Introduzione

greenwash01Cominciamo questa puntata parlando di greenwashing. Dopo aver ricordato di cosa si tratta, cercheremo di capire chi e come pratica questa attività così brutta e sporca. Le informazioni e i dati si riferiscono al 2021. É chiaro che molte cose possono essere cambiate quest’anno per via della crisi energetica, anche legata alla guerra in Ucraina. Ma, di sicuro, non sono cambiate in meglio, per cui ho pensato che questa puntata potesse essere interessante anche alla vigilia del 2023.
Dunque partiamo dall’inizio: cosa si intende con greenwashing.
La traduzione letterale è “lavaggio verde”, il che però non dice molto di più sul suo significato.
Immaginate allora di essere, nessuno di senta offeso, è solo un esempio per capire, un amante della carne che capita in un convegno di vegani e non avete voglia che si sappia il vostro amore culinario. Cercherete di mettere in atto delle finzioni, delle coperture che, pur non essendo vere, facciano di voi una specie di vegano. Poi, se vi beccano al McDonalds con un hamburger doppio in mano, la vostra copertura salta e voi siete additato come un imbroglione e un truffatore.
Lo stesso avviene quando una società, un’azienda, mette in mostra atteggiamenti verdi, gentili verso l’ambiente, con pubblicità e dichiarazioni che inneggiano all’ecologia e promettono azioni tutte destinate a ridurre l’inquinamento, l’uso di materie plastiche e così via. Purtroppo capita spesso che queste azioni siano solo una facciata, dietro alla quale si nascondono comportamenti per niente virtuosi. É in questo caso che si parla di greenwashing, cioè di lavaggio verde.
Avremo modo di analizzare alcuni dei casi più eclatanti di queste truffe.

Pubblicità e tribunali

greenwash04Cominciamo con un fatto avvenuto nel mese di novembre 2021. Forse non vi farà fare un salto sulla sedia, ma è qualcosa di storico che accade per la prima volta.
Il 25 novembre 2021 il tribunale di Gorizia emette un’ordinanza cautelare che riconosce pratiche di greenwashing nel contenzioso tra due aziende che producono tessuti per auto. La giudice ha imposto di bloccare tutta la pubblicità e di eliminare formule come "scelta naturale, amica dell’ambiente, la prima e unica microfibra che garantisce eco-sostenibilità durante tutto il ciclo produttivo, microfibra ecologica" e altre simili, perché non sono dimostrate vere e come tali ricadono in quella concorrenza sleale, proibita dalla legge.
Questo è solo un piccolo esempio, ma è utile per introdurre l’argomento. C’è da aggiungere che di lavaggi ce ne sono tanti, quindi non solo “Green – washing”, ma anche social-washing, healthwashing, wokewashing, pinkwashing e perfino artwashing. Cercherò di spiegare ciascuna di queste voci con degli esempi per capire meglio. Sono un’anticipazione a proposito del social-washing, che ha ovviamente a che fare con la responsabilità sociale di un’azienda. Alla fine parleremo anche dello sportwashing, diventato eclatante con gli ultimi mondiali di calcio in Qatar."
Un esempio ci è offerto dalla recente pandemia. Negli Stati Uniti è stata varata pochi mesi prima dell’arrivo del coronavirus un impegno pubblico “a guidare le loro aziende a beneficio di tutte le parti interessate: clienti, dipendenti, fornitori, comunità e azionisti". Dunque le aziende hanno fatto quanto possibile per garantire occupazione e sicurezza dei lavoratori, anche a scapito del profitto? Come hanno trattato i clienti piegati dalle chiusure obbligate? Se costretti a ridurre le retribuzioni, ciò è avvenuto con equità? O magari hanno approfittato della situazione per licenziare? É a queste domande che la risposta deve coincidere con quanto dichiarato in pubblicità o nelle comunicazioni pubbliche, altrimenti si tratta proprio di social-washing.
Prima di entrare negli esempi che ci faranno meglio capire come funziona tutto questo, un po’ di storia.
greenwash01Il termine Greenwashing viene coniato nel 1986 dall’ambientalista statunitense Jay Westerveld, nella sua critica ad alcune pubblicità degli hotel. Questi rivendicavano azioni ecologiche che mascheravano tutt’altro, come l’incoraggiare i clienti a riutilizzare quante più volte possibile gli asciugamani. Se dietro questi inviti c’è il fine di ridurre i costi e quindi aumentare i propri profitti si tratta, per l’appunto, di greenwashing.
Da allora la popolazione, ma soprattutto gli analisti, hanno preso coscienza di quanto stava accadendo e il greenwashing è finito addirittura nell’articolo 12 del Codice di autodisciplina della comunicazione commerciale. Ci sono state analisi e l’argomento è stato approfondito da numerose associazioni. Alla fine ecco le prassi più diffuse.
  • nascondere la verità sembra essere quella più utilizzata. Se un prodotto ha dieci caratteristiche di cui una sola è sostenibile, tu sponsorizzi solo quella, tacendo sulle altre che non sono affatto green.
  • non dimostrare: questo è un sistema usato anche nelle varie arti dei negazionisti. Fai un’affermazione green su un prodotto, senza portare alcuna prova a sostegno, ma poi il passaparola e l’ignoranza hanno il sopravvento.
  • vaghezza: usare affermazioni poco precise, poco chiare che possono voler dire tutto e niente e quindi indurre equivoci e malintesi con il cliente.
  • false etichette: quando testo o immagini lasciano intendere che ci sia un certificato di parte terza, mentre non c’è affatto.
  • irrilevanza: enfatizzare caratteristiche green che in realtà non sono rilevanti ai fini di una scelta consapevole.
  • scegliere il minore tra i due mali: vantare una caratteristica del prodotto che non risolve l’impatto ambientale.
  • mentire: l’utilizzo di un’affermazione falsa. Ad esempio una certificazione falsa.
Così adesso abbiamo gli strumenti per stabilire se la tale compagnia ha usato tecniche di greenwashing per vendere i suoi prodotti.

Il greenwashing delle aziende

Molti hanno imparato la lezione, anche grandi aziende o multinazionali, che si sono rese conto che farsi trovare con le mani nella marmellata è un danno alla propria immagine e, di conseguenza, anche ai propri profitti.
greenwash04É, per fare un esempio, il caso della Volkswagen, che sta ancora pagando lo scandalo delle emissioni truccate, conosciuto come dieselgate, scoppiato nel 2015.
Anche Walmart, regina della grande distribuzione, e Amazon, che credo tutti conoscano, qualche anno fa hanno dovuto patteggiare una multa con lo stato della California per aver commerciato come biodegradabili prodotti in plastica che non lo erano affatto. Citando questi casi di colossi del marketing, è facile capire quanto sia facile che aziende meno conosciute o del tutto sconosciute incappino in comportamenti analoghi.
Veniamo alle compagnie petrolifere. La Shell ha una storia particolare, dal momento che l’azienda anglo-olandese è stata spesso nell’occhio del ciclone per motivi ambientali. Eppure, nel 2004, il suo presidente Ronald Oxbourgh, aveva affermato in una intervista al giornale The Guardian di essere “molto preoccupato per il pianeta” relativamente al problema del riscaldamento globale. Come rimedio proponeva, addirittura, di estrarre la CO2 dall’atmosfera e di sotterrarla da qualche parte. Questo intervento in realtà serviva a seppellire diverse accuse, portate soprattutto da associazioni ambientaliste come Greenpeace, così da mettere una pietra sopra quelle brutte faccende.
Nel febbraio 2021, Shell è stata condannata dalla corte de L’Aia, per le conseguenze delle sue attività estrattive in Nigeria. Shell, va detto a scanso di equivoci, si è data molto da fare con iniziative a sostegno della lotta al degrado ambientale, anche se queste non riescono a compensare gli impatti ambientali e sociali dibattuti in tribunale.
Di esempi di questo genere ce ne sono molti. Adesso cercheremo di analizzarne qualcuno in particolare.
Da dove cominciare? Dall’origine di tutto, le aziende che vendono carbone, petrolio e gas, tutti carburanti fossili, la cui combustione è all’origine dell’aumento eccezionale dell’effetto serra e quindi dell’emergenza climatica.
Tutte le società hanno un piano di decarbonizzazione, che deve essere in linea con gli accordi di Parigi del 2015 e con gli altri, sopravvenuti successivamente. In particolare quello di arrivare ad emissioni zero nel 2050. Significa che nessuna attività umana potrà emettere gas serra (in particolare CO2) in atmosfera, oppure che potrà immetterne tanto quanto sarà in grado di sottrarre, ad esempio riforestando opportunamente. Questo è il quadro.
I piani di queste grandi società hanno avuto, parliamo di decisioni molto recenti, l’OK da parte degli azionisti: l’83% nel caso della Total, l’89% nel caso di Shell e, addirittura, il 95% nel caso di Nestlè.

