Poi arrivano a Chuquicamata, dove c’è la più grande miniera di rame del mondo. Aperta all’inizio del secolo scorso, è la ditta statunitense Guggenheim a produrvi la prima barra di rame nel 1915. Poi passa di mano in mano ad aziende ed imprese straniere, fino alla nazionalizzazione alla fine degli anni ’60. Oggi è praticamente esaurita e si sta cercando di scavare miniere sotterranee per continuare la produzione. La cittadina di Chuquicamata si è spopolata. E non è solo quel buco enorme lungo cinque chilometri e profondo uno, con quei cerchi concentrici dove corrono i camion, che ricorda tragicamente l’inferno dantesco. E tutto attorno uno dei deserti più aridi del mondo. Una visione impressionante.
Guevara e Granado visitano due volte l’enorme miniera, che è in mano ad un’impresa straniera. I minatori sono assoldati alla giornata tra la povera gente, sottopagati, senza alcuna garanzia né diritti. É questo che colpisce il giovane argentino, più della vastità di quel buco enorme a cielo aperto. Ed è qui che Ernesto ritrova, nella realtà delle persone, quella distinzione tra borghesia e proletariato di cui ha letto nei testi di Marx e Lenin. É qui che ascolta i racconti della gente sfruttata, ma anche di lotta, del desiderio di rovesciare quello stato di cose. Ma non è solo una questione di classe, c’è di mezzo anche una forma di colonialismo basato sul denaro, sul potere economico, sul capitale … eccolo di nuovo Carl Marx.
Gli sfruttatori sono, infatti, spesso, molto spesso in quei paesi, organizzazioni ed aziende straniere, soprattutto statunitensi, che si prendono le ricchezze e lasciano le briciole ai lavoratori. Ci sono altri libri su questa miniera, come quello di Marcial Figueroa “Chuquicamata, la tumba del chileno”, dove troviamo frasi terribili come questa “il becchino, ogni giorno, dava sepoltura a sei vittime, tra adulti e bambini”.
Le pagine dei diari durante la visita alla miniera sono profondamente diverse dalle altre, spesso allegre ed autoironiche, anche per le numerose avventure che si vivono durante un viaggio cercando passaggi e alloggi occasionali.
La risalita verso il confine è lunga, via terra, e alla fine vengono portati fino alla dogana di
Chacalluta e di qui, con un’auto, arrivano alla prima città peruviana, Tacna. É il 24 marzo, 80 giorni dopo la partenza da Buenos Aires.
Descrivere l’intero viaggio è impossibile, per questo consiglio a chiunque sia interessato la lettura di “Latinoamericana” edito da Feltrinelli e ad un prezzo molto minore da Mondadori. O quanto meno di vedere il film” I diari della motocicletta” del regista brasiliano Walter Salles, acquistabile online a meno di 10 €.
Dal lebbrosario a Miami
Ci sono però alcune tappe che non possono essere omesse, nemmeno in un breve riassunto come questo di NSSI. Un altro incontro decisamente formativo è quello lungo il rio delle Amazzoni, in Perù, a San Paolo, dove è presente un grande lebbrosario. Si offrono di lavorarci, di dare una mano: un quasi medico e un biochimico possono essere di aiuto. Ma non è l’aspetto medico, per triste che sia, a scavare un solco profondo nella mente e nelle convinzioni di Guevara. Qui si rende conto dell’abbandono di queste povere persone, destinate a morire. Si ferma, impara ancora, capisce che la malattia non è solo una questione fisica, ha a che fare con la povertà, con l’organizzazione sociale. Questo lo porta a riflettere sul ruolo che vuole avere da grande. L’attenzione verso gli ammalati sarà sempre un punto essenziale delle sue battaglie.
Quella visita è un pugno nello stomaco del giovane Ernesto, anche perché Il lebbrosario è in così netto contrasto con le magnifiche opere che aveva appena visitato, il maestoso Macchu Picchu, simbolo dello splendore e della meraviglia delle popolazioni indigene.
Quel contrasto tra la gloria del passato e la miseria del presente, tra la bellezza sconfinata e la totale disperazione, segna profondamente Ernesto. Probabilmente è proprio quello il momento in cui decide che non avrebbe fatto finta di niente, ma si sarebbe ribellato.
Del lebbrosario di San Pablo scrive queste parole sul suo diario: “Questo è uno di quei casi in cui il medico, cosciente della propria assoluta impotenza di fronte alla situazione, sente il desiderio di un cambiamento radicale, qualcosa che sopprima l’ingiustizia che ha imposto alla povera vecchia di fare la serva fino al mese prima per guadagnarsi da vivere, affannandosi e soffrendo, ma tenendo fronte alla vita con fierezza”. La permanenza al lebbrosario è il punto di arrivo di un viaggio di formazione: da semplice studente idealista, Ernesto diventa un rivoluzionario disposto a morire per quegli ideali. Senza quel viaggio epico, forse non avremmo mai avuto un personaggio carismatico e incisivo come il “Che”.
Dopo aver curato i pazienti per alcune settimane, Guevara e Granado partono a bordo della zattera per Leticia, in Colombia. Dopo aver trascorso alcune settimane in Colombia, i due raggiungono Caracas, in Venezuela. Lì Guevara decide di tornare a Buenos Aires per terminare i suoi studi in medicina.
Pur avendo deciso di rientrare in Argentina per terminare gli studi, Guevara non riesce a lasciarsi alle spalle il ricordo del viaggio perché era ormai già agitato da ideali rivoluzionari.
Prima di rientrare in Argentina passa un mese a Miami, negli Stati Uniti.
