anarch É il 23 agosto 1977, a Boston il governatore dello stato del Massachusetts, Michael Dukakis pronuncia queste parole: “Io dichiaro che ogni stigma ed ogni onta vengano per sempre cancellati dai nomi di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti. Il processo e l’esecuzione di Sacco e Vanzetti devono ricordarci sempre che tutti i cittadini dovrebbero stare in guardia contro i propri pregiudizi e l’intolleranza verso le idee non ortodosse, con l’impegno di difendere sempre i diritti delle persone che consideriamo straniere per il rispetto dell’uomo e della verità”.
Cinquant’anni prima, il 23 agosto 1927, a Charlestown, la sedia elettrica toglie la vita a Ferdinando Nicola Sacco, 36 anni, e a Bartolomeo Vanzetti, 39 anni, dopo che un tribunale ha decretato la loro condanna a morte. Perché? Quali tremendi reati hanno commesso? Che ci fanno quei due negli Stati Uniti d’America, il paese della giustizia e della libertà. Già … giustizia e libertà … i due italiani, uno pugliese di Torremaggiore, l’altro piemontese di Villafalletto, queste parole le conoscono bene, sono anarchici e quindi … avete visto il video sull’anarchismo?
Questa è la loro storia, che si mescola con la gestione del potere, la xenofobia e il razzismo, e le vicende, spesso molto tristi, degli emigranti, … una storia di intolleranza e sopraffazione.
Per raccontarla, bisogna fare un respiro e cominciare dall’inizio, vale a dire dai motivi che portano 26 milioni di persone del Sud-Est europeo in America in meno di 50 anni. Nessuno parlava allora di Stati Uniti, la meta era sempre L’America, a volte La Merica. Chi parte? e perché? Si tratta di povera gente, spinta dalla fame e dalla mancanza di lavoro a casa propria, attirata dalla fama di quella “terra promessa”, dove, secondo la leggenda, ogni sogno si può realizzare. Le cose si rivelano presto molto diverse, perché a quella gente toccano i lavori più umili, mal pagati, senza diritti, spesso diventano oggetto di violenze e prevaricazioni, legate ad una cultura xenofoba, alla paura del diverso, all’arroganza del conquistatore di quelle terre. Chi arriva dopo una lunga traversata in piroscafo, è quasi sempre senza cultura, non parla l’inglese, finisce a vivere in ghetti realizzati ai margini delle città. Tenerli premuti sotto il tallone sembra la cosa più semplice del mondo. Sono pochi quelli che salgono qualche gradino della scala sociale: attraverso i sindacati o lo sport, spesso attraverso il crimine.
Ferdinando Sacco e Bartolomeo Vanzetti non se ne vanno da casa per fame. Le loro famiglie sono in grado di offrire loro una vita decorosa; partono entrambi per un sogno, alla ricerca, così sperano, della felicità. Vanzetti, dopo la morte della madre, attraversa la Francia fino a Le Havre, dove si imbarca sul piroscafo Providence per approdare a New York nell’estate 1908. Sacco, invece, parte da Napoli, assieme al fratello Sabino e arriva a Boston nella primavera del 1909: ha 18 anni.
Ad un osservatore attento come Vanzetti basta poco per capire l’antifona. All’arrivo vengono trattati come pacchi postali, senza un minimo di solidarietà o di comprensione. I nomignoli che definiscono gli stranieri sono tutti dispregiativi. Gli unici ad aver diritto di dignità sembrano essere i wasp, bianchi, anglosassoni, protestanti.
 Ma il peggio deve ancora venire. Allo scoppio della guerra, lo stato pretende l’iscrizione alle liste di leva dei cittadini tra i 18 e i 30 anni, non importa di che nazionalità. Gli stranieri hanno paura e non lo fanno. La politica reagisce con leggi severissime, come il “Sedition and Espionage Act” del 1917/18, che equipara ogni minimo atto di dissenso ad un atteggiamento antipatriottico e antiamericano, come se si trattasse di spionaggio. Si aggiunge a tutto questo, l’esito della Rivoluzione russa, che crea quel “Red scare”, quel terrore dei “rossi”, termine che include chiunque non sia fedele alla bandiera a stelle e strisce, quindi comunisti, socialisti, anarchici, perfino i liberals statunitensi e chiunque osi scrivere o pronunciare critiche ai dettami di Washington.