Chi verifica?

greenwash01Resta da vedere se questi piani sono affidabili e garantiscono risultati effettivi. Ma chi può decidere su una simile questione? Ci ha pensato la TPI, la Transition Pathway Iniziative (L’Iniziativa della Strada per la Transizione), una grandissima società di investimenti, che gestisce, tra i mille altri, le pensioni pubbliche svedesi e la Chiesa d’Inghilterra.
E così la TPI nel novembre 2021 dà i voti alle società energetiche più importanti. Nel rapporto si osserva che tre big del petrolio e undici società energetiche passano l’esame e vengono promosse. Dunque i loro piani di decarbonizzazione sono accettabili. Tra queste l’italiana ENI, Total e l’americana Occidental Petroleum. Queste si sono poste obiettivi ambiziosi e cioè il raggiungimento del valore zero emissioni entro il 2050. Curiosamente sul podio c’è anche la tedesca RWE, che è il più grande produttore di energia tedesca derivata dal carbone.
Che bello, vero? Ma sarà tutto corretto? Le analisi della TPI sono state condotte in modo realistico?
E qui si inserisce l’Organizzazione Non Governativa francese Reclaim Finance, che si occupa, tra le altre cose, di verificare gli investimenti finanziari su progetti legati alla lotta all’emergenza climatica. Il commento non è dei più tranquillizzanti: “I risultati sono sia troppo belli per essere veri che tecnicamente impossibili.” Ma il motivo di questo commento è ancora più inquietante. Perché l’analisi condotta - continua il testo - “si basa però esclusivamente sulle dichiarazioni delle aziende e non considera fatti e cifre. Inoltre, TPI non tiene conto dell’importanza critica della riduzione delle emissioni a breve e medio termine, per evitare l’accelerazione immediata dei cambiamenti climatici.”
greenwash04Tradotto in un italiano da bar dello sport, significa che quelle analisi riguardano solo i progetti a lungo termine, il che consente alle aziende nell’immediato di fare quello che vogliono.
Ora, come credo sia chiaro, non basta una voce contraria per avere la verità. Ecco che andiamo a cercare qualche altro elemento. Lo troviamo in un documento pubblicato nel maggio 2021. Gli autori sono Fondazione Finanza Etica, organizzazione emanata da Banca Etica, Greenpeace e Re Common, una società di ri-assicurazione, cioè che assicurano le società assicuratrici. Re Common scrive sul proprio sito: “Crediamo in una transizione giusta e non solo ecologica, centrata sulla partecipazione attiva delle persone e sulla loro azione collettiva. E per raggiungerla ci impegniamo a segnalare gli abusi di potere e a controllare l’operato delle istituzioni pubbliche e delle grandi multinazionali. ” Il documento in questione è stato fornito agli azionisti di ENI, perché potessero, all’assemblea del 12 maggio, porre domande all’azienda. Vengono evidenziati tre punti deboli.
Cominciamo dal cambiamento radicale del mix di produzione. Questo è previsto con la sostituzione progressiva del petrolio con il gas, che, nonostante quello che racconta l’Unione Europea, resta comunque una fonte fossile. Inoltre ENI aumenterà il proprio fatturato prodotto dalle bio-raffinerie, che sarebbero alimentate da scarti agricoli per produrre biocarburanti, bruciando principalmente idrogeno blu. Questo però è ricavato dal gas e quindi si utilizza ancora una fonte fossile. Meglio sarebbe, dice la FFE, usare idrogeno verde, ricavato per elettrolisi, impiegando energia da fonti rinnovabili. Inoltre, come anticipato prima, ENI concentra le proprie attività dopo il 2030. Nel periodo precedente le sue emissioni sono praticamente le stesse di adesso e questo non va decisamente bene.
Ovviamente, derivando da banca Etica, il documento insiste anche sui finanziamenti, scoprendo che nel piano industriale che arriva al 2024, solo il 20% è destinato ad attività green.
Anche nell’analisi sulle altre società le critiche sono più o meno le stesse. Quindi anche Total e Shell entrano nel novero delle società birichine nel documento di Fondazione Finanza Etica. Detto questo, facciamo una pausa e passiamo ad altro