La scelta di campo – Guatemala: CIA e USA
Quando rientra in Argentina ha accumulato esperienze profonde che indirizzano il suo pensiero sempre più verso i movimenti che cercano giustizia sociale e la liberazione dagli oppressori, poco importa che questi siano interni o esterni al proprio paese. Cresce in lui il desiderio di contare davvero in questa lotta, diventa una motivazione decisiva nella sua vita. Termini come rivoluzione, lotta armata, fino a quel momento del tutto estranei ai suoi pensieri, cominciano ad affiorare senza trovare preclusioni preconcette.
Ecco il suo pensiero, piuttosto crudo, ma esplicito:
«Nel momento in cui il grande spirito guida scava l’enorme squarcio che divide l’umanità intera in due sole frazioni antagoniste, io sarò con il popolo, e so […] che io […] assalirò le barricate o le trincee, tingerò di sangue la mia arma e, pazzo di furore, sgozzerò tutti i vinti che mi cadranno tra le mani […]. Sento già le narici dilatate, assaporando l’odore acre della polvere da sparo e del sangue, della morte nemica; già tendo il mio corpo, pronto alla lotta […] affinché in esso risuoni con nuove e nuove vibrazioni l’urlo bestiale del proletariato trionfante».
Credo che queste parole non lascino dubbi sulle idee politiche di Guevara. Ma il suo desiderio di conoscere a fondo i popoli del Sud America, lo riportano in viaggio nel 1954. La meta questa volta è il Guatemala, dove avvenimenti di grande rilievo stanno per accadere.
A parte le vicende personali, che lo portano a conoscere Hilda Gadea, che diventerà la sua prima moglie, il Guatemala è un paese dal volto progressista, grazie al lavoro di due presidenti, Juan José Arévalo prima e il suo successore Jacobo Arbenz. Vengono varate riforme importanti, tra cui quella agraria che espropria terre non utilizzate, ma in larga parte di proprietà di una società statunitense straordinariamente potente, la United Fruits, che gestisce anche la ferrovia, il telegrafo, l’unico porto atlantico, gli ospedali destinati ai suoi 40 mila dipendenti, molti dei quali statunitensi.
Racconterò in un prossimo articolo le vicende guatemalteche, l’intromissione della CIA, il ruolo della multinazionale come “parcheggio” delle spie americane. Per ora basti sapere che le reazioni statunitensi alle idee di Arbenz sono fortissime. La CIA, guidata da quel fanatico di Allen Dulles e sotto la spinta del presidente Eisenhower, ha sì il compito di combattere ogni guaito di comunismo ma soprattutto di difendere, anche con le armi, gli interessi economici di Washington ovunque nel mondo. L’anelito democratico statunitense è una di quelle bugie così grosse, da lasciare basiti che qualcuno davvero ci possa credere. A conti fatti si tratta senza dubbio della nazione meno democratica di tutto l’Occidente.
L’aria che tira in Guatemala non è di quelle migliori e così il governo si rivolge alla Cecoslovacchia comunista chiedendo aiuto. Il 15 maggio 1954 una nave ceca scarica 2000 tonnellate di armi destinate al governo. Si tratta, a detta degli storici, di pezzi piuttosto antiquati, spesso obsoleti, inadatti a fermare una eventuale irruzione ben organizzata.
Ma è sufficiente alla Casa Bianca per etichettare di comunismo il governo di Arbenz. La CISA mette in piedi un piccolo esercito, equipaggiato con risorse americane, contatta qualche pupazzo locale come capo della ribellione e invade il paese. Viene così instaurata una dittatura, che durerà 40 anni.
A Bogotà c’è anche Ernesto Guevara, che vede tutto questo e, nella sua mente, si fissano i punti salienti della vicenda. A cominciare dalle azioni di Arbenz: c’è la necessità di ridistribuire le terre, di modo che vengano coltivate e diano da mangiare alle famiglie. C’è anche la resistenza interna dei ricchi, ma soprattutto quella delle aziende straniere, in prevalenza statunitensi. L’invasione e l’instaurarsi della dittatura ne sono conferme evidenti. Il capitalismo di cui ha letto sui testi sfocia nell’imperialismo, esattamente come aveva detto a suo tempo Lenin.
Il Guatemala offre a Guevara l’insegnamento forse più importante, lo prepara per la sua futura vita di rivoluzionario. Ma la politica di Arbenz insegna anche altro: il concetto di sovranità nazionale, da difendere ad ogni costo, sia contro invasioni straniere che contro movimenti interni, che ne minino la solidità. Una decina di anni più tardi sottolineerà questi concetti in una famosa conferenza alle Nazioni Unite. Il Guatemala è anche occasione per i contatti con le formazioni di sinistra, le discussioni sui modi per ottenere giustizia sociale. E poi l’incontro con i contadini e con la loro lotta di classe nelle campagne, tutti elementi che saranno molto preziosi.
Cresce in lui la critica agli Stati Uniti, che si proclamano la patria della democrazia, mentre in America Latina fomentano e sostengono dittature, agitando lo spettro del comunismo, semplicemente per affermare i propri interessi commerciali. Ecco un altro tema che porta alla lotta armata: l’imperialismo. E quello che soprattutto capisce dall’esperienza guatemalteca è che l’uguaglianza sociale ben difficilmente si può raggiungere con le buone. Tornano alla sua mente le teorie marxiste e leniniste che prevedono una rivoluzione, che non può essere pacifica, avendo di fronte questi nemici. É qui che il Guevara medico, studioso, viaggiatore, diventa guerrigliero e rivoluzionario. Un viaggio che lo porterà a Cuba, ma prima arriva in Messico: è il mese di settembre 1954.