Chi racconta e tramanda le impressioni e la storia dei nostri due protagonisti, è Bartolomeo Vanzetti, che scrive di continuo lettere alla sorella, al padre e, più tardi, agli amici e ai compagni. L’impatto con la burocrazia dell’immigrazione non è delle più felici. A proposito della nuova terra, annota: “…qui è bravo chi fa quattrini, non importa se ruba o avvelena… la giustizia pubblica è basata sulla forza e sulla brutalità, e guai allo straniero e in particolare l’italiano che voglia far valere la ragione con mezzi energici…”. Non ci ha messo molto a capire ogni cosa. Certo: c’è chi sta peggio e questo ti consola e ti fa andare avanti. Vanzetti non è istruito, ma è un uomo curioso: legge di tutto, i classici anarchici, quelli russi dell’Ottocento, la Divina Commedia, Emil Zola e Jack London. Ed è qui che ritrova il suo mondo, quello delle ingiustizie, del cinismo terribile di una classe-padrona che fa morire soffocate 146 persone, alla ditta Triangle di NY, per non aprire le porte e mostrare le ragazzine al lavoro sessanta ore la settimana. Pochi dollari alle famiglie, nessuna condanna, nessun senso di colpa. Un caso? No! Dentro gli scintillanti edifici americani vive un popolo per il quale lo schiavismo è ben lungi dall’essere terminato.
Non è dunque strano che in questo mondo di sottopagati, nasca un sindacato rivoluzionario, l’IWW, l’Industrial Workers of the World. Bartolomeo ne è testimone e scrive: “Gli scioperi si succedono continuamente sempre più violenti e potenti. Succedono tutti i giorni scontri e massacri tra poliziotti e scioperanti”. Nei suoi primi anni americani fa mille lavori, quasi sempre pesanti, senza alcuna sicurezza, senza protezione: spacca pietre nelle cave o lungo i binari di una ferrovia, dorme dove capita, spesso all’aperto, è un errante, un vagabondo del lavoro più duro. Il suo sogno è lavorare all’aria aperta, libero, senza padroni. L’approdo all’anarchia ne è una semplice e logica conseguenza. Né stato, né governo, nè dio, il motto è quello di Bakunin: “La mia libertà è la libertà di tutti”.
Si abbona alla rivista “Cronache Sovversive” di Luigi Galleani, importante anarchico, che sarà un punto di riferimento libertario negli Stati Uniti. Pubblica, sotto falso nome, numerosi articoli sulla rivista. La politica americana, senza distinzione di partito, si muove massiccia e minacciosa. Alexander Palmer è un democratico liberale, che si batte a favore dei sindacati e per il suffragio delle donne. Quando viene eletto procuratore generale degli Stati Uniti, sotto la presidenza del democratico Thomas Wilson, cambia di colpo. Aiutato dal suo braccio destro, Edgar Hoover, organizza delle vere e proprie cacce ai radicals, senza badare se lo siano davvero. Ci sono retate di migliaia di persone, violenze indicibili ed espulsioni dal paese. Tra le altre quella dell’anarchica Emma Goldman, che abbiamo conosciuto nel video sull’anarchismo.
Vanzetti vede questa America … e la vede dal basso.
Anche per Sacco le cose vanno più o meno così. Lui si sposa con Rosina, nasce un figlio, Dante. Le spese aumentano, bisogna fare qualcosa contro le paghe da fame degli operai che lavorano12 ore al giorno. Anche lui partecipa ai convegni, alle iniziative anarchiche, a qualche sciopero. Si abbona a “Cronache Sovversive”: è il primo contatto indiretto tra i due protagonisti di questa storia.
La lotta si sviluppa attraverso gli scioperi. Vanzetti partecipa a quello durato più di un mese alla Cordage Company, dove lui stesso aveva lavorato. Alla fine gli operai cedono e accettano quel poco che i padroni concedono. Lui si ribella, insiste, fa fuoco e fiamme. Scriverà qualche anno dopo: “mi sono assunto le mie responsabilità, ho dimostrato di essere indomito, di non lasciarmi intimidire né corrompere; un uomo da eliminare.”
Già … un uomo pericoloso, da tenere sotto osservazione.
Il 5 maggio 1917 Barth chiede la cittadinanza americana, mossa quanto mai azzardata, dal momento che anche per lui, che ha 29 anni, diventa reale il rischio di una chiamata alle armi. Poi, con la guerra in corso, la sua domanda si perderà nei meandri della burocrazia. Galleani suggerisce agli anarchici di non iscriversi, di darsi piuttosto alla clandestinità e organizza un incontro a Boston. É in questa occasione che Bartolomeo Vanzetti e Ferdinando Sacco si conoscono di persona. L’aria che tira non è delle migliori, così, assieme ad altri compagni, tra i quali Carlo Valdinoci e Mario Buda, che incontreremo ancora, fuggono a Monterrey in Messico. Sono pacifisti, contrari alla guerra, quella fatta sulla pelle dei poveri per arricchire i potenti e i capitalisti. E poi c’è la rivoluzione in Russia. Tra gli anarchici c’è la diffusa speranza che quel sovvertimento si espanderà, prima in Europa e poi, chissà, anche in America. Ma la rivoluzione non arriva e in Messico non si trova da lavorare, così gli anarchici se ne tornano alla spicciolata negli Stati Uniti. Sacco ha rinunciato al suo primo nome ed è per tutti Nicola, o Nick; Bartolomeo diventa semplicemente Barth.
