Introduzione
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Veniamo da un periodo straordinario, dove un piccolo virus ha messo in ginocchio l’intera società di questo pianeta, riempiendo i nostri cimiteri di morti e portando il terrore, tanto che abbiamo dovuto chiudere tutto, negozi, attività, produzione, centri di ricreazione, barricarci in casa per sopravvivere. Il tutto per un periodo piuttosto lungo e non sappiamo ancora quando tutto questo finirà e potremo tornare alle nostre solite vite. Ora, non è detto che se, 250 anni fa, avessimo impostato la società in modo diverso, ad esempio sfruttando altre energie invece di quelle basate sulle fonti fossili, che hanno riempito la nostra aria di gas serra, fatto crescere la temperatura media del pianeta, impestato di ogni tipo di schifezze le nostre montagne, i nostri mari, le nostre pianure … non è detto – dicevo – che cambiando il tipo di società non avremmo avuto lo stesso una pandemia del genere. Del resto nei secoli passati epidemie simili sono già avvenute, anche in periodi che possiamo giudicare migliori di questo dal punto di vista ambientale.
Quello che è certo, è che lo sviluppo che, come umanità, abbiamo scelto non si è dimostrato più forte delle disavventure e abbiamo capito che tutto può crollare da un momento all’altro. Questo dovete concedercelo: o siete proprio sicuri che tutto filerà liscio esattamente come prima?
Oggi, tuttavia, la parola d’ordine è ripartire, ripartire più in fretta possibile, perché si sono persi tanti soldi, il famigerato PIL è crollato, il che significa, per chi non fosse abituato a certe sigle, che non sono state scambiate merci con il ritmo che uno si aspetta dalla società dei consumi. E ti credo …
Questa furia di ripresa (che è perfettamente comprensibile e, tutto sommato, anche condivisibile) fa pensare che si riprenderà proprio dal punto di interruzione. Vedremo cosa accadrà al prezzo del greggio, che veniva regalato durante questi mesi, anzi vi pagavano pure per portarlo via, un po’ come quando dovete sgombrare una cantina e chiamate una ditta che si porti via tutte le cianfrusaglie che vi avevate riposto.
Il prezzo del petrolio presto aumenterà di nuovo, perché la maggior parte delle industrie, dei mezzi di locomozione (le automobili, l’infinita schiera di camion che trasportano merci in giro per il mondo, gli aerei e le navi) ne hanno assoluto bisogno.
La pandemia, come correttamente l’OMS l’ha definita, ci offre oggi una possibilità unica di ripartire in modo diverso, sfruttando le molte conquiste che la società ha fatto in questi ultimi anni, durante i quali ha cercato gli strumenti per venire fuori da quell’altra pandemia (che sarà molto, molto più grave di quella da COVID-19) che va sotto il nome di emergenza climatica. Qualcuno ha seguito la strada della green economy, sulla quale pesano come un macigno i costi di trasformazione, essendo basata su tecnologie importanti, innovative e, proprio per questo, non alla portata di tutti. Dunque se green economy sarà, divideremo ancora di più i paesi ricchi da quelli poveri e, vi svelo un segreto, non è detto che noi italiani saremo dalla parte giusta di questa linea di demarcazione. Dipende dalle scelte che verranno fatte e dai tempi che ci vorranno per applicarle, ammesso che siano quelle corrette, ma su questo ripongo una qualche speranzosa fiducia.
Detto questo, vediamo come Gunter Pauli, assai prima della crisi da Coronavirus, ha interpretato la questione e come ha proposto di venirne fuori.
Prima di proseguire permettetemi di aprire una parentesi che credo sia importante e vada fatta.
Nonostante alcune uscite a dir poco improbabili dei giorni del coronavirus, quando è stato chiamato a dare qualche consiglio al nostro premier Giuseppe Conte, noi qui lo valutiamo per quello che ha fatto prima, in relazione alla nascita e all’organizzazione della Blue Economy. Anche se in rete si trovano mille dubbi sul valore di questa strategia, conoscerla è comunque importante, come tutte le altre, ciascuna delle quali ha i suoi detrattori e i suoi avversari.
Le informazioni che seguono sono tratte dal suo libro “Blue economy 2.0”, edito da Edizioni Ambiente nel 2015, che è la fonte principale di quanto segue.
La prima domanda che potreste farmi è: “Perché parlare ancora di blue economy, quando lo avevi già fatto diversi anni fa, seguendo il primo libro di Pauli “Blue economy del 2010?”.
La risposta è piuttosto semplice. Perché le cose, anziché migliorare, sono sempre peggiorate e le proposte che vengono fatte a livello mondiale non soddisfano quelli che si preoccupano dell’ambiente e del futuro dell’uomo, anziché discutere su quisquiglie del tutto inutili e fuorvianti.
Una di queste riguarda un grande dubbio, che salta fuori in continuazione: “É vero che l’emergenza clima dipende dall’attività umana?”. Negazionisti e lobbisti delle grandi multinazionali dicono di no, ma che tutto dipende da eventi naturali come una particolare attività solare o roba del genere. Che senso ha farsi questa domanda se, di chiunque sia la colpa, siamo nella cacca fin sopra la testa? Noi non possiamo modificare i cicli solari o altre cose di cui la fantasia negazionista si riempie la testa. L’unica cosa che possiamo fare è modificare i nostri comportamenti, i quali, sia che l’emergenza climatica dipenda da noi o dagli alieni arrivati da un lontano pianeta, non sono comunque virtuosi, neanche buoni, neanche più tollerabili, come dimostrano mille e mille studi in questo senso. Guardiamo, invece dei valori dei gas serra presenti in atmosfera, quanta CO2 la produzione mondiale vi immette e non avremo dubbi che, riducendola, si ridurrà “progressivamente” anche il problema del clima.
Non voglio tornare su questa questione. Non voglio discutere coi negazionisti, non mi interessano le bugie che inventano e le analisi puerili che i loro sostenitori su Facebook si ostinano a fare. Volete che il mondo continui a comportarsi così? Allora preparate i vostri figli ad un’era terribile, fatta di siccità, di carenza di cibo, di emigrazione massiccia dai paesi più poveri, di sommosse e di guerre. Non lo dico io, lo dice la CIA, che potrete giudicare moralmente malissimo, ma che ha strumenti di verifica delle situazioni che tutti gli altri si sognano. (89)
L’introduzione di Catia Bastioli
La Blue economy ormai non è più un progetto nascosto e per pochi intimi. Sono centinaia i progetti che ne fanno parte, con un sacco di soldi investiti e di posti di lavoro guadagnati. Parliamo di miliardi nel primo caso e di diversi milioni nel secondo.Queste, va sottolineato e ben compreso, non sono previsioni o ipotesi. Si tratta di dati confermati dai fatti, di imprese che già stanno lavorando da anni, usando i progetti di ZERI, l’organizzazione di cui parleremo più avanti. Così le storie dei pionieri di questo nuovo mondo, da quelle di Paolo Lugari in Colombia a quella di padre Nzamujo in Benin, a quella di Chido Gowero in Zimbabwe e a molte altre, sono state solo il trampolino di lancio di centinaia di iniziative, le quali, come vedremo in queste puntate, hanno coinvolto il mondo dell’imprenditoria anche ad alti livelli, coinvolgendo cioè aziende con moltissimi dipendenti e fatturati notevoli.
