Le centrali italiane
Si dice che “L’Italia non ha nucleare”. Questa frase è sbagliata, perché di nucleare ce n’è eccome. Sappiamo tutti come sono andate le cose. Nel 1987 un referendum popolare ha stabilito, di fatto, che in Italia non si dovessero più né costruire né attivare centrali nucleari. Quelle che c’erano andavano chiuse. Cominciamo a vedere quali erano queste centrali tutto quello che era connesso a questa attività.
Quella dei soldi, di quanti sono e di chi li paga è una storia incredibilmente italiana. Si va da quelli destinati allo smaltimento degli impianti e bonifica delle aree che la maggior parte dei cittadini italiani non sa di aver pagato giorno dopo giorno con le bollette della luce, agli accordi tra Berlusconi e Putin per cui noi paghiamo ogni anno 360 milioni euro alla Russia per smantellare i propri sottomarini nucleari. Finora sono stati spesi 20 milioni di euro … dove sono finiti gli altri? Di questi e altri misteri parleremo la prossima volta.
- Centrale elettronucleare di Garigliano.
- Centrale elettronucleare di Latina
- Centrale elettronucleare di Trino Vercellese
- Centrale elettronucleare di Caorso
Il decommissioning
La nostra società è bravissima ad usare termini che la gente non è in grado di capire. Così quando i controllori degli autobus sono stati sostituiti dalle macchinette abbiamo imparato che i biglietti andavano obliterati. C’era gente che passava tutto il viaggio col biglietto in mano cercando di capire quale misteriosa operazione fosse quella della obliterazione. Che se dicevano che il biglietto andava timbrato infilandolo nella fessura della macchinetta arancione capivano tutti e non c’era problema. In queste settimane si sta continuamente parlando del “revamping” di uno dei cementifici di Monselice, quello della Italcementi che vorrebbe costruire una torre alta oltre 120 m nel parco. Anche in questo caso il termine è del tutto sconosciuto e deriva dal verbo inglese revamp che significa semplicemente rimodernare, riorganizzare, parole evidentemente troppo semplici per non far capire ai cittadini quello che si vorrebbe fare. Nonostante le spiegazioni che nella trasmissione di Albino oggi a mezzogiorno sono state date credo che molti preferirebbero dei termini più commestibili. Mi viene in mente quel lettore del blog di Grillo, basato su un motore tutto in inglese che appena entrato scrisse un intervento intitolato: Cosa casso seo tuto sto inglese?” Ecco, per dire che ci sono un sacco di parole che potrebbero essere usate in italiano ma che si preferisce lasciare in inglese. Un altro termine è “decommissioning” e si riferisce proprio agli impianti nucleari. Una centrale, terminato il suo ciclo di produzione, deve essere decommissionata, che in italiano suona come smantellata, ma la parola non è positiva e quindi meglio usare quella inglese che così nessuno se la prende più di tanto. Proprio come tutte le centrali obsolete arrivate alla fine del proprio ciclo di funzionamento anche quelle italiane, chiuse per altri motivi come abbiamo appena visto, devono essere “decommissionate”. In realtà questa attività è piuttosto complessa. Vediamo brevemente di cosa si tratta. La prima cosa da fare è occuparsi del nocciolo. Come detto più volte il nocciolo è il cuore del reattore nucleare, la struttura dove sono contenute le barre di combustibile a decine di migliaia, assieme alle barre moderatrici che impediscono l’innescarsi di una reazione a catena e alle barre di controllo che possono variare anche se non di molto la potenza erogata dal reattore. (vedi nocciolo.doc) Lo smantellamento di una centrale nucleare è molto complesso e lungo. Ed è proprio la presenza del materiale radioattivo e la contaminazione del personale, delle strutture e di tutto quello che è venuto a contatto con il reattore a far diventare le operazioni così complicate. Complicate, lunghe e costose. L’obiettivo è quello di rendere non solo l’edificio ma l’intera area sicura. Deve cioè risultare impossibile qualunque tipo di incidente nucleare e la zona deve poter tornare alle sue originarie attività; ad esempio al pascolo degli animali o alla coltivazione agricola. E’ piuttosto ovvio che la durata e la complessità dello smantellamento dipendono dall’attività della centrale (potenza, anni di esercizio, località) e quindi anche i costi variano da caso a caso. Ma, tanto per inquadrare la faccenda facciamo qualche esempio di cui si conoscono i dati. Francia: una piccola centrale a Brennilis (Bretagna) da soli 70 MW di potenza è già costata 500 milioni di euro (ne erano previsti 25 all’inizio!) e non è ancora terminata do 20 anni di lavori. Non solo, ma in queste fasi un po’ di Plutonio, del Cesio e soprattutto del Cobalto 60, molto tossico, sarebbero percolati nel vicino lago. Sempre in Francia è stato smantellato un centro per il riprocessamento. Secondo la World Nuclear Association ci vorranno in tutto quasi 6 miliardi di euro e 40 anni di tempo. Metà del costo è dovuto alla gestione delle scorie radioattive prodotte, quasi 20 mila tonnellate. Anche in altri paesi europei il decommissioning è avvenuto finora solo su impianti molto piccoli (ad es. In Germania a Nideraichbach e in Gran Bretagna a a Windscale) e sono comunque costati centinaia di milioni di euro. Forse gli Stati Uniti sono quelli che possono fornire dati più precisi. Molte compagnie elettriche americane infatti stimano in circa 320 milioni di dollari per lo smantellamento di ogni reattore nelle centrali USA. SI tratta comunque di dollari del 1998. In questi 12 anni l’inflazione americana ha sfiorato il 40%. La domanda che viene da farsi è ora la seguente. Dal momento che le centrali sono state costruite prevalentemente con soldi pubblici e che il prodotto è stato comprato (spesso senza poter scegliere un’alternativa) dai cittadini, pagandolo attraverso le bollette della luce, chi pagherà lo smantellamento? Torniamo ancora negli USA, dove le compagnie elettriche ("public utilities") hanno aggiunto un tassa tra i 0,1 a 0,2 cents/kWh per poter finanziare lo smantellamento. Le aziende devono inviare rapporti alla Nuclear Regulatory Commission con una certa regolarità, dimostrando lo stato dei fondi per lo smantellamento. Nel 2001, avevano raccolto 23,700 miliardi di dollari. C’è poi una ricerca dell’OCSE (Organizzazione per Cooperazione e Sviluppo Economico) che stabilisce i costi del decommissioning. I valori in dollari sono del 2001. Possiamo pensare di aumentarli del 25-30% in modo da avere un dato più vicino ai costi odierni. Eccoli: Quasi tutti i reattori hanno dei costi che variano da 300 a 700 $/kW. Dunque lo smantellamento della centrale di Corso costerebbe 860 000 * 500 = 430 milioni di $, mentre quella di Latina, essendo un Magnox, quindi un tipo molto più difficile da gestire, pur avendo una potenza nettamente più bassa (6 volte), costerebbe un po’ di più, attorno a 500 milioni di dollari. Come si capisce quando si costruisce una centrale nucleare si dovrebbe mettere nel preventivo di spesa anche questa operazione così cara. Ma questo non viene fatto. E’ un po’ come quando uno compra una lavatrice o un’automobile. Nessuno mette in conto le spese per la sostituzione dei pezzi, le riparazioni, i danni provocati. Dunque si dovrebbe pensare che l’automobile da 15 mila euro in realtà costa molto di più e ognuno deve fare i conti se ha o non ha i soldi per mantenerla. Nel caso delle centrali nucleari questo problema è così lontano (30 anni per le centrali di seconda generazione, 40 o 50 per quelle di terza in fase di costruzione almeno così dicono) che nessuno ci pensa, tanto verrà affrontato e pagato da generazioni che al momento sono ancora in fasce o addirittura non sono ancora nate. Purtroppo questo modo di ragionare è tipico della nostra società. Se guardiamo a casa nostra vediamo che questi soldi non vengono mai messi nel conto, anche perché la scelta nucleare di Berlusconi è stata una boutade elettorale, come l’abolizione dell’ICI ampiamente sostituita dall’aumento del costo della vita nei comuni, la diminuzione delle tasse e il milione di posti di lavoro. Ecco dunque che un dibattito serio sui costi dello smantellamento non viene affrontato praticamente mai. E’ come quando inquiniamo il pianeta in mille modi differenti, per fare più soldi e ottenere più potere. Le conseguenze? Chi se ne frega, ci penseranno i nostri nipoti. La questione assume un’importanza notevole se si considerano i dati forniti da “ENDS report” che si rifa ad una pubblicazione dalla Commisione europea nel 2007 (http://www.endseurope.com/docs/80115a.pdf) . Secondo questo rapporto ci sono almeno 50 centrali europee che andranno smantellate nei prossimi 15 anni. Da parte della Commissione europea c’è una notevole preoccupazione al riguardo perché in molti paesi i fondi stanziati sembrano del tutto insufficienti e in altri quei soldi vengono spesi per motivi diversi, ad esempio per la sicurezza nucleare invece che per lo smantellamento. Insomma il problema è davvero grande e presenta facce differenti: amministrative perché il processo di decommissioning è delicato e presuppone la presenza di una legislazione e di un controllo severi; tecnici ed infine economici.Il decommissioning italiano
Anche l’Italia ha bisogno di un’opera di smantellamento, perché come abbiamo visto le centrali hanno funzionato, sono state chiuse e le località dove sorgevano devono essere in qualche modo restituite ad una vita serena e tranquilla. Questa sera cercheremo di seguire l’iter amministrativo organizzativo della faccenda. Durante il primo governo Prodi (siamo nella primavera del 1999) una commissione bicamerale diretta dal senatore Massimo Scalia (fondatore di Legambiente) si occupa dei rifiuti tossici e radioattivi e delle attività illecite che attorno a questi si sviluppavano. Viene alla fine approvato un documento all’unanimità. Tra le tante conclusioni una riguarda anche il nucleare. Ci si accorge a 12 anni dalla chiusura delle centrali italiane che esiste un problema grave e che bisogna elaborare delle strategie di intervento per disattivare gli impianti e per sistemare i rifiuti radioattivi. La Commissione ha il merito di censire, per la prima volta le scorie radioattive presenti nel paese. Sono materiali che provengono dalle centrali chiuse ma anche da Università e ospedali dove la ricerca e le cure con radioisotopi producono scorie da stoccare in modo non convenzionale. Come detto più volte possiamo classificare le scorie in tre categorie: quelle a bassissima radioattività (decadimento in alcuni anni) che vengono smaltiti come se fossero rifiuti pericolosi ma convenzionali. La II categoria riguarda la bassa radioattività con tempi di decadimento di alcuni secoli (ad esempio il Cesio 137). Poi ci sono quelle ad alta attività con tempi di decadimento di molti millenni (ad es. il Plutonio contenuto nelle barre usate nei reattori). Queste ultime sono a dire il vero abbastanza poche: rappresentano non più del 5% di tutte le scorie, ma forniscono oltre il 90% della radioattività. Senza entrare nei dettagli, inizialmente le barre esauste italiane viaggiavano verso l’Inghilterra per essere riprocessate, ottenendo Uranio e Plutonio oltre a scorie vetrificate che dovevano essere stoccate. In quegli anni era ancora in piedi la prospettiva dei reattori autofertilizzanti che avrebbero potuto usare il Plutonio come combustibile. Abbiamo visto la scorsa settimana che questo tipo di reattori si è dimostrato un fallimento. Dunque dal riprocessamento si otteneva un po’ di Uranio e del Plutonio che da qualche parte doveva essere messo da parte. Una forte azione di Greenpeace indusse l’ENEL a sospendere questa attività e a considerare le barre esauste direttamente come materiale da stoccare (cosa peraltro che avviene anche negli USA). Ma restava l’esigenza di individuare un sito dove mettere le scorie, quello che veniva chiamato un sito di stoccaggio nazionale e del quale la commissione Scalia si occupò nel 1999. Nasce così una commissione formata da tecnici dell’ENI, dell’ENEA e della già citata ANPA (, poi APAT - Agenzia Protezione Ambiente e Servizi Tecnici). Questa commissione esclude che nel nostro paese si possano usare siti sotterranei, per l’instabilità del territorio e per la presenza di falde acquifere. Si pensa allora ad un sito di superficie capace di accogliere non solo le scorie di II categoria (come fanno quasi tutti i paesi europei) ma anche quelle di III categoria (le più pericolose) se condizionati, cioè trattati in modo opportuno, ad esempio vetrificati. Chi può fare tutto il lavoro di decommissioning italiano? Ci vuole una nuova società, che prende il nome di SOGIN: SOcietà Gestione Impianti Nucleari. Nasce alla fine del 1999. In realtà si tratta di una costola dell’ENEL, da dove arrivano uomini e competenze, ma un anno dopo diventa una SPA indipendente, avente come azionista unico il Ministero dell’Economia e delle Finanze. Il suo scopo statutario è quello di “controllare, smantellare, decontaminare e gestire i rifiuti radioattivi (attività riassumibili con il termine inglese di decommissioning) degli impianti nucleari italiani spenti dopo i referendum abrogativi del 1987”. Le quattro centrali passano alla SOGIN e poi anche altri centri legati a vario titolo alla filiera nucleare italiana. Nel 2002 assume la presidenza della società un ex generale, Carlo Jean. E’ un amico molto stretto di Giulio Tremonti, uomo portato da Berlusconi a dirigere la questione nucleare. Le esperienze di Jean erano solo in campo militare. Aveva collaborato con il SISDE e fatto parte di una loggia massonica segreta, che però non era la P2 di Licio Gelli. Sotto la sua presidenza si viene a sapere quanto materiale radioattivo esiste sul nostro paese. In realtà i dati sono del 2002 e non tengono conto di quello che è avvenuto dopo, ma intanto ci facciamo un’idea degli impianti esistenti. Infatti uno degli scopi principale di allora quando ancora nessuno parlava di un ritorno al nucleare era quello di stoccare le scorie. Per farlo servivano essenzialmente due cose: sapere quante ce n’erano e recuperare i soldi per finanziare l’attività. Cominciamo dal primo punto. L’audizione del generale Jean ha portato a censire:- circa 50.000 metri cubi di rifiuti radioattivi di (prima e) seconda categoria
- circa 8.000 metri cubi di rifiuti radioattivi di terza categoria
- 62 tonnellate di combustibile irraggiato che si trovano ancora oggi in Francia (Creys-Malville)
- diversi "cask" (contenitori per liquidi) di combustibile riprocessato che attualmente sono in Gran Bretagna (Sellafield)
- inoltre ospedali, acciaierie, impianti petrolchimici e così via producono circa 500 tonnellate di rifiuti radioattivi ogni anno
- A Saluggia (VC) nel periodo 1965-70 è stato realizzato un centro di riprocessamento del combustibile esausto. Qui veniva trattato soprattutto il Plutonio. Il funzionamento dell’impianto è durato fino al 1984, anche se per lunghi periodi di anni è rimasto inattivo.
- A Bosco Marengo (Novara) c’era un impianto di produzione del combustibile per le centrali italiane. Ha funzionato dal 1973 al 1995, quando l’ENEA ha deciso di disattivarlo. Il piano di smantellamento è stato rivisto nel 2002 e nel frattempo il materiale radioattivo è stato portato all’estero.
- A Casaccia (Roma) c’erano tre centri riconducibili al nucleare. Un laboratorio di ricerca, chiamato OPEC. Nello stesso comune anche un secondo laboratorio, chiamato Plutonio, dove veniva trattato appunto il Plutonio, separandolo dai liquidi radioattivi per stoccarlo a parte. Dal 1997 vi si svolgono attività legate alla gestione dei rifiuti radioattivi. Il terzo punto a Casaccia è costituito da un deposito di materiali radioattivi della società Nucleco. Secondo i Verdi del Lazio a Casaccia ci sono 12mila metri cubi di rifiuti radioattivi e il deposito della Nucleco (società Eni-Enea) che ospita 6.270 metri cubi di scorie nucleari, la maggior parte delle quali giungono dall’Italia intera e sono a bassa o media radioattività. I fusti sono ammassati ora dentro i capannoni, ma le scorie continuano ad arrivare. A questo vanno aggiunte le scorie presenti a Latina (sempre nel Lazio) si contano 17.500 metri cubi di rifiuti stoccati e 4.620 mc nel Garigliano, al confine con la Campania. Come a dire che nel Lazio sono presenti il 60% delle scorie italiane.
- A Rotondella (Matera) c’è un piccolo impianto che si occupava del riprocessamento dell’Uranio per produrre combustibile dalle scorie. In realtà l’impianto ha funzionato pochissimo, riprocessando solo una volta delle barre provenienti dagli USA.
Quella dei soldi, di quanti sono e di chi li paga è una storia incredibilmente italiana. Si va da quelli destinati allo smaltimento degli impianti e bonifica delle aree che la maggior parte dei cittadini italiani non sa di aver pagato giorno dopo giorno con le bollette della luce, agli accordi tra Berlusconi e Putin per cui noi paghiamo ogni anno 360 milioni euro alla Russia per smantellare i propri sottomarini nucleari. Finora sono stati spesi 20 milioni di euro … dove sono finiti gli altri? Di questi e altri misteri parleremo la prossima volta.