La guerra non lascia solo una enorme quantità di morti sui campi di battaglia, innesca una crisi economica anche in America, peggiorando le condizioni degli immigrati. Poi c’è la rivoluzione russa, e corre ovunque il terrore dei “rossi”, che si trasforma in una caccia a tutto ciò che non è strettamente americano al 100%. Anarchici e socialisti riempiono gli schedari della polizia. Per ogni delitto, il colpevole è là, in quegli elenchi, preconfezionato. C’è paura e Barth si muove a zig zag attraverso il paese, per un anno, facendo i lavori che trova, cercando di sopravvivere. Anche Nick impiega un anno a sistemarsi, poi partecipa ad un corso di specializzazione e trova lavoro presso un calzaturificio, con un padrone “umano”, vive in un cottage con un piccolo orto, assieme a Rosina e al piccolo Davide. Le cose sembrano andare bene. Sembra integrato, ma la coscienza anarchica è sempre ben presente.
Nel febbraio 1919, a Seattle, centomila operai scendono in piazza. É uno degli scioperi più massicci di sempre. Lo stato risponde schierando davanti ai manifestanti le mitragliatrici dell’esercito. Non sono tempi in cui ti fermi a pensare se le useranno davvero. Tutti a casa, si torna al lavoro. Ma la miccia si è accesa, l’odore del pericolo raggiunge le narici di Palmer e soci. La reazione è durissima: scatta una caccia all’uomo come non s’era mai vista. Retate su retate, in cui si pesca nel mucchio, non importa se siano anarchici veri o solo passanti. Una nave carica di stranieri europei viene spedita direttamente ad Odessa, così da raggiungere – dicono con cinismo i magistrati - i loro compagni bolscevichi. Ci si mette anche il KKK, non contento di linciare i neri, lo fa anche con qualche sindacalista. É un’ossessione, un assillo presente ovunque, perfino in parlamento.
Barth ha comprato da qualche mese un banchetto per vendere il pesce. I suoi clienti sono quasi tutti gli immigrati di Plymouth, dove vive, ospite della famiglia Brini, famiglia anarchica di vecchia data, che aveva ospitato perfino Errico Malatesta. Il clima di terrore, imposto dallo stato, ha la sua risposta quando si scatenano i bombaroli. Pacchi esplosivi viaggiano avanti e indietro. Molti vengono bloccati, qualcuno esplode. Uno in una stazione di polizia dov’era stato portato per un controllo. Ci sono morti e feriti. Tra i bersagli, i miliardari Rockefeller, J.P. Morgan e il procuratore Mitchell Palmer. É il 2 giugno, quando la sua casa viene squarciata da una esplosione violentissima. Nessuno si fa niente, ma a terra si trovano i resti dell’attentatore. É un amico di Sacco e Vanzetti, quel Carlo Valdinoci che era con loro in Messico.
Palmer continua nella sua isterica lotta: ci sono centinaia di arresti in molte città americane, duecentomila persone vengono schedate. Il 2 gennaio 1920 ci sono 4 mila arresti, 800 finiscono in carcere a Boston, in condizioni terribili. Uno si suicida, due muoiono di polmonite, uno impazzisce.
Il 16 gennaio scatta il proibizionismo. L’alcool riduce la produttività. I gangster e molti magnati fanno festa, pensando ai profitti futuri. Una nuova cappa di leggi liberticide si abbatte sugli americani.
Sacco e Vanzetti sono entrambi a Boston, stanno nascosti, limitano le uscite al massimo. Palmer ha infiltrato ovunque spie e spioni. Uno di questi, un italiano, denuncia il loro amico Andrea Salsedo, che viene portato nella sede dell’FBI, assieme ad un altro anarchico, Roberto Elia. Sono entrambi accusati per le bombe del 2 giugno. Vengono trattenuti e interrogati molto a lungo, molto più a lungo di quello che la legge prevede, mesi interi. É un nuovo segnale d’allarme. Bisogna far sparire ogni traccia di anarchia: volantini, manifesti, opuscoli, libri, armi, ogni cosa che ti possa incriminare. E bisogna cominciare a pensare di andarsene da quel maledetto paese. Soprattutto se hai una famiglia a cui devi pensare.