Finanziamenti ESG: un mistero misterioso

greenwash04E adesso parliamo di ESG. Cosa diavolo sono? E a chi interessano? Cerchiamo di capirci qualcosa, anche se dobbiamo entrare in un argomento che potrebbe trattare meglio l’amico Donola nella sua trasmissione di economia. Io, comunque, ci provo.
La sigla ESG sta per Environmental, Social, Governance. In sostanza riprende il concetto delle 3P degli anni ’90 “Persone, Pianeta e Profitti”, secondo cui le aziende non dovrebbero concentrarsi solo sui “Profitti”, ma su ciascuna delle tre “P”, che sono altrettanto importanti per la sostenibilità di qualsiasi impresa commerciale.
In sostanza gli investimenti ESG sono quelli sostenibili e quindi hanno a che fare sempre con questioni ambientali e sociali, quelle di cui stiamo parlando in questa trasmissione. La domanda diventa quindi questa: è possibile che la finanza ESG riesca, nonostante le finalità dichiarate, a diventare un greenwashing, cioè una truffa bella e buona?
Del resto la sostenibilità va decisamente di moda, sia per la situazione drammatica in cui versa il pianeta, sia per le numerose prese di posizione a sostegno della lotta all’emergenza climatica. Ci sono anche cifre al riguardo, Secondo Bloomberg, a livello globale, entro il 2025 ci saranno investimenti per 53 mila miliardi. É come dire che un dollaro su tre sarà investito secondo criteri ESG. Questo riguarda anche il cittadino che ha messo da parte qualche migliaio di euro e vuole investirli. Facendolo con banche che dichiarano di usarli secondo i criteri ESG si rischia di finire a sostenere dei fast food o delle banche che finanziano il petrolio.
C’è anche di più. Non solo noi, che non contiamo nulla, ma anche importanti associazioni come Eurosif, il Forum europeo per gli investimenti sostenibili e responsabili, stanno mettendo in guardia, sostenendo che non basta mettere il cartello “sostenibile” sugli investimenti, bisogna anche garantire che le strategie adottate abbiano un’efficacia reale sul mondo. Insomma, per citare il mitico Palmiro Cangini … Fatti, non pugnette!
Veniamo al controllo: chi stabilisce se un investimento rispetta i criteri ESG oppure no? Ci sono società che si occupano di assegnare un rating ESG alle aziende, un po’ come fanno le tradizionali agenzie di rating quando valutano la loro solvibilità e solidità. Con una fondamentale differenza. Le agenzie di rating come Moody’s o Standard & Poor’s, basano le loro valutazioni su dati finanziari standard e quindi arrivano alla fine più o meno allo stesso risultato. Le agenzie che si occupano degli ESG invece usano informazioni non finanziarie che, spesso, sono fornite dalle stesse aziende indagate. Per cui una stessa azienda può ricevere risultati completamente diversi a seconda di chi la valuta. Credo sia superfluo dirlo, ma Rating significa valutazione.
greenwash04Ora dobbiamo fare la conoscenza con un’altra società molto importante. Si chiama MSCI, che sta per Morgan Stanley Capital International, un fornitore di servizi finanziari, attiva da oltre 50 anni con sede a New York City. Nel 2019, probabilmente sull’onda dell’ambientalismo finanziario, il suo presidente se ne esce con queste parole: “La nostra missione è quella di aiutare gli investitori globali a costruire portafogli migliori per un mondo migliore.” Dal momento che non siamo all’elezione di Miss Universo, dove tutte le splendide ragazze hanno in mente solo questo, un mondo migliore invece di pensare al loro futuro economico, bisogna credere e pensare che la MSCI sia una specie di benemerita da lodare e incensare.
Ma le cose non sono mai così semplici. Si mette di mezzo un settimanale finanziario molto famoso e accreditato il Bloomberg Businessweek, che vuole sapere per bene che fine ha fatto il miliardo di dollari gestiti da MSCI e finiti in un fondo costruito proprio con gli indici ESG, gli indici ESG di MSCI si intende.
L’articolo appare sulla rivista il 10 dicembre 2021, pubblicato anche sul sito della rivista in bloomberg.com, in inglese.
MSCI ha aumentato il rating di ben 155 società statunitensi, nei 15 mesi da gennaio 2020 a giugno 2021. Ed è su queste società che è stata messa la lente dei giornalisti di Bloomberg, scoprendo alcune graziose e strane coincidenze.
Tra le società premiate c’è nientemeno che McDonalds, un’azienda che emette ogni anno 54 milioni di gas serra in atmosfera, più o meno quello che fa un paese delle dimensioni del Portogallo. Questi gas sono addirittura aumentati del 7% negli ultimi 4 anni. Responsabile dell’aumento e del valore molto grande non è l’energia acquistata e neppure quella dei ristoranti. Dipende, ecco che torniamo ancora una volta sull’argomento, dalla filiera della carne. Abbiamo parlato di questa questione varie volte in questa trasmissione e abbiamo visto quanto invasiva sia la produzione di carne, rispetto alle filiere vegetali, pur contenenti proteine come fagioli, soia, piselli e così via.
In questa situazione reale, McDonalds viene premiato per le sue performance ambientali passando da una doppia B ad una tripla B.
Ora se la signora Maria sente in televisione che il colosso del fast food ha avuto questo riconoscimento non avrà la pazienza di indagare sulla bontà della notizia. La solita frase, che ci inchioda è quella aristotelica: “L’ha detto la televisione” e si aggiunge il pensiero “dunque è vero”.
E però, a noi (noi che seguiamo questa trasmissione intendo) che non siamo abituati a fermarci alla prima impressione, viene da chiederci come sia possibile una cosa simile. E qui, ascoltate con attenzione perché si cade nel ridicolo.
MSCI spiega, infatti, che il rating (cioè la valutazione BBB), “è progettato per misurare la resilienza di un’azienda ai rischi ambientali, sociali e di governance (ESG) a lungo termine del settore. "
Non è chiaro? Traduciamo nel solito italiano da bar dello sport.
greenwash04MSC non valuta l’impatto dell’azienda sul pianeta o sull’ambiente, ma l’opposto, cioè l’impatto che le questioni ESG avranno sul futuro economico dell’azienda. Nel caso di McDonalds ha concluso che l’aumento delle emissioni non incida sul futuro dell’azienda. Dunque avanti così ad inquinare a più non posso. E le altre aziende a cui è stato aumentato il rating? Secondo Bloomberg delle 155 esaminate, 154 sono nelle stesse condizioni di McDonalds. Un trionfo!
C’è però anche di peggio, un greenwashing in piena regola, un’azione di marketing verso la stragrande maggioranza della popolazione che non conosce le leggi. Un motivo per l’aumento del rating è stato il fatto che nei ristoranti statunitensi e francesi, sono stati collocati bidoni per la raccolta differenziata dei rifiuti.
Bene, bravi sette più? Un par di cippe, perché quell’azione è stabilita dalle leggi dei due paesi e non c’è alcun merito, come non è un merito fermarsi col rosso o evitare di sparare ai passanti.
Ci sono anche questioni di corruzione, a cui sono legati quasi la metà degli aumenti di rating. Il gioco è semplice: promettere di fare questo, come se fosse una propria invenzione, mentre non è altro che il rispetto delle normative vigenti.
Adesso entriamo un po’ più nei dettagli. In premessa va detto che il rating normale per le aziende è quello della tripla B, una specie di sufficienza stiracchiata in termini di sostenibilità.
greenwash04Detto questo passiamo alle banche. Tra il 2016 e il 2020, sessanta grandi banche hanno concesso 3'800 miliardi di dollari alle compagnie attive nel comparto delle fonti fossili: carbone, petrolio e gas. Da notare che questo avviene dopo la firma dell’Accordo di Parigi del 2015, di cui abbiamo parlato innumerevoli volte.
Ma non prendiamo in considerazione tutte queste banche, ne basta una sola, la JP Morgan Chase, che ha stanziato nello stesso periodo 317 miliardi di dollari. Non sono noccioline: è il doppio del PIL dell’Ungheria, tanto per fare un esempio. Ma, per MSCI, la banca di New York merita addirittura una A e viene quindi dichiarata in linea con gli obiettivi internazionali sul clima.
A beh … ci sono anche le altre in classifica: al secondo posto ecco Citigroup, sempre con sede a New York, che ha stanziato 238 miliardi investiti nelle fossili ma si trova con un rating A, che ne fa una banca altamente dedicata alla sostenibilità.
Che bella storia, vero? Così, per curiosità, cosa si deve fare per essere esclusi dagli indici ESG?