In Messico: Fidel Castro
Nel frattempo, a Cuba, i ribelli guidati da Fidel e Raul Castro, attaccano la caserma Moncada, per recuperare armi e incominciare la rivoluzione. Le cose vanno malissimo. Ci sono molti morti, altrettanti arresti e solo un gruppo non numeroso riesce a scappare. Alla fine se ne vanno in Messico, per riorganizzare le fila, potenziare l’esercito rivoluzionario e organizzare una spedizione che sbarchi a Cuba e riprenda la lotta contro la dittatura di Batista. Questo fatto l’ho raccontato nell’articolo sul comunismo, che, se volete, trovate qui.
Dunque in Messico ci sono le menti della rivoluzione cubana proprio quando vi arriva Ernesto Guevara, in uno dei suoi viaggi. Ed è qui che avviene il primo contatto con questi guerriglieri, i “barbudos”, come si facevano chiamare. E loro raccontano ad Ernesto la situazione sull’isola caraibica, con le sopraffazioni, la repressione, le ingiustizie sociali molto profonde. Guevara rimane colpito da questi racconti, che si inseriscono perfettamente nel suo elenco di posti visitati e di fatti ai quali ha assistito come in Guatemala qualche tempo prima.
Del resto, se pensiamo alle rivoluzioni popolari, non c’è posto più iconico del Messico, con i suoi eroi popolari di inizio secolo, Pancho Villa e, soprattutto, Emiliano Zapata. Qui incontra un uomo che avrà un ruolo decisivo nella sua vita, Fidel Castro.
Percorsi diversi, culture diverse, origini sociali diverse, ma entrambi hanno la stessa visione del mondo diviso in sfruttatori e sfruttati, con le multinazionali e gli stati che si intromettono nelle vicende altrui, fino a determinare chi comanda e come. Beh a pensare in questo caso agli Stati Uniti non si fa certo peccato.Entrambi concordano che è necessaria una lotta, e certo non solo a parole, contro l’imperialismo statunitense. C’è un forte feeling tra i due. Guevara vede in Fidel un capo dal carisma enorme, capace di analizzare situazioni anche complicate e spiegarle con grande semplicità, dote che probabilmente gli deriva dal suo studio da avvocato. E poi conosce perfettamente la situazione politica e sociale non solo di Cuba, ma dell’intera America Latina.
Fidel, dal canto suo, trova in quel medico non solo teorie affini alle sue, ma vede anche un combattente impegnato e deciso a tutto.
Quello che più di ogni altra cosa impressiona Guevara è la visione complessiva che Castro ha in mente, così come i suoi uomini: sanno perfettamente non solo cosa vogliono abbattere, ma anche cosa vogliono costruire in cambio e sanno perfettamente come lo faranno.
Ed è così che Ernesto, piano piano, si integra in quel gruppo, che è il fulcro del “Movimento 26 Luglio”, che è proprio la data dell’attacco alla caserma Moncada. Li conosce, vive la loro stessa vita, partecipa alle riunioni in cui si parla sì di linea politica ma soprattutto dei preparativi per tornare a Cuba e abbattere finalmente il regime di Batista. La batosta subita è il segnale che serve una preparazione più meticolosa, certamente fisica, nell’uso delle armi, nelle strategie della guerriglia, ma la preparazione va oltre. Occorre, poi, stabilire in cosa verrà trasformata la società cubana una volta vinta la rivoluzione. Guevara, come detto, propende per una soluzione di tipo marxista-leninista, ha in mente la rivoluzione russa del 1917, ma si confronta con i suoi compagni di avventura, molti dei quali, come lo stesso Fidel, puntano più sul nazionalismo che su una visione comunista del futuro. Vogliamo il bene del nostro paese e dei suoi cittadini, non ci importa la filosofia e la teoria di Marx e Lenin.
La storia di Ernesto qui si fonde con quella della rivoluzione cubana, con quella di Fidel Castro, di suo fratello Raul, del fido Camilo Cienfuegos, eroe della rivoluzione.
A Cuba c’è una dittatura, quella di Fulgencio Batista, sostenuta apertamente dagli USA, un governo corrotto, complice delle multinazionali, che hanno soffocato l’economia cubana. Pochi ricchi, tra i quali molti stranieri, vivono alla grande sulle spalle di un popolo povero, con scarsi diritti e nessuna opportunità. Della situazione cubana del periodo ho detto nel già citato articolo sul comunismo e a quello rimando chi volesse saperne un po’ di più.
Ma torniamo ai preparativi: serve una imbarcazione per attraversare il mar dei Caraibi. Alla fine viene comprato uno yacht per 17 mila dollari. Non è molto grande: 20 metri e spazio per 20 persone. Il nome, Granma, nonna, non lascia spazio a molti dubbi sull’età dell’imbarcazione. Ma questo è quanto si possono permettere, così che alla fine il viaggio inizia con 82 passeggeri, fittamente stipati, ma consapevoli di andare verso un’avventura che avrebbe indirizzato le loro vite. Lo pensa anche Ernesto Guevara, che stringe una forte amicizia con un giovane rivoluzionario, Ñico López. É lui, a quanto pare, a ribattezzarlo “Che”. Questo termine non ha un significato particolare, è un intercalare tipico degli argentini, che Guevara usa continuamente. Ed è così che oggi noi ricordiamo Ernesto Guevara de la Serna semplicemente come “el Che”.
Il viaggio in mare è complicato, i tempi si allungano più del previsto. Ernesto mette a disposizione le sue competenze mediche, ma presto bisognerà fare ragionamenti diversi, le strategie, le tattiche di guerra e tutto il resto. L’arrivo a Cuba non è certo quello sognato. Non c’è nessuna popolazione ad attenderli pronta alla rivolta. Ci sono invece le truppe di Batista che fanno un massacro. Solo in pochi riescono a scappare nelle foreste sulle montagne della Serra Madre. Tra loro ci sono i capi, compresi Fidel ed Ernesto.