Da qui in poi le date sono importanti, molto importanti per il resto della storia che stiamo raccontando.
Il 15 aprile Nick è all’ambasciata italiana a Boston, per chiedere il passaporto. Pranza con alcuni amici, sono tutti testimoni del suo passaggio. Il 2 maggio Barth è con Nick nella sua casa a Plymouth, quando arriva la notizia della morte di Salsedo. Suicidio, dicono le autorità: si è buttato dal 14° piano del Park Row Building, dove ci sono i locali dell’FBI. Una scena che rivedremo anche da noi. É ora di partire. Un’ultima missione: ritirare un’auto per eliminare il materiale anarchico che contiene. Nick, che ha ricevuto il passaporto e partirà tra pochi giorni, e Barth ci vanno in autobus; raggiungono i loro compagni, tra cui Mario Buda, proprietario dell’auto, una Hudson Overland, e Ferruccio Coacci, arrivati in moto. Quando suonano alla porta del meccanico che ha sistemato l’automobile, vedono la moglie di questi andare dai vicini e mangiano la foglia. La donna chiama la polizia, la moto parte, loro due devono tornare a piedi alla stazione dell’autobus e qui vengono fermati. Sono usciti armati: Sacco ha una pistola calibro 32 carica, Vanzetti ha in tasca una calibro 38, alcune cartucce di fucile e un foglio con la traccia per un volantino, che vuole richiamare i compagni ad un comizio sulla morte di Salsedo. Non hanno il porto d’armi. L’arresto è automatico: è la sera del 5 maggio 1920. Motivo dell’arresto? “Siete tipi sospetti” dice l’agente: la tragedia di Sacco e Vanzetti comincia così.
Il 24 dicembre 1919, vigilia di Natale, a Bridgewater, paese della contea di Plymouth, c’è una rapina. Tre uomini coi volti scoperti cercano di rubare le paghe della ditta White Shoe Company. Arrivano su una Hudson Overland, aprono il fuoco, ma devono desistere per la reazione degli impiegati. Nessun ferito.
Il 15 aprile 1920, un’altra rapina, questa volta a South Braintree, 20 km a Sud di Boston; due uomini dal volto scoperto bloccano il cassiere del calzaturificio Slater&Morrill, Parmenter, e la guardia Berardelli. Prendono i soldi che trasportano e li uccidono a sangue freddo. Scappano con una Buick, dove ci sono altri due complici.
Torniamo al 5 maggio, il giorno dell’arresto. Tra le domande strane che Nick e Barth si sentono rivolgere ci sono quelle relative a due date: “Cosa facevi il 24 dicembre? e il 15 aprile?” Non capiscono cosa c’entri con l’accusa di porto abusivo di armi. Poi arriva la notizia, portata da un giornalista italo-americano: l’accusa è di rapina e omicidio. Il mondo intero cade addosso ai due. A guidare le indagini e preparare il processo c’è un mastino, il procuratore Frederick Katzmann, che continua con domande di cui i nostri non capiscono il senso. Perché loro? Forse per via dell’auto di Buda o della Buick trovata in campagna non lontano dall’abitazione di uno di loro? O forse semplicemente perché sono anarchici? Nel frattempo Coacci è tornato in Italia, di Buda non si hanno più notizie: è sparito, ha lasciato il paese. E questo rafforza la tesi di Katzmann.
Il 24 dicembre, Sacco era al lavoro e non poteva aver partecipato alla rapina. Vanzetti, assieme al piccolo Beltrando Brini, era in piazza a Plymouth a vendere anguille per la festa tradizionale della vigilia di Natale. Lo ha visto tantissima gente, ma tutti italiani o stranieri e questo non conta. Il 15 aprile, Sacco era a Boston, in ambasciata, ma anche questo non conta. Vengono individuati altri due complici, subito rilasciati perché con alibi inattaccabili. Si è pescato nel mucchio, nel mucchio degli anarchici: nella rete rimangono solo Sacco e Vanzetti, Nick e Barth. L’incubo comincia.
Chi segue questa storia dimentichi ogni forma di logica, di ragionamento, di controllo dei fatti e delle testimonianze. Sono cose che, in questa vicenda, non compaiono mai … mai e poi mai!
Comincia il processo contro Vanzetti per la tentata rapina del 24 dicembre. Sacco era al lavoro, il suo datore di lavoro ha testimoniato. Ci sono molti testimoni, ma ciascuno racconta una storia diversa, molti ricordano il bandito, ma ciascuno lo descrive in modo diverso. “Sono sicuro: aveva i baffi corti.” Barth ha lunghi baffi spioventi, ma non importa. Tutti ricordano che era proprio lui, anche se forse non l’hanno neanche visto.