Pink e rainbow – washing

Abbiamo detto all’inizio che la tecnica del greenwashing si può applicare anche ad altri settori delle nostre vite. Adesso cerchiamo di sapere come stiamo in quanto a sociale, all’inclusione delle minoranze, alla parità tra tutte le componenti della società in cui viviamo.
greenwash04Credo che la maggior parte di voi, se non siete troppo giovani, ricordi l’uso che è stata fatta da sempre dell’immagine femminile nella pubblicità. A nessuno può essere sfuggito che una donna seminuda e occhieggiante non poteva proprio avere niente a che fare con gli pneumatici che quell’azienda vendeva.
Oggi le cose stanno lentamente e con molte eccezioni cambiando. E cambiano anche grazie alla quantità enorme di informazioni sui potenziali clienti di questa e quella azienda e quindi dei vari prodotti proposti. Da dove vengono quelle informazioni? Senza entrare nei meandri dell’uso delle varie carte e patenti o alla possibilità di spiare i nostri comportamenti attraverso cellulari e tutto quello che oggi viene chiamato smart (cioè intelligente), moltissimi dati provengono da noi stessi. L’uso dei social e dei media digitali mette a disposizione di chiunque informazioni sulle nostre scelte culturali, sull’orientamento sessuale, sulle tendenze religiose, sull’etnia, addirittura sulla geolocalizzazione. Il bello è che siamo noi stessi a fornire queste informazioni e lo facciamo in modo spesso inconsapevole e del tutto gratuitamente.
Ecco allora che l’azienda tal dei tali ha la possibilità di utilizzare questi dati, ad esempio con pubblicità fasulle sul ruolo femminile o su quello di omosessuali e trans, diventati anch’essi un importante target di marketing. Le affermazioni truffaldine in questi due campi si chiamano rispettivamente pink-washing (lavaggio rosa) per le donne e rainbow-washing (lavaggio arcobaleno) per il popolo LGBT.
É complicato per chi ha superato una certa età stare dietro a tutte queste cose, ma i ragazzi che sono nati all’interno di questo sistema sono attenti alle pubblicità con messaggi che puntano proprio sulle loro caratteristiche e sui loro gruppi di appartenenza. E lo sanno perfettamente anche le persone che lavorano per le aziende alla realizzazione delle campagne pubblicitarie.
greenwash04Ecco allora che le stesse aziende che avevano insultato le donne con pubblicità oscene e reso invisibili le persone LGBT, oggi dipingono i loro loghi e i loro slogan con accattivanti messaggi tinti di rosa e arcobaleno, con lo scopo di ottenere la simpatia dei consumatori sensibili ai temi della parità di genere e dei diritti umani. In realtà, però, con lo scopo di rendere il consumatore più propenso ad acquistare i propri prodotti.
Come dite? Che non saranno tutti così? É vero e sicuramente possibile, ma che tra la massa ci sia una forte maggioranza di falsi femministi e inclusivisti è testimoniato dal fatto che sono state create addirittura due sofisticate strategie di marketing, chiamate femvertising e diversity marketing che traduciamo con pubblicità femminista e marketing per la diversità.
Gli esempi di washing in questi due settori sono una quantità esagerata. Ecco qualche esempio tra i più eclatanti.
Cominciamo da una delle aziende più importanti al mondo per l’abbigliamento, la svedese H&M (eich and em in inglese). Tutta la prosopopea messa a disposizione a favore di femminismo e inclusività cozza in modo evidente ed eclatante contro le vertenze di migliaia di lavoratori e lavoratrici sottopagati in varie parti del mondo: Bulgaria, Turchia, India, Cambogia. E anche con una sovrapproduzione inquinante, che riassumiamo in questa dichiarazione tratta da un documentario sulla moda: "Quando le nostre madri e le nostre nonne andavano a comprare dei vestiti, le stagioni erano quattro. Se non due. Dei vestiti per il caldo e altri per il freddo. Adesso, lavoriamo in un ciclo di 52 stagioni all’anno. Vogliono farti sentire fuori moda dopo una settimana, costringendoti a comprare qualcosa sette giorni dopo." Ora, nessuno vuol tornare indietro nel tempo agli anni venti o quaranta, ma che questo sia l’esatto contrario di quello che chiamiamo sostenibilità sembra evidente.
Anche Zara ha fatto un buco nell’acqua con la sua campagna “Ama le tue curve”, intesa a dire che ognuno deve amare il proprio corpo, anche se è un po’ rotondetto. Peccato che nelle immagini che accompagnano questa campagna figurino modelle magrissime, anche troppo, senza culo e con poche tette, che le curve le fanno solo andando in macchina verso la cima del Pordoi.
Se poi si entra nel settore dei cosmetici e dei prodotti per l’igiene femminile, salta all’occhio l’uso delle mestruazioni come arma di pubblicità, cosa del tutto vietata dalla morale comune negli anni passati, quasi che avere il ciclo fosse un peccato come quello originale. Uno di questi messaggi è dell’azienda Dove (uno dei moltissimi marchi di Unilever) che dice alle mamme "Parla a tua figlia prima che l’industria della bellezza lo faccia", avverte in uno spot della sua campagna “For real beauty” cioè per la vera bellezza. Ci vengono incontro immagini in modo parossistico di donne bellissime che usano prodotti di ogni genere, tutti ovviamente di Dove. Dunque la mamma dovrebbe indurre la figlia a diventare bellissima come quelle modelle, perché questo è il vero valore della vita?
Se andate su Youtube (https://www.youtube.com/watch?v=9zKfF40jeCA ), trovate questo filmato (che è di qualche tempo fa) e scoprite così i commenti delle donne che lo hanno appena visto. Sono tutte entusiaste, qualcuna ha perfino dichiarato che è stata quella pubblicità a farla diventare una giovane bella donna da bambina che era. A voi ogni eventuale commento. É chiaro, ne sono anche sicuro, che si tratta solo di una piccola parte dell’universo femminile, ma è su questa che il pinkwashing lavora per procurare sempre più profitti alle aziende birichine.
É interessante la risposta data da Greenpeace a questa pubblicità. In una parodia del filmato c’è una bambina indonesiana, invece della ragazzina rossa dello spot originale. Le immagini che ci vengono addosso sono quelle della deforestazione selvaggia in Indonesia, realizzate come sappiamo soprattutto per ottenere olio di palma. E Unilever è il più grande acquirente di questa sostanza al mondo. Il filmato di Greenpeace termina con due frasi. La prima dice: “Quando la bambina avrà 25 anni, il 98% delle foreste sarà distrutto”. La seconda “Ditelo a Dove prima che sia troppo tardi”. ( https://www.youtube.com/watch?v=odI7pQFyjso)
Qui non importa cosa è successo dopo (Unilever ha dovuto chiedere una moratoria alla deforestazione in Indonesia) o cosa succederà in futuro. Qui stiamo valutando come le varie forme di greenwashing intervengono nel business delle aziende, di quelle importanti, ma anche delle altre, di quelle che sappiamo e di quelle di cui non abbiamo notizia diretta.
Credo sia chiaro quale sia il punto della questione. Facciamo un altro esempio, questa volta di rainbow washing. L’azienda di abbigliamento irlandese Primark ha deciso di associare il proprio nome alla comunità LGBT, lanciando nel 2018 una collezione chiamata “Pride”, che richiama evidentemente le manifestazioni arcobaleno che si svolgono ogni anno in molte città. Non solo, ma l’azienda ha garantito che il 20% dei profitti sarebbe stato donato all’ente di beneficenza Stonewall, la più grande organizzazione europea per i diritti LGBT. Ma, a Londra, al Pride, l’azienda non si è fatta vedere e gli attivisti hanno fatto notare che tutta la produzione Primark è dislocata in paesi come Turchia o Myanmar, dove gay e trans non se la passano affatto bene e di diritti non è nemmeno il caso di parlare. Non solo, c’è un rapporto, sui lavoratori dell’azienda irlandese che accusa la proprietà di sfruttamento. Insomma un altro caso in cui si appare quello che non si è.
greenwash04A proposito di inclusione, c’è un altro genere di cittadini che sono soggetto di social-washing: i poveri, anzi i poverissimi, quelli che non hanno nemmeno una casa dove abitare, quelli che in inglese vengono chiamati homeless (appunto senza casa) mentre noi li chiamiamo senzatetto o più sgarbatamente barboni.
É nata in molte città la cosiddetta architettura ostile, che tende ad impedire a queste persone di sdraiarsi per dormire dove capita. Quindi le panchine sono state munite di rostri ogni tot centimetri, i davanzali con spuntoni stile fachiro e così via. In alcune città si è arrivati all’assurdo di pitturare queste panchine anti barboni con i colori dell’arcobaleno, operazione che finisce col rappresentare in realtà una grossolana contraddizione: anche l’inclusività non supera le barriere di classe. E finisce con l’essere un privilegio anziché un diritto.
Su questi temi della discriminazione e dei diritti si potrebbe stare ore intere, tanti sono i casi di messaggi truffaldini o di comportamenti solo apparentemente dedicati ai problemi delle persone, in particolare di quelle messe volutamente da parte come le donne, i poveri, il mondo LGBT.
Spesso noi non ce ne accorgiamo nemmeno, perché il nemico è bravissimo e si avvale di tecnici che studiano tutte le strategie per lanciare messaggi molto benevoli, che nascondono realtà decisamente meno accattivanti.