Questo grande passo in avanti, che non sembra potersi fermare facilmente, fa sì che sia ora di capire cosa bolle in pentola e cosa c’è dietro questa scelta coraggiosa e decisamente alternativa.
Si intende che tutte le strategie che si muovono verso la sostenibilità e l’eco-compatibilità vanno benissimo e devono essere mantenute e rinforzate. Così i paletti messi da molti stati (Europa in testa) in quanto a riduzione degli sprechi, ottimizzazione degli impianti, riduzione della produzione dei rifiuti, maggiore utilizzo delle fonti rinnovabili, riduzione drastica delle emissioni climalteranti … tutti questi paletti, che rientrano nella logica della green economy, vanno benissimo e devono essere sostenuti dagli stati e dai cittadini senza se e senza ma.
Il problema della blue economy è che nessuno ne parla, sembra essere un mistero molto misterioso, soffocata, probabilmente, dal desiderio della produzione occidentale di continuare a fare affari cambiando semplicemente i macchinari e le tecniche di produzione. In altre parole, sostituendo alla tecnologia attuale una tecnologia diversa, altrettanto costosa, come già accennato prima.
La prefazione al libro di Gunter Pauli, “Blue economy 2.0” è di una donna italiana, una delle grandi eccellenze della green economy, Catia Bastioli, amministratore delegato di Novamont, presidente di Terna e presidente del Kyoto Club.
Per i pochi che non lo sapessero Novamont è una grande azienda chimica italiana, con sede a Novara, particolarmente attiva nella produzione di bio-plastiche. Suo il marchio “Mater-bi”, compresi molti dei sacchetti che troviamo all’interno dei supermercati.
Terna, invece, è l’azienda che gestisce la trasmissione dell’elettricità in Italia.
il Kyoto Club, infine, è un’organizzazione non profit, che riunisce aziende, esperti, amministratori locali, associazioni, con l’obiettivo di ridurre le emissioni di gas serra in atmosfera.
Nonostante la premessa della Bastioli ricalchi quanto Noncicredo va predicando da quasi 15 anni, credo sia istruttivo seguirne il ragionamento.
Ho spiegato molte volte che la natura utilizza un sistema circolare di produzione, nel quale i rifiuti o se preferite gli scarti delle lavorazioni vengono reimmessi in circolo come nuove materie prime. Questo avviene non solo all’interno di ogni ecosistema, ma addirittura ci sono processi a cascata (altro termine di cui sentiremo spesso parlare) nel senso che gli scarti dell’ecosistema A servono come materia prima (o nutrienti, per usare un termine tipico della Blue economy) per l’ecosistema B e c’è un altro ecosistema che fornisce i suoi scarti come nutrienti per l’ecosistema A, chiudendo così il cerchio.
Se guardiamo al nostro sistema, al nostro modello di sviluppo, alla nostra società, ci accorgiamo che di tutto questo non c’è traccia. Il nostro è un sistema lineare che tronca ogni attività alla produzione di rifiuti, i quali non vengono riutilizzati come nuove materie prime, ma o buttati via o inceneriti con la pietosa bugia che così si recupera l’energia perduta. Questa è una delle più grosse balle alle quali si attaccano industriali, politici, pubblici amministratori, quando il loro destino (sociale, politico o economico) dipende da quanti rifiuti riescono a produrre.
In questo modo si potranno cercare nuove materie prime e ricominciare il processo da capo, producendo merci, facendole consumare e poi buttare via come nuovi rifiuti. L’elemento comune a tutti questi tasselli è il profitto. É chiaro che se i rifiuti venissero riciclati ci sarebbe meno profitto per chi governa il processo lineare.
Non lasciamoci ingannare dai dati sul riciclo della provincia di Treviso o di Sondrio o di Bolzano. Quando si affrontano questi temi dobbiamo diventare tutti meno provinciali e pensare al mondo intero, non al proprio circondario. E i dati che riguardano il pianeta dal punto di vista dei rifiuti è davvero deprimente.
Di fianco a questa analisi ce n’è un’altra che non possiamo dimenticare. Come Catia Bastioli dice bene, questo sistema lineare di produzione – distribuzione – consumo ha prodotto costi esterni crescenti. Questi costi hanno a che fare con l’inquinamento (in senso generalizzato) del pianeta e quindi con la necessità di intervenire per bonificare, rimettere le cose a posto. Anche la salute degli individui, come sappiamo da una moltitudine di esempi, è a rischio con questo sistema e anche questo comporta spese, individualmente per i cittadini certo, ma anche per lo stato e quindi i cittadini saranno penalizzati due volte.
La grande sfida che l’umanità ha di fronte è quella di vivere bene nel limite naturale, il che significa vivere nei limiti delle risorse disponibili. Non è possibile che quello che la terra è in grado di ricreare ogni anno finisca a metà estate, essendo per di più consapevoli che chi si è mangiato le risorse è solo una parte (e nemmeno quella più abbondante) della razza umana. Gli ostacoli da superare sono tanti e non sono solo quelli di una miopia politica estrema, ma anche quelli legati alle nostri abitudini consolidate, l’incapacità di analizzare e prevedere e la rapacità di molti, alimentate da egoismo, arroganza e ignoranza.
Perché mai dovremmo dare fiducia a Gunter Pauli, più che ad altri ispiratori di cambiamenti?
Per cominciare dovremo dire per quali motivi il sistema da noi adottato non funziona. E Catia Bastioli qui non si risparmia certo. A cominciare dal reperimento delle risorse, che nell’economia blue sono sempre locali e non servono trasporti marittimi che attraversano oceani per far arrivare il carbone o il gas da chissà dove, il rame dal Cile o lo Zinco dall’Australia. Se a questo si aggiunge che le materie usate servono in cascata, è chiaro il vantaggio di questo tipo di processo rispetto a quello attuale. Questo si traduce nel fatto che il territorio, tutti i territori, non vengono depredati come avviene nella brown economy, ma se ne risaltano i pregi e con questo si appianano almeno alcune delle problematiche sociali e ambientali.