In realtà, non c’è nulla che importi davvero. La verità, quella che il tribunale dovrà omologare, viene costruita in anticipo. É la legge del procuratore Palmer: seminare il terrore per prevenire la conquista del potere da parte dei bolscevichi e degli anarchici. I molti testimoni che ricordano perfettamente Vanzetti a vendere il pesce, non solo non vengono creduti, ma derisi e umiliati per il loro inglese farraginoso, per il loro modo modesto di vestire, per la loro condizione così diversa da quella del procuratore Frederik Katzmann, dai bravi patriotti che compongono la giuria, dal giudice Webster Thayer, che permette a Katzmann di fare quello che vuole, ben oltre le normali regole di un dibattito in un tribunale. Se aggiungiamo che l’avvocato difensore, tale John Vahey, non fa nulla, il quadro è completo e non resta che attendere una sentenza, scritta molto prima dell’inizio di questa farsa. Vanzetti è colpevole di tentata rapina e tentato omicidio e viene condannato a 12 anni di carcere. Lui finisce in una cella del carcere di Charlestown, il suo inutile difensore nello studio del procuratore Katzmann. Questa però non è la fine, anzi il dramma vero deve ancora cominciare.
Sacco è in un altro carcere, a Dedham, a Sud di Boston: aspetta il nuovo processo, non può fare altro.
Fuori, nel mondo dei vivi, la situazione non è cambiata. Ci sono i ricconi e i morti di fame, i primi contano i loro dollari a Wall Street, i secondi muoiono nelle fabbriche: 35 mila ogni anno. Il 16 settembre 1920, una bomba squarcia il palazzo della J. P. Morgan a Wall Street: ci sono 38 morti e 143 feriti. Muoiono solo impiegati e fattorini. Alle alte sfere non succede niente. Chi è stato? Non si saprà mai, ma tutti i sospetti di investigatori e politici sono diretti verso i radicals: socialisti, comunisti e anarchici. E questa non è una bella notizia per Sacco e Vanzetti, che, in quanto anarchici, dovranno rispondere, indirettamente, anche di questo sfregio al cuore del sogno americano. Barth se ne rende conto. “Se faranno come all’altro processo – scrive al padre – potrebbero condannare pure Cristo”.
Gli anarchici si stringono attorno a Nick e Barth, organizzano la difesa, chiamano due bravi avvocati, per non fare la fine del primo processo. A dirigere il comitato c’è Aldino Felicani, giornalista e tipografo anarchico, amico di Vanzetti. Prima che cominci il processo ci sono tentativi di depistaggio, infiltrazioni perfino nella casa di Rosina, che ha avuto una bambina ed ha bisogno di soldi e così affitta una stanza ad uno di questi spioni. C’è perfino un tentativo di estorcere denaro promettendo un processo pro forma. La donna che tenta la truffa viene denunciata, arrestata e rimessa in libertà pochi giorni dopo.
E in Italia? Se ne parla davvero poco. Lo fanno due deputati socialisti pugliesi, Leone Mucci e Michele Maitilasso, con una interrogazione al ministro degli esteri, ma il governo è più preoccupato per gli anarchici italiani da controllare che delle sorti dei due concittadini e la maggior parte della gente non ne sa nulla.
Che l’imparzialità non sia garantita lo si evince da alcune frasi dei giurati, il cui presidente si lascia scappare, ben prima del dibattito un “bisognerebbe impiccarli tutti” e del giudice Thayer che definirà Sacco e Vanzetti “Bastardi anarchici”. Quello che traspare è che ai due si imputi soprattutto di essere “radicals” e che i delitti commessi nelle rapine siano solo l’occasione per dare un segno alla popolazione, secondo i suggerimenti della politica americana, a cominciare dal procuratore Palmer.
Le testimonianze non sono diverse da quelle del precedente processo. Da un lato i bravi cittadini americani fanno una confusione tremenda, smentendosi, inventando di sana pianta teorie che non si reggono in piedi, quando non vengono messe loro in bocca da Katzmann, che sembra più un segugio a caccia della preda, che un amministratore della legge. Dall’altra ci sono le testimonianze vere degli italiani, quelli che quei giorni Nick e Barth li hanno visti, lontano da South Braintree, ci hanno mangiato assieme a Boston. L’addetto dell’ambasciata che ha incontrato Sacco, testimonia … inutilmente.
É una tragica farsa, di nuovo, perché nessun tentativo di difendere i due italiani porta a un risultato. É tutto inutile.