Art washing

Il prossimo punto è molto interessante, perché riguarda l’arte. Certo, viene da chiedersi cosa possa mai avere a che fare l’arte con il greenwahing, con la pubblicità ingannevole, con la ricerca del profitto a spese di giuste rivendicazioni sociali o, in questo caso, culturali. Vedremo che le cose stanno proprio così, tanto che è stato coniato per questo il termine art-washing, lavaggio dell’arte.
Vediamo di cosa si tratta e poi alcuni esempi.
In effetti l’arte è qualcosa di molto distante dal business; ha a che fare con le emozioni che ci trasmette un quadro, con i brividi che percepiamo quando ascoltiamo della musica, con il senso di pienezza di fronte ad una poesia, con la crescita del nostro bagaglio culturale quando leggiamo un libro o ci rechiamo a teatro.
Pensateci un attimo. Quale settore migliore di questo da promuovere, sostenendolo economicamente, per ripulire la propria coscienza di aziende multinazionali sporche e cattive? Ecco, questo è l’artwashing.
Il termine viene coniato nel 2010 e viene riferito soprattutto al mecenatismo di quelle aziende che operano nel fossile.
Il primo caso famoso avviene, quell’anno, a Londra e ha come obiettivo da un lato la BP (British Petroleum) una delle grandi major dell’energia, diventata famosissima per il noto incidente della piattaforma Deepwater Horizon nel golfo del Messico, che ha causato danni incalcolabili alle popolazioni, all’oceano e ai suoi abitanti e all’economia di un lunghissimo tratto di costa statunitense. Dall’altro lato i Musei Tate, che sono quattro, il più conosciuto dei quali è sicuramente la Tate British, già Tate Gallery di Londra.
greenwash04La campagna contro il fatto che la Tate fosse finanziata dalla BP, prende il nome “liberate Tate”. In prima istanza vengono coinvolti gli artisti e i visitatori della galleria, per sensibilizzarli sulla necessità di adottare un approccio etico nella scelta dei propri sponsor.
Ci sono molte manifestazioni, ad esempio di attivisti che si sdraiano nelle sale della galleria mentre i loro compagni li cospargono di petrolio. Vengono rovesciati bidoni di petrolio all’ingresso della galleria e lanciati palloncini che contengono pesci e uccelli morti a causa dell’inquinamento.
Poi, nel 2015, ecco una pubblicazione importante di Mel Evans, giornalista, dal titolo Artwash: Big Oil and the Arts vale a dire Artwashing, le Big Oil e le arti, dove le big Oil sono le grandi compagnie petrolifere come BP, ma anche Shell, Exxon e così via. In una intervista rilasciata al Guardian l’anno successivo, Mel Evans dice: "Le compagnie petrolifere come British Petroleum non si lanciano in queste iniziative per generosità. Lo fanno perché vogliono disperatamente associare i loro marchi ai nomi dei grandi musei. Lo fanno per nascondere i danni che apportano agli ecosistemi in tutto il mondo. Vogliono soltanto ripulire la loro immagine."
Sotto l’incalzare di queste iniziative, nel 2016 Tate cede e rinuncia allo sponsor petrolifero dopo 26 anni.
Nello stesso anno, un altro colosso della cultura londinese, il Museo della Scienza, rinuncia ad uno sponsor importante, la Shell. In questa occasione saltano fuori documenti interessanti, come quello che la compagnia olandese avrebbe voluto decidere come organizzare anche i contenuti del museo, in particolare quelli sull’impatto dei cambiamenti climatici. Strano, vero?
Dall’Inghilterra la protesta decolla e arriva a New York. Qui facciamo la conoscenza con due fratelli, miliardari, proprietari delle Koch Industries, la seconda più grande industria privata degli Stati Uniti. E questo credo sia sufficiente per valutarne l‘importanza e le enormi possibilità. I Fratelli Koch sono piuttosto famosi tra gli ambientalisti, perché ferventi assertori del negazionismo climatico, tanto da avere a libro paga molti lobbysti del parlamento americano e avendo sponsorizzato inchieste tese a negare l’esistenza dell’emergenza climatica. Bisogna capirli, poverini, tra la moltitudine di aziende che gestiscono, spiccano quelle nella produzione di energia e nella raffinazione del petrolio.
I nostri amici Koch sponsorizzano con decine di milioni di dollari lo State Policy Network, una rete di cervelli (o per meglio dire ritenuti tali) che si batte contro le politiche ambientali del governo americano, all’epoca gestito da Barak Obama. Molti dei documenti prodotti da costoro sono finiti nel nulla, essendo manifestamente falsi e senza alcun fondamento scientifico.
L’ondata di proteste contro l’artwashing costringe David Koch, il minore dei due, a lasciare il consiglio di amministrazione del Museo Americano di Storia Naturale.
Due anni più tardi saranno il Museo Van Gogh di Amsterdam e il Mauritshuis de l’Aia a chiudere i contratti in essere con la Shell.
Si arriva a qualcosa di ancora più subdolo, quando un quotidiano svizzero riprende la denuncia di un collettivo di militanti che dichiara: “British Petroleum ha finanziato l’acquisizione di un’opera di artisti aborigeni australiani per includerla in un’esposizione del British Museum. Proprio in una fase in cui era al centro delle critiche in Australia per i progetti di ricerca offshore di idrocarburi.”
Ci occupiamo adesso dell’organizzazione non governativa 350.org. 350 sono le parti per milione di CO2 presenti in atmosfera oltre le quali, secondo molti scienziati non è possibile un ritorno a condizioni normali. Sono circa 300 le associazioni aderenti a 350.org e anch’io, modestamente, ne faccio parte. C’è da aggiungere che, oggi, le parti per milione di CO2 in atmosfera sono oltre 420. Non credo che questo dato abbia bisogno di alcun commento.
Dunque, nel 2017 350.org lancia la campagna “Liberiamo il Louvre dall’industria fossile”. In quel caso il mecenate era la francese Total. Ma la direzione del museo più conosciuto al mondo ribadisce che senza quel finanziamento proprio non ce la fanno e chiudere il Louvre è un’opzione che nessuno al mondo può prendere in considerazione. La campagna, tuttavia, non si è fermata e proprio un anno fa, in dicembre 2021, Greenpeace presenta un ricorso presso il tribunale amministrativo di Parigi. In questo atto l’associazione del cigno chiede che siano pubblicati i termini dei partenariati passati tra il Louvre e la Fondazione Total Energies. Ciò dopo aver tentato invano di ottenere tali documenti dalla stessa azienda. Nel frattempo, Greenpeace ha lanciato un’iniziativa a livello europeo per chiedere che siano vietate "pubblicità, partenariati e mecenatismi di tutte le imprese del settore fossile."
Esattamente come avvenuto, in passato, per armi e tabacco.
Sempre alla fine del 2021, inoltre, è stato di nuovo il Museo della Scienza di Londra a finire nell’occhio del ciclone. Stavolta per aver scelto come partner per un’esposizione sul clima il gruppo minerario indiano Adani, alle cui attività ha dedicato una nuova galleria, intitolata Rivoluzione energetica: L’energia verde del gruppo Adani. Questo gruppo è nell’occhio del ciclone sia in India che in Australia, dove ha aperto una grande miniera di carbone, con vibranti proteste della popolazione locale.
Ma le accuse di artwashing non riguardano solamente i petrolieri. A New York, di recente, il Metropolitan Museum ha annunciato la fine della lunga alleanza con la famiglia Sackler. Questa famiglia è proprietaria, tra l’altro, della Perdue Pharma, il gigante farmaceutico produttore dell’OxyContin, farmaco al centro della epidemia degli oppioidi.
Si conta che nel Paese circa 500mila persone abbiano perso la vita per via della assuefazione da oppiacei, e la crisi si è aggravata durante i mesi della pandemia 2020, segnando il record di morti per overdose. Purdue si era dichiarata colpevole di aver minimizzato quanto l’OxyContin potesse creare dipendenza e per aver sollecitato dai medici un alto volume di prescrizioni.
Ecco dunque lo schema: io finanzio benemeriti istituti d’arte, anche di rilevanza mondiale, come il Metropolitan o il Louvre, così la gente pensa che l’azienda sia piena di buone intenzioni, mentre in realtà, le sue attività sono di ben altra natura, come visto in questi pochi esempi.