É un momento difficile, quello in cui tutte le conoscenze teoriche non servono a nulla se non diventano azioni concrete. Guevara è preparato in questo senso e diventa presto un leader del gruppo. É un elemento fondamentale e a lui vengono delegate diverse funzioni, dall’addestramento, sia fisico che ideologico, alla realizzazione di un efficace impianto sanitario. Bisogna istruire i “barbudos” praticamente su tutto. Le strategie della guerriglia, l’orientamento tra le boscaglie, l’uso delle armi, ma anche le motivazioni ideologiche e politiche che li hanno portati là. C’è un po’ di tutto nel gruppo, le discussioni sulle idee socialiste del Che sono frequenti. Guevara guadagna sempre più consensi fino a che …
Comandante Guevara, el Che
Dunque Guevara si inserisce nel gruppo cubano e guadagna ammirazione da parte di tutti, per la padronanza, la calma estrema in ogni situazione, anche la più difficile. Viene apprezzato molto il suo dialogo con i compagni, la sua capacità di prendere decisioni senza doverci pensare più di tanto. Viene promosso Comandante, “Comandante Che Guevara”, come recita una canzone che gli sarà dedicata qualche anno più tardi.
In questo ruolo gestisce la strategia di battaglia, le imboscate alle truppe di Batista, enormemente superiori di numero, il “mordi e fuggi” con continui spostamenti rapidi per diventare un nemico quasi invisibile. É lui, “el Che”, il maestro organizzatore di tutto questo. Diventa un punto di riferimento per i rivoluzionari cubani, quelli di vecchia data e quelli che, mano a mano, si aggiungono al Movimiento. Presto è un simbolo della lotta a Batista, un esempio, che si trasforma presto in un mito. Nonostante le molte difficoltà, cominciano le vittorie significative, a La Plata, poi a El Uvero, con la dimostrazione pratica e tangibile che la guerriglia può battere le truppe dell’esercito regolare. Le vittorie sono importanti non solo per indebolire le truppe di Batista, ma, forse soprattutto, per coinvolgere la popolazione, che vede nella rivoluzione una strada per uscire dalla propria situazione di povertà drammatica.
L’attacco decisivo avviene alla fine dell’anno 1958. Dopo le battaglie nelle foreste e nelle campagne, Fidel decide di attaccare direttamente le città. Che Guevara guida un plotone di 320 uomini verso Santa Clara, dove avviene l’episodio culminante e decisivo della rivoluzione cubana.
Che le idee di guerriglia siano tutta farina del sacco del Che non è chiarissimo. Qualche storico sostiene che in realtà Guevara contava su aiutanti di primissimo piano da questo punto di vista e che Fidel Castro lo proteggesse accusando altri delle mancanze e degli errori commessi dal Comandante, di cui aveva bisogno perché stava diventando una bandiera, un manifesto, un testimonial irrinunciabile della rivoluzione.
Sia come sia, è sotto la guida di Ernesto che viene installata nella Sierra Madre una radio, Radio Rebelde, che sarà indispensabile per la vittoria finale, in quanto connetterà i vari gruppi dell’esercito castrista e fornirà alla popolazione resoconti delle sconfitte del regime, così da invogliare il popolo a stare dalla loro parte. Radio Rebelde esiste ancora oggi ed è la radio più importante di Cuba.
La battaglia conclusiva avviene a Santa Clara, anche se a decidere le sorti del conflitto è l’azione di bloccare un treno carico di armi, munizioni e militari. Vengono requisite tutte le armi, arrestati 350 ufficiali, mentre i soldati semplici passano nelle fila del Movimiento. Un‘azione studiata e organizzata da Roberto Rodrigo Fernandez, detto El Vaquerito, che con il suo “plotone suicida” spazza via le truppe che aspettano il carico, imponendo al treno di cambiare percorso, facilitando così il compito alle truppe del Che. El Vaquerito, in questa azione, perde la vita e diventa uno dei grandi eroi della rivoluzione cubana.
Una settimana più tardi i “barbudos” entrano a L’Avana e Fidel Castro prende il potere.
É qui che nasce la leggenda, il mito del Comandante Che Guevara. A Santa Clara una sua statua guarda la piazza della città. Ma non si può ridurre l’importanza di Ernesto solo a questo. La sua azione è assai più completa ed è rivolta alle relazioni che stabilisce da una parte con il popolo e dall’altra con altre formazioni rivoluzionarie che riesce a coinvolgere. Il popolo si convince non solo per la diplomazia di Guevara, ma anche per la sua opera concreta, fornendo assistenza medica ai campesinos, una specie di anticipazione delle intenzioni del nuovo corso del governo dell’isola.
“Fare pulizia” a Cuba
E, in effetti, finite le battaglie, c’è un paese da rimettere in sesto, in cui l’economia è ancora dominata dagli stranieri, i latifondi si sprecano, i poveri sono dappertutto.
Ma prima occorre fare pulizia. Possiamo storcere il naso finché vogliamo, ma questa è la storia della rivoluzione. Al nemico, battuto sui campi di battaglia, non si può concedere la possibilità di riprendersi. Fidel Castro nomina Che Guevara presidente del tribunale politico che si insedia nella roccaforte militare de La
Cabaña. Per alcuni mesi sfilano i responsabili di più o meno alto livello del precedente regime. Ci sono centinaia di condanne a morte. Guevara dirà che la violenza non è prerogativa dei tiranni, anche i ribelli la possono usare se serve a salvaguardare il bene di Cuba. Non è un periodo edificante per il nuovo governo. Ci sono anche altri processi altrove, a volte pubblici, con molti spettatori e pochi testimoni, non sempre credibili. Ci sono sentenze al termine di processi sommari e le fucilazioni diventano una triste consuetudine. A La Cabaña ci sono circa 400 esecuzioni, nel resto del paese sono molte di più.
Subito dopo la conquista del potere, il governo rivoluzionario emana una serie di riforme di grande portata. Quella urbana riesce a riorganizzare l’assegnazione degli alloggi e diminuire gli affitti. Ma è quella agraria a dare l’imprinting al nuovo corso politico. Ci sono due riforme agrarie, una del 1959 e una quattro anni più tardi, assai diverse tra loro. Cominciamo dalla prima. Essa non ha alcun iter all’interno dei gruppi rivoluzionari e tanto meno tra i contadini che, una mattina, si ritrovano con questa legge emanata e in vigore. Viene stilata in alcuni incontri tra elementi del partito comunista e rappresentanti del Movimiento, avvenuti a casa di Che Guevara. Una riforma durissima, che abolisce di fatto ogni forma di latifondo, ridistribuendo le terre ai contadini. Il popolo appoggia questa riforma, ma non partecipa in alcun modo alla sua definizione. Nel 1963, Fidel Castro emana una seconda riforma che riduce gli appezzamenti che ogni contadino può lavorare da 402 a 67 acri, espandendo notevolmente le Granjas del Pueblo fino a farle diventare la principale istituzione dell’agricoltura cubana. Si tratta di tenute appartenenti allo Stato, create dall’INRA (Istituto Nazionale per la Riforma Agraria) con lo scopo di accorpare le terre dei grandi latifondi confiscati. Il modello si avvicina dunque a quello sovietico di agricoltura collettivizzata.
Fidel Castro assegna proprio al Che l’incarico di portare a termine questa nuova legge. É evidente che le confische non possono far piacere ai proprietari terrieri, nemmeno ai cubani più ricchi, figurarsi a quelli stranieri. Questi ultimi vengono colpiti dalla riforma anche con un editto che proibisce agli stranieri di possedere piantagioni di zucchero. É vero che lo zucchero è l’asset più importante dell’isola, ma Cuba non può vivere di solo zucchero. E allora?
Cuba: politica tra USA e URSS
Ernesto Guevara, dunque, si rende conto che non si può sopravvivere solo con lo zucchero. Bisogna diversificare la produzione, allargare la produzione ad altri settori, come quello tessile. Tutte queste novità hanno bisogno di lavoratori che non siano solo professionalmente adatti, ma anche consapevoli del loro nuovo ruolo. Devono rendersi conto di essere protagonisti, coinvolti nel bene e nel male nell’azienda per cui lavorano. Per questo serve che siano istruiti. Dà a questo aspetto una importanza enorme, perché non si tratta solo di saper leggere e scrivere, ma di creare un sistema educativo che prepari i cittadini a partecipare attivamente alla costruzione di una società socialista. Sotto la sua influenza vengono sviluppati nuovi programmi di studio e metodi pedagogici e create opportunità educative per tutti, indipendentemente dal contesto sociale o economico. Ernesto capisce che l’istruzione è un potente motore per l’uguaglianza sociale e un elemento essenziale nella lotta contro la povertà e l’oppressione.
L’economia è comunque centralizzata con lo stato che diventa il padrone del vapore. Forse questa scelta può non piacere a qualcuno, ma la situazione ereditata da Batista non permette molta scelta.
L’intenzione di Guevara è quella di chiudere con quelle che chiama “ambizioni imperialiste”. Impiega 100 mila uomini per far rispettare le confische della terra. Inutile dire che le aziende più colpite sono quelle statunitensi, che possiedono quasi mezzo milione di acri nell’isola. La reazione di Washington è immediata. Il presidente Eisenhower impone una riduzione drastica delle importazioni di zucchero da Cuba. In questo modo viene a crollare l’unico mercato che fino a quel momento era aperto. Guevara cerca di risolvere la situazione con un viaggio lungo, toccando molti paesi dal Giappone alla Jugoslavia, dal Sudan all’India.
All'inizio del 1961 gli Stati Uniti interrompono tutte le relazioni diplomatiche con Cuba, che però ha bisogno di alleati che sostengano la rivoluzione e la ricostruzione del paese. L’attenzione è rivolta verso nazioni che abbiano una visione simile, una visione socialista. Ed è così che al primo posto non può che esserci l’Unione Sovietica, retta, all’epoca, da Nikita Kruscev. Guevara stringe accordi commerciali e politici, invita l’URSS ad investire sulla canna da zucchero in cambio di carburante e di armamenti, anche se quelli che arrivano sono carri armati e jet da combattimento piuttosto vecchi.
La situazione economica cubana è comunque disastrosa. Guevara se ne rende conto e nel 1961 a Punta del Este in Uruguay partecipa ad una conferenza internazionale. Qui ha un lungo colloquio con Richard Goodwin, uno stretto collaboratore del presidente John Kennedy, al quale, dopo avergli regalato una scatola di sigari, presenta una lettera nella quale prospetta un accordo: la riduzione della pressione economica e militare degli USA in cambio di una svolta democratica a Cuba, mantenendo tuttavia le conquiste (soprattutto sociali) della rivoluzione. Kennedy non solo rifiuta l’accordo, ma inasprisce le sanzioni con tro l’isola.
Il rifiuto porta Castro ad aumentare la dipendenza da Mosca e non sono pochi i commentatori e gli storici che vedono in quel rifiuto di Kennedy la causa della famosa crisi dei missili. Forse, se il presidente USA avesse accettato, quei quattro giorni in cui il mondo ha tremato, temendo un conflitto nucleare tra le due superpotenze, si sarebbero evitati.
La baia dei Porci
I rapporti Usa-Cuba non potrebbero essere più tesi. Il culmine si raggiunge nell’aprile del 1961, quando una brigata di profugi cubani, sostenuti con tutti i mezzi dalla CIA, sbarca a Cuba con l’intento di rovesciare il regime di Castro. Sono tranquilli, perché pensano di avere alle spalle l’enorme potenza militare degli Stati Uniti. Ma Kennedy non muove un dito. Kruscev l’aveva avvertito che l'Unione Sovietica avrebbe "fornito al popolo cubano e al suo governo tutto l'aiuto necessario per respingere un attacco armato a Cuba”. Così, mentre gli Stati Uniti si defilano, rimane in piedi solo quella brigata che, sbarcata alla Baia dei Porci, viene spazzata via dai soldati del Che in 48 ore. Guevara ringrazierà sarcasticamente Goodwin, perché quell’azione aveva reso il movimento rivoluzionario cubano più forte che mai. Questa vicenda verrà inserita, e raccontata nei dettagli, in una futura puntata di NSSI, quando vi parlerò delle azioni che la CIA ha compiuto nei paesi stranieri a tutela degli interessi commerciali americani, con la scusa di combattere il comunismo.
Quel fallito colpo di stato spinge Cuba ancora più tra le braccia del Cremlino. Kennedy se ne accorge bene il 14 ottobre 1962, quando un aereo da ricognizione individua diversi SAM (missili terra-aria) russi in costruzione sull'isola. Nasce così la vicenda della crisi dei missili, risolta alla fine dal passo indietro compiuto da Kruscev, che ordina alle navi di riportare tutto a casa.
Economia e finanza … quanto ne sa?
Torneremo su questo punto un po’ più avanti. C’è un altro aspetto da valutare nella vita politica di Che Guevara a Cuba. Castro, infatti, lo nomina ministro dell’industria e presidente della banca nazionale, due compiti per i quali il guerrigliero non sembra essere molto attrezzato. Sopperisce a queste carenze con l’esempio, facendosi vedere ogni giorno nei campi a tagliare canne o in fabbrica a lavorare da operaio. Chiede ai cubani, che certo non se la passano benissimo, un “nobile sacrificio” che migliorerà la vita dei loro figli e nipoti. Ma le sole macchine disponibili sono quelle che le industrie statunitensi avevano portato sull’isola. Piano piano, diventano vecchie, obsolete e per ripararle mancano i pezzi di ricambio. Vale per tutto, anche per le automobili, gli elettrodomestici ... A Cuba sembra di essere in un film americano degli anni ’50: macchine lunghe così che si trascinano lungo le strade, rattoppate spesso alla bene e meglio. Guevara non ha molta scelta. Se vuole davvero realizzare il suo sogno, deve rivolgeri all’unico alleato in grado di dare una mano, l’Unione Sovietica. Questa sembra essere un’avanguardia tecnologica, in lotta con gli Stati Uniti in molti settori, quello missilistico, quello spaziale, quello nucleare, quello culturale e tecnico. Ma a Cuba arriva un cumulo di macchine inadatte, superate, non in grado di provocare quella scintilla tecnologica di cui Cuba ha terribilmente bisogno. Guevara ha in mente una visione socialista perfetta, quella che coniughi l’industrializzazione con un’autonomia economica che migliori il tenore di vita del popolo. Già ... il popolo: si trova a dover fare un triplo salto mortale da una società contadina arcaica ad una società moderna, industrializzata, istruita, efficiente ed efficace. E, per di più, in tempi brevissimi. Non a tutti i cubani questa impostazione sta bene e i lamenti si cominciano a percepire. Guevara non ascolta nessuno, tracciata una via, segue quella fino in fondo. Con quali risultati?
Le critiche a Mosca e i primi dissensi con Fidel
Tutti questi eventi, dal ritiro dei missili al fallimento industriale fanno crescere in Guevara una forte delusione per quello che considera un tradimento da parte di Mosca. Dopo aver accusato alle NU gli Stati Uniti non solo di imperialismo, ma anche di “politiche brutali”, riferendosi in particolare ai diritti negati e alla segregazione razziale, parte per un lungo tour in Europa, Asia e Africa. Ad Algeri, è il gennaio 1965, spiega ai delegati la differenza tra il comunismo cinese di Mao, che esalta, e quello sovietico, che accusa di “sfruttamento immorale” dei paesi del terzo mondo e di una esagerata e assureda burocrazia. Del resto, l’intervento dell’Armata Rossa in Ungheria e Cecoslovacchia stanno a dimostrare quello che Guevara chiama “complicità nello sfruttamento imperialista”. Questa uscita non piace a Fidel Castro e, quando il Che torna a Cuba, viene redarguito dal lider maximo, spiegandogli che non è possibile perdere gli appoggi economici e militari dell’Unione Sovietica. É uno dei punti che dividono i due esponenti della rivoluzione e che sarà alla base della partenza di Guevara da L’Avana.
Nella mente del Che si apre un nuovo capitolo. Se Mosca ci tratta in questo modo, bisogna rivovlgersi ad altre nazioni che abbiano lo stesso modello di sviluppo socialista. Ma in giro, a parte quelle sottomesse a Mosca, non ce ne sono molte. É così che Guevara pensa che sia necessario fomentare la rivoluzione in altri paesi, dove sia presente un nucleo in grado di scatenare la rivolta e prendere il potere. Insomma di replicare quanto avvenunto a Cuba negli anni ’50.
La “teoria del foco”
Come mai Guevara ha questa idea in testa? Lo capiamo leggendo uno dei suoi libri più conosciuti e significativi, pubblicato nel 1961, “La guerra di guerriglia”, che sarà tradotto in italiano da Adele Faccio nel 1994. Qui il Che non racconta la sua storia, è piuttosto una specie di manuale del guerrigliero, in cui compaiono tattiche, strategie, comportamenti, relazioni con il popolo e tutto il resto. É qui che nasce quella “teoria del foco”, che si basa sull’azione di un piccolo gruppo, un focolaio di guerriglia appunto, una specie di miccia che piano piano riesce a far scoppiare la rivoluzione. Una strategia valida particolarmente per i paesi arretrati, avendo come protagonisti i contadini. Questa teoria, che ha avuto successo a Cuba, altrove non porterà a risultati positivi, come vedremo tra breve.
La figura del guerrigliero delineata da Guevara è mille miglia lontana da quella di certi rivoluzionari che vediamo nei film, tutto coraggio e azione. Il guerrigliero deve avere a cuore la terra e la gente in cui opera, deve pensare al futuro, a cosa fare una volta ottennuta la vittoria. Se si vuole davvero vincere bisogna legare l’avanguardia (il foquismo appunto) alla partecipazione del popolo. Non è solo lo stato che deve cambiare, ma l’individuo, invaso da un forte senso di solidarietà e di impegno per il benessere di tutti. É questo quello che chiama l’Uomo Nuovo, che rivolge lo sguardo anche fuori dai propri confini, verso i fratelli in difficoltà.
L’internazionalismo e il desiderio di creare partner socialisti altrove, porta Che Guevara a partire per nuove avventure.
Fidel Castro racconterà che una prima richiesta d’aiuto era arrivata dai rivoluzionari del Congo, dove aveva spedito un gruppo di addestratori guidati da Che Guevara. Una missione voluta dal Che, della quale tuttavia Fidel non si fida per niente, così scrive una lettera, rimasta segreta, nella quale si dissocia. Non si sa mai. Potrebbe servire nel caso di una crisi con Mosca o con le Nazioni Unite.
Castro si spinge oltre. In un discorso a L’Avana, rende pubblica una lettera che il Che gli ha consegnato, nella quale sostiene di aver esaurito il suo compito a Cuba e lo saluta con affetto. Ma Guevara non sa nulla di tutto questo, non c’era nessun accordo sulla pubblicazione delle sue intenzioni. Quella uscita di Fidel gli rende le cose difficili. Dalla giungla africana non sa se potrà tornare a Cuba e si sente tradito da quello che considera più di un fratello. Da questo momento entra in clandestinità.
L’avventura in Congo è deludente. Le sue teorie sul foquismo non funzionano. Non siamo a Cuba, è tutto diverso: la lingua, la cultura dei ribelli, le divisioni tra i vari gruppi, la difficoltà nel convincere la popolazione ad unirsi a loro. É tutto così complicato che, nonostante la buona volontà, decide di arrendersi e di ritirarsi.
É qui che capisce che una rivoluzione che ha avuto successo in uno stato non può semplicemente essere esportata come fosse un pacco. Che Guevara ha molte altre collaborazioni, ma lo fa scrivendo ai movimenti, fornendo suggerimenti, rispondendo alle domande. Questo lo fa conoscere in tutto il mondo, lo fa diventare un punto di riferimento per ogni movimento ribelle.
Bolivia … fine della corsa
L’ultimo atto si recita in Bolivia. É una situazione diversa dal Congo. C’è un regime fortemente sostenuto dagli Stati Uniti. C’è un partito comunista, un forte sindacato, un movimento studentesco effervescente, un’ampia società contadina. Un ambiente che sembra promettere bene. Arriva nel sud del paese con 12 guerriglieri. Getta un campo base da dove iniziare la guerriglia: è il famoso “foco”, il focolaio della rivolta. Ma le cose non vanno bene. Il partito comunista si defila, i contadini non si fidano di quegli stranieri, l’esercito avversario è numeroso, ben addestrato ed equipaggiato. Hanno il supporto di esperti in antiguerriglia della CIA. Guevara applica il suo schema: mordi e fuggi, si sposta continuamente, non è facile da rintracciare, ottiene qualche vittoria,ma poi commette un errore: invita tre illustri uomini di sinistra stranieri. Non sono guerriglieri, non sono addestrati, e vengono catturati. Non sono eroi e la tortura ha un rapido effetto. Il pittore argentino Ciro Roberto Bustos e, il marxista francese Jules Regis Debray, interrogati dalla CIA, forniscono preziose informazioni sull’esercito ribelle. Bustos disegna anche ritratti del Che e mappe dei luoghi frequentati dai rivoltosi. Così vengono scoperti depositi di armi e documenti dei rivoluzionari. La sproporzione tra i due schieramenti porta all’unica conseguenza logica, la sconfitta. Il regime non solo si mostra più forte sui campi di battaglia, ma anche nella strategia nei confronti della popolazione, minacciata di gravi conseguenze se avesse parteggiato per i rivoltosi. C’è una taglia di 50 mila pesos sulla testa del Che. Un contadino ne approfitta e racconta tutto quello che sa. É sufficiente: lo sparuto esercito ribelle viene circondato.
Vicino alla cittadina di La Higuera la battaglia finale conclude la rivoluzione boliviana, e purtroppo anche la vita di Ernesto Che Guevara.
Sono rimasti in pochi, la maggior parte sono stati uccisi. Da un canalone escono in due. Il comandante del drappello che li intercetta, Gary Prado, capisce che uno è straniero e gli chiede chi è. “Sono Che Guevara e per te valgo più da vivo che da morto”.