Il modello attuale e lineare non è solo pessimo per quanto già detto, vale a dire per lo spreco di risorse e la creazione di inquinamento, ma è destinato a realizzare un numero limitato di prodotti sempre più massificati e destinati ad una crescita continua che genera, quando ce la fa, ricchezza per pochi a scapito di molti. Noi ci siamo adagiati, supini, in questo ambiente, grazie alle potenti armi di distrazione di massa usate (dal marketing alla televisione, alla moda, eccetera). Abbiamo cominciato a ragionare per slogan e a produrre sempre più scarti, rinunciando spesso al nostro essere elementi razionali e critici. E così, oltre a quello dei materiali, assistiamo allo spreco di risorse umane, creando emarginazione sempre più estesa, piena di violenza, abusi, illegalità, sottocultura e noncuranza per gli altri.
Non si può tuttavia negare che l’utilizzo degli ecosistemi naturali faccia parte anche dalla cultura attuale della società, ma è il tipo di azione ad essere diverso.
Gli ecosistemi nella logia attuale vengono manipolati, cercando di rendere sempre più rapidi i loro cambiamenti. Questo viene fatto spesso senza capire a cosa si va incontro, quali possono essere le conseguenze della nostra azione. Si guarda solo al lato economico del processo, dimenticando o sottovalutando (spesso volutamente) i suoi effetti collaterali. Se pensiamo ad esempio agli allevamenti intensivi di bestiame (siano essi mucche o maiali), è chiaro che il guadagno è maggiore degli stessi animali portati al pascolo, ma maggiore è anche la produzione di deiezioni che finiscono per inquinare i campi circostanti e produrre (grazie all’emissione di notevoli quantità di metano) polveri sottili come quelle dei motori a scoppio o delle caldaie per il riscaldamento.
C’è un esempio che mi sembra molto chiaro, fatto da Pauli nel suo libro e che riguarda l’emergenza climatica. Se ci pensate, che senso ha fissare l’attenzione sulla riduzione di gas serra, se si continuano a scavare pozzi per recuperare altro petrolio, altro gas e altro carbone?
La soluzione proposta dalla Blue economy è diversa: una via di sviluppo basata sui sistemi integrati, sul concetto di “cascata”, di bioraffinerie integrate locali (una prima è stata aperta in Sardegna nel 2014), sulla conoscenza profonda della fisica, della chimica e della biologia della natura e sulla loro integrazione.
Qualcuno di importante ha detto una volta che non è mai possibile risolvere un problema utilizzando per la sua soluzione gli stessi metodi che l’hanno creato.
Abbiamo bisogno non di studiosi ancorati al sapere tradizionale e anche agli stipendi relativi, ma menti aperte all’innovazione, al cambiamento dei paradigmi, che sappiano guardare al futuro con fiducia e fare proposte anche le più strane.
Ci vuole, lo si capisce bene, un cambiamento culturale che deve attraversare tutta la società e che deve mettere al centro non più solo pochi singoli prodotti spinti da poche e sempre più grandi realtà industriali. Ricordo che sono 10 le grandi multinazionali cui fanno riferimento i marchi di qualunque cosa si compri nei nostri supermercati.
E, come un mantra, Catia Bastioli lo ripete ancora: al centro devono esserci i territori e i loro specifici ecosistemi. É così che si valorizza il paesaggio; è così che si combatte la mancanza di disponibilità di acqua, è così che si trasformano aree interessate da pesanti processi di desertificane in aree di vegetazione e ricche di risorse, è così che diventa possibile trasformare materiali percepiti come inquinanti in preziose materie prime.
Solo sogni? Se seguirete questi articoli vi renderete conto che si tratta di ben altro. Ve lo prometto.
Certo non è che sia facile. Non lo è perché oggi la maggior parte della classe dirigente del pianeta si ispira a principi differenti. Quelli ancora oggi studiati nelle università, nei centri di formazione per manager portano a concentrarsi sul cosiddetto “business as usual”, vale d dire sul modo attuale di fare affari, quello del capitalismo e del consumismo, quello disgraziato che sta mettendo a rischio la permanenta della specie umana sulla Terra.
Qualcuno potrà anche obiettare che l’attuale modello ha dalla sua una tecnologia che diventa sempre più potente. Non voglio entrare nella questione morale che le macchine (o meglio chi le gestisce da remoto) stanno sempre più obbligando le persone a scelte che spesso non condividono, sentendosi come i protagonisti di certi film di fantascienza, che diventano ogni giorno più reali.
Ma il problema non è la tecnologia in sé: quello che manca oggi è la saggezza di usarla. Per usare le parole di Catia Bastioli: “l’enorme disponibilità di mezzi tecnici, la globalizzazione senza radici e senza una forte volontà politica di mettere al centro i territori con le loro peculiarità, hanno finito per generare tempeste globali non controllabili. Il punto è che il denaro dovrebbe essere a servizio delle idee e dei progetti per la qualità della vita e non, viceversa, essere le idee al servizio del denaro senza radici e senza cultura. La logica del dividendo per l’oggi non aiuta.”
Le stesse tecnologie, al servizio di un progetto condiviso di sviluppo possono fare la differenza; il nuovo modo di pensare economia che Gunter Pauli e il gruppo ZERI propongono, consente di avviare centinaia di processi circolari, dove la terra, la sua qualità e biodiversità e l’uso efficiente delle risorse, diventano il centro di una rigenerazione culturale, industriale, ambientale e sociale, nel rispetto della dignità delle persone.
Vorrei proprio vedere a chi un simile mondo possa dispiacere. (82)
Ci sono multinazionali buone?
Quando pensiamo alle multinazionali, in generale, ci vengono in mente quelle che hanno ridotto un colabrodo gli Stati Uniti con la ricerca del gas di scisto, o le multinazionali del cibo, che fino a pochi anni fa non si facevano scrupoli di usare prodotti provenienti da stati e luoghi dove il rispetto delle persone e dell’ambiente era sotto zero, o ancora delle multinazionali dei farmaci, quelle delle armi e così via.E così, continuando nella lettura del libro di Gunter Pauli, ecco una sorpresa mica da ridere.
Fa, infatti, abbastanza clamore leggere la seconda prefazione. Non per quello che vi è scritto, ma per la firma dell’autore. Si tratta, infatti, di Giuseppe Lavazza, vicepresidente della omonima azienda del caffè. Il primo capitolo è introdotto da una massima di Sichihiro Honda, il fondatore della notissima casa di motociclette giapponesi.
Ora, io non sono in grado di affermare che il signor Lavazza, che parla a nome dei suoi predecessori e della sua azienda dica cose vere oppure no, per cui mi asterrò da ogni commento in merito. Ma se Edizioni Ambiente, che è un editore molto serio, ha pensato bene di dargli questo spazio, una ragione buona sicuramente ci sarà.
Del resto il sito dell’azienda punta molto sulla sostenibilità e lo scorso anno (2019) Giuseppe Lavazza è stato nominato Cavaliere del Lavoro per l’attenzione a questa questione. Anche Berlusconi è stato Cavaliere del lavoro, quindi può anche non voler dire niente.
Giuseppe Lavazza sostiene che la sua azienda sia diventata un modello di sostenibilità fin da quando il suo fondatore, Luigi, si rese conto, andando nei campi di produzione del caffè in Sudamerica, della grande quantità di merce invenduta che veniva distrutta. Era il 1935 e capì che questo comportava non solo uno spreco economico e di risorse (il caffè, l’acqua, il terreno, le piante) ma anche di lavoro e quindi della dignità delle persone. Secondo Giuseppe, la sua azienda, oggi, è inserita pienamente nella logica della blue economy. Lo dimostrano – sostiene – le coltivazioni sperimentali e le ricerche portate avanti con il Politecnico di Torino o le capsule compostabili al 100% realizzate in collaborazione con Novamont e che rappresentano un modo di riciclare le risorse, renderle ancora disponibili anche se per un altro ecosistema, quello della floricultura e dell’agricoltura. Lo dico perché è carino, ma le capsule si accompagnano a tazzine che si possono poi mangiare.
Se queste informazioni corrispondo, com’è molto probabile, a verità, significa che si può fare. Si può fare, significa, qui, che un’altra via è possibile, senza uscire dalla società, senza rinunciare alla luce elettrica o alla macchina e alla televisione, che è il tormentoso terrore di chi vorrebbe continuare as usual.
Siamo così arrivati alla premessa e la premessa è fornita da un altro personaggio di rilievo dell’ambientalismo mondiale, Ashok Khosla, indiano di Dheli, laureato ad Harvard in fisica sperimentale, uno dei massimi esperti di sviluppo sostenibile, componente del gruppo di lavoro delle Nazioni Unite per i programmi ambientali e di molte altre associazioni. É stato per 7 anni, fino al 2012, presidente del Club di Roma, club di cui ho parlato molte volte e che raccoglie da quasi 50 anni scienziati, amministratori, imprenditori, che si occupano di come stanno andando le cose. Tra l’altro Gunter Pauli è uno dei prestigiosi componenti del Club di Roma, che ha sponsorizzato l’uscita del primo volume sulla Blue Economy.
L’intervento del professor Khosla sarebbe da leggere parola per parola perché rappresenta una analisi spietata e lucidissima di quello che oggi un ambientalista dovrebbe pensare per il passato e il futuro. Cercherò di riassumerlo nel miglior modo possibile.
La prima domanda che si pone è “cosa deve fare l’economia oggi?”
La risposta è questa. “Oggi l’obiettivo principale della maggior parte delle economie deve essere quello di generare beni e servizi capaci di soddisfare i bisogni fondamentali di tutti, di creare posti di lavoro e reddito per permettere alle persone di acquistare questi beni e servizi, il tutto senza superare i limiti del pianeta. Gli approcci economici odierni non fanno adeguatamente né l’una né l’altra cosa.”
Ci sono, in questa definizione di Khosla, un paio di termini da sottolineare. Quando parla di bisogni fondamentali non si riferisce evidentemente a tutte le cose inutili che compriamo ogni giorno, che finiscono regolarmente in un cassetto e che arrivano nelle nostra case per una specie di follia compulsiva che ci coglie quando entriamo in un centro commerciale. E, ovviamente, l’altra sottolineatura è per quel “senza superare i limiti del pianeta” che marca la divisione tra quella che viene definita l’economia attuale e i nuovi progetti come la blue o la green economy, di cui poi vedremo pregi e difetti.
Quello che proprio non va nella brown economy - continua Khosla – è la massiccia estrazione di risorse naturali, in particolare di combustibili fossili e una spropositata produzione di rifiuti, che creano inquinamento.
E proprio a questi ultimi due problemi ha cercato di dare soluzione la green economy, ottenendo risultati ottimi non solo in molte aziende, ma anche in amministrazioni locali e nazionali. Tuttavia, è anche diventato evidente che questo approccio non è sufficiente per gestire i problemi derivanti dall’eccessivo sfruttamento delle risorse. Se lo ha fatto, lo ha fatto a caro prezzo e chiedendo sacrifici. In ultima analisi sono aumentati i costi e diminuite le soddisfazioni.
Rimane la proposta di ZERI e di Gunter Pauli. Un altro elemento da considerare è che l’attuale sistema di produzione si basa su una tecnologia che tende a sostituire i lavoratori con le macchine, con conseguente diminuzione di posti di lavoro. La tanto decantata “società della crescita” non potrà dunque che far aumentare il numero di disoccupati a meno di non devastare completamente il pianeta per produrre merci del tutto inutili.
Ecco perché - continua Khosla – è utile questo libro: perché le idee esplorate in esso offrono le prospettive più stuzzicanti per realizzare un’economia a bassa emissione di carbonio, che sfrutta in modo intelligente ed efficiente le risorse e, soprattutto, permette alla natura di fare quello che sa fare meglio da miliardi di anni: innovare, produrre, utilizzare e riciclare, ancora e ancora per periodi di tempo lunghissimi. Imparare dalla natura, osservare come si comporta e copiarne i processi è una delle mosse più intelligenti che le economie moderne possano fare. Lo faranno? É proprio questo il problema. Ne parliamo dopo una breve pausa. 86
La strategia e qualche primo esempio
Noi oggi ci dibattiamo tra problemi che riusciamo difficilmente non solo a risolvere, ma spesso a capire. Si tratta di problemi che la natura ha già risolto in modo indolore, sfruttando le enormi possibilità che ha elaborato nella sua lunghissima vita.Il libro di Gunter Pauli ci introduce in questo nuovo e lungimirante settore. Le proposte pioneristiche che esso delinea convinceranno rapidamente i business leader e i capi di governo a esplorare e sviluppare le idee innovative che sono alla base di questi nuovi sviluppi.
E non si tratta di semplici promesse o di favole per addormentarsi tranquilli. Alla base di tutto c’è il lavoro di moltissimi scienziati e professionisti, imprenditori e artigiani, presenti in ogni parte del mondo che trovano soluzioni alternative, soluzioni che potrebbero, se divulgate e diffuse, rivoluzionare il modo in cui molte cose sono prodotte e usate. Occorre usare le materie che sono state studiate, la fisica, la chimica, la biologia, non per trovare il modo di potenziare un cellulare, ma per produrre materiali rinnovabili e pratiche sostenibili, proprio come fa l’ecosistema terrestre. Questa non è fantascienza, sono processi che stanno accadendo qui ed ora.
Tuttavia, questo non basta. Occorre anche una visione politica adeguata, che supporti (soprattutto strategicamente) ricerca e sviluppo, un po’ di conoscenza e di pubblicità per inserire la blue economy sul mercato che conta.
Come vedremo bene, quando esamineremo i molti esempi, ci sono sia specie animali e vegetali, sia processi dell’ecosistema che possono insegnarci come produrre farmaci, colture alimentari, biocarburanti e materiali vari a basso consumo di energia.
Non è quello che vogliamo? Non è forse una soluzione possibile per ridurre l’emergenza climatica?
Non solo: queste innovazioni implementate nella società, potranno essere un trampolino di lancio per altre iniziative, altre aziende, altro business e, dunque, altri posti di lavoro.
Pauli sostiene che già oggi sono più di tre milioni i nuovi posti di lavoro prodotti da queste innovazioni. Il risultato è straordinario, se pensiamo ci sono anche quelli creati dalla green economy: i lavoratori del settore delle rinnovabili è superiore a quelli delle industrie di gas e petrolio messe assieme. E lo stesso avviene per gli investimenti.
E adesso serve qualche esempio.
L’acqua disponibile in futuro sarà sempre meno. Due terzi della popolazione mondiale potrebbe trovarsi a vivere in condizioni di stress idrico. C’è un insetto, il coleottero tenebrionide del deserto del Namib, che raccoglie l’acqua in maniera straordinaria. Il suo habitat non vede più di un centimetro d’acqua l’anno, ma può trattenere l’acqua delle nebbie portate dai forti venti attraverso il deserto diverse volte al mese. I ricercatori hanno studiato questo insetto ideando una superficie ispirata alle sue fattezze. I primi risultati sono incoraggianti in quanto si è già riusciti a recuperare il 10% dell’acqua persa nelle torri di raffreddamento. Potrà sembrare una sciocchezza, ma non lo sono i numeri. Ogni anno vengo erette nel mondo 50 mila nuove torri e ognuno di questi sistemi perde circa 500 milioni di litri d’acqua al giorno. Quindi anche un risparmio del 10% diventa prezioso. Le previsioni, una volta implementato questo sistema nella società, è di avere a disposizione almeno 100 mila posti di lavoro nuovi.
C’è un altro progetto in Benin che imita quello che negli ecosistemi si chiama ricaduta a cascata dei nutrienti. Gli scarti del mattatoio vengono trasformati in un allevamento di vermi per nutrire pesci e quaglie. Si produce anche biogas che serve a produrre elettricità; e delle piante purificano l’acqua. É una specie di microcosmo di blue economy, una porzione di sistema naturale. Attualmente dà lavoro a 250 persone, ma, se sviluppato a livello generale, offre almeno mezzo milione di opportunità.
Altro esempio. Tutti noi sappiamo cos’è il Velcro. Un sistema di chiusura inventato nel 1941 da George de Mestral, il quale un bel giorno di ritorno da una passeggiata in campagna si accorge di avere attaccati ai pantaloni certi fiori rossi. Si trattava di Bardana, una pianta perenne molto diffusa anche nel nostro paese. É stato semplicemente copiando gli uncini naturali di quei semi che il Velcro è venuto alla luce.
Ci sono edifici nel mondo (la Zoological society di Londra, una scuola in Svezia, un ospedale in Colombia, un centro commerciale in Zimbabwe per citarne qualcuno), che hanno un sistema di raffreddamento copiato dai canali che le termiti scavano nei loro cumuli di terra.
Sono solo piccoli esempi di quanto la natura sia avanti coi suoi progetti rispetto ai nostri, se vogliamo rimanere, come detto più volte, nei limiti del pianeta.
Quello che Blue Economy 2.0 enfatizza sono soprattutto le potenzialità di queste innovazioni. Se seguirete le puntate di questa trasmissione avremo modo di presentare e analizzare alcuni di questi progetti, descrivendolo in tutte le loro fasi di realizzazione. Va sottolineato (e lo faremo ancora nel corso delle prossime puntate) che qui non siamo di fronte all’idea di una società preistorica senza energia elettrica, senza industrie, senza comodità. Scopriremo aziende che fanno fior di profitti e danno lavoro ad un sacco di persone inserite nella blue economy. Ma lo fanno senza portare il pianeta ad una situazione di non ritorno. Il mondo è tormentato da crisi che colpiscono alimenti, combustibili, ambiente, finanza ed economia. La perdita di ecosistemi e biodiversità ha portato ad una crescente crisi climatica e un incombente disastro per le risorse naturali. La Terra è sempre stata la nostra maggiore risorsa: se seguiamo la logica della natura possiamo creare le fondamenta per un profondo cambiamento nella società … ovviamente in meglio.
Chi è Gunter Pauli
Riassumiamo brevemente. Quello che emerge dagli interventi di Katia Bastioli, Giuseppe Lavazza e Ashok Khosla è che la società in cui viviamo non ha futuro, essendo poggiata su un consumo esagerato di risorse e per di più con sistemi che producono inquinamento di ogni genere, rendendo il pianeta sempre meno abitabile per la specie umana e non solo quella. L’economia attuale non è in grado di rispondere alle domande di innovazione che sono necessarie e pertanto va cambiata. Una delle risposte è venuta dalla green economy, che tuttavia, secondo gli autori citati, presuppone investimenti, tecnologie costose e sacrifici da parte dei cittadini. In ultima analisi questi due modi di intendere lo sviluppo non sono in grado di affrontare la questione forse più importante, quella sociale ed etica di una terra divisa in ricchi e morti di fame, purtroppo nel senso letterale del termine.Ripartiamo da qui.
Probabilmente sarete curiosi di mettere il naso in questo libro di cui ho tanto parlato senza mai entrare nel merito. Non preoccupatevi, lo faremo oggi e avremo tutto il tempo nelle prossime puntate per analizzare le pagine dei capitoli, capire il funzionamento tecnico sì, ma anche sociale ed economico dei progetti e tutto il resto.
Ma, dal momento che il suo autore è un personaggio di grande rilievo, forse è il caso di conoscere più da vicino Gunter, i suoi pensieri e un pochino della sua storia personale. Il fatto più curioso è che tutto quello di magnifico che ha creato con la sua organizzazione, deriva da un errore strategico (o meglio una ingenuità) che ha però inguaiato l’intero pianeta. Ma andiamo con ordine.
Gunter Pauli è belga; nasce ad Anversa nel 1956.
Definire Pauli non è facile: imprenditore, economista, scrittore, ambientalista. Chi ha vissuto dagli anni ’70 in poi l’evoluzione del pensiero ambientalista, non può che averlo fatto con preoccupazione. A partire, nel 1971, dalla pubblicazione del rapporto sui limiti dello sviluppo, che il club di Roma aveva commissionato al MIT di Boston. Quel documento delinea il futuro della società esattamente come è poi avvenuto, con la sovrappopolazione, la scarsità di risorse, i problemi energetici e tutto il resto. Insomma frasi come “Nessuno ci ha avvertiti” o “Chi poteva mai immaginare” sono solo grosse bugie.
Gunter Pauli non le ha mai usate queste frasi. Lui è informato, molto informato, ma si rende conto che non lo è la maggior parte delle persone che incontra. Così apre una casa editrice specializzata che si occupa, tra l‘altro, di mettere a disposizione dei recalcitranti economisti e uomini d’affari europei, due pubblicazioni fondamentali. Entrambe prodotte ogni anno dal Worldwatch Institute, fondato da Lester Brown e che si occupa tuttora di ogni questione che riguardi l’ambiente. Le due pubblicazioni, ancora oggi fondamentali, sono State of the world (lo stato del pianeta) e Vital Signs (Segnali di vita).
Gunter tuttavia si rende presto conto che essere informati non basta. Non si può rimanere solo cittadini preoccupati per il futuro, rimpiangendo ogni singolo errore fatto. La nascita e la crescita dei due figli lo convince che è necessario offrire loro la libertà di pensare e, ancora di più, di agire fuori dal coro fornendo loro non solo la critica al sistema, ma anche pensiero positivo e possibilità di azioni concrete.
E così l’imprenditore Pauli si mobilita, apre sei imprese, poi, negli anni ’90 costituisce la Ecover, un’azienda che produce detergenti biodegradabili. Per farlo sostituisce i tensioattivi petrolchimici con una sostanza naturale: gli acidi grassi dell’olio di palma. Sembra perfetto: sostanze naturali al posto di sostanze chimiche, riduzione dei gas serra e tutto il resto.
Purtroppo però le cose non vanno affatto nel verso giusto. Tutta l’industria si butta su questa idea e la richiesta di olio di palma cresce moltissimo. Il resto è cosa nota. Grandi multinazionali e aziende locali inducono governi non certo integerrimi dei paesi del lontano Oriente a fornire concessioni a raffica che decimano le foreste pluviali sostituite da colture di palma. L’orango non ha più una casa e l’effetto serra si impenna. Quello dei governi che offrono concessioni alle multinazionali è un tema importante e non riguarda certo solo l’estremo oriente o l’Africa. Avviene anche nell’Occidente, basta pensare alle vicende legate al gas di scisto e alle trivellazioni in mare in tante parti del mondo a cominciare dall’Artico.
É a questo punto che Gunter Pauli prende la sua decisione importante e cioè capisce che le soluzioni proposte non funzionano perché incomplete e si chiede: qual è l’azienda perfetta? La risposta è una illuminazione per Pauli: è la natura e quello che si deve fare è emulare l’efficienza degli ecosistemi. Questi infatti sono un modello straordinario in quanto a gestione delle materie prime e all’assenza di rifiuti prodotti, da cui possiamo prendere esempio rispetto alla nostra mania esagerata di produrre e consumare.
E proprio dai rifiuti occorre cominciare, poiché si potrà intravvedere la sostenibilità solo quando il nostro sistema eliminerà del tutto il concetto stesso di rifiuto, cominciando ad attivare cicli a cascata come avviene in natura. Abbiamo già detto che i rifiuti di un processo devono diventare i nutrienti di un altro sistema. Nel corso delle puntata vedremo molti esempi di questo concetto, dei cicli a cascata dei nutrienti e dell’energia.
E proprio da questo concetto parte la sfida di Gunter Pauli. In effetti, dopo la questione molto deludente di Ecover e dell’olio di palma, il rettore dell’Università delle Nazioni Unite, Heitor de Souza, sfida Pauli a creare un modello per un sistema economico a rifiuti ed emissioni zero, che crei più posti di lavoro, contribuisca al capitale sociale e non comporti costi più elevati.
Provate a pensarci: sembra un’impresa impossibile. “Sembra”, appunto, perché noi ragioniamo con i paletti che la società dei consumi ha piantato nei nostri cervelli e cerchiamo soluzioni ripercorrendo le strade che ci hanno portato fin qui. Il trucco è ed era per Pauli in quegli anni ’90, proprio questo. Buttare via tutto quello che sappiamo e cominciare da capo. Siamo nel 1994; il protocollo di Kyoto arriverà solo tre anni più tardi. Si tratta per ora di uno studio cattedratico, una specie di gioco delle parti, che ha come obiettivo quello di rivoluzionare ogni concetto industriale ed economico conosciuto. E scusate se è poco.
Passano tre anni in cui Gunter Pauli sviluppa il suo progetto e passa attraverso continue ricerche e verifiche. Ad aiutarlo anche il Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite (UNPD). Dopodiché nasce la fondazione ZERI in Svizzera, il cui obiettivo (ancora oggi che la fondazione conta migliaia di addetti ai lavori) è quello di adottare soluzioni innovative per dimostrare che il modello voluto da Pauli per scommessa è fattibile. Insomma che la Blue Economy si può applicare e funziona proprio come previsto nei progetti iniziali.
Questo è un passo decisivo perché per arrivare ad implementare nella società reale tutte le idee che Gunter ha in testa, servono soprattutto altri imprenditori disposti a investire su questi sogni, imprenditori che si lasceranno convincere solo dalla dimostrazione che il progetto funziona davvero.
Da dove cominciare?
Usare la scienza della natura
Da dove cominciare? Bisogna anzitutto capire come le leggi della fisica, della chimica e della biologia vengono usate dagli ecosistemi naturali e, secondo passaggio non semplicissimo, trasformare queste informazioni in processi produttivi da applicare in nuove aziende o quanto meno in aziende che abbiano uno spirito e obiettivi nuovi.Nei cinque anni seguenti Gunter Pauli gira il mondo cercando e incontrando inventori e imprenditori, analisti finanziari e giornalisti economici, docenti universitari di strategie aziendali e lavoratori specializzati in questo o quel settore.
Nasce un team che esamina tutti i casi di successo e di fallimento e che valuta le dinamiche del crollo dell’attuale modello economico mettendo tutto questo a confronto con le innovazioni raccolte e catalogate. Di fronte a quello che accade con la mania della crescita accompagnata da tagli continui, nasce un modello basato sulla possibilità di soddisfare i bisogni fondamentali delle persone con quello che la natura mette a disposizione.
Come scrive Gunter Pauli nel suo libro, egli si rende conto che l’attuale dissesto economico è solo apparentemente un male. Può darsi che finalmente si porrà termine al consumismo sfrenato che ha indebitato l’economia a livelli insensati.
Invitare i cittadini a consumare di più e quindi a spendere di più è un assurdo della logica che vuol far credere che questa sia la strada per uscire dalla crisi, mentre non fa altro che indebitare per sempre tutti noi, ma anche le generazioni future per le ricadute di questo comportamento sul bene comune.
Un modello, insomma, fallimentare, un modello di “red economy” (economia in rosso) che prende risorse a prestito – da natura, umanità e dai beni comuni – senza preoccuparsi di come farà a ripagare questo debito, se non lasciandolo in dote al futuro.
Per contro la green economy ha chiesto alle imprese di investire di più e ai consumatori di spendere di più per ottenere le stesse cose, ma preservando l’ambiente. Ottenere gli stessi risultati che non si riusciva ad avere in periodo di vacche grasse, quando le cose non vanno per niente bene è cosa terribilmente complicata. Come si può mai apprezzare la green economy se tutto quello che va bene per noi e per l’ambiente è molto costoso? Si potrà mai apprezzare una economia in cui tutto quello che danneggia noi e l’ambiente costa poco? É questa l’economia di mercato?
La blue economy salta questo punto: non vuole conservare quello che si è ottenuto, non vuole investire di più nella tutela dell’ambiente, lo vuole rigenerare.
E poi: chi decide sulle scelte produttive, quindi di consumo della popolazione? Sono i grandi manager, qualche impresa monopolistica o, peggio lo Stato. Pensate ad esempio alle nostre più grandi imprese energetiche, nelle quali il peso dei ministeri è determinante.
La blue economy comincia dal basso, coinvolgendo quante più persone possibile perché non parte dal capitale, ma dalle risorse disponibili.
E così alcuni termini vanno capovolti. A volte l’inutile può diventare un nutriente di un processo importante, la scarsità può diventare sufficienza e qualche volta addirittura abbondanza.
Ma c’è un termine che va cambiato per primo. Il termine è “rifiuto”.
Se i rifiuti di risorse materiali esemplificati dalle discariche e dagli inceneritori sono da deplorare, il rifiuto delle risorse umane è assolutamente inaccettabile. Quando il numero dei giovani disoccupati raggiunge valori impressionanti, questo significa nei fatti, al di là dei discorsi di circostanza, che i leader considerano la prossima generazione inutile, o ancor peggio, può significare che sono i giovani e gli svantaggiati a considerarsi inutili. É sintomo di un sistema in declino, di una società profondamente in crisi. Tutto questo viene acuito dalle statistiche sull’aumento di criminalità, violenza, terrorismo, tossicodipendenza, immigrazione illegale, abbandono dell’istruzione e trattamento deplorevole di popolazioni e comunità già a rischio di scomparire o senza servizi. Rifiuti umani dunque. Perché?
Un altro tema da affrontare preliminarmente è quello della poca logica che sta alla base di molte soluzioni proposte. Parlo di una logica logica, di una logica naturale, non di quella imprenditoriale che quello che va fatto è solo accumulare denaro costi quello che costi.
Per depurare l’acqua immettiamo sostanze chimiche che annientano le forme di vita. Le serre riscaldano l’aria invece delle radici delle piante. Paghiamo più di 100 dollari per kwh l’elettricità fornita da un accumulatore che inquina l’ambiente. Quando beviamo una tazza di caffè utilizziamo solo lo 0,2% della biomassa, mentre il resto lo lasciamo marcire, generando gas metano o destabilizzando i lombrichi, che soffrono tanto quanto noi di quella neurotossina chiamata caffeina. Si gettano in discarica milioni di tonnellate di titanio, estratto e lavorato ad alte temperature quando ci sbarazziamo dei nostri rasoi “usa e getta”. Tagliamo milioni di alberi per soddisfare il nostro appetito di carta e poi la ricicliamo consumando moltissima acqua. L’umanità è energivora più che mai, emette gas serra oltre ogni comprensione, mettendo in crisi l’ambiente. Non c’è da stupirsi del livello altissimo raggiunto dai cambiamenti climatici e dall’acidificazione degli oceani. E intanto danneggiamo lo strato superficiale del pianeta molto al di là della sua capacità di rigenerazione. L’unica scusa per tutto quello che facciamo di negativo è che siamo ignoranti e non sappiamo o non capiamo le conseguenze. Ma una volta che ne siamo a conoscenza, non è credibile che non abbiamo la lucidità necessaria per il cambiamento, né non abbiamo il potere di realizzarlo. Diciamo che non vogliamo farlo, perché le soluzioni ci sono, sono a portata di mano, costano enormemente di meno di quelle adottate sin qui, producono effetti positivi da un punto di vista ambientale e sociale … cosa si vuole di più?
Ci sono popolazioni in molte parti del mondo che questo cambiamento hanno cominciato ad ottenerlo, partendo dall’essenza della vita: la sopravvivenza, cercando di garantirsi una sicurezza alimentare che prima non avevano affatto. Situazioni terribili sono state risolte semplicemente applicando le idee della blue economy e noi le vedremo seguendo i prossimi articoli su questo tema.