Il giudice Thayer ha scritto la sentenza ben prima che il processo abbia inizio. Tra il pubblico c’è uno scrittore, John Dos Passos: lui ha capito tutto e diventerà, con i suoi articoli, uno dei difensori di Nick e Barth negli anni a venire.
Solo anni dopo la sentenza, salteranno fuori prove a discolpa, testimonianze vere, smentite di testimonianze assurde, ma troppo tardi.
É passato più di un anno dall’arresto. Vanzetti si è messo a studiare l’inglese per poter spiegare meglio le sue ragioni. Il 5 luglio tocca a loro testimoniare. Le domande sono diverse da quelle attese. Non riguardano le rapine, piuttosto tendono a distruggere l’immagine dell’uomo. La renitenza, la fuga in Messico, reati mai commessi, supposizioni subdole e maligne. Vanzetti sa rispondere a tono, Sacco no e si lascia trasportare da un discorso tutto fuoco e fiamme sulle condizioni degli immigrati in America, sui diritti calpestati, sulla falsità del sogno americano. I “bravi cittadini statunitensi” presenti, di tutto il discorso, capiscono una sola parola: “anarchico”. E tanto basta.
La sentenza arriva in una data fatidica, il 14 luglio, quando si ricorda la presa della Bastiglia, simbolo di libertà e uguaglianza, ma il 14 luglio 1921 è saturo dell’esatto opposto: “Colpevoli di omicidio di primo grado”.
É evidente a tutti che il processo è stato pilotato, ma il giudice Thayer respinge ogni ricorso della difesa, elogiando anzi la giuria per la decisione presa. Il padre di Barth si rivolge al primo ministro italiano Bonomi, ma non succede niente di niente. Per il loro paese, Bartolomeo e Nicola non esistono. Poi c’è la marcia su Roma. Mussolini solo a parole è vicino ai due connazionali, di concreto non fa nulla. Le cose si muovono invece negli altri paesi. In Francia si paragona il processo americano all’affaire Dreyfuss. Nel collegio di difesa entra Fiorello La Guarda, parecchi giornalisti moderati americani cominciano a dubitare della regolarità del processo, chiedono che venga rifatto, cosa che non succede mai, ora con una scusa ora con un’altra. Sacco e Vanzetti sono in carceri diversi. Dove c’è Barth c’è anche la sedia elettrica. Una notte, sempre il 14 luglio, due anni dopo la sentenza, un rumore terribile attraversa l’aria delle celle. La sedia elettrica ha tolto la vita a Paul Pappas, un suo compagno di lotta e di carcere.
Si attende la discussione di ben cinque ricorsi presentati dalla difesa. Il giudice Thayer deve giudicare se stesso.
Avrà l’onestà intellettuale di farlo? No, lui non ne ha nemmeno un po’ e tutti i ricorsi vengono respinti. Là fuori, la situazione non è cambiata: l’America della libertà è una favola, vera solo per chi quella libertà la possiede per diritto di discendenza, di religione, di razza, di ricchezza.
Il tempo scorre e passano i mesi, gli anni. Le celle non cambiano mai, lo sconforto è dietro l’angolo, Barth sta male, ha strane visioni. Viene portato in manicomio a Bridgewater per essere curato. Ci era stato anche Sacco dopo uno sciopero della fame di oltre un mese. Qui si riprende, legge moltissimo, scrive a tutti, vorrebbe scrivere un romanzo, riceve libri e frutta dagli amici di Plymouth, traduce in inglese un testo di Proudhon. Poi arriva dall’Italia la notizia dell’assassinio di Matteotti. Barth capisce che contare su Mussolini per la loro salvezza è solo tempo buttato via.
Lo rimandano in carcere, nella sua cella. Un giorno del 1925 l’addetto alla posta, Edward Miller, gli consegna una rivista. Dentro c’è un biglietto scritto a mano, che dice: “Con la presente confesso di aver partecipato alla rapina al calzaturificio di South Braintree e dichiaro che né Sacco né Vanzetti vi parteciparono. Firmato: Celestino Madeiros”. Se fosse un film, mancherebbe pochissimo ai titoli di coda, con la solenne riabilitazione di Sacco e Vanzetti, ma questa è un’altra cosa, non è finzione, è l’America degli anni ’20.