Sport washing

greenwash04E adesso veniamo allo sport. Si sono appena conclusi i campionati del mondo di calcio in Qatar, accompagnati da una serie infinita di lamentele, proteste e considerazioni molto negative sia sul paese arabo, che sui responsabili delle scelte effettuate. A quanto si dice, le accuse mosse agli indagati del recente Qatargate, riguardano riciclaggio e corruzione da parte dello stato del Qatar, in particolare con il fine di ammorbidire le critiche dell’Unione europea sui Mondiali di calcio.
Le critiche riguardano una quantità di fattori a cominciare dai 6500 operai morti per la costruzione degli impianti, morti legate ad una clamorosa mancanza di protezione e sicurezza nelle varie fasi dei lavori.
Tuttavia vorrei esporre la questione più in generale, perché non solo di questo e non solo del Qatar si tratta in quanto a Sport-washing.
Lo sport-washing serve a mostrare di sé un’immagine migliore di quella che è. Ad esempio investendo molto denaro nell’acquisizione di squadre, soprattutto di calcio, nella realizzazione di eventi con grande copertura mediatica, come i mondiali ma non solo, e sponsorizzazione di eventi simili. Non ci sarebbe niente di male se questo venisse fatto da enti o persone “pulite” (passatemi questo termine). C’è di male invece se a farlo sono enti o persone, le cui azioni sono generalmente in contrasto con i diritti umani.
Chi segue il calcio probabilmente sa che il campionato più ricco (in tutti i sensi) è quello inglese. Non lo è perché questo sport è stato inventato nell’isola molti anni fa, lo è perché attorno ad esso c’è un giro d’affari enorme, che coinvolge merchandising (per dirla terra-terra vendita di gadget, magliette e così via), diritti televisivi che gli altri paesi si sognano e una importante iniezione di denaro straniero. Non c’è da demonizzare nessuno. Anche da noi ci sono diverse squadre che sono sostenute da monete diverse dall’Euro. Tanto per fare due esempi importanti l’Inter gestito dalla famiglia cinese Zhang e la Roma che attinge invece alle fortune dei Friedkin, ma altre squadre hanno proprietà straniere: Atalanta, Bologna, Fiorentina, Milan Spezia, per restare in serie A.
In generale dunque non c’è da scandalizzarsi. In Inghilterra la prima clamorosa entrata di capitale straniero è avvenuta per una importante squadra di Londra, il Chelsea, con l’avvento del miliardario petrolifero russo Abramovich, ritiratosi dopo l’invasione delle truppe del suo paese in Ucraina. Anche qui non c’è niente di male. Il calcio, da sempre, è stato un veicolo pubblicitario per i proprietari.
Se però passiamo dai dollari o dai rubli ai petrodollari arabi, le cose cominciano a cambiare. Il Manchester City diventa di proprietà di City Football Group. Cosa c’è di strano? Il nome è rassicurante, ma se spulciamo un pochino, scopriamo che a fondare questa società è la Abu Dhabi United Group, che a sua volta è una società di investimento di proprietà dello Sceicco Mansour bin Zayed Al Nahyan, membro della Famiglia Reale di Abu Dhabi e Ministro degli Affari Presidenziali degli Emirati Arabi Uniti. Tra le altre cose questi signori si sono comprati ad oggi altre 12 squadre, tra le quali l’italiana Palermo, che milita in serie B.
La potenza economica di questi sceicchi è talmente grande (un altro esempio analogo si potrebbe fare per il Paris Saint Germain di Parigi) che possono letteralmente fregarsene di tutte le regole che gli enti internazionali cercano di porre per rendere sostenibile questo sport. Lo dico qui, ma lo sottolineo. Chiunque pensasse al calcio professionistico come ad uno sport è decisamente ingenuo. Si tratta solo di spettacolo, proprio come il cinema o il teatro, solo che questi sono tartassati e non considerati come la madonna di Medjugorje. Così, a fronte di regole e regolette che tutti i poveracci (leggi club italiani, sono costretti a rispettare, i club degli sceicchi fanno quello che vogliono, contando su un’organizzazione calcistica internazionale, sia essa UEFA o FIFA, piena zeppa di leccaculo.
L’ultima squadra di calcio, che ci porterà finalmente allo sport-washing, riguarda il Newcastle, certo non una potenza sportiva del campionato inglese. Nell’ottobre del 2021, questa società passa di mando, da Mike Ashley al fondo PIF. Che il nome sembra ridicolo, ma si tratta di un fondo di investimento terribilmente potente: Public Investment Fund dell’Arabia Saudita. Uno dice: qual è il problema? Il problema sono gli investitori e dunque i nuovi padroni del Newcastle. Che è diventato di fatto la squadra più ricca del mondo, dal momento che PIF ha un patrimonio stimato in circa 500 miliardi di dollari, vale a dire 10 volte di più di Al Khelaifi, proprietario del Paris Saint Germain e 26 volte Mansour Al Nahyan, gestore del Manchester City., che già ci sembrano ricchi in modo spudorato.
Al momento non è successo niente di strano, ma, se pensiamo che la storia segua quella delle altre squadre con sceicchi ed emiri, possiamo aspettarci che molte stelle del calcio si trasferiscano a Newcastle entro breve, dal momento che gli ingaggi che possono offrire sono enormemente più accattivanti di quelli nostrani. Tanto per far capire di che cifre parliamo, il calciatore portoghese, Cristiano Ronaldo, trombato sia nella sua squadra che ai mondiali, sembra stia per firmare un contratto con una squadretta araba, senza alcuna pretesa sportiva, per cifre che solo a nominarle si commette uno scandalo.
Ronaldo sarà la cartina di tornasole che mostrerà al popolo la grandezza di un regime, del quale a parlar bene si commette un peccato mortale, ma di quelli che finisci all’inferno senza passare per il via.
Torniamo a Newcastle. Lo scandalo è la vendita ad un fondo gestito dal principe Mohammad Bin Salman, responsabile dell’autorizzazione nell’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi che scandalizzò l’opinione pubblica di mezzo mondo. Agli occhi dell’Europa e dell’occidente, l’Arabia Saudita è il regno delle violazioni dei diritti delle donne, il paese in cui la dissidenza e l’opposizione non esistono perché la libertà di espressione è perennemente repressa, in cui gli oppositori della monarchia si trovano in carcere in condizioni disumane, per non parlare delle bombe lanciata da anni sullo Yemen.
Così il sultano pensa bene di ripulirsi l’immagine comprando squadre di calcio o organizzando eventi sportivi importanti. Ci cascano tutti, perché quando si parla di soldi non c’è niente da fare. Se pensate che il nostro paese non c’entri, vi ricordo che siamo quelli che hanno legittimato il regime di Pinochet andando in Cile a giocare una finale di Coppa Davis, che altri paesi avevano rifiutato, ad esempio l’India. Siamo, più recentemente, quelli che sono andati a giocare una finale di Supercoppa tre volte in Qatar e tre volte in Arabia Saudita, come quest’anno. Hanno fatto eccezione solo gli anni della pandemia. E l’elenco non è certo breve. Rendere la propria immagine moderna e accettabile agli occhi dell’opinione pubblica europea è esattamente quello che chiamiamo sport washing, perché cerca di costruire un nuovo sguardo rispetto all’immaginario legato all’Arabia Saudita. Oltre a voler creare un’immagine accettabile e moderna di un paese  in cui normalmente si ignorano i diritti umani e si eliminano i giornalisti scomodi al potere, grazie allo sport washing l’Arabia Saudita spera di ottenere un beneficio non solo a livello d’immagine ma soprattutto a livello economico. Si tratta in effetti di una vera e propria strategia economica che trova posto all’interno del piano chiamato Saudi Vision 2030 il quale prevede, tra i tanti obiettivi, di attirare una grossa fetta di turisti provenienti dall’Europa, paese in cui si sta svolgendo la più recente operazione di sport washing.
Le cose non vanno diversamente per altre manifestazioni sportive, tenute in paesi che con il diritto delle persone litigano da mattina a sera. I campionati del mondo di calcio sono l’ultimo esempio estremo di tutto questo. Oltre ai 6500 operai morti nella costruzione, si legittima un potere corrotto (basta pensare a quante schifezze sono state commesse dagli esponenti della FIFA per decidere di assegare allo stato arabo la manifestazione. Addirittura per la prima volta nella storia si è scelto un periodo assurdo, che ha costretto tutte le federazioni nazionali a stravolgere i propri campionati in un modo che, ad oggi, non sappiamo quali effetti potrà portare.
Organizzare un mondiale nel Qatar, da un punto di vista della storia calcistica, è una bestemmia pura e semplice, ma è in quei paesi che finiscono le grandi stelle al termine della loro carriera, attratte da compensi eccezionalmente alti, che nessun altro può permettersi. Lo stesso vale naturalmente per altri eventi, penso al gran premio di Formula uno in Azerbaijan, ad Abu Dhabi, a Doha, dove si corre anche un Gran Premio motociclistico.
É evidente che questi spostamenti delle attività sportive in paesi dove regnano regimi autoritari e contrari ai diritti dei cittadini, o di parte di essi, hanno come contraltare il profitto. E i soldi, come detto molte volte, vincono sempre sulle coscienze.

Qualche esempio

Potrei qui fare un elenco degli esempi più eclatanti di greenwashing nel mondo. Tornerebbe ancora l’Arabia Saudita, con promesse a favore dell’ambiente mai mantenute.
A Singapore c’è un’organizzazione non profit che si chiama “Alleanza per finirla con i rifiuti di plastica” (la mia traduzione non è alla lettera ma credo fornisca il significato preciso della sigla inglese). É un ottimo obiettivo, anzi fantastico, Peccato che a finanziare questa organizzazione ci sono grandi aziende del settore petrolifero, come Shell, Exxon Mobil, Dow. Secondo i suoi dati, spende ogni anno un miliardo e mezzo di dollari per ripulire dalla plastica paesi in via di sviluppo.
In questo caso è la Reuters, l’agenzia di stampa inglese, a volerne sapere di più. E così nel gennaio 2021 comunica che il progetto fondamentale dell’associazione, la pulizia del fiume Gange, è un totale fallimento. Non solo, ma che le aziende che la finanziano, pianificano di aumentare drasticamente la produzione di plastica, in totale contrapposizione con gli obiettivi dichiarati dall’Alliance.
Greenpeace non ci è andata leggera, definendo l’organizzazione di Singapore una “distrazione” dai piani espansivi di Big Oil.
Il premio per il greenwashing più idiota di tutti spetta alla coreana Innisfree, marchio di cosmetici. Uno dei suoi prodotti è venduto in un flacone coperto da un’etichetta che strilla: “Ciao, sono una bottiglia di carta". Peccato che, come hanno scoperto alcuni utenti di un gruppo Facebook la carta nasconda un flacone di plastica.”
Ad agosto l’azienda petrolifera australiana Santos è stata citata in giudizio da alcuni azionisti attivi. All’azienda vengono contestate due cose. Da un lato, le dichiarazioni rilasciate nel rapporto annuale 2020, in cui ha affermato che il gas naturale è un "combustibile pulit" che fornisce energia pulita." Dall’altro, l’affermazione di Santos di avere un piano "chiaro e credibile" per azzerare le proprie emissioni nette entro il 2040. Facendo affidamento sulla cattura e lo stoccaggio della CO2, una tecnologia che, come già visto, al momento non esiste.
Anche l’azienda tedesca Adidas è stata condannata dall’organismo di autoregolamentazione della pubblicità francese per aver fatto dichiarazioni false sulla sostenibilità di alcuni suoi prodotti.
Non è chiaro se lo slogan "50% riciclato" riferito alle proprie scarpe Stan Smith intenda che i materiali siano per il 50% prodotti dal riciclo o che siano riciclabili al 50%. Inoltre, il logo "Fine dei rifiuti di plastica" è stato ritenuto fuorviante: non è sicuramente acquistando scarpe da ginnastica composte anche da plastica che si combatte l’inquinamento da plastica.
Ci sono poi dati contrastanti che fanno a pugni tra di loro. Un esempio è la compagnia petrolifera norvegese Equinor, che due anni fa dichiarava di avere come obiettivo l’azzeramento delle emissioni entro il 2050, in accordo con l’accordo di Parigi e, anche, il Green Deal Europeo. Ed in effetti, nel primo trimestre 2021 la metà delle entrate dell’azienda proveniva da progetti di sviluppo di parchi eolici. Tutto bene, dunque? Non proprio, perché nello stesso periodo l’energia totale venduta da Equinor a zero emissioni era solo lo 0,5% del totale.
  C’è un modo di dire che suona così: “L’alluminio è meglio della plastica”. Significa, per noi che frequentiamo i negozi che è meglio comprare una lattina in alluminio che una bottiglia in plastica. Molte aziende distributrici di acqua sostengono che l’alluminio è riciclabile all’infinito, al contrario della plastica. Ne ha fatto una campagna pubblcitaria l’azienda vietnamita BeWater, che sul suo sito web scrive: “BeWater è un’alternativa ecologica, socialmente sostenibile e conveniente all’acqua in bottiglia di plastica.”
Questa affermazione è stata contestata da Stephan Ulrich, responsabile del programma regionale dell’Organizzazione internazionale del lavoro in Vietnam. Secondo lui si tratta di pura fantasia, in quanto non c’è abbastanza alluminio per soddisfare la domanda. E quindi occorre provvedere all’estrazione di altro alluminio, pratica molto dispendiosa in termini di energia e di acqua. Già questo rende la filiera poco sostenibile. Inoltre, sostiene sempre Stephan, non c’è materiale peggiore dell’alluminio per realizzare contenitori monouso. Sono solo pochi esempi di un atteggiamento diffusissimo.
Ma non si deve per forza guardare lontano, come fatto fin qui. Restando a casa nostra, vi sarà capitato di entrare nei supermercati e notare che tutti i sacchetti utilizzati sono compostabili, il che significa che sono il massimo attuale della sostenibilità, perché li poteste mettere assieme ai resti del pollo o dell’insalata e andranno (speriamo) in un centro di riciclo per diventare compost e tornare alla terra. Ma se vi infilate in u mercatino, le cosiddette “borse” sono di plastica, nonostante i cartelli che inneggiano al bene della terra e il colore verde dei sacchetti, colore che non li rende certo biodegradabili.
greenwash04Anche le bottiglie per l’acqua sono ormai pubblicizzate come amiche dell’ambiente da qualunque ditta produttrice. Ma nel mirino della critica sono finite San Benedetto, Sant’Anna e Ferrarelle, per dichiarazioni green non confermate dai fatti. Insomma le loro bottiglie non sono poi così sostenibili come ci raccontano.
Chiudo con un caso che è diventato storico, quello dei Coldplay, nel 2002 una delle band di maggior successo e quindi più pagate al mondo. Quell’anno esce un loro disco e i ragazzi scelgono di compensare le emissioni di CO2, causate dalla produzione del disco, piantando 10 mila alberi di mango nel Sud dell’India, appoggiandosi anche ad associazioni importanti come l’attuale Carbon Neutral. I giornali, che solitamente non capiscono niente del problema, si lanciano in titoli esagerati: La musica che cura il pianeta, I Coldplay salvano l’ambiente … che è un po’ come dire che un pentito ha sconfitto la mafia.
Ma le cose non vanno affatto come desiderato. I fondi arrivano, però in modo indistinto a chi si presenta meglio; i coltivatori non sono tradizionalmente pronti alla coltura scelta (scelta senza il loro parere! Comunque Mango fa molto trendy, no?!) e si ignorano le conoscenze per la crescita del mango, tra le quali un dispendio alto di irrigazione vale a dire un grande consumo di acqua. L’operazione è un disastro, la mancanza di acqua e la scelta del luogo e dei coltivatori è sbagliata e, finito il tam-tam mediatico, i terreni vengono abbandonati. Forse i Coldplay non sono responsabili di tutto questo, ma anche la loro operazione è un classico esempio di green washing.