La task force che insegue Guevara è comandata da Felix Rodriguez, agente CIA. Ci sono intenzioni diverse su come procedere adesso. Il governo boliviano vuole sopprimere il prigioniero e non pensarci più, gli americani vorrebbero tenerlo in vita, processarlo pubblicamente per far diventare quell’evento un atto di accusa mondiale contro il regime castrista. Ma Rene Barrientos, capo dell’esercito boliviano, ha spifferato ai quattro venti che il Che è stato ucciso in battaglia e quindi non può essere lasciato in vita per non far fare al governo una brutta figura. Così da La Paz arriva l’ordine di ammazzare Guevara. É un prigioniero. Si tratta di un assassinio a tutti gli effetti.
Il giorno seguente, alle 13.00, avviene l’esecuzione. Si estrae a sorte il nome di chi dovrà eseguire la sentenza. Tocca al sergente Mario Teràn, che ha ordini precisi: nessun colpo alla testa. Il corpo crivellato di colpi sarà testimonianza migliore di una morte durante un combattimento. Così avviene e Ernesto Che Guevara non muore all’istante, muore dissanguato. É il 9 ottobre 1967.
Dopo la morte
Il suo corpo viene traferito a Vallegrande, dove viene lavato ed esposto alla visione dei fotografi e degli abitanti, incuriositi da una notizia così importante. Un soldato lo prende per i capelli e ne solleva più volte il capo per mostrare che è proprio lui, il Comandante Ernesto Che Guevara.
Ma la questione è ben lontana dall’essere finita. C’è il corpo, cosa farne? Non si può dargli una sepoltura pubblica o comunque assegnargli una tomba identificabile: diventerebbe una specie di santuario, meta di pellegrinaggio. Così viene seppellito, assieme ad alcuni suoi soldati, in una fossa senza nome nei pressi dell’aeroporto di Vallegrande. In questo modo si intende cancellare, oltre alla vita, anche la memoria di quel rivoluzionario.
C’è dell’altro: temendo che, un giorno, qualcuno possa dubitare della morte del Che, gli vengono tagliate le mani e conservate in due contenitori di formaldeide, così da poter dimostrare che, effettivamente, il Comandante, non c’è più.
Passano trent’anni prima che un antropologo cubano riesca ad individuare la tomba con i resti del Che: è il 2 giugno 1997. Il 17 ottobre di quell’anno, con una manifestazione grandiosa, il corpo di Ernesto Guevara, il Che, il Comandante, viene tumulato, assieme a quello di sei suoi compagni uccisi in Bolivia, in un mausoleo appositamente costruito nella città di Santa Clara. Proprio là dove lui e le sue truppe avevano costruito la battaglia decisiva per la vittoria della rivoluzione cubana. Sulla tomba una scritta, “Hasta la victoria siempre!”.
E dunque, come concludere?
É sempre difficile trarre conclusioni dalla vita di un personaggio così discusso e divisivo come Che Guevara.
Potremmo usare le parole dello storico Mike Gonzales, che scrive: “La vita di Guevara è un esempio di coerenza estrema e di sacrificio e di eroismo, ma spesso le idee che alimentavano le sue battaglie erano ingenue, a volte sbagliate e non offrivano un modello per creare un movimento rivoluzionario per le generazioni a venire. Guevara incarnò lo spirito e il desiderio di cambiare il mondo, ma forse non elaborò un sistema valido per mettere in atto questo progetto”.
Ed è sicuramente così, perché molte critiche possono essere fatte alle sue decisioni, allo stesso scopo che ha dato alla sua esistenza. Ma rimane il fatto che è considerato un simbolo della lotta globale per l’uguaglianza e la giustizia sociale. La sua vita e il suo messaggio hanno ispirato generazioni di attivisti, da quelli coinvolti nella lotta contro l’oppressione e la disuguaglianza a quelli che difendono la giustizia ambientale e i diritti umani. Del Che non si può non apprezzare la lealtà verso i principi che lo hanno ispirato a diventare il più grande rivoluzionario di ogni tempo. Sicuramente lo è stato per fama, appeal, carisma, prestigio, che ancora oggi è presente ovunque nel mondo. Anche su quella maglietta comprata al mercato.
…
Quando il Che lascia Cuba per non tornare più è un momento di grande emozione per il popolo cubano. Nascerà una canzone, dedicata a quel momento. Dirà quello che tutti i cubani pensavano e pensano ancora. Se il corpo di Ernesto è lontano, la sua presenza è ancora là, nell’amata patria:
Aquí se queda la clara - La entrañable transparencia - de tu querida presencia – Comandante Che Guevara
Qui rimane la chiara, accattivante trasparenza della tua amata presenza, Comandante Che Guevara.
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FONTI:
Ernesto Guevara, La guerra di Guerriglia, Feltrinelli, 1967
Ernesto Guevara, Latinoamericana, I diari della motocicletta, Mondadori 2021
Jean Cornmier, Hilda Guevara, Alberto Granado, La vera storia del Che, Rizzoli, 2004
Adalberto Cirilo Ramos Alfonso, Che Guevara, BookRix, 2023
Michael Lowy, Il pensiero del Che Guevara, ND, 1969
Christina Grey, La historia de Che Guevara: El soñador Revolucionario, 2023
Jon Lee Anderson, Che Guevara, Fandango ed., 2009
Brian Liegel, “Creating” Che, 2012
Video:
Gianni Minà, Fidel Castro racconta Ernesto Che Guevara (Intervista del 1987)
I diari della motocicletta, film 2004
Arrigo Levi, Quel giorno, morte di Che Guevara, 1970