Per usare la confessione di Madeiros occorre aspettare. La difesa, affidata all’avvocato William G. Thompson, liberale, che ha preso sul serio la vicenda dei due italiani, è occupata con un ricorso alla Corte Suprema, dove giudici identici a Thayer rigettano tutto. Vanzetti non ne può più e scrive il “testamento dei morituri”:
Confesso la mia debolezza: ho avuto il torto di sperare nella giustizia dei togati… Sì ebbi questo torto e questa debolezza, e scrissi parole di speranza e d’incoraggiamento alla mia angosciata sorella, al mio vecchio padre, a coloro che amo, riamato… Ma il responso unanime di tutti i giudici della Corte Suprema di questo Stato taglia corto a ogni illusione e a ogni speranza. Ci vogliono morti, o almeno vinti, a ogni costo… dobbiamo essere bruciati sulla sedia elettrica … Arrenderci così, morire così, ci ripugna oltre ogni dire. Se dovremo morire, morremo guardando il nemico negli occhi… Sacco e Vanzetti”.
La confessione di Madeiros fa aprire una nuova pista. Due agenti scrupolosi, Lawrence Letherman e Fred Weyan, individuano nei fratelli Morelli, gangster di origini italiane, i responsabili delle rapine. Uno di loro, Joe, assomiglia in modo incredibile a Sacco. Trovano documenti compromettenti che svelano l’infondatezza delle accuse e le manovre che hanno portato alle sentenze nei due processi. Firmano una deposizione nel 1926, che scagiona del tutto Sacco e Vanzetti. Sembra mettersi bene, ma, di fronte alla ragione, compare la maschera del giudice Thayer, che taglia corto: la confessione di Madeiros non è credibile … punto!
L’avvocato Thompson commenta: “Un governo che tiene in maggior considerazione i propri segreti che la vita dei suoi cittadini, è diventato tirannia”.
Ormai i giochi sono conclusi, non resta che aspettare la sentenza definitiva, la condanna e il giorno dell’esecuzione, dal momento che è certo che la pena sarà morte sulla sedia elettrica.
E così avviene il 9 aprile 1927. Viene chiesto a Sacco se ha qualcosa da dire: “No, niente”.
Vanzetti invece di cose da dire ne ha, parecchie. Con un inglese finalmente ottimo le snocciola, con calma, freddo e logico, un discorso da brividi, che il film di Montaldo del 1971 immortala nelle parole di Gian Maria Volontè.
(vedi ad esempio qui: https://www.youtube.com/watch?v=7oObwJ23BdM )
L’esecuzione avverrà nella settimana che parte dal 10 luglio 1927.
Tutto finito? Neanche per sogno, perché nei tre mesi che mancano succede di tutto e succede ovunque nel mondo. Non è più questione di anarchici e comunisti che protestano. Tutti hanno capito l’antifona e la reazione del “popolo” si fa sentire. Lo fanno gli articoli di Dos Passos, gli scioperi in Argentina, i grandi comizi a New York e Los Angeles con migliaia di presenti. Giornali certo non rivoluzionari come Le Figaro in Francia, il NYTimes e il Boston Herald negli USA scrivono pezzi a favore dei due anarchici. Un tenore, Raoul Romito, compone una canzone dedicata a loro. La polizia reagisce, come sempre, con violenza esagerata, carica i manifestanti, la politica si indigna per l’attacco alle libertà americane. Dall’Italia, invece, nessuna notizia: Mussolini ha altro a cui pensare.
L’ultima carta è coinvolgere il governatore Fuller, il quale si guarda bene dal prendere posizione, ma nomina una commissione di tre saggi (il termine va preso con le molle), diretta da Lawrence Lowell, rettore dell’università di Harvard. La compongono anche un professore del MIT e un giudice in pensione, noto per la sua avversione agli italiani. Alla Casa Bianca arrivano richieste di grazia, con firme più che prestigiose: Albert Einstein, Bernard Shaw, Bertrand Russell, Dorothy Parker, Herbert Wells, per citarne alcune. La commissione si mette al lavoro a porte chiuse. La sentenza viene prorogata di un mese. Sacco e Vanzetti vengono spostati a Charlestown, nel carcere dove c’è la sedia elettrica. Arriva la commissione. Sempre le stesse domande, sempre le stesse risposte. Sarà il governatore Fuller a comunicare che nulla è cambiato: la giuria ha fatto il suo lavoro onestamente, il processo è stato regolare. Barth si comporta come se non ci fosse un giorno fissato per la sua morte. Scrive di continuo, lettere su lettere, appunti, sensazioni. Le leggiamo nel testo “Una vita proletaria” pubblicato nel 2017, ed. Galzerano, oppure su “Non piangete la mia morte”.
Non c’è città del mondo in cui i nomi di Sacco e Vanzetti non figurino in manifestazioni, scioperi, dichiarazioni, articoli di giornali, che parlano senza mezzi termini di “assassinio legalizzato”. Manca solo Roma, dove non succede niente. Una timida richiesta del duce all’ambasciata americana per l’italianità dei due, un tentativo solo formale, niente più. É il fascismo, che non può tollerare di appoggiare appartenenti ad un movimento anarchico e mettere di malumore gli Stati Uniti.