… e per concludere

Prima di concludere, tuttavia, voglio riassumere un articolo ripreso da Valori.it, pubblicato alla fine di gennaio 2022. É interessante e anche abbastanza curioso. Eccolo.
Titolo: Brand activism o washing? Quando le multinazionali si mostrano “impegnate”. (fonte)
Sottotitolo: Numerose grandi aziende aderiscono a campagne sociali, filantropiche o ambientali. Per convinzione o perché conviene?
Negli ultimi anni accanto ai “classici” termini dell’organizzazione aziendale (mission, vision) è comparso un nuovo termine: purpose. La cui traduzione letterale è “scopo”. Applicato al mondo del business significa ritrovare le ragioni profonde che spingono a fare impresa. Per certi versi potrebbe sembrare una buzz word, una moda. Che da noi ancora stenta ad affermarsi, ma che dall’altra parte dell’Atlantico è ormai radicata e guida le scelte aziendali di numerose società, anche multinazionali.
Il purpose chiama le aziende a un’assunzione di responsabilità, anche sociale. Ed è molto più di una tecnica di marketing. Agire guidati dal purpose significa attivare buone pratiche che rendono concreto il proprio impatto sociale e ambientale.
Oggi la corporate social responsability (CSR) non è più sufficiente. Le nuove generazioni di consumatori, i Millennial e, soprattutto, la Generazione Z, sono sempre più esigenti. L’adesione a progetti di terzi, la messa in scena di iniziative solidali non basta a soddisfare la richiesta di impegno etico che arriva da questi nuovi consumatori. E per questo le aziende sono chiamate ad agire in maniera credibile, rilevante e pertinente. Realizzando un impatto sulla società per cambiarla in meglio.
Per stare sul mercato oggi, dunque, è sempre più importante per le aziende saper “stare nel mondo”. Essere in grado di leggere i problemi e interrogarsi sul modo in cui è possibile fornire un contributo alla soluzione. Agire guidati dal purpose coinvolge tutti i settori e i reparti di un’azienda. Obbliga a ripensare i prodotti e il packaging, le filiere e la distribuzione. Costringe a una progettazione di medio e di lungo termine. In molto casi significa attuare vere e proprie rivoluzioni. È il caso, per esempio, di Lego, che sta sviluppando la produzione dei suoi famosi mattoncini in bioplastica e plastica riciclata per abbandonare definitivamente la plastica entro il 2030.
E se da un lato ci sono i consumatori, sempre più attenti ed esigenti, che non si accontentano di iniziative puramente pubblicitarie che diventano washing, dall’altra ci sono gli investitori. Che spesso sono molto meno avanzati dei consumatori, così concentrati sui risultati trimestrali e sulle cifre scritte sui bilanci. Esemplare, in questo senso, la lettera inviata da Terry Smith, amministratore delegato del fondo Fundsmith, uno dei maggiori azionisti di Unilever, agli altri azionisti della multinazionale. Nella lettera Smith accusa Unilever di essere troppo presa a inseguire il purpose, dimenticando "i fondamentali del business". "Un’azienda che sente di dover definire lo scopo di una maionese", si legge nella lettera "ha, secondo la nostra prospettiva, perso la testa".
Un punto di vista miope, che non tiene in conto il fatto che dietro a una maionese si nascondono questioni enormi: l’accesso al cibo e il diritto a un’alimentazione sana, la diffusione dell’obesità e delle malattie e dei disturbi collegati al sovrappeso, gli allevamenti avicoli e le filiere. Si può fare la maionese in molti modi. E scegliere di farla cercando di migliorare il proprio impatto sul mondo finisce per essere premiato dai consumatori.
Ogni anno a gennaio Larry Fink, amministratore delegato di BlackRock, scrive una lettera ai CEO delle aziende in cui investe il suo fondo. Nel 2018 la lettera di intitolava “A sense of purpose“. E in essa Fink invita le aziende alla creazione di valore a lungo termine chiedendo ai CEO di avere un coinvolgimento più profondo in queste strategie. "Le aziende devono chiedersi: che ruolo svolgiamo nella comunità? Come gestiamo il nostro impatto sull’ambiente?  Stiamo lavorando per creare una forza lavoro diversificata?".
Parole apparentemente illuminate. Ancor più quelle della lettera del gennaio 2020, dal titolo “Un fondamentale rimodellamento della finanza“, nella quale Fink promette di mettere la sostenibilità al centro del proprio modo di investire. "Le imprese, gli investitori e i governi devono prepararsi ad una significativa riallocazione dei capitali", si legge nella lettera. "Riteniamo che gli investimenti sostenibili rappresentino ormai il miglior modo di garantire solidità ai portafogli dei clienti"
Una posizione netta. Almeno a parole. A cui però non seguono i fatti.  (60)
MUSICA
Siamo dunque ai saluti. Questa puntata di Noncicredo ha parlato di alcuni aspetti del Greenwashing, vale a dire di quella tecnica subdola di presentarsi come difensori dell’ambiente e della sostenibilità, anche economica e sociale, e di operare invece in senso decisamente opposto. La frase che usiamo di solito è quella di predicare bene e razzolare male.
Gli esempi che questa sera ho sottoposto alla vostra attenzione sono solo alcuni di quelli possibili. La maggior parte del greenwashing si annida nelle operazioni finanziarie, la cui comprensione è sempre complicata e sfugge alla mia competenza.
Ad ogni modo spero che questa puntata abbia, se non altro, posto il problema, che poi ciascuno degli ascoltatori potrà approfondire usando testi e ricerca online, naturalmente se lo vorrà.