Applicazioni pratiche
Se ci guardiamo attorno, ci sembra che i discorsi fatti fin qui siano contraddittori. In effetti non esiste alcuna attività umana e nemmeno naturale che non produca rifiuti o, per dirla con un termine meno drastico, che non abbia degli scarti dai processi che sono portati a termine. In effetti il problema non è quello di non produrre rifiuti, il problema è che noi li sprechiamo. Ora, questo discorso può sembrare strano a molti, perché siamo abituati a pensare ai nostri rifiuti domestici: la carta oleosa in cui era avvolto il prosciutto o la plastica delle confezioni prese al supermercato. A cosa mai potranno servire? Cerchiamo di andare con ordine e di capire.Se vogliamo riutilizzare i rifiuti dobbiamo anzitutto tenere presente che anche questo è un costo, anche in termini energetici. Certo, conviene anche economicamente, ma gli ecosistemi naturali non sono collegati ad una rete elettrica. Loro non ne hanno bisogno. E, come detto, non è perché non producano scarti, ma semplicemente perché i loro scarti sono risorse per qualcos’altro, fossero anche i processi che riportano nel terreno le materie prime usate. Si potrà obiettare che gli ecosistemi sono collegati ad una rete eccome, la rete in questione è rappresentata dal sole. Giusto, perché noi non possiamo farlo? Solo perché siamo molto meno intelligenti degli ecosistemi? Se è così non ci resta che tornare a scuola e imparare le regole nuove di questo grande gioco che è la vita sul pianeta.
Ecco la prima lezione, il primo concetto da mandare a memoria. I rifiuti non esistono, sono un’altra cosa.
Prima di fare qualche esempio ancora un punto da chiarire. Di fronte a elementi dannosi, tossici o inquinanti noi cerchiamo qualcosa che sia “meno peggio”. Tra tutti i combustibili fossili scegliamo il gas perché è quello che produce meno gas serra. Dovremmo invece cercare un combustibile che non produca affatto gas serra, che non inquini affatto, dovremmo cercare la soluzione e in questo modo potremmo sbaragliare ogni concorrenza, specie quella che produce rifiuti. La domanda è “dove andiamo a prenderle queste sostanze meravigliose?”. La risposta è semplice: le prendiamo là fuori, osservando le meraviglie che gli insetti del deserto, i ragni o le alghe e altre piante producono ogni giorno da milioni di anni. Gratis e senza rifiuti e inquinamento. Ecco la prima fase: cercare nuovi modi per trasformare i rifiuti in contributi, per cercare materie prime che siano ampiamente disponibili, a basso costo e solo apparentemente di nessuna utilità per l’uomo.
Ed ora alcuni esempi.
In Giappone il gruppo del professor Yoshihito Shirai dell’università di Hiroshima ha messo a punto un procedimento che trasforma l’amido raccolto nei rifiuti alimentari dei ristoranti, in acido polilattico, utilizzando un fungo a temperatura pressoché ambiente. In pratica i rifiuti delle cucine diventano plastica o se preferite bio-plastica. In questo modo non si intaccano i nutrienti se non nelle parti da noi considerate inutili, non come facciamo con il mais per i biocombustibili che serve solo a quello e viene pertanto tolto dalla disponibilità della nutrizione.
Un altro esempio riguarda i saponi e in generale i detergenti. Invece di usare la chimica o l’olio di palma è possibile ricavare tensioattivi dallo zucchero o ancora il d-limonene che si trova nella buccia degli agrumi. Questa buccia è uno scarto della lavorazione del succo del limone e può essere usata anche come mangime per gli animali o come sorgente di pectina, che la nostra società utilizza, ad esempio, nella produzione di marmellate. Perché buttarla via?
Un altro settore su cui si può intervenire è quello della carta. Si tagliano foresta intere per farne fogli, scatole, libri. Solo una piccola parte della biomassa viene utilizzata, il resto è buttato via. All’Università di Riga in Lettonia, il professor Janis Gravitis ha studiato un percorso per estrarre dal legname ogni parte utile. É nata così una bio-raffineria dove vengono estratti, per scopi commerciali, tutti i componenti dell’albero, dalla cellulosa all’emicellulosa, all’amido e ai lipidi.
Per non parlare di quello che sta accadendo in Cina, dove la carta è stata inventata oltre 2000 anni fa. In quel paese si sta lavorando per produrre carta dalle rocce, utilizzando i detriti derivanti dalle attività minerarie.
Vedete? Ancora rifiuti o scarti di un sistema produttivo (quello minerario) che diventano nutrienti per un altro (quello della carta), nello spirito della produzione a cascata tipico della blue economy. Uno dice: “ma oggi la carta la ricicliamo con altissime percentuali”. Primo questo è vero in molti paesi, ma non in tutti. In Italia ad esempio la quota di carta riutilizzata è molto alto, vicino all’80%, ma nel mondo ci sono paesi in cui la quota è praticamente zero. E poi il procedimento utilizza quantità molto grandi di acqua che a sua volta deve essere riciclata e comunque non può essere utilizzata per scopi, passatemi questo modo di dire, “più primari”, come la produzione di cibo o i servizi sanitari essenziali.
La carta di roccia cinese non ha bisogno di acqua, è riciclabile all’infinito ed è resistente all’umidità, tanto che potreste leggere il vostro libro tranquillamente anche sotto la pioggia.
Fantasie? Direi proprio di no. Questi risultati non nascono per caso dalla sera alla mattina. Ci sono voluti 20 anni di ricerche prima che William Liang, fondatore dell’azienda Lung Meng Technology, presentasse la scoperta nel 2010. La prima fabbrica di quella che oggi tutti chiamano “stone paper” (carta del sasso) è stata inaugurata nel 2013 a Benxi City, città nel Nord Est della Cina. Oggi viene prodotta e utilizzata in più di 40 paesi nel mondo, compresa l’Italia. É chiaro che, oltre a rivoluzionare il settore cartario, diventa una novità eccezionale anche per cambiare volto alle attività minerarie.
Tra l’altro questa scoperta può liberare milioni di ettari di terreno, ora destinati alla forestazione produttiva, e convertirli in terreni destinati alla produzione di cibo.
Per chiudere l’esempio faccio notare che tutti questi passaggi non sono fatti gratuitamente: c’è un profitto e dunque lavoro, profitto e lavoro che, però, non danneggiano l’ambiente.
Sono solo esempi, ma dimostrano come sia possibile un modo diverso di pensare la produzione, più intelligente, molto meno energivoro, non inquinante, con possibilità di sviluppo e di creazione di posti di lavoro.
Da questo e soprattutto da tutto quello che vi racconterò, capiamo che sono gli ecosistemi, nel loro insieme, a dimostrare modi efficienti di reagire ai bisogni primari di ogni individuo con le risorse disponibili localmente.
Questo è un principio fondamentale della blue economy. Riflettiamo anche su un altro importante particolare. Con l’evoluzione, ogni ecosistema è diventato del tutto autosufficiente e nessuno viene lasciato indietro a morire di fame, come nella nostra società. É questa la strada da prendere. Contemporaneamente, si stanno rendendo sempre meno lineari i processi produttivi e questo non può che fare del bene all’umanità e alla sua casa, il pianeta blu, la Terra.