Non si fermano, in America, gli attentati e le minacce ai protagonisti della vicenda, messi sotto protezione. C’è una reazione che assomiglia molto ad una militarizzazione del paese.
Luigina, sorella di Barth, vorrebbe vederlo per l’ultima volta. Non potrà mai farcela, bloccata a Parigi dalla burocrazia americana. La data fissata per l’esecuzione è il 10 agosto. Quel giorno a Boston succede di tutto: manifestazioni, arresti, cariche della polizia, feriti. A Union Square a New York ci sono centomila persone a chiedere la liberazione dei due anarchici. L’esecuzione è spostata al 22. Questo permette, se non altro, a Luigina, di rivedere il fratello: si abbracciano, a lungo, ben oltre il tempo consentito, ma le guardie non se la sentono di interromperli.
Il 22 sera attorno al carcere c’è mezza Boston, una folla enorme che viene caricata dalla polizia con una violenza degna di miglior causa. Nel resto del mondo migliaia e migliaia (centomila a Parigi) manifestano ovunque. A Mosca, Ottawa, Berlino, Ginevra, Londra, … Ci sono tutti: gli artisti, i poeti, gli scrittori, gli anarchici, i socialisti, e tutti gli altri che non hanno etichetta se non quella di volere giustizia. Un triplo cordone di militari armati circonda le mura dal carcere, migliaia di voci gridano i nomi “Nick e Bart, Sacco e Vanzetti”. E poi un coro senza fine: “Let them out”. Posti di blocco sulle strade che portano a Charlestown, sembra scoppiata una guerra.
Mezzanotte. Il boia, pagato 250 dollari ad esecuzione, procede. Nella stanza, a guardare la scena, ci sono solo otto persone e un giornalista che raccoglierà le ultime parole dei condannati. Muoiono in tre, Madeiros, Nick Sacco, anarchico pugliese, Barth Vanzetti, anarchico piemontese.
Quelle scariche elettriche sono come un segnale di guerra. In Europa vengono attaccate le sedi americane, a Parigi scoppia una guerriglia urbana con scontri violenti, barricate, locali storici devastati: mille feriti e dieci milioni di franchi di danni. Poi la protesta si spegne e il risultato è una repressione ancora più dura contro i libertari. Si torna al lavoro, con turni massacranti, le solite ingiustizie, le solite storture, le solite cose.
Il 28 agosto, a Boston, si celebrano i funerali. Alla partenza del corteo sono in duecentomila, anche se qualcuno parla di mezzo milione di persone. La polizia ha paura, non vuole che quell’enorme massa di persone passi vicino agli edifici pubblici e non trova di meglio che continuare a caricare il corteo, a più riprese, per disperdere i partecipanti: ancora e ancora pestaggi, cariche a cavallo, manganellate, feriti. Nonostante tutto, arrivano in 13mila dove vengono cremati. Luigina porta le loro ceneri in Italia, ogni urna nel paese d’origine, Sacco a Torremaggiore in Puglia, Vanzetti a Villafalletto in Piemonte, i loro paesi, da dove erano partiti carichi di speranze e alla ricerca della felicità. Le immagini del funerale vengono requisite, anche se qualcuna è stata poi recuperata.
La storia processuale dei due anarchici ha qualche conseguenza. Da un lato il tentativo di eliminare tutte le prove e le circostanze dubbie del processo come se la brutta vicenda di Sacco e Vanzetti non fosse mai avvenuta. Dall’altro, diverse norme processuali vengono modificate, a maggiore tutela degli accusati.
L’arte non si dimentica di loro, Vengono scritti libri, realizzati documentari, Woody Guthrie scrive una canzone, viene realizzata, nel 1960, un’opera teatrale. A questa assiste a Genova il regista Giuliano Montaldo che, venuto finalmente a conoscenza di questa storia, nel 1971 realizza un film imperdibile, la cui colonna sonora è affidata a Ennio Morricone. L’ultimo brano, quello che accompagna il discorso di Vanzetti dopo la sentenza, è diventato, prendendo spunto proprio da quelle dichiarazioni, la canzone di Joan Baez che tutti conoscono:
“Here's to you, Nicola and Bart - Rest forever here in our hearts - The last and final moment is yours -
That agony is your triumph”.

«Vi rendo omaggio Nicola e Bart Per sempre riposate qui nei nostri cuori Il momento estremo e finale è vostro Questo dolore è il vostro trionfo!»
Come detto all’inizio, una storia di intolleranza e sopraffazione, ma non solo …
(qui mi sono fermato, per lasciare al lettore la voglia di completare, se crede, la frase)
Fonti: