L’inizio di tutto
Oggi vorrei proporvi la storia di un delinquente, diventato un mito soprattutto grazie ai racconti che la stampa ha scritto su di lui. Un uomo feroce e spietato che qualcuno ha voluto far passare per Robin Hood, e questa sera cercheremo di scoprire se questo accostamento sia reale, una esagerazione o una balla bella e buona.
Chi era? Cosa voleva? Perché è stato protetto dalla “sua” gente? Da dove nasce l’avversione per i carabinieri contro i quali scatena una guerra e ne ammazza un bel po’? Che legami ha avuto con situazioni tipiche della Sicilia dell’epoca, come il partito indipendentista MIS? E con la mafia? E con la politica di Roma?
Proveremo a seguire gli eventi di quegli anni per cercare risposte a queste domande, anche a quelle sulla sua morte, ma è meglio anticipare subito che sarà difficile garantire che tutto quello che sappiamo è avvolto da un alone di mistero, con interpretazioni differenti, a volte opposte. Ma questo è quello che abbiamo e questo è quello che condividiamo in questo spazio.
Non ci resta che partire dall’inizio. Gli requisiscono grano e mulo e quello che più conta, la sua carta d’identità. Salvatore prima prega, quasi si umilia di fronte ai militari, poi estrae la pistola e spara al maresciallo Antonio Emanuele Mancino, che morirà poche ore dopo. La reazione degli altri tre non si fa attendere e feriscono Turiddu, che non ha altra scelta che fuggire. Lo aiuta un contadino che gli dà un passaggio sul suo mulo. per u n tratto di strada verso Partinico, centro di 25 mila abitanti, dove arriva dopo sei ore di marcia molto faticosa. Qui un amico lo disinfetta. La mattina seguente in bicicletta raggiunge Montelepre, dove una cugina gli pratica un’iniezione antitetanica. Il giorno dopo è a Palermo da amici, dove un medico lo prende in cura. Sono due le conclusioni di questa vicenda. Con il carabiniere ammazzato, il destino di Salvatore è segnato: comincia qui la carriera del Bandito Giuliano. La seconda conclusione è che un disgraziato, ferito come Turiddu, nonostante sia colpevole di un grave delitto, trova la compassione e la tutela da parte della gente del posto. Anche questo bisognerà spiegarlo.
Turiddu si sente respinto dalla società cui sente di appartenere di diritto, ne fa una questione personale, diventa sempre più rabbioso. I carabinieri mettono una taglia sulla sua testa: 50 mila lire. Un ragazzo si lascia convincere a seguirlo. Giuliano avverte il padre: “dì a tuo figlio di lasciarmi in pace o lo ammazzo”. Quarant’otto ore dopo il giovane Vincenzo Palazzolo, troppo testardo per rinunciare alla taglia, viene ucciso da Turiddu. La questione delle spie, o presunte tali, viene sempre risolta in questo modo. Non ci sono mai contrattazioni: chi tradisce muore, senza scampo. Succederà altre volte.
All’inizio della sua carriera di bandito, Turiddu è solo o con pochissimi compari, ma gode della protezione dei contadini, che si danno da fare anche per portare sue notizie alla famiglia e viceversa. In quel periodo le montagne siciliane brulicano di bande di banditi, piccole e grandi: sono trentotto in tutto con centinaia di uomini e migliaia di favoreggiatori. In seguito i banditi crescono di numero, le centinaia diventano migliaia, le migliaia decine di migliaia. Ma il fenomeno non dura a lungo. Nel giro di qualche anno tutte le bande spariscono dal territorio, tutte tranne una, quella di Salvatore Giuliano. Vedremo tra poco il perché e non dipende solo dalla bravura o dalla levatura del suo comandante … altri avvenimenti importanti si mettono in mezzo.
Intanto comincia a formarsi la sua banda. I primi ad entravi sono alcuni parenti e amici che riesce a fare evadere dal carcere di Monreale. Sulle montagne la vita è dura, i carabinieri sono ovunque nei paesi e i suoi parenti sono sotto osservazione, così che a volte è difficile che riescano ad organizzarsi per portare vettovaglie ai latitanti. In quei casi, come scrive lo stesso Giuliano nel suo memoriale, sono i contadini e i pastori a fornire sostegno alla banda. In cambio Turiddu interviene qua e là a loro favore. É uno scambio, non una presa di posizione di classe, che non ci sarà per niente, come vedremo più avanti.
Gli scontri a fuoco con i carabinieri sono frequenti in questo periodo e ci sono anche morti, come il tenente Testa, attaccato con i suoi uomini mentre interroga per strada una zia di Turiddu. Lui non ha alcun timore ad attaccare plotoni interi di carabinieri, e nei suoi anni di latitanza o ha avuto la meglio o se l’è cavata senza ferite.
Tutte queste “imprese”, come lui stesso ama definirle, lo rendono popolare. Non è più solo la gente del posto a parlarne. Lo fa anche la stampa locale e, in Sicilia, diventa famoso.
Nel Novembre 1944, ecco la prima impresa contro privati. Un gesto altamente cinematografico: un autocarro arriva con una decina di malviventi nella tenuta del duca di Pratameno. Mentre alcuni tengono sotto tiro i proprietari, gli altri si portano via ogni cosa, per un valore di diversi milioni di lire. É l’altro volto di Giuliano, non più combattente contro lo Stato, rappresentato dalle forze dell’ordine, ma delinquente, con persone a lui affidate, la cui vita dipende anche dai soldi che si riesce a raccogliere.
Ma non è questo che fa di Giuliano un mito conosciuto ovunque. Ci vuole ben altro, ci vuole un legame forte con la politica dell’epoca, un legame che segnerà fortemente le sue azioni. Per capire questo occorre però fare un piccolo passo indietro.
Mentre le forze fasciste e naziste scappano risalendo verso Nord o si trasformano improvvisamente in antifascisti, in Sicilia si fa sempre più forte una critica sul ruolo dato all’isola da parte dei governi, sia quelli precedenti al ventennio, che quello fascista. “Per noi non hanno fatto niente”, qualcuno comincia a dire nelle piazze, nei discorsi al caffè (la parola bar arrivo solo più tardi). Così, quando gli alleati, il 10 luglio 1943, sbarcano dalle parti di Licata l’idea del separatismo o dell’indipendenza sono già radicate in parte della popolazione.
Va sottolineato che questa spinta non mira a quella autonomia amministrativa legislativa e fiscale, che poi è arrivata, nelle forme previste dalla costituzione, con lo “statuto speciale” del 1948. La Sicilia vuole di più, vuole l’indipendenza.
Anche Turiddu ha queste idee in testa, vuole una Sicilia libera e combatte tutto ciò che rappresenta lo Stato italiano, a cominciare dai carabinieri.
Gli americani che conquistano l’isola (anche se non si può dimenticare il contributo essenziale di inglesi e canadesi nell’operazione) decidono chi comanda nei vari comuni e di molti di questi affidano la gestione a separatisti. Vero anche che gli accordi più stretti degli statunitensi avvengono con importanti uomini della mafia (ad esempio Lucky Luciano), ma in questa storia la mafia entrerà solo più tardi, e ne parlerò a suo tempo. Quello che è certo è che la mafia non è certo contraria a separare la Sicilia dall’Italia. I motivi credo siano piuttosto evidenti: controllare l’isola diventerebbe molto più semplice.
I separatisti cominciano ad organizzarsi. A capo c’è Andrea Finocchiaro Aprile, politico e sottosegretario nei governi Nitti, in disaccordo con il fascismo, si ritira dalla politica durante il ventennio per tornare a stringere legami coi suoi vecchi colleghi nel 1942. Con questi fa nascere il MIS, il Movimento Indipendentista Siciliano, un partito che, come dice il nome, ha come primo obiettivo la liberazione dell’isola dallo “stato rapace” italiano, termine ampiamente usato dai separatisti. Aprile cerca collaborazione con gli americani, ne frequenta i servizi segreti, come quelli inglesi, cercando di uscire ogni volta più forte da queste relazioni.
Gli americani, tuttavia, hanno altro per la testa e guardano al MIS con simpatia, ma non offrono mai un appoggio diretto, anche perché, come vedremo meglio tra poco, vengono ammoniti dagli allora alleati sovietici che è meglio lasciar perdere. Quella simpatia, tuttavia, viene interpretata in modo diverso, molto più ottimistico dai siciliani, che si sentono così forti, da fare scelte decisamente azzardate.
Una decisione non facile da prendere, poi però accade qualcosa che, come si dice, taglia la testa al toro.
Il 19 ottobre 1944 si tiene, pur ostacolato dalle autorità, il primo congresso del MIS a Palermo, all’albergo Belvedere. Durante le riunioni, a Palermo scoppiamo gravi disordini con un tentativo da parte dei manifestanti di assaltare il palazzo della Prefettura. La polizia non trova di meglio da fare che sparare sulla folla. Ci sono dei morti, il cui numero nessuno conosce perché ogni fonte ne elenca una quantità diversa. Si va dai 19 della prefettura ai 90 riportati dal quotidiano comunista L’Unità. In ogni caso si tratta di un episodio di una gravità eccezionale. Così la decisione si che strada scegliere diventa obbligata. Il presidente del MIS Finocchiaro Aprile si incontra qualche giorno dopo con Antonio Canepa, professore universitario, partigiano antifascista, affidandogli l’incarico di formare un corpo militare che affianchi le iniziative politiche del MIS.
In realtà con Canepa si sfonda una porta aperta. Lui quest’idea l’aveva già in testa da tempo. Comincia a radunare le truppe, anche se questo termine è forse improprio. SI rivolge ai suoi studenti, cercando di inculcare loro le idee del separatismo, da raggiungere attraverso la lotta armata contro lo stato rapace; insisto con questo aggettivo, rapace, perché è il succo di tutto il discorso: lo stato ruba alla Sicilia tutto quello che ha e non restituisce niente. Quindi va fermato. La guerra in questo caso viene vista come una sorta di legittima difesa.
Ma, gli ideali e i discorsi non servono a molto: ci vuole ben altro. Ci vuole qualcuno che sia in grado di organizzare la lotta, che sappia comandare, che non abbia paura e magari anche un po’ di esperienza di “imprese” contro le caserme dei carabinieri.
Tutti voi ci avete pensato subito è abbastanza evidente. Queste qualità sono esattamente quelle che appartengono al bandito Salvatore Giuliano.
In realtà i passaggi portati avanti dai separatisti sono diversi e non così immediati. Intanto però si forma il primo nucleo di uno schieramento, che i separatisti, con grande ottimismo, chiamano esercito, precisamente EVIS, Esercito Volontario per l’Indipendenza della Sicilia. Si arroccano sulle montagne in provincia di Messina al confine con quella di Catania. Adesso servono armi, strumentazione e soprattutto uomini. Dove trovarli?
I separatisti sono convinti che anche ai banditi non deve dispiacere l’idea di una Sicilia svincolata dallo Stato, senza la presenza di tutti quei carabinieri che danno loro la caccia. É un periodo, come abbiamo visto, in cui le bande di delinquenti in Sicilia sono una quantità, diverse decine, anche se in ogni provincia ne prevale una su tutte: Giuliano a Palermo, Li Calzi ad Agrigento, Dottore a Enna, Stimoli a Catania e così via per le altre località. I notabili del MIS si dividono i compiti per incontrare questi banditi e proporre loro una, chiamiamola così, collaborazione. Ma i banditi sono sospettosi, non vedono un guadagno immediato, sono ignoranti e cattivi, non strateghi né politici. Così non ci vogliono stare.
Poi succede un fatto che cambia le carte in tavola. Il 17 giugno, c’è uno scontro a fuoco tra separatisti e carabinieri. Il capo dell’EVIS, dell’Esercito separatista, il professor Antonio Canepa, viene ucciso, assieme a due studenti. A Canepa succede Concetto Gallo, che trasforma l’esercito quasi platonico di Canepa in qualcosa di più battagliero, più efficace e cazzuto: il GRIS, Gioventù Rivoluzionaria Indipendenza Sicilia. Ma non è solo il nome che cambia, cambia anche la strategia. Una delle prime preoccupazioni di Gallo è di riuscire ad agganciare Salvatore Giuliano e farselo amico in questa avventura. Operazione complicata perché Turiddu sospetta di tutti, anche dei suoi uomini più fidati, tanto che non comunica a nessuno quale missione o impresa stanno per compiere, lo sapranno solo una volta arrivati a destinazione. Ci vogliono mesi per organizzare due incontri, ai quali partecipa Gallo. Forse l’incontro è stato uno solo, le cronache non sono chiarissime come vedremo tra poco.
Nel frattempo, il mondo, attorno alla Sicilia, va avanti lo stesso e le cose possono cambiare anche drasticamente da un momento all’altro. Va ricordato che siamo alla fine di una guerra terribile e di un riassetto molto pesante dell’Europa, che verrà divisa in due blocchi, dove inizierà una nuova ostilità, quella guerra fredda tra Occidente e Unione Sovietica che imporrà politiche molto particolari dalle due parti. Nell’estate del 1945 a Potsdam nella ex DDR (la Germania dell’Est) si incontrano Truman, Stalin e Clement Attlee, che ha appena sostituito Churchill, come primo ministro del Regno Unito. Sono loro a decidere le sorti delle nazioni nel dopoguerra. E per quanto riguarda la Sicilia, stabiliscono di abbandonare ogni velleità di indipendenza dall’Italia. In realtà è Stalin ad imporre agli Stati Uniti di sgombrare dalla Sicilia, vista come una zona strategica, anche militare, per l’influenza su tutto il Mediterraneo. Sappiamo che l’abbandono dell’isola da parte degli americani non accadrà, ma questa è un’altra storia. Il fatto è che gli irredentisti si trovano senza un appoggio sul quale contavano molto e devono, in qualche modo arrangiarsi. Orfani dell’appoggio statunitense, quello ai banditi sembra la via più semplice per ovviare a questo - come dire? – inconveniente.
La decisione ufficiale di accordarsi con Giuliano, il MIS la prende al congresso straordinario, avvenuto a Palermo alla presenza del capo di Cosa Nostra, don Calogero Vizzini. Costui era considerato all’epoca, dalla stampa, il “capo dei capi”. Di sicuro guidava il mandamento di Caltanissetta e utilizzò i suoi uomini nel progetto sovversivo del MIS, mandando uomini a combattere contro lo Stato italiano.
Tutta la storia dei rapporti tra Giuliano e i separatisti è abbastanza avvolta nel mistero, nel senso che le cronache di quegli incontri, delle decisioni prese, noi le sappiamo da diverse voci. Ci sono le testimonianze durante le audizioni della commissione antimafia dei primi anni ’70; ci sono gli scritti dello stesso Giuliano, che spesso diventano romanzi delle sue gesta; c’è il racconto di Frank Mannino, uomo di fiducia di Giuliano e relatore di un memoriale sulla sua vita. Pare che il primo di questi incontri sia avvenuto tra Giuliano e l’avvocato Attilio Castrogiovanni, politico, deputato dell’Assemblea Costituente, ma anche, per breve tempo, capo dell’EVIS, subito dopo la morte di Canepa e prima dell’arrivo di Gallo.
Sia, come sia, quello che è certo è che un incontro tra i due capi dell’esercito separatista Gallo e di Turiddu avviene. A quanto sembra il luogo in cui i due si incontrano è nel massiccio di Sàgana qualche chilometro a Sud di Montelepre. É lo stesso Gallo a raccontare i dettagli e a riferire di una notte passata assieme al bandito, facendo entrambi un turno di guardia mentre l’altro dormiva.
Più interessante è il racconto di Turiddu, un memoriale fatto arrivare alla corte d’Assise di Viterbo, durante il processo contro molti suoi uomini nel 1950. C’è scritto che le idee irredentiste Giuliano le aveva con sé ben prima del contatto con la politica del MIS e, anzi, lui preparava da tempo azioni ed imprese come quelle poi richieste dall’esercito EVIS o GRIS. Non poteva esserci un terreno comune migliore per Gallo e i suoi. Del resto, per entrambi, il nemico si identificava con i carabinieri. Certo, i motivi erano molto diversi, ma vale il detto: il nemico del mio nemico è mio amico.
Dunque la guerra comincia. Contro lo stato sono alleati i separatisti dell’EVIS, i banditi di Salvatore Giuliano e una parte della mafia. Ci sono assalti, sparatorie e morti da entrambe le parti. Un attacco in forze di carabinieri ed esercito contro il GRIS, porta all’arresto di Gallo. Dall’altra parte i separatisti, irrompono nella casermetta di Feudo Nobile, vicino a Gela, sequestrano otto carabinieri e li ammazzano, buttando i cadaveri in una cava di zolfo, dove verranno rinvenuti mesi più tardi.
In generale, però, se nella zona di Montelepre, Giuliano si dà da fare attaccando a più riprese caserme dei carabinieri, manca l’appoggio dei banditi nella parte orientale della Sicilia, indebolendo di molto le azioni militari del MIS.
Stando dalla stessa parte, Giuliano si trova ad essere alleato anche con la mafia. É un’alleanza di convenenza, perché tutti vogliono che il sistema feudale per quanto riguarda i possedimenti agrari rimanga immutato. I tentativi di realizzare una riforma agraria trova nei banditi, nella mafia e nei separatisti un ostacolo da superare.
Nel frattempo però, si intensificano le lotte contadine per un rinnovamento delle campagne, l’assegnazione delle terre incolte, una più giusta spartizione dei prodotti.
La mafia capisce tutto e si rende conto che è necessario abbandonare schieramenti poco solidi e rivolgersi a chi potrà dare un governo stabile all’isola, e cioè alla Democrazia Cristiana. Come sappiamo questo sodalizio diventerà via via più forte nel corso dei decenni successivi.
Tra le imprese del bandito Giuliano, nel periodo di alleanza con l’esercito EVIS, ci sono cinque attacchi a caserme dei carabinieri. Ora, parlare di caserme, sembra esagerato: si tratta di casermette con pochi militari al loro interno. Frank Mannino, che abbiamo già conosciuto come bandito ed estensore della storia di Giuliano, racconta l’attacco avvenuto a Bellolampo, una collina vicina a Palermo, dove una casermetta è difesa da 4 uomini. Nella sparatoria uno di essi viene ferito e gli altri si arrendono. La caserma viene depredata completamente, ma Giuliano ha un atteggiamento cavalleresco, perché gli uomini che s1i arrendono non devono essere toccati e neppure insultati a parole: “Sono come i morti – dice - vanno rispettati”.
L’azione più eclatante avviene a Montelepre, non lontano dalla casa della famiglia Giuliano. Nella caserma ci sono 25 carabinieri, mentre i banditi sono una quarantina. Ma è Turiddu, accompagnato da due soli uomini, a presentarsi davanti al portone e a sparare e lanciare bombe a mano. Il brigadiere si attacca al telefono per chiedere rinforzi. La linea funziona: come mai non è stata tagliata per evitare l’arrivo di rinforzi? É lo stesso Giuliano a spiegare i fatti. Lui vuole che arrivino altri militari per regolare i conti. Quando l’autocarro carico di carabinieri arriva, i banditi li stanno aspettando in un punto di favore e cominciano a sparare, facendo molti feriti, 22 per la precisione, che vengono raccolti dai commilitoni. In questa fase ecco riemergere lo spirito cavalleresco di Giuliano. Nessun bandito spara, neanche un colpo, finché l’operazione non termina. Di rinforzi ne arrivano però altri e anche un’autoblindo, che viene assalita e distrutta. Alla fine tra i banditi nessun morto, mentre ce ne sono tra i carabinieri. La sera Giuliano manda a casa la truppa, mentre lui con sette uomini assalta la caserma di Partinico, una mossa che deve servire per mostrare che loro sono più numerosi di quello che si pensa.
Ho già accennato al fatto che il bandito non lascia scampo alle spie che ammazza senza pensarci su. Ma anche a chi si permette di parlar male di lui le cose non vanno bene. Capita al giovane carabiniere Francesco Sassano, colpevole di aver detto di voler vedere in faccia quei banditi e di volerli combattere. Viene ammazzato in mezzo alla strada principale del paese. Un’esecuzione che termina con un biglietto depositato sul suo corpo: “Così muoiono le spie di Giuliano.”
C’è anche un assalto al treno, che starebbe benissimo in un film western. Gli uomini vengono fatti scendere, mentre donne e bambini rimangono in carrozza. Dopo aver tolto ogni cosa ai passeggeri, Giuliano si lascia intervistare da un reporter italiano e un ufficiale inglese, presenti per caso sul treno. Questa è la storia così come viene raccontata, ma ci sono molti dubbi che l’autore del gesto sia Turiddu. Pare che questa impresa sia da attribuire alla banda Labruzzo - Cassarà di Partinico. Una banda che agiva però con il benestare di Giuliano, tanto che compirà azioni importanti, come l’uccisione del capomafia Santo Fleres, con ogni probabilità per conto di Turiddu. In realtà, come già sottolineato prima, su tutta l’attività del bandito ci sono forti dubbi e non sempre si è certi che quello che è stato raccontato sia vero. In questi dubbi cade anche lo spirito del bandito. Qualcuno lo dipinge come un novello Robin Hood, che ruba ai ricchi e cede parte del bottino alla povera gente. Che questo sia vero o no poco importa. Del resto a chi si poteva rubare se non ai ricchi? Gli altri non avevano niente. Donare ai poveri parte del bottino poteva essere una mossa strategica, perché Giuliano ha un bisogno disperato del sostegno della popolazione, che spesso lo ammira o quanto meno lo considera “un bravo ragazzo”, ma che garantisce una latitanza altrimenti impossibile da sostenere.
In questa fase le scorribande della banda Giuliano mescolano atti di terrorismo, quindi puramente politici, ad altri che invece hanno come obiettivo il denaro o, se denaro non c’è, vettovaglie, cibo, biancheria per proseguire la dura vita in montagna.
Forse neanche Turiddu sa bene quale sia la sua faccia reale, quale il suo scopo principale. É quanto emerge oltre vent’anni più tardi anche dalle parole della commissione antimafia che, scrive, siamo nel 1972: “Se si dovesse dare una precisa definizione della sua personalità di delinquente, certo è che ci si troverebbe di fronte a un evidente imbarazzo. Egli era dunque un delinquente comune, un appassionato separatista, un uomo con sfumature di interesse politico... e aveva altresì un certo qual fondo di fierezza nella sua incallita delinquenza, sino al punto di dichiarare, «che egli non era ‘né vile, né traditore, né un infame’.” Ma pur non essendo tutto questo i suoi legami sono sempre con i settori reazionari: i separatisti, i monarchici, i liberali, i democristiani e la stessa mafia. E questo ha un peso sulla nostra storia, un peso molto grande.
Quello che è certo è che nel periodo degli assalti alle caserme, tutta la zona attorno a Montelepre viene percorsa continuamente dalle forze d’ordine con rastrellamenti e fermi di massa in modo da intimidire la popolazione a non appoggiare il bandito. Queste azioni sono evidentemente dirette contro la banda di Giuliano, assai più che contro i separatisti, tanto che per circa quattro mesi nel 1946 vige il coprifuoco dalle 17.00 alla mattina seguente, ma nella sola zona di Montelepre e dintorni.
Poi avviene l’inevitabile. Il MIS, organo politico dei separatisti, sconfessa l’EVIS, l’esercito volontario. La speranza degli aderenti è che ci sia una specie di amnistia, come spesso succede alla fine di una guerra, ma l’inizio del periodo, diciamo così, post-bellico, è di tutt’altra natura. Centoquarantuno persone vengono deferite al procuratore militare. Si tratta di organizzatori, promotori, capi dell’EVIS, ma anche di semplici gregari, molti dei quali non hanno neppure idee chiare su quello che stanno facendo. E i capi di imputazione, dieci in tutto, sono terribili: insurrezione armata contro i poteri dello Stato, distruzione di opere e mezzi dello Stato, cospirazione politica mediante associazione, banda armata e istigazione, omicidi e tentati omicidi aggravati, associazione per delinquere, rapina, sequestro di persona, estorsione, occultazione di cadavere.
Il MIS viene svuotato di ogni significato quando il re, Umberto II, firma il decreto che rende amministrativamente autonoma la Sicilia, insediando la Consulta regionale siciliana, con lo scopo di avviare le regole nuove per la prima regione autonoma italiana. Curiosamente la Sicilia diventa una Regione autonoma, ancora prima della nascita della Repubblica italiana. L’atto conclusivo di tutta questa vicenda è del 22 giugno 1946, con un’amnistia e un indulto per reati comuni, politici e militari. La firma il ministro di Grazia e Giustizia del Governo De Gasperi, Palmiro Togliatti. Dall’amnistia sono esclusi Giuliano e i suoi banditi.
Tutti a casa, dunque. E Giuliano? e i suoi uomini?
Il fatto è che, nonostante Giuliano si definisca “amante dei poveri e nemico dei ricchi” le sue idee rimangono ancorate alla Sicilia antica, ai feudi, ai signorotti, agli agrari. Non importa chi impersona questa posizione se i separatisti, i monarchici o i democristiani. Quello che è certo è chi si oppone alla visione cara a Turiddu: i comunisti. Inoltre, nonostante nelle elezioni per l’Assemblea regionale riportino una netta vittoria con un terzo dei seggi, restano comunque sempre all’opposizione di una congrega di partiti che include democristiani, monarchici, qualunquisti, liberali e repubblicani. Dunque, anche da un punto di vista strategico è conveniente restare nell’area di destra, magari qualche vantaggio ne può sempre uscire. Giuliano, in cuor suo, spera anche che queste alleanze possano contribuire a perdonare le sue malefatte, nonostante l’enorme quantità di distruzione e di morti che ha sulla coscienza.
I decreti Gullo hanno una storia allucinante, fatta di finte alleanze, tradimenti, prese di posizioni per semplice convenienza elettorale o di potere, in cui cadono principalmente democristiani e comunisti. Ma questa è un’altra storia, che non incide più di tanto sul nostro racconto. I decreti avevano l‘intenzione, decisamente avversata e impedita dai democristiani, di farla finita con il latifondismo e dare il la alla riforma agraria, redistribuendo le terre incolte al popolo purché organizzato in cooperative, le famose cooperative rosse. In Sicilia, gli avversari di questa riforma sono tre: la politica di destra, segnatamente quella democristiana, la mafia e il banditismo. Ho già spiegato il perché di questa posizione e il fatto che, inevitabilmente, queste tre forze si trovano ad avere interessi comuni e quindi a supportarsi l’un l’altra. Anche la Chiesa fa la sua parte, aiutando la nascita delle cosiddette “cooperative bianche” che una volta impadronitesi delle terre, le restituiscono al latifondo. Questi quattro elementi sono legati anche da un’altra missione: l’anticomunismo. Basta ricordare cosa chiede Truman a De Gasperi in cambio del generoso assegno per risollevare il paese. Ecco con chi allearsi, semplice e chiaro, ma soprattutto conveniente.
Anche la mafia si appoggia, come ben sappiamo, sulle stesse forze politiche, cosa che diventerà ancora più evidente negli anni seguenti. E della mafia, in quel periodo, in Sicilia, bisogna tenere conto. Così Turiddu si incontra con il capomafia di Partinico, cavaliere Santo Fleres. Un incontro breve, durante il quale si arriva ad un accordo di non interferenza e una blanda, anzi blandissima, garanzia da parte della mafia di protezione della banda Giuliano.
Come possa fidarsi Turiddu delle promesse mafiose non si sa. La cosa che però viene mantenuta è la caccia alle altre bande minori della zona, che negli anni seguenti semplicemente spariscono, e i cui capi vengono regolarmente trovati ammazzati o arrestati su delazione della stessa mafia.
Così Giuliano si trova ad essere l’unico capobanda della zona, per di più con il beneplacito della mafia e con l’appoggio del potere democristiano dell’isola.
Turiddu riprende a fare il suo lavoro: estorsioni, rapimenti, sparatorie contro i carabinieri, rapine e omicidi. É tornato il bandito, la politica è dimenticata. Almeno per il momento.
Uno dei colpi più eclatanti si svolge nel giugno 1946 in pieno centro a Palermo. Un multimilionario ben conosciuto in città, il cavaliere Gino Agnello, viene rapito dagli uomini di Giuliano e trasferito in una casupola in montagna. Viene affidato alle cure di “Peppino”, Giuseppe Passatempo, “il boia della banda”, soprannome che è tutto un programma. Nonostante il cavaliere ceda praticamente subito e chieda ai fratelli di pagare il riscatto richiesto di 100 milioni, questi si rifiutano. Dopo quaranta giorni di inutili trattative, Giuliano lascia libero Agnello con un messaggio per i suoi fratelli: Pagate 25 milioni e tutto finisce qui. Niente da fare. Il giorno dopo una mina sconquassa i magazzini Agnello. I 25 milioni richiesti vengono allora consegnati.
La vita del bandito non è semplice. In particolare mancano i momenti con la famiglia, così preziosi per chi vive da tanto tempo lontano da casa. Il 24 aprile 1947 o forse il 25, la sorella Mariannina sposa Pasquale Sciortino, l‘intellettuale della banda, perché lui era arrivato fino al liceo, mentre gli altri, quando andava bene avevano la quinta elementare.
La cerimonia religiosa viene organizzata a casa Giuliano, all’una di notte. É Frank Mannino a raccontare per filo e per segno quella festa, con tutti i partecipanti, tra i quali c’è praticamente la banda al completo. Ma la cerimonia non parte. La madre dice di aspettare, non si può cominciare fin che l’ultimo invitato non arriverà. L’ultimo invitato, ovviamente, è lui, Turiddu, che prende sotto braccio la sorella e l’accompagna all’altare. Dopo la cerimonia, si procede al banchetto e ai balli, come se nulla di strano ci fosse in quella congrega di banditi. Poco prima dell’alba, proprio com’era arrivato, Salvatore Giuliano se ne va, salutando solo la madre e sparisce nel buio della notte di Montelepre.
Il matrimonio non dura tanto. Poche settimane dopo, Sciortino riceve un messaggio, fa i bagagli, bacia la sposa e parte in direzione New York.
Cos’è successo di tanto grave da prendere una decisione così drastica? Il fatto avviene tra le nozze il 25 aprile e la partenza per l’America del 10 agosto.
Il fatto avviene il primo maggio. Il giorno prima, Pasquale Sciortino sale in montagna e consegna al suo capo Salvatore Giuliano un messaggio. É così che comincia la vicenda più tragica e oscura dell’intera carriera del bandito. Avviene nella piana di Portella della Ginestra.
Ci eravamo lasciati con Sciortino che, prima di imbarcarsi per New York aveva fatto visita a Salvatore in montagna, portandogli una lettera. Lui la legge e senza fare alcun commento la brucia. Subito dopo riunisce la banda e ordina loro di prepararsi perché “andiamo a sparare ai comunisti.” Questo avrebbe detto … avrebbe detto, forse.
A Portella della Ginestra si radunavano, prima del fascismo, i lavoratori per festeggiare il primo maggio, la festa dei lavoratori. Nel 1947 la festa è doppia, perché è l’occasione per riprendere quell’abitudine e anche per festeggiare la vittoria del Blocco del Popolo alle elezioni regionali, dove hanno sfiorato il 30% diventando il primo partito dell’isola. É la solita festa campestre di comunisti e socialisti: un comizio di un delegato del partito, e poi canti, balli e una sana mangiata all’aperto. Il comizio dev’essere tenuto da Girolamo Li Causi, primo parlamentare siciliano comunista, oppositore senza peli sulla lingua di mafia e banditi. Ma lui ha un altro impegno di partito e lo sostituisce Giacomo Schirò, socialista. Quello che succede in quella piana lo sanno proprio tutti: un gruppo di fuoco di una quarantina di persone spara sulla folla: rimangono sul terreno 11 morti, tra i quali quattro ragazzi adolescenti. Ci sono anche 30 feriti, 27 gravi. Questo è quello che si sa di sicuro, tutto il resto è avvolto in congetture, che nemmeno a pagarle riescono a coincidere tra loro.
Le domande senza risposta sono le solite: chi sono i mandanti? Ma in questo caso c’è anche la domanda che di solito non si fa: chi è stato a sparare?
Sembrerebbe superfluo, dal momento che Giuliano organizza per bene il suo gruppo, probabilmente una quindicina, li arma con mitra e bombe a mano. Per farne cosa, se non per sparare sui contadini comunisti della Piana della Ginestra?
Lo stesso Giuliano resta stupito quando i primi contadini cadono uccisi. Lui non ha ordinato il fuoco e poi si era accordato per sparare in alto, per spaventare quella gente, per compiere uno dei suoi tanti atti di terrorismo. Che i suoi uomini abbiano agito di testa propria? Difficile crederlo, pensando alle conseguenze che una simile disobbedienza può costare loro. Forse, nel gruppo ci sono altre persone che hanno compiuto il massacro. Qualcuno dice che sono stati i mafiosi, qualcun altro che le stesse forze dell’ordine abbiano partecipato alla mattanza.
Prima di parlare dei presunti mandanti è bene constatare che le indagini su quello che è stato un atto che ha impressionato l’intero paese, per la ferocia e, tutto sommato, l’inutilità del gesto, … prima dei mandanti – dicevo - è bene sottolineare che le indagini sulla strage di Portella della Ginestra hanno assunto un andamento, come possiamo dire? inefficace? inaccurato? O volutamente superficiale per coprire le responsabilità proprie e dello stato? Non ho, ovviamente, risposta a queste domande, ma è quanto mai strano che nessuna perizia balistica sia stata eseguita sui corpi dei contadini uccisi.
Per quello che vale, possiamo cercare una spiegazione nelle lettere che lo stesso Giuliano scrive dopo l’agguato. Da queste si capisce l’obiettivo principale del bandito. Quello di disperdere la folla, per cui non c’era bisogno di ammazzare nessuno, di catturare Li Causi (come detto assente, ma questo i banditi non lo sanno), processarlo davanti al popolo e poi ucciderlo. Un’azione degna del nome di Salvatore Giuliano, in perfetta sintonia con il suo modo di agire.
Le dichiarazioni di Giuliano testimoniano di una grande sofferenza apprendendo dei morti e dei feriti, che, nella sua idea, non dovevano esserci.
É chiaro che possiamo credere o meno alle sue parole, ma è molto strano tutto quello che i suoi stessi compagni raccontano, come quando Giuliano, vedendo cadere le persone si rivolge a loro, arrabbiato, gridando: “Disgraziati, che state facendo? Tirate più alto!”
Chi erano dunque i tiratori scelti? E da chi erano stati mandati? A chi deve essere attribuita la strage di Portella della Ginestra? Al bandito scelto come capro espiatorio? Alla mafia? O allo stato?
Per ora abbandoniamo questo episodio. Ci torneremo tra poco.
L’idea pubblica che il responsabile della strage del primo maggio sia Giuliano viene confermata dagli eventi successivi. Nel corso dell’estate infatti, il bandito organizza diverse incursioni contro sedi del partito comunista. In una di queste vengono uccisi due uomini che assistono ad un concerto di fronte alla sede del PCI di Partinico.
Viene da chiedersi come mai Giuliano compia queste azioni, dopo essersi di fatto chiamato fuori dalla strage di Portella. Di questo vale la pena riferire in un articolo a parte.
Ad ogni azione compaiono manifesti deliranti, come quello che comincia così: «Siciliani, l’ora decisiva è già scoccata! Chi non vuole essere facile preda di quella canea di rossi che, dopo di averci infangato, tradito e turlupinato, facendoci perdere ogni prestigio negli ambienti internazionali, cercano ora di distruggere quanto di meglio ancora abbiamo e che a ogni costo difenderemo, e cioè l’onore delle nostre famiglie e quel nobile sentimento che ci lega alla nostra cara terra, che essi, ipocritamente camuffati da internazionalisti, respingono e detestano, è necessario che oggi si decida.”
Negli anni seguenti le sue imprese tornano ad essere quelle solite: omicidi, vendette, rapimenti, assalto ai carabinieri e così via.
Negli anni seguenti, mentre Giuliano continua a rimanere una primula rossa, i suoi uomini cominciano a venire arrestati o uccisi. É assai probabile che la mafia abbia capito che era meglio rimanere la sola protagonista del malaffare in Sicilia. E questo andava decisamente bene anche alla politica che con la mafia stava stringendo legami sempre più forti, fatti di intrallazzi e di interessi, avendo nemici comuni da combattere, come i comunisti.
Il processo per la strage di Portella si apre a Viterbo nel giugno del 1950. Gli imputati sono una trentina, divisi tra i cosiddetti “picciotti”, quelli assoldati per l’occasione e spesso incoscienti di quello che stavano facendo e i veri e propri appartenenti alla banda. Giuliano non c’è: è ancora libero, ancora per poco, come vedremo presto. I picciotti vengono dichiarati innocenti per aver agito “in stato di soggezione”, cioè costretti attraverso il ricatto e la paura. Gli altri vengono tutti condannati all’ergastolo.
Un mese dopo l’inizio del processo di Viterbo, Salvatore Giuliano viene trovato morto, ammazzato. Dunque il mistero aumenta in modo enorme, perché a tutte le domande sui mandanti della strage, si aggiunge quella su chi ha ucciso il bandito. Durante il processo si autoaccusa Gaspare Pisciotta, intimo amico di Salvatore. D’altra parte i carabinieri emettono un verbale dal quale risulta che Giuliano sarebbe stato ucciso in un conflitto a fuoco la notte precedente. Non c’è niente che torni, tanto che il giornalista Tommaso Besozzi, uno dei più informati sulla faccenda, scriverà un editoriale per L’Europeo dal titolo significativo: “Di sicuro c’è solo che è morto”.
Nel processo di Viterbo i banditi fanno anche nomi importanti di mandanti. Sono onorevoli democristiani, monarchici e liberali, tra i quali nientemeno che il ministro dell’Interno Mario Scelba, che in quanto a metodi bruschi e a sparatorie sui lavoratori inermi non aveva da imparare da nessuno.
Ovviamente il tribunale scagiona tutti i politici e lo stesso avviene nella commissione antimafia. Nessuna strage di carattere politico, dunque, l’unico colpevole è il bandito Salvatore Giuliano.
Negli anni ci sono stati studi approfonditi di storici ed esperti che hanno avanzato un sacco di ipotesi, alcune abbastanza fantasiose, come la presenza degli uomini della X Mas di Junio Valerio Borghese alla Piana di Ginestra.
Tra le ipotesi, quella di Edmondo Montali della fondazione Di Vittorio, che analizza il tipo di sparatoria di quel primo maggio. La presenza di mitragliatrici e il tipo di fuoco incrociato, lasciano molti dubbi sull’unica responsabilità della banda Giuliano. Analisi soggettive, senza prove, nemmeno indizi di un certo peso. Ci si mette anche la stampa dell’epoca, che preferisce, in generale, riportare i fatti come cronaca, senza entrare nel merito della questione. E la questione sembra molto semplice. La vittoria dieci giorni prima del blocco social-comunista, andava fermato in ogni modo. A volerlo, l’ho già detto, sono le forze di destra con in testa la Democrazia Cristiana, e naturalmente anche la mafia.
Uno dei nomi che emergono dalle confessioni dei banditi è quello di Mario Scelba. C’è un episodio curioso, anche se la documentazione non è certissima, da raccontare. Nell’anniversario di Portella della Ginestra, Gerolamo Li Causi, nel suo comizio chiede a Turiddu di fare i nomi di chi l’ha indotto a quel gesto assurdo. Il bandito risponde con un messaggio scritto, che dice in sostanza che un uomo vero non fa mai la spia. Al che Li Causi ribatte: “Ma non capisci che Scelba ti vuole ammazzare?”. La risposta di Turiddu è chiarissima. Scelba mi vuole morto perché io so cose che è meglio non racconti in giro.
Ora io non so se tutto questo è realmente avvenuto, anche se Gerolamo Li Causi è stato un politico di grande spessore, un avversario di spicco della mafia e un paladino della giustizia delle classi più povere, tra le quali i contadini vengono per primi. In un discorso all’indomani del massacro, usa queste parole in parlamento: “
«I nomi dei probabili organizzatori della strage sono corsi sulla bocca di tutti, e noi li facciamo perché li abbiamo fatti sulla stampa, e i contadini della zona li conoscono e li conosce anche l’onorevole Bellavista...» (L’onorevole Girolamo Bellavista, liberale, siciliano anche lui.) «Sono», proseguiva Li Causi, «i Terrana, gli Zito, i Bosco, i Troia, i Riolo-Matranga; sono i capimafia, sono i gabelloti, sono gli esponenti del partito monarchico-liberal-qualunquista di San Giuseppe Jato... Onorevole Bellavista lei conosce i mafiosi di San Giuseppe Jato. Il mafioso Celeste ebbe a dire ai contadini: ‘Voi mi conoscete. Chi voterà per il Blocco del Popolo non avrà né padre né madre’. Molti bambini di Piana e di San Giuseppe Jato oggi non hanno né padre né madre. Smentite, se ne avete il coraggio!»
Per chi non lo sapesse i gabellotti o gabelloti in siciliano erano quelli che pur non possedendo fondi agricoli potevano gestirla in affitto. Erano dunque equiparati ai possidenti terrieri.
Ecco dunque quello che resta di tutta questa storia. Molti racconti, tantissimi aneddoti, molte ipotesi sui fatti, ma nessuna certezza. L’impressione che rimane, leggendo le cronache, i libri che parlano di Turiddu, gli studi che ne sono seguiti portano chi vi parla a sospettare che Salvatore Giuliano sia stato usato dai poteri forti dell’epoca per portare a termine il lavoro sporco, un lavoro talmente sporco che neppure la mafia voleva essere riconosciuta come colpevole. La lotta al comunismo è centrale nella vicenda, difficile pensare diversamente.
Anche la sua morte rimane un mistero, che qualcuno classifica come guidata dalla mafia e dallo stesso Stato e forse, ma sottolineo forse, eseguita dal suo compare Gaspare Pisciotta.
É assai probabile, anche se va detto ancora, non certo, che quella di Portella della Ginestra sia stata la prima strage di stato della nostra storia, organizzata per motivi che con quella povera gente non aveva nulla a che fare. Poi, vanno fatti i conti, perché la carriera di Giuliano, è costellata di una quantità di delitti spaventosi. Alla fine qualcuno si è preso la briga di contare i morti: sarebbero più di 450, un numero spaventoso, esagerato, per qualsiasi eroe.
Farne un eroe è semplice ma sbagliato, rimane un delinquente con oltre 450 morti sulla coscienza, con l’assassinio di persone comuni che con la sua lotta politica niente avevano da spartire.
La carriera di Turiddu, cominciata quasi per caso con quei due sacchi di frumento sequestrati, termina in modo improvviso e drammatico il 5 luglio 1950. Salvatore muore a 27 anni, come alcune delle grandi rockstar degli anni ’70.
Chi era? Cosa voleva? Perché è stato protetto dalla “sua” gente? Da dove nasce l’avversione per i carabinieri contro i quali scatena una guerra e ne ammazza un bel po’? Che legami ha avuto con situazioni tipiche della Sicilia dell’epoca, come il partito indipendentista MIS? E con la mafia? E con la politica di Roma?
Proveremo a seguire gli eventi di quegli anni per cercare risposte a queste domande, anche a quelle sulla sua morte, ma è meglio anticipare subito che sarà difficile garantire che tutto quello che sappiamo è avvolto da un alone di mistero, con interpretazioni differenti, a volte opposte. Ma questo è quello che abbiamo e questo è quello che condividiamo in questo spazio.
Non ci resta che partire dall’inizio. Gli requisiscono grano e mulo e quello che più conta, la sua carta d’identità. Salvatore prima prega, quasi si umilia di fronte ai militari, poi estrae la pistola e spara al maresciallo Antonio Emanuele Mancino, che morirà poche ore dopo. La reazione degli altri tre non si fa attendere e feriscono Turiddu, che non ha altra scelta che fuggire. Lo aiuta un contadino che gli dà un passaggio sul suo mulo. per u n tratto di strada verso Partinico, centro di 25 mila abitanti, dove arriva dopo sei ore di marcia molto faticosa. Qui un amico lo disinfetta. La mattina seguente in bicicletta raggiunge Montelepre, dove una cugina gli pratica un’iniezione antitetanica. Il giorno dopo è a Palermo da amici, dove un medico lo prende in cura. Sono due le conclusioni di questa vicenda. Con il carabiniere ammazzato, il destino di Salvatore è segnato: comincia qui la carriera del Bandito Giuliano. La seconda conclusione è che un disgraziato, ferito come Turiddu, nonostante sia colpevole di un grave delitto, trova la compassione e la tutela da parte della gente del posto. Anche questo bisognerà spiegarlo.
La latitanza
Ci vuole un mese per rimettersi in forze, dopo di che se ne torna a Montelepre, a casa sua e si trasferisce in una cameretta che dà su un terrazzino, dal quale è possibile la fuga. La casa dei Giuliano si trova in periferia del paese, in fondo ad una lunga e larga strada. É un ottimo punto di osservazione se qualcuno sta per arrivare. Tutta la famiglia è allertata in questo senso. E in più c’è Giulia, una cagnetta che abbaia sempre quando qualcuno si avvicina. Un sistema non iper-moderno, ma efficacissimo di sorveglianza e protezione. Quando si presentano i carabinieri a cercarlo, lui se la svigna dal terrazzino, sua sorella si mette nel suo letto, il nipote nel letto della sorella di modo che nessun letto è disfatto senza nessuno dentro. Il suo rifugio sono le montagne, ma prima assiste all’arresto del padre e di un cugino, poi viene a sapere che c’è stato un rastrellamento di decine di persone. La mattina seguente è la vigilia di Natale del ’43, scende in piazza, armato di moschetto e bombe a mano che lancia contro i carabinieri. Il risultato è un altro morto e due feriti. Il tutto per vendetta, per la rabbia di averli visti arrestare gente, secondo lui, in buona parte innocente.Turiddu si sente respinto dalla società cui sente di appartenere di diritto, ne fa una questione personale, diventa sempre più rabbioso. I carabinieri mettono una taglia sulla sua testa: 50 mila lire. Un ragazzo si lascia convincere a seguirlo. Giuliano avverte il padre: “dì a tuo figlio di lasciarmi in pace o lo ammazzo”. Quarant’otto ore dopo il giovane Vincenzo Palazzolo, troppo testardo per rinunciare alla taglia, viene ucciso da Turiddu. La questione delle spie, o presunte tali, viene sempre risolta in questo modo. Non ci sono mai contrattazioni: chi tradisce muore, senza scampo. Succederà altre volte.
All’inizio della sua carriera di bandito, Turiddu è solo o con pochissimi compari, ma gode della protezione dei contadini, che si danno da fare anche per portare sue notizie alla famiglia e viceversa. In quel periodo le montagne siciliane brulicano di bande di banditi, piccole e grandi: sono trentotto in tutto con centinaia di uomini e migliaia di favoreggiatori. In seguito i banditi crescono di numero, le centinaia diventano migliaia, le migliaia decine di migliaia. Ma il fenomeno non dura a lungo. Nel giro di qualche anno tutte le bande spariscono dal territorio, tutte tranne una, quella di Salvatore Giuliano. Vedremo tra poco il perché e non dipende solo dalla bravura o dalla levatura del suo comandante … altri avvenimenti importanti si mettono in mezzo.
Intanto comincia a formarsi la sua banda. I primi ad entravi sono alcuni parenti e amici che riesce a fare evadere dal carcere di Monreale. Sulle montagne la vita è dura, i carabinieri sono ovunque nei paesi e i suoi parenti sono sotto osservazione, così che a volte è difficile che riescano ad organizzarsi per portare vettovaglie ai latitanti. In quei casi, come scrive lo stesso Giuliano nel suo memoriale, sono i contadini e i pastori a fornire sostegno alla banda. In cambio Turiddu interviene qua e là a loro favore. É uno scambio, non una presa di posizione di classe, che non ci sarà per niente, come vedremo più avanti.
Gli scontri a fuoco con i carabinieri sono frequenti in questo periodo e ci sono anche morti, come il tenente Testa, attaccato con i suoi uomini mentre interroga per strada una zia di Turiddu. Lui non ha alcun timore ad attaccare plotoni interi di carabinieri, e nei suoi anni di latitanza o ha avuto la meglio o se l’è cavata senza ferite.
Tutte queste “imprese”, come lui stesso ama definirle, lo rendono popolare. Non è più solo la gente del posto a parlarne. Lo fa anche la stampa locale e, in Sicilia, diventa famoso.
Nel Novembre 1944, ecco la prima impresa contro privati. Un gesto altamente cinematografico: un autocarro arriva con una decina di malviventi nella tenuta del duca di Pratameno. Mentre alcuni tengono sotto tiro i proprietari, gli altri si portano via ogni cosa, per un valore di diversi milioni di lire. É l’altro volto di Giuliano, non più combattente contro lo Stato, rappresentato dalle forze dell’ordine, ma delinquente, con persone a lui affidate, la cui vita dipende anche dai soldi che si riesce a raccogliere.
Ma non è questo che fa di Giuliano un mito conosciuto ovunque. Ci vuole ben altro, ci vuole un legame forte con la politica dell’epoca, un legame che segnerà fortemente le sue azioni. Per capire questo occorre però fare un piccolo passo indietro.
Mentre le forze fasciste e naziste scappano risalendo verso Nord o si trasformano improvvisamente in antifascisti, in Sicilia si fa sempre più forte una critica sul ruolo dato all’isola da parte dei governi, sia quelli precedenti al ventennio, che quello fascista. “Per noi non hanno fatto niente”, qualcuno comincia a dire nelle piazze, nei discorsi al caffè (la parola bar arrivo solo più tardi). Così, quando gli alleati, il 10 luglio 1943, sbarcano dalle parti di Licata l’idea del separatismo o dell’indipendenza sono già radicate in parte della popolazione.
Va sottolineato che questa spinta non mira a quella autonomia amministrativa legislativa e fiscale, che poi è arrivata, nelle forme previste dalla costituzione, con lo “statuto speciale” del 1948. La Sicilia vuole di più, vuole l’indipendenza.
Anche Turiddu ha queste idee in testa, vuole una Sicilia libera e combatte tutto ciò che rappresenta lo Stato italiano, a cominciare dai carabinieri.
Gli americani che conquistano l’isola (anche se non si può dimenticare il contributo essenziale di inglesi e canadesi nell’operazione) decidono chi comanda nei vari comuni e di molti di questi affidano la gestione a separatisti. Vero anche che gli accordi più stretti degli statunitensi avvengono con importanti uomini della mafia (ad esempio Lucky Luciano), ma in questa storia la mafia entrerà solo più tardi, e ne parlerò a suo tempo. Quello che è certo è che la mafia non è certo contraria a separare la Sicilia dall’Italia. I motivi credo siano piuttosto evidenti: controllare l’isola diventerebbe molto più semplice.
I separatisti cominciano ad organizzarsi. A capo c’è Andrea Finocchiaro Aprile, politico e sottosegretario nei governi Nitti, in disaccordo con il fascismo, si ritira dalla politica durante il ventennio per tornare a stringere legami coi suoi vecchi colleghi nel 1942. Con questi fa nascere il MIS, il Movimento Indipendentista Siciliano, un partito che, come dice il nome, ha come primo obiettivo la liberazione dell’isola dallo “stato rapace” italiano, termine ampiamente usato dai separatisti. Aprile cerca collaborazione con gli americani, ne frequenta i servizi segreti, come quelli inglesi, cercando di uscire ogni volta più forte da queste relazioni.
Gli americani, tuttavia, hanno altro per la testa e guardano al MIS con simpatia, ma non offrono mai un appoggio diretto, anche perché, come vedremo meglio tra poco, vengono ammoniti dagli allora alleati sovietici che è meglio lasciar perdere. Quella simpatia, tuttavia, viene interpretata in modo diverso, molto più ottimistico dai siciliani, che si sentono così forti, da fare scelte decisamente azzardate.
Separatismo ed esercito EVIS
La scelta che i separatisti devono prendere viene discussa a Palermo, in casa del barone Lucio Tasca, sindaco della città per volere americano. É il mese di marzo del 1945. Due le strade che quegli uomini hanno di fronte. La prima: ammorbidire le pretese, accettare di far parte dell’Italia, ma pretendere l’autonomia per la Regione. La seconda strada è più complicata e presuppone un impegno molto più arduo: l’insurrezione armata e la lotta contro lo “stato rapace”.Una decisione non facile da prendere, poi però accade qualcosa che, come si dice, taglia la testa al toro.
Il 19 ottobre 1944 si tiene, pur ostacolato dalle autorità, il primo congresso del MIS a Palermo, all’albergo Belvedere. Durante le riunioni, a Palermo scoppiamo gravi disordini con un tentativo da parte dei manifestanti di assaltare il palazzo della Prefettura. La polizia non trova di meglio da fare che sparare sulla folla. Ci sono dei morti, il cui numero nessuno conosce perché ogni fonte ne elenca una quantità diversa. Si va dai 19 della prefettura ai 90 riportati dal quotidiano comunista L’Unità. In ogni caso si tratta di un episodio di una gravità eccezionale. Così la decisione si che strada scegliere diventa obbligata. Il presidente del MIS Finocchiaro Aprile si incontra qualche giorno dopo con Antonio Canepa, professore universitario, partigiano antifascista, affidandogli l’incarico di formare un corpo militare che affianchi le iniziative politiche del MIS.
In realtà con Canepa si sfonda una porta aperta. Lui quest’idea l’aveva già in testa da tempo. Comincia a radunare le truppe, anche se questo termine è forse improprio. SI rivolge ai suoi studenti, cercando di inculcare loro le idee del separatismo, da raggiungere attraverso la lotta armata contro lo stato rapace; insisto con questo aggettivo, rapace, perché è il succo di tutto il discorso: lo stato ruba alla Sicilia tutto quello che ha e non restituisce niente. Quindi va fermato. La guerra in questo caso viene vista come una sorta di legittima difesa.
Ma, gli ideali e i discorsi non servono a molto: ci vuole ben altro. Ci vuole qualcuno che sia in grado di organizzare la lotta, che sappia comandare, che non abbia paura e magari anche un po’ di esperienza di “imprese” contro le caserme dei carabinieri.
Tutti voi ci avete pensato subito è abbastanza evidente. Queste qualità sono esattamente quelle che appartengono al bandito Salvatore Giuliano.
In realtà i passaggi portati avanti dai separatisti sono diversi e non così immediati. Intanto però si forma il primo nucleo di uno schieramento, che i separatisti, con grande ottimismo, chiamano esercito, precisamente EVIS, Esercito Volontario per l’Indipendenza della Sicilia. Si arroccano sulle montagne in provincia di Messina al confine con quella di Catania. Adesso servono armi, strumentazione e soprattutto uomini. Dove trovarli?
I separatisti sono convinti che anche ai banditi non deve dispiacere l’idea di una Sicilia svincolata dallo Stato, senza la presenza di tutti quei carabinieri che danno loro la caccia. É un periodo, come abbiamo visto, in cui le bande di delinquenti in Sicilia sono una quantità, diverse decine, anche se in ogni provincia ne prevale una su tutte: Giuliano a Palermo, Li Calzi ad Agrigento, Dottore a Enna, Stimoli a Catania e così via per le altre località. I notabili del MIS si dividono i compiti per incontrare questi banditi e proporre loro una, chiamiamola così, collaborazione. Ma i banditi sono sospettosi, non vedono un guadagno immediato, sono ignoranti e cattivi, non strateghi né politici. Così non ci vogliono stare.
Poi succede un fatto che cambia le carte in tavola. Il 17 giugno, c’è uno scontro a fuoco tra separatisti e carabinieri. Il capo dell’EVIS, dell’Esercito separatista, il professor Antonio Canepa, viene ucciso, assieme a due studenti. A Canepa succede Concetto Gallo, che trasforma l’esercito quasi platonico di Canepa in qualcosa di più battagliero, più efficace e cazzuto: il GRIS, Gioventù Rivoluzionaria Indipendenza Sicilia. Ma non è solo il nome che cambia, cambia anche la strategia. Una delle prime preoccupazioni di Gallo è di riuscire ad agganciare Salvatore Giuliano e farselo amico in questa avventura. Operazione complicata perché Turiddu sospetta di tutti, anche dei suoi uomini più fidati, tanto che non comunica a nessuno quale missione o impresa stanno per compiere, lo sapranno solo una volta arrivati a destinazione. Ci vogliono mesi per organizzare due incontri, ai quali partecipa Gallo. Forse l’incontro è stato uno solo, le cronache non sono chiarissime come vedremo tra poco.
Nel frattempo, il mondo, attorno alla Sicilia, va avanti lo stesso e le cose possono cambiare anche drasticamente da un momento all’altro. Va ricordato che siamo alla fine di una guerra terribile e di un riassetto molto pesante dell’Europa, che verrà divisa in due blocchi, dove inizierà una nuova ostilità, quella guerra fredda tra Occidente e Unione Sovietica che imporrà politiche molto particolari dalle due parti. Nell’estate del 1945 a Potsdam nella ex DDR (la Germania dell’Est) si incontrano Truman, Stalin e Clement Attlee, che ha appena sostituito Churchill, come primo ministro del Regno Unito. Sono loro a decidere le sorti delle nazioni nel dopoguerra. E per quanto riguarda la Sicilia, stabiliscono di abbandonare ogni velleità di indipendenza dall’Italia. In realtà è Stalin ad imporre agli Stati Uniti di sgombrare dalla Sicilia, vista come una zona strategica, anche militare, per l’influenza su tutto il Mediterraneo. Sappiamo che l’abbandono dell’isola da parte degli americani non accadrà, ma questa è un’altra storia. Il fatto è che gli irredentisti si trovano senza un appoggio sul quale contavano molto e devono, in qualche modo arrangiarsi. Orfani dell’appoggio statunitense, quello ai banditi sembra la via più semplice per ovviare a questo - come dire? – inconveniente.
La decisione ufficiale di accordarsi con Giuliano, il MIS la prende al congresso straordinario, avvenuto a Palermo alla presenza del capo di Cosa Nostra, don Calogero Vizzini. Costui era considerato all’epoca, dalla stampa, il “capo dei capi”. Di sicuro guidava il mandamento di Caltanissetta e utilizzò i suoi uomini nel progetto sovversivo del MIS, mandando uomini a combattere contro lo Stato italiano.
Tutta la storia dei rapporti tra Giuliano e i separatisti è abbastanza avvolta nel mistero, nel senso che le cronache di quegli incontri, delle decisioni prese, noi le sappiamo da diverse voci. Ci sono le testimonianze durante le audizioni della commissione antimafia dei primi anni ’70; ci sono gli scritti dello stesso Giuliano, che spesso diventano romanzi delle sue gesta; c’è il racconto di Frank Mannino, uomo di fiducia di Giuliano e relatore di un memoriale sulla sua vita. Pare che il primo di questi incontri sia avvenuto tra Giuliano e l’avvocato Attilio Castrogiovanni, politico, deputato dell’Assemblea Costituente, ma anche, per breve tempo, capo dell’EVIS, subito dopo la morte di Canepa e prima dell’arrivo di Gallo.
Sia, come sia, quello che è certo è che un incontro tra i due capi dell’esercito separatista Gallo e di Turiddu avviene. A quanto sembra il luogo in cui i due si incontrano è nel massiccio di Sàgana qualche chilometro a Sud di Montelepre. É lo stesso Gallo a raccontare i dettagli e a riferire di una notte passata assieme al bandito, facendo entrambi un turno di guardia mentre l’altro dormiva.
Più interessante è il racconto di Turiddu, un memoriale fatto arrivare alla corte d’Assise di Viterbo, durante il processo contro molti suoi uomini nel 1950. C’è scritto che le idee irredentiste Giuliano le aveva con sé ben prima del contatto con la politica del MIS e, anzi, lui preparava da tempo azioni ed imprese come quelle poi richieste dall’esercito EVIS o GRIS. Non poteva esserci un terreno comune migliore per Gallo e i suoi. Del resto, per entrambi, il nemico si identificava con i carabinieri. Certo, i motivi erano molto diversi, ma vale il detto: il nemico del mio nemico è mio amico.
Dunque la guerra comincia. Contro lo stato sono alleati i separatisti dell’EVIS, i banditi di Salvatore Giuliano e una parte della mafia. Ci sono assalti, sparatorie e morti da entrambe le parti. Un attacco in forze di carabinieri ed esercito contro il GRIS, porta all’arresto di Gallo. Dall’altra parte i separatisti, irrompono nella casermetta di Feudo Nobile, vicino a Gela, sequestrano otto carabinieri e li ammazzano, buttando i cadaveri in una cava di zolfo, dove verranno rinvenuti mesi più tardi.
In generale, però, se nella zona di Montelepre, Giuliano si dà da fare attaccando a più riprese caserme dei carabinieri, manca l’appoggio dei banditi nella parte orientale della Sicilia, indebolendo di molto le azioni militari del MIS.
La politica: destra, banditi e mafia
Oltre alle questioni militari, ci sono anche quelle politiche. Nel 1947 ci sono le elezioni regionali con risultati molto diversi nelle varie zone. Di fronte i separatisti del MIS e i social-comunisti del Blocco del Popolo. Qua vincono nettamente i primi, là i secondi. A Montelepre il MIS ha un clamoroso successo, raccogliendo più di 1500 voti, contro i 70 dei comunisti. In generale, questa situazione si ripete nei paesi controllati dai banditi e in particolare da Giuliano. Ora, noi siamo abituati dalla storia a cercare di capire da quale lato del parlamento gli eletti siedono. In generale il movimento indipendentista è di destra, si rifà ai liberali e ai monarchici, ma una volta sciolto il MIS, la sua base si trasferisce un po’ dappertutto, con una netta preferenza per il Partito Comunista Italiano, che pure sulla questione secessione è sempre stato molto chiaro, contrario fin dal principio.Stando dalla stessa parte, Giuliano si trova ad essere alleato anche con la mafia. É un’alleanza di convenenza, perché tutti vogliono che il sistema feudale per quanto riguarda i possedimenti agrari rimanga immutato. I tentativi di realizzare una riforma agraria trova nei banditi, nella mafia e nei separatisti un ostacolo da superare.
Nel frattempo però, si intensificano le lotte contadine per un rinnovamento delle campagne, l’assegnazione delle terre incolte, una più giusta spartizione dei prodotti.
La mafia capisce tutto e si rende conto che è necessario abbandonare schieramenti poco solidi e rivolgersi a chi potrà dare un governo stabile all’isola, e cioè alla Democrazia Cristiana. Come sappiamo questo sodalizio diventerà via via più forte nel corso dei decenni successivi.
Tra le imprese del bandito Giuliano, nel periodo di alleanza con l’esercito EVIS, ci sono cinque attacchi a caserme dei carabinieri. Ora, parlare di caserme, sembra esagerato: si tratta di casermette con pochi militari al loro interno. Frank Mannino, che abbiamo già conosciuto come bandito ed estensore della storia di Giuliano, racconta l’attacco avvenuto a Bellolampo, una collina vicina a Palermo, dove una casermetta è difesa da 4 uomini. Nella sparatoria uno di essi viene ferito e gli altri si arrendono. La caserma viene depredata completamente, ma Giuliano ha un atteggiamento cavalleresco, perché gli uomini che s1i arrendono non devono essere toccati e neppure insultati a parole: “Sono come i morti – dice - vanno rispettati”.
L’azione più eclatante avviene a Montelepre, non lontano dalla casa della famiglia Giuliano. Nella caserma ci sono 25 carabinieri, mentre i banditi sono una quarantina. Ma è Turiddu, accompagnato da due soli uomini, a presentarsi davanti al portone e a sparare e lanciare bombe a mano. Il brigadiere si attacca al telefono per chiedere rinforzi. La linea funziona: come mai non è stata tagliata per evitare l’arrivo di rinforzi? É lo stesso Giuliano a spiegare i fatti. Lui vuole che arrivino altri militari per regolare i conti. Quando l’autocarro carico di carabinieri arriva, i banditi li stanno aspettando in un punto di favore e cominciano a sparare, facendo molti feriti, 22 per la precisione, che vengono raccolti dai commilitoni. In questa fase ecco riemergere lo spirito cavalleresco di Giuliano. Nessun bandito spara, neanche un colpo, finché l’operazione non termina. Di rinforzi ne arrivano però altri e anche un’autoblindo, che viene assalita e distrutta. Alla fine tra i banditi nessun morto, mentre ce ne sono tra i carabinieri. La sera Giuliano manda a casa la truppa, mentre lui con sette uomini assalta la caserma di Partinico, una mossa che deve servire per mostrare che loro sono più numerosi di quello che si pensa.
Ho già accennato al fatto che il bandito non lascia scampo alle spie che ammazza senza pensarci su. Ma anche a chi si permette di parlar male di lui le cose non vanno bene. Capita al giovane carabiniere Francesco Sassano, colpevole di aver detto di voler vedere in faccia quei banditi e di volerli combattere. Viene ammazzato in mezzo alla strada principale del paese. Un’esecuzione che termina con un biglietto depositato sul suo corpo: “Così muoiono le spie di Giuliano.”
C’è anche un assalto al treno, che starebbe benissimo in un film western. Gli uomini vengono fatti scendere, mentre donne e bambini rimangono in carrozza. Dopo aver tolto ogni cosa ai passeggeri, Giuliano si lascia intervistare da un reporter italiano e un ufficiale inglese, presenti per caso sul treno. Questa è la storia così come viene raccontata, ma ci sono molti dubbi che l’autore del gesto sia Turiddu. Pare che questa impresa sia da attribuire alla banda Labruzzo - Cassarà di Partinico. Una banda che agiva però con il benestare di Giuliano, tanto che compirà azioni importanti, come l’uccisione del capomafia Santo Fleres, con ogni probabilità per conto di Turiddu. In realtà, come già sottolineato prima, su tutta l’attività del bandito ci sono forti dubbi e non sempre si è certi che quello che è stato raccontato sia vero. In questi dubbi cade anche lo spirito del bandito. Qualcuno lo dipinge come un novello Robin Hood, che ruba ai ricchi e cede parte del bottino alla povera gente. Che questo sia vero o no poco importa. Del resto a chi si poteva rubare se non ai ricchi? Gli altri non avevano niente. Donare ai poveri parte del bottino poteva essere una mossa strategica, perché Giuliano ha un bisogno disperato del sostegno della popolazione, che spesso lo ammira o quanto meno lo considera “un bravo ragazzo”, ma che garantisce una latitanza altrimenti impossibile da sostenere.
In questa fase le scorribande della banda Giuliano mescolano atti di terrorismo, quindi puramente politici, ad altri che invece hanno come obiettivo il denaro o, se denaro non c’è, vettovaglie, cibo, biancheria per proseguire la dura vita in montagna.
Forse neanche Turiddu sa bene quale sia la sua faccia reale, quale il suo scopo principale. É quanto emerge oltre vent’anni più tardi anche dalle parole della commissione antimafia che, scrive, siamo nel 1972: “Se si dovesse dare una precisa definizione della sua personalità di delinquente, certo è che ci si troverebbe di fronte a un evidente imbarazzo. Egli era dunque un delinquente comune, un appassionato separatista, un uomo con sfumature di interesse politico... e aveva altresì un certo qual fondo di fierezza nella sua incallita delinquenza, sino al punto di dichiarare, «che egli non era ‘né vile, né traditore, né un infame’.” Ma pur non essendo tutto questo i suoi legami sono sempre con i settori reazionari: i separatisti, i monarchici, i liberali, i democristiani e la stessa mafia. E questo ha un peso sulla nostra storia, un peso molto grande.
Quello che è certo è che nel periodo degli assalti alle caserme, tutta la zona attorno a Montelepre viene percorsa continuamente dalle forze d’ordine con rastrellamenti e fermi di massa in modo da intimidire la popolazione a non appoggiare il bandito. Queste azioni sono evidentemente dirette contro la banda di Giuliano, assai più che contro i separatisti, tanto che per circa quattro mesi nel 1946 vige il coprifuoco dalle 17.00 alla mattina seguente, ma nella sola zona di Montelepre e dintorni.
Poi avviene l’inevitabile. Il MIS, organo politico dei separatisti, sconfessa l’EVIS, l’esercito volontario. La speranza degli aderenti è che ci sia una specie di amnistia, come spesso succede alla fine di una guerra, ma l’inizio del periodo, diciamo così, post-bellico, è di tutt’altra natura. Centoquarantuno persone vengono deferite al procuratore militare. Si tratta di organizzatori, promotori, capi dell’EVIS, ma anche di semplici gregari, molti dei quali non hanno neppure idee chiare su quello che stanno facendo. E i capi di imputazione, dieci in tutto, sono terribili: insurrezione armata contro i poteri dello Stato, distruzione di opere e mezzi dello Stato, cospirazione politica mediante associazione, banda armata e istigazione, omicidi e tentati omicidi aggravati, associazione per delinquere, rapina, sequestro di persona, estorsione, occultazione di cadavere.
Il MIS viene svuotato di ogni significato quando il re, Umberto II, firma il decreto che rende amministrativamente autonoma la Sicilia, insediando la Consulta regionale siciliana, con lo scopo di avviare le regole nuove per la prima regione autonoma italiana. Curiosamente la Sicilia diventa una Regione autonoma, ancora prima della nascita della Repubblica italiana. L’atto conclusivo di tutta questa vicenda è del 22 giugno 1946, con un’amnistia e un indulto per reati comuni, politici e militari. La firma il ministro di Grazia e Giustizia del Governo De Gasperi, Palmiro Togliatti. Dall’amnistia sono esclusi Giuliano e i suoi banditi.
Tutti a casa, dunque. E Giuliano? e i suoi uomini?
Riforma agraria e anticomunismo
La fine del separatismo, del MIS e dell’esercito EVIS, fa nascere alcune domande. Giuliano e la sua banda sono esclusi dall’amnistia di Togliatti, tra le poche eccezioni al perdono governativo. Chi li proteggerà adesso? Quali alleanze sono possibili e convenienti?Il fatto è che, nonostante Giuliano si definisca “amante dei poveri e nemico dei ricchi” le sue idee rimangono ancorate alla Sicilia antica, ai feudi, ai signorotti, agli agrari. Non importa chi impersona questa posizione se i separatisti, i monarchici o i democristiani. Quello che è certo è chi si oppone alla visione cara a Turiddu: i comunisti. Inoltre, nonostante nelle elezioni per l’Assemblea regionale riportino una netta vittoria con un terzo dei seggi, restano comunque sempre all’opposizione di una congrega di partiti che include democristiani, monarchici, qualunquisti, liberali e repubblicani. Dunque, anche da un punto di vista strategico è conveniente restare nell’area di destra, magari qualche vantaggio ne può sempre uscire. Giuliano, in cuor suo, spera anche che queste alleanze possano contribuire a perdonare le sue malefatte, nonostante l’enorme quantità di distruzione e di morti che ha sulla coscienza.
I decreti Gullo hanno una storia allucinante, fatta di finte alleanze, tradimenti, prese di posizioni per semplice convenienza elettorale o di potere, in cui cadono principalmente democristiani e comunisti. Ma questa è un’altra storia, che non incide più di tanto sul nostro racconto. I decreti avevano l‘intenzione, decisamente avversata e impedita dai democristiani, di farla finita con il latifondismo e dare il la alla riforma agraria, redistribuendo le terre incolte al popolo purché organizzato in cooperative, le famose cooperative rosse. In Sicilia, gli avversari di questa riforma sono tre: la politica di destra, segnatamente quella democristiana, la mafia e il banditismo. Ho già spiegato il perché di questa posizione e il fatto che, inevitabilmente, queste tre forze si trovano ad avere interessi comuni e quindi a supportarsi l’un l’altra. Anche la Chiesa fa la sua parte, aiutando la nascita delle cosiddette “cooperative bianche” che una volta impadronitesi delle terre, le restituiscono al latifondo. Questi quattro elementi sono legati anche da un’altra missione: l’anticomunismo. Basta ricordare cosa chiede Truman a De Gasperi in cambio del generoso assegno per risollevare il paese. Ecco con chi allearsi, semplice e chiaro, ma soprattutto conveniente.
Anche la mafia si appoggia, come ben sappiamo, sulle stesse forze politiche, cosa che diventerà ancora più evidente negli anni seguenti. E della mafia, in quel periodo, in Sicilia, bisogna tenere conto. Così Turiddu si incontra con il capomafia di Partinico, cavaliere Santo Fleres. Un incontro breve, durante il quale si arriva ad un accordo di non interferenza e una blanda, anzi blandissima, garanzia da parte della mafia di protezione della banda Giuliano.
Come possa fidarsi Turiddu delle promesse mafiose non si sa. La cosa che però viene mantenuta è la caccia alle altre bande minori della zona, che negli anni seguenti semplicemente spariscono, e i cui capi vengono regolarmente trovati ammazzati o arrestati su delazione della stessa mafia.
Così Giuliano si trova ad essere l’unico capobanda della zona, per di più con il beneplacito della mafia e con l’appoggio del potere democristiano dell’isola.
Turiddu riprende a fare il suo lavoro: estorsioni, rapimenti, sparatorie contro i carabinieri, rapine e omicidi. É tornato il bandito, la politica è dimenticata. Almeno per il momento.
Uno dei colpi più eclatanti si svolge nel giugno 1946 in pieno centro a Palermo. Un multimilionario ben conosciuto in città, il cavaliere Gino Agnello, viene rapito dagli uomini di Giuliano e trasferito in una casupola in montagna. Viene affidato alle cure di “Peppino”, Giuseppe Passatempo, “il boia della banda”, soprannome che è tutto un programma. Nonostante il cavaliere ceda praticamente subito e chieda ai fratelli di pagare il riscatto richiesto di 100 milioni, questi si rifiutano. Dopo quaranta giorni di inutili trattative, Giuliano lascia libero Agnello con un messaggio per i suoi fratelli: Pagate 25 milioni e tutto finisce qui. Niente da fare. Il giorno dopo una mina sconquassa i magazzini Agnello. I 25 milioni richiesti vengono allora consegnati.
La vita del bandito non è semplice. In particolare mancano i momenti con la famiglia, così preziosi per chi vive da tanto tempo lontano da casa. Il 24 aprile 1947 o forse il 25, la sorella Mariannina sposa Pasquale Sciortino, l‘intellettuale della banda, perché lui era arrivato fino al liceo, mentre gli altri, quando andava bene avevano la quinta elementare.
La cerimonia religiosa viene organizzata a casa Giuliano, all’una di notte. É Frank Mannino a raccontare per filo e per segno quella festa, con tutti i partecipanti, tra i quali c’è praticamente la banda al completo. Ma la cerimonia non parte. La madre dice di aspettare, non si può cominciare fin che l’ultimo invitato non arriverà. L’ultimo invitato, ovviamente, è lui, Turiddu, che prende sotto braccio la sorella e l’accompagna all’altare. Dopo la cerimonia, si procede al banchetto e ai balli, come se nulla di strano ci fosse in quella congrega di banditi. Poco prima dell’alba, proprio com’era arrivato, Salvatore Giuliano se ne va, salutando solo la madre e sparisce nel buio della notte di Montelepre.
Il matrimonio non dura tanto. Poche settimane dopo, Sciortino riceve un messaggio, fa i bagagli, bacia la sposa e parte in direzione New York.
Cos’è successo di tanto grave da prendere una decisione così drastica? Il fatto avviene tra le nozze il 25 aprile e la partenza per l’America del 10 agosto.
Il fatto avviene il primo maggio. Il giorno prima, Pasquale Sciortino sale in montagna e consegna al suo capo Salvatore Giuliano un messaggio. É così che comincia la vicenda più tragica e oscura dell’intera carriera del bandito. Avviene nella piana di Portella della Ginestra.
Portella della Ginestra
Prima di continuare la nostra storia voglio ribadire un concetto importante. Le informazioni che si hanno su Giuliano, la sua banda, le sue gesta e tutto quello che dietro le quinte è avvento, non sono mai certe. Lo vedremo anche nei prossimi due capitoli, che sono quelli forse più importanti e meno certi dell’intera carriera di Turiddu.Ci eravamo lasciati con Sciortino che, prima di imbarcarsi per New York aveva fatto visita a Salvatore in montagna, portandogli una lettera. Lui la legge e senza fare alcun commento la brucia. Subito dopo riunisce la banda e ordina loro di prepararsi perché “andiamo a sparare ai comunisti.” Questo avrebbe detto … avrebbe detto, forse.
A Portella della Ginestra si radunavano, prima del fascismo, i lavoratori per festeggiare il primo maggio, la festa dei lavoratori. Nel 1947 la festa è doppia, perché è l’occasione per riprendere quell’abitudine e anche per festeggiare la vittoria del Blocco del Popolo alle elezioni regionali, dove hanno sfiorato il 30% diventando il primo partito dell’isola. É la solita festa campestre di comunisti e socialisti: un comizio di un delegato del partito, e poi canti, balli e una sana mangiata all’aperto. Il comizio dev’essere tenuto da Girolamo Li Causi, primo parlamentare siciliano comunista, oppositore senza peli sulla lingua di mafia e banditi. Ma lui ha un altro impegno di partito e lo sostituisce Giacomo Schirò, socialista. Quello che succede in quella piana lo sanno proprio tutti: un gruppo di fuoco di una quarantina di persone spara sulla folla: rimangono sul terreno 11 morti, tra i quali quattro ragazzi adolescenti. Ci sono anche 30 feriti, 27 gravi. Questo è quello che si sa di sicuro, tutto il resto è avvolto in congetture, che nemmeno a pagarle riescono a coincidere tra loro.
Le domande senza risposta sono le solite: chi sono i mandanti? Ma in questo caso c’è anche la domanda che di solito non si fa: chi è stato a sparare?
Sembrerebbe superfluo, dal momento che Giuliano organizza per bene il suo gruppo, probabilmente una quindicina, li arma con mitra e bombe a mano. Per farne cosa, se non per sparare sui contadini comunisti della Piana della Ginestra?
Lo stesso Giuliano resta stupito quando i primi contadini cadono uccisi. Lui non ha ordinato il fuoco e poi si era accordato per sparare in alto, per spaventare quella gente, per compiere uno dei suoi tanti atti di terrorismo. Che i suoi uomini abbiano agito di testa propria? Difficile crederlo, pensando alle conseguenze che una simile disobbedienza può costare loro. Forse, nel gruppo ci sono altre persone che hanno compiuto il massacro. Qualcuno dice che sono stati i mafiosi, qualcun altro che le stesse forze dell’ordine abbiano partecipato alla mattanza.
Prima di parlare dei presunti mandanti è bene constatare che le indagini su quello che è stato un atto che ha impressionato l’intero paese, per la ferocia e, tutto sommato, l’inutilità del gesto, … prima dei mandanti – dicevo - è bene sottolineare che le indagini sulla strage di Portella della Ginestra hanno assunto un andamento, come possiamo dire? inefficace? inaccurato? O volutamente superficiale per coprire le responsabilità proprie e dello stato? Non ho, ovviamente, risposta a queste domande, ma è quanto mai strano che nessuna perizia balistica sia stata eseguita sui corpi dei contadini uccisi.
Per quello che vale, possiamo cercare una spiegazione nelle lettere che lo stesso Giuliano scrive dopo l’agguato. Da queste si capisce l’obiettivo principale del bandito. Quello di disperdere la folla, per cui non c’era bisogno di ammazzare nessuno, di catturare Li Causi (come detto assente, ma questo i banditi non lo sanno), processarlo davanti al popolo e poi ucciderlo. Un’azione degna del nome di Salvatore Giuliano, in perfetta sintonia con il suo modo di agire.
Le dichiarazioni di Giuliano testimoniano di una grande sofferenza apprendendo dei morti e dei feriti, che, nella sua idea, non dovevano esserci.
É chiaro che possiamo credere o meno alle sue parole, ma è molto strano tutto quello che i suoi stessi compagni raccontano, come quando Giuliano, vedendo cadere le persone si rivolge a loro, arrabbiato, gridando: “Disgraziati, che state facendo? Tirate più alto!”
Chi erano dunque i tiratori scelti? E da chi erano stati mandati? A chi deve essere attribuita la strage di Portella della Ginestra? Al bandito scelto come capro espiatorio? Alla mafia? O allo stato?
Per ora abbandoniamo questo episodio. Ci torneremo tra poco.
L’idea pubblica che il responsabile della strage del primo maggio sia Giuliano viene confermata dagli eventi successivi. Nel corso dell’estate infatti, il bandito organizza diverse incursioni contro sedi del partito comunista. In una di queste vengono uccisi due uomini che assistono ad un concerto di fronte alla sede del PCI di Partinico.
Viene da chiedersi come mai Giuliano compia queste azioni, dopo essersi di fatto chiamato fuori dalla strage di Portella. Di questo vale la pena riferire in un articolo a parte.
Ad ogni azione compaiono manifesti deliranti, come quello che comincia così: «Siciliani, l’ora decisiva è già scoccata! Chi non vuole essere facile preda di quella canea di rossi che, dopo di averci infangato, tradito e turlupinato, facendoci perdere ogni prestigio negli ambienti internazionali, cercano ora di distruggere quanto di meglio ancora abbiamo e che a ogni costo difenderemo, e cioè l’onore delle nostre famiglie e quel nobile sentimento che ci lega alla nostra cara terra, che essi, ipocritamente camuffati da internazionalisti, respingono e detestano, è necessario che oggi si decida.”
Negli anni seguenti le sue imprese tornano ad essere quelle solite: omicidi, vendette, rapimenti, assalto ai carabinieri e così via.
La fine: processo si Viterbo e morte di Giuliano
Resta da capire i ruoli, quelli veri, dei protagonisti della strage di Portella.Negli anni seguenti, mentre Giuliano continua a rimanere una primula rossa, i suoi uomini cominciano a venire arrestati o uccisi. É assai probabile che la mafia abbia capito che era meglio rimanere la sola protagonista del malaffare in Sicilia. E questo andava decisamente bene anche alla politica che con la mafia stava stringendo legami sempre più forti, fatti di intrallazzi e di interessi, avendo nemici comuni da combattere, come i comunisti.
Il processo per la strage di Portella si apre a Viterbo nel giugno del 1950. Gli imputati sono una trentina, divisi tra i cosiddetti “picciotti”, quelli assoldati per l’occasione e spesso incoscienti di quello che stavano facendo e i veri e propri appartenenti alla banda. Giuliano non c’è: è ancora libero, ancora per poco, come vedremo presto. I picciotti vengono dichiarati innocenti per aver agito “in stato di soggezione”, cioè costretti attraverso il ricatto e la paura. Gli altri vengono tutti condannati all’ergastolo.
Un mese dopo l’inizio del processo di Viterbo, Salvatore Giuliano viene trovato morto, ammazzato. Dunque il mistero aumenta in modo enorme, perché a tutte le domande sui mandanti della strage, si aggiunge quella su chi ha ucciso il bandito. Durante il processo si autoaccusa Gaspare Pisciotta, intimo amico di Salvatore. D’altra parte i carabinieri emettono un verbale dal quale risulta che Giuliano sarebbe stato ucciso in un conflitto a fuoco la notte precedente. Non c’è niente che torni, tanto che il giornalista Tommaso Besozzi, uno dei più informati sulla faccenda, scriverà un editoriale per L’Europeo dal titolo significativo: “Di sicuro c’è solo che è morto”.
Nel processo di Viterbo i banditi fanno anche nomi importanti di mandanti. Sono onorevoli democristiani, monarchici e liberali, tra i quali nientemeno che il ministro dell’Interno Mario Scelba, che in quanto a metodi bruschi e a sparatorie sui lavoratori inermi non aveva da imparare da nessuno.
Ovviamente il tribunale scagiona tutti i politici e lo stesso avviene nella commissione antimafia. Nessuna strage di carattere politico, dunque, l’unico colpevole è il bandito Salvatore Giuliano.
Negli anni ci sono stati studi approfonditi di storici ed esperti che hanno avanzato un sacco di ipotesi, alcune abbastanza fantasiose, come la presenza degli uomini della X Mas di Junio Valerio Borghese alla Piana di Ginestra.
Tra le ipotesi, quella di Edmondo Montali della fondazione Di Vittorio, che analizza il tipo di sparatoria di quel primo maggio. La presenza di mitragliatrici e il tipo di fuoco incrociato, lasciano molti dubbi sull’unica responsabilità della banda Giuliano. Analisi soggettive, senza prove, nemmeno indizi di un certo peso. Ci si mette anche la stampa dell’epoca, che preferisce, in generale, riportare i fatti come cronaca, senza entrare nel merito della questione. E la questione sembra molto semplice. La vittoria dieci giorni prima del blocco social-comunista, andava fermato in ogni modo. A volerlo, l’ho già detto, sono le forze di destra con in testa la Democrazia Cristiana, e naturalmente anche la mafia.
Uno dei nomi che emergono dalle confessioni dei banditi è quello di Mario Scelba. C’è un episodio curioso, anche se la documentazione non è certissima, da raccontare. Nell’anniversario di Portella della Ginestra, Gerolamo Li Causi, nel suo comizio chiede a Turiddu di fare i nomi di chi l’ha indotto a quel gesto assurdo. Il bandito risponde con un messaggio scritto, che dice in sostanza che un uomo vero non fa mai la spia. Al che Li Causi ribatte: “Ma non capisci che Scelba ti vuole ammazzare?”. La risposta di Turiddu è chiarissima. Scelba mi vuole morto perché io so cose che è meglio non racconti in giro.
Ora io non so se tutto questo è realmente avvenuto, anche se Gerolamo Li Causi è stato un politico di grande spessore, un avversario di spicco della mafia e un paladino della giustizia delle classi più povere, tra le quali i contadini vengono per primi. In un discorso all’indomani del massacro, usa queste parole in parlamento: “
«I nomi dei probabili organizzatori della strage sono corsi sulla bocca di tutti, e noi li facciamo perché li abbiamo fatti sulla stampa, e i contadini della zona li conoscono e li conosce anche l’onorevole Bellavista...» (L’onorevole Girolamo Bellavista, liberale, siciliano anche lui.) «Sono», proseguiva Li Causi, «i Terrana, gli Zito, i Bosco, i Troia, i Riolo-Matranga; sono i capimafia, sono i gabelloti, sono gli esponenti del partito monarchico-liberal-qualunquista di San Giuseppe Jato... Onorevole Bellavista lei conosce i mafiosi di San Giuseppe Jato. Il mafioso Celeste ebbe a dire ai contadini: ‘Voi mi conoscete. Chi voterà per il Blocco del Popolo non avrà né padre né madre’. Molti bambini di Piana e di San Giuseppe Jato oggi non hanno né padre né madre. Smentite, se ne avete il coraggio!»
Per chi non lo sapesse i gabellotti o gabelloti in siciliano erano quelli che pur non possedendo fondi agricoli potevano gestirla in affitto. Erano dunque equiparati ai possidenti terrieri.
Ecco dunque quello che resta di tutta questa storia. Molti racconti, tantissimi aneddoti, molte ipotesi sui fatti, ma nessuna certezza. L’impressione che rimane, leggendo le cronache, i libri che parlano di Turiddu, gli studi che ne sono seguiti portano chi vi parla a sospettare che Salvatore Giuliano sia stato usato dai poteri forti dell’epoca per portare a termine il lavoro sporco, un lavoro talmente sporco che neppure la mafia voleva essere riconosciuta come colpevole. La lotta al comunismo è centrale nella vicenda, difficile pensare diversamente.
Anche la sua morte rimane un mistero, che qualcuno classifica come guidata dalla mafia e dallo stesso Stato e forse, ma sottolineo forse, eseguita dal suo compare Gaspare Pisciotta.
É assai probabile, anche se va detto ancora, non certo, che quella di Portella della Ginestra sia stata la prima strage di stato della nostra storia, organizzata per motivi che con quella povera gente non aveva nulla a che fare. Poi, vanno fatti i conti, perché la carriera di Giuliano, è costellata di una quantità di delitti spaventosi. Alla fine qualcuno si è preso la briga di contare i morti: sarebbero più di 450, un numero spaventoso, esagerato, per qualsiasi eroe.
In fondo …
Chiudo qui questo articolo dedicato alla vita di Salvatore Giuliano, il bandito di Montelepre, che ha tenuto in scacco per sette anni le forze dell’ordine, la magistratura, i politici e, in alcune circostanze perfino la mafia. Abbiamo percorso parte della sua vita da bandito, cercato di capire i legami con il potere dell’epoca, dal MIS alle forze di destra, alla mafia, ai colletti bianchi presenti in parlamento.Farne un eroe è semplice ma sbagliato, rimane un delinquente con oltre 450 morti sulla coscienza, con l’assassinio di persone comuni che con la sua lotta politica niente avevano da spartire.
La carriera di Turiddu, cominciata quasi per caso con quei due sacchi di frumento sequestrati, termina in modo improvviso e drammatico il 5 luglio 1950. Salvatore muore a 27 anni, come alcune delle grandi rockstar degli anni